Dave Douglas Quintet: quando il jazz cerca nuove strade

Dave Douglas 5et

Qualche anno fa, alla fine di un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, Keith Jarrett, rispondendo ad uno spettatore che gli chiedeva un secondo bis, rispose (cito quasi testualmente) “bisogna lasciare il teatro con ancora un po’ di appetito”. Allora lo criticai ma successivamente, con il trascorrere degli anni (e l’avanzare dell’età) ho rivalutato questa espressione e sono giunto alla conclusione che un concerto non deve andare oltre l’ora e mezzo, pena una caduta d’attenzione da parte di chi ascolta la musica, specie quando la stessa non è proprio semplice.

Questa premessa per dire che, al concerto di venerdì 9 febbraio sempre all’Auditorium Parco della Musica di Roma Dave Douglas forse non ha fatto la scelta migliore proponendo una lunga suite dedicata a Franco D’Andrea dopo aver già suonato, per altro molto bene, più di un’ora e venti. Intendiamoci: anche la suite è musicalmente valida ma il fatto di averla proposta alla fine del concerto, non ci ha permesso di seguirla con la dovuta attenzione.

Ciò detto occorre sottolineare come ancora una volta Dave Douglas si sia confermato musicista di classe superiore non solo per la sua personale abilità di strumentista e compositore, ma anche per la straordinaria capacità di assemblare dei gruppi di eccellenti solisti. Jon Irabagon, al sax tenore, ha vinto nel 2008 la “Thelonious Monk International Saxophone Competition”. Nato a Chicago nel 1979 ma di origini filippine, Jon si è imposto alla generale attenzione non solo come sideman ma anche come leader di propri progetti; il perché di tanto successo è apparso palese: innanzitutto una tecnica superlativa che va dalla sicura digitazione al perfetto controllo della dinamica, della respirazione, del bocchino, dell’ancia… con la capacità di spezzettare le frasi grazie ai perfetti colpi di lingua propria dei grandi sassofonisti; e poi l’enciclopedica conoscenza del jazz che gli consente di suonare di tutto e una fantasia che gli permette di seguire Douglas anche nelle più spericolate escursioni.

Non meno originale il pianismo di Matthew Mitchell, classe 1975; a ben ragione considerato anche uno dei migliori compositori del nuovo jazz newyorkese, Mitchell è membro del “Center for Improvisational Music” situato nella Grande Mela.

Proveniente dall’Australia (ma di sicure origini orientali) la contrabbassista Linda Ho si è costruita una solida reputazione suonando, tanto per fare qualche nome, con Joe Lovano, Steve Wilson, Vijay Iyer; accanto a Dave ha evidenziato tutta la sua classe costituendo, per tutta la durata del concerto, un solido punto di riferimento armonico… e non solo.

A completare il gruppo Rudy Royston (Fort Worth, Texas,1971) uno dei più rinomati batteristi della contemporanea scena musicale che, dopo tanti anni di gavetta, nel 2014 ha pubblicato il suo primo album da leader – “303” – grazie proprio a Dave Douglas ed alla sua etichetta Greenleaf.

Insomma, come si accennava, un gruppo di tutte stelle che hanno prodotto una musica non facile da definire, ricca di spunti, di tensioni, di cambi di atmosfera, di continui dialoghi, il tutto ricondotto ad unità da un Dave Douglas sempre in palla. Di solito la sua è una musica in cui l’equilibrio tra forma scritta e improvvisazione è costantemente in bilico ma che proprio per questo assume connotazioni affatto particolari; questa volta, invece, ci è parso di ascoltare una musica più strutturata che nel passato, in cui il ruolo della pagina scritta è preponderante e gli spazi per l’improvvisazione sono dettati da un leader sempre in perfetto controllo. Così basta un cenno ed ecco che i compagni d’avventura assumono il ruolo di solisti evidenziando tutte le loro potenzialità.

Dal canto suo Dave si è confermato esecutore e compositore di assoluto spessore; la sua voce rimane fresca, originale, quasi del tutto priva di vibrato, profondamente ancorata a quel movimento jazz che potremmo definire post bop. Di qui un fraseggio frastagliato, armonicamente complesso, ma scevro da quelle incursioni nel klezmer o nel free che avevano caratterizzato certe sue esibizioni. Quindi, da questo punto di vista, un jazz meno sorprendente ma non per questo meno affascinante ché le sorprese venivano da un canto da come gli altri componenti del gruppo si inserivano nelle volute disegnate dal leader, dall’altro da come Dave riusciva a riprendere in mano le redini del discorso senza la benché minima sbavatura, costruendo una miscela in cui tradizione e modernità si sposano per indicare una nuova probabile strada per gli sviluppi del jazz.

Oltre al già citato omaggio a Franco D’Andrea, Dave ha presentato un altro omaggio dedicato a Charles Mingus – “Self- Portrait in Four Dimensions” – con un chiaro riferimento a quel “Self-Portrait in Three Colors” comparso sull’album “Columbia” “Mingus Ah Um” del 1959, ed è stato davvero un bel sentire.

E, a proposito di bel sentire, la platea ha molto apprezzato le considerazioni espresse, tra un brano e l’altro, dal trombettista sull’attuale presidente degli States, Donald Trump, considerazioni che definire pungenti è usare un eufemismo!

Gerlando Gatto

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Fabrizio Sodani per le immagini