Antonino Cicero e Luciano Troja in concerto a Cosenza!

Venerdì 16 marzo 2018 nuovo appuntamento dal vivo con una delle proposte più originali e avvincenti della musica italiana, il duo composto da Antonino Cicero e Luciano Troja, fagotto e pianoforte nati per l’ammirato album An Italian Tale, pubblicato dalla palermitana Almendra Music. Il pianista e il fagottista messinesi saranno il 16 marzo a Cosenza, al Teatro dell’Acquario, con un concerto inserito nella rassegna musicale Lord Franklin. Un evento importante, che conferma l’interesse per An Italian Tale: in un anno il disco ha raccolto ottime recensioni confermando la pregevolezza delle composizioni firmate da Luciano Troja, l’originalità di questo anomalo duo fagotto-pianoforte, la riuscita dell’operazione dedicata a un’Italia che non c’è più, quella evocata dalle canzoni di Giovanni D’Anzi, al quale l’album è ispirato.
La forza di An Italian Tale, come sottolineato dal videoclip realizzato da Valerio Vella, è nel suo potere immaginativo, nella sua capacità di evocare il cinema, le canzonette, la radio, i vinili, la gommalacca e il Campari, Milano, le bellezze e le biciclette, insomma memorie di un’Italia che in quella musica trovava respiro e rinnovamento senza smarrire le proprie peculiarità. La stampa lo ha notato immediatamente, basta pensare a Musica Jazz (“Un’operazione intelligente e raffinata che valorizza la nostra cultura senza atteggiamenti pedissequamente filologici”), al Manifesto (“Dieci pezzi che evocano il romanticismo a volte swingato dell’autore di O mia bela Madunina”), a Italia In Jazz (“un album rigenerante… denso di colorazioni impressioniste, in cui struggente cantabilità e signorile melodiosità sono sacre come reliquie”), per citare solo tre delle numerose testate che hanno apprezzato l’opera.
An Italian Tale è una ricerca in musica tra le storie e le canzoni di Giovanni D’Anzi, che sono state lo spunto ispiratore per due musicisti diversi per storia ma affini per curiosità, intraprendenza, preparazione e fantasia. Luciano Troja è un compositore e pianista jazz di fama internazionale (non è raro trovarlo su All About Jazz USA, Cadence o Stereophile, o vederlo dal vivo a New York), Antonino Cicero è un fagottista tra i più attivi e preparati in area classica: i due artisti messinesi hanno trovato nella melodia, nella cantabilità, nella narrazione strumentale il punto di incontro che rende An Italian Tale, per usare le parole dello stesso Troja, “una specie di colonna sonora di un film immaginato, legato a un periodo storico, magari girato in bianco e nero”.
Questa singolare combinazione strumentale, pianoforte e fagotto all’insegna della melodia, ha trovato dal vivo una rinnovata linfa, come dimostrerà il concerto di Cosenza. Info e prenotazioni: tel. 0984 73125, mail: teatrodellacquario@gmail.com.
Venerdì 16 marzo 2018
ore 21.00 
Teatro dell’Acquario
ingresso 12 euro
Almendra Music:
An Italian Tale:
You Are The Melody – videoclip:
Synpress44 ufficio stampa:

Dalla e Battisti: due geni dei nostri giorni

Chiedo scusa ai miei lettori se questa volta esco proprio dal seminato, ma i primi giorni di marzo rappresentano per me un insieme di ricordi indelebili che riguardano tanto la mia vita privata quanto i miei gusti musicali.

Sul primo versante solo pochissime parole: il 2 marzo del 1905 nacque mio padre, il 4 marzo del 2004 è nato mio figlio che come ripeto spesso “è la cosa più bella che ho fatto nel corso della mia vita”.

Veniamo, invece, ai gusti musicali che evidentemente interessano molto di più quanti seguono “A proposito di jazz”.

Il 4 marzo del 1943 a Bologna vedeva la luce Lucio Dalla; il 5 marzo sempre del 1943, quindi a sole dodici ore di distanza, a Poggio Bustone nasceva Lucio Battisti; due fenomeni artistici assolutamente ineguagliabili, ambedue con lo stesso nome, ambedue sotto il segno zodiacale dei pesci.

Solamente un caso? Come diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»… qua di indizi ce ne sono ben di più per poter concludere che in quei giorni di marzo del ‘43 il Creatore (per chi ci crede) e la natura (per i laici) si son dati particolarmente da fare per regalarci due geni che avrebbero riempito di musica i nostri cuori e le nostre giornate.

Ciò detto, è possibile trovare dei punti di contatto tra i due artisti?

Assolutamente sì. Innanzitutto, come si accennava, ambedue hanno scritto canzoni che sono rimaste nell’immaginario collettivo; basta citare qualche titolo per rendersi conto di cosa si stia parlando: “Il mio canto libero”, “4/3/43”, “La canzone del sole”, “L’anno che verrà”, “Non è Francesca”, “Caruso”, “Emozioni”, “Ma dove vanno i marinai”… e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

E che si tratti di pezzi musicalmente assai validi lo dimostra il fatto che molti musicisti jazz si sono rivolti a questo repertorio, anche se con diverse modalità, declinandolo sì da rendere jazzisticamente attuale la tradizione melodica italiana. Tutto ciò non stupisce più di tanto ove si consideri che il jazz è nato come musica ibrida, come musica, cioè, che si nutre di tutto ciò che la circonda; di qui le riletture di brani celebri che, almeno fino all’avvento del bop, hanno costituito il bacino da cui i jazzisti hanno tratto ispirazione. In particolare nella realtà italiana, negli ultimi decenni sono particolarmente aumentati gli “omaggi a”, divenuti un genere a doppia valenza: per interpretare passioni e sentimenti del popolo italiano, per allargare l’ancora ristretta cerchia degli appassionati di jazz.

Se, come dicevamo, tutto ciò non è una sorpresa, risulta davvero straordinario il fatto che nel 1990, per la ‘Gala’ esce “Ci ritorni in mente” un doppio vinile in cui ben quattordici formazioni diverse, con oltre sessanta artisti, interpretano esclusivamente brani di Battisti. È probabilmente il primo lavoro collettivo dedicato esclusivamente ad un musicista. Ma al cantautore di Poggio Bustone si sono rivolti alcuni dei più grandi jazzisti italiani, da Giorgio Gaslini a Tiziana Ghiglioni, da Ettore Fioravanti a Helga Plankensteiner, da Enrica Bacchia a Enrico Rava, da Enrico Pieranunzi a Rita Marcotulli… a Renato Sellani, tanto per fare qualche nome. E si tratta sempre di produzioni di alto livello artistico; la cosa assume un rilievo ancora maggiore considerando che le riletture dei suoi brani sono tutt’altro che facili sia per la complessità del disegno melodico, sia perché le sue canzoni sono strettamente correlate alla voce e all’interpretazione del testo. Di qui il dilemma che quasi tutti i jazzisti, misuratisi con la musica di Battisti, si sono trovati dinnanzi: procedere ad una difficile rilettura dei brani per coglierne lo spirito e rispettarne il più possibile l’integrità oppure andare dentro il brano, stravolgerlo per farlo rivivere secondo la propria sensibilità. Strade che, in effetti, sono state ambedue percorse. Peccato che tutto questo discorso sia come inficiato da un enorme paradosso: del jazz a Lucio Battisti poco o nulla importava.

E qui le analogie con Lucio Dalla si fermano ché viceversa l’artista di Bologna ha sempre amato il jazz tanto da suonare con eccellente tecnica il clarinetto. Come strumentista Dalla si affermò negli anni tra i’50 e i ‘60 quando Bologna era considerata una sorta di capitale del jazz italiano. Così a soli 15, 16 anni Lucio suonava in jam session con Chet Baker… poi le imprese con  Jimmy Villotti; un disco con Marco di Marco ( “Lucio Dalla/Marco di Marco” uscito per la prima volta nel 1985 su etichetta Fonit Cetra con Lucio Dalla clarinetto e voce, Marco Di Marco pianoforte, Jacky Samson basso e Charles Saudrais percussioni); la collaborazione con Mario Schiano (nell’album ‘Progetto per un inno’ del 1976 Dalla al clarinetto assieme a De Gregori voce e Antonello Venditti pianoforte propongono una straniante versione dell’ “Internazionale”); la tournée con Stefano Di Battista del 2004; le straordinarie performance con Michel Petrucciani tra cui quelle del 1998 e del 2002 e il prestigioso invito a Juan Les Pins per suonare con  Charles Mingus, Bud Powell e Eric Dolphy. Ma, al di là delle prestazioni jazzistiche di Dalla, vale la pena sottolineare un aspetto più costitutivo del suo rapporto con la musica afro americana, quella capacità di adoperare lo scat, quel suo amore per il ritmo, per i cambi di atmosfera, per quelle soluzioni armoniche così ardite sicuramente riconducibili al jazz.

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Lucio, di ascoltarlo in diversi concerti e di condurre un programma su RadioUno cui partecipava anche il cantautore bolognese. Ed è stata un’esperienza bellissima in quanto Lucio era una persona gentilissima, dolcissima, divertente, che amava considerare e rispettare qualsivoglia persona con cui si trovasse ad interloquire e che, soprattutto, aveva le idee ben precise sulla musica che voleva fare.

Una musica che, contrariamente a quanto accaduto per Battisti, non è entrata spesso nel repertorio dei jazzisti; così a livello nazionale si sono cimentati con i pezzi di Dalla tra gli altri, Silvia Barba e Pippo Matino, Renzo Ruggieri, i 14 musicisti che hanno inciso “Dalla in jazz”, Enrica Bacchia, Paolo Fresu con Uri Caine, mentre a livello internazionale Richard Galliano e Aldo Romano ci hanno regalato delle toccanti interpretazioni di “Caruso”. Devo confessare che ogniqualvolta ascolto questo pezzo, non posso fare a meno di commuovermi. Una commozione che mi pervade anche in questo momento, quando sto scrivendo del mio cantautore preferito, un artista che avevo cominciato ad apprezzare, ad amare nel 1967 quando alla radio ascoltai “Il Cielo”, con cui Lucio partecipò al Festival delle Rose, vincendo, per la seconda volta, il premio della critica.

A questo punto forse taluni si staranno chiedendo: ma i due, Battisti e Dalla, si sono mai incontrati, hanno avuto modo di collaborare? Sì, i due in vita ebbero modo di conoscersi e apprezzarsi ma non hanno avuto la possibilità di collaborare artisticamente; Dalla aveva lanciato la proposta di una tournée e di un disco in comune ma Battisti rifiutò in quanto era già entrato nella logica di appartarsi dalle scene.

Peccato! Sono sicuro che ne sarebbe scaturito qualcosa di eccezionale!

Gerlando Gatto

Wes Montgomery è sempre il chitarrista numero uno

 

Nello scorso settembre “uDiscover Music” ha pubblicato The 50 Best Singers Of All Time a firma di Charles Warning, laureando campione di canto di tutti i tempi Ella Fitzgerald, seguita a un palmo da Frank Sinatra e Nat “King” Cole.

La lunga nota seguiva altre precedenti riguardanti grandi maestri di sax, tromba, piano, batteria, insomma una sorta di olimpiadi del jazz con medagliere conferito a tavolino.

Ecco ora finalmente arrivare in rete la classifica dei 50 migliori chitarristi di tutti i tempi, un countdown ragionato, con breve prolusione, singole schede predisposte dall’estensore Charles Waring e un video a commento della scelta (https://www.udiscovermusic.com).

Si tratta di un “ritorno” sulla sei corde in quanto nel 2015 Richard Havers vi aveva pubblicato The Greatest Jazz Guitar Album, con relativi links, anticipando di fatto orientamenti in parte ripresi nella odierna Top 50 chitarristica.

Dunque non un dizionario, ma una sequenza di musicisti, predisposta a mo di conto alla rovescia con quello spirito di “gara” ideale per rendere piacevole la lettura ed il relativo ascolto delle tracce e dei filmati a corredo.

E ciò vale sia per i neofiti che per i jazzofili più esigenti.

La classifica è in larga prevalenza maschile con l’eccezione della chitarrista Mary Osborne (49). E si caratterizza per l’ospitare sia interpreti classici come il mitico Eddie Lang (39) e il caposcuola Charlie Christian (3) che contemporanei come il giovane Julian Lage, classe 1987 (43).

Ci sono artisti di anima latina come Laurindo Almeida (37) e Charlie Byrd (19) anche se non c’è un Paco De Lucia evidentemente da catalogare in ambito più strettamente spanish. Diverse le presenze fusion a partire da Lee Ritenour (30), Larry Carlton (38) il “goldfather” Larry Coryell (17).

Non mancano gli “eclettici” rappresentati in pompa magna da Pat Metheny (10), gli sperimentali alla Kurt Rosenwinkel (44), l’area di radice blues seppure rivisitata quale James “Blood” Ulmer (41), il jazz-rock di Bill Connors (32) e quello contaminato di John McLaughlin(15), inglese come Alan Holdsworth (18).

In assenza di italiani si ritrovano americani di origine italica: Pat Martino (29), John Pizzarelli (50), Joe Pass (9).

E poi personaggi come George Benson (5) che figura anche fra i migliori vocalist al posto n. 33 raddoppiando le postazioni a proprio nome (al pari di Chet Baker che figura sia per la voce che come trombettista).

Al vertice dei chitarristi si situa Wes Montgomery affiancato da Django Reinhardt, quest’ultimo in testa ad una compagine di europei non molto nutrita: il primo della lista dell”Olimpo” dopo Django è l’ungherese Gabor Szabo (14).

La prima, personale, impressione è che, dall’Italia, si ha probabilmente una percezione un po’ diversa dei valori di questi virtuosi di statura eccelsa. Il che dipenderà da fattori di “spostamento” e circuitazione dei concerti in zona, dalla maggiore penetrazione locale nel mercato discografico, dal carisma del personaggio, dalla attrattività e trasversalità del relativo stile, dalla attenzione dei media locali…

Ci saremmo aspettati al riguardo un Ralph Towner molto prima del 28mo piazzamento assegnatogli; altrettanto dicasi di Frisell (26) Al Di Meola (23) Stern (21) e Scofield (20) mentre Stanley Jordan si può dire ben collocato al dodicesimo piazzamento.

Ma è anche vero che la categoria comprende dei “competitor” che si chiamano Jim Hall (4) Barney Kessell (7) Kenny Burrell (8) Tal Farlow (11) e che i numeri, stringi stringi, sono e restano quelli a disposizione.

I 50 chitarristi inseriti in questa “Hall Of Fame” meritano tutti gli onori della critica e del pubblico degli appassionati.

Certo che, se si fosse ampliata la gamma delle nominations, si sarebbero potuti includere ‘Nguyen Lè, Marc Ribot, Terye Rypdal, Derek Bailey, e perché no qualche italiano, un Franco Cerri o un Lanfranco Malaguti, per esempio, visto che la stessa Biographical Encyclopedia Of Jazz di Feather e Gitler ha da tempo aperto le porte agli artisti di casa nostra, a Rava, Fresu, Fasoli, Del Fra, Rea, Di Castri, Pietropaoli…

Va da sé che il jazz è musica nero/afro/americana ma i talenti che ne condividono e ne hanno condiviso il linguaggio sono disseminati in tutto il pianeta.

 

Amedeo Furfaro