L’armonico coesistere di estemporaneità e progettazione

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Foto di Adriano Bellucci

 

                                                                                                      AMBROSE AKINMUSIRE QUARTET

Auditorium Parco della Musica, sala Petrassi, 23 aprile 2018, ore 22

Ambrose Akinmusire, tromba
Sam Harris, pianoforte
Harish Raghavan, contrabbasso
Justin Brown, batteria

Ambrose Akinmusire apre il concerto con una intro in cui il pianoforte di Sam Harris appare con accordi sul secondo e sul quarto tempo: giusto un minimale appoggio armonico al suono della tromba, che si apre in una introduzione suggestiva, intensa, quasi struggente fatta di note lunghe, cambi espressividi timbro, dinamiche contrastanti. Fino all’apparire dell’ostinato di contrabbasso di Harish Raghavan, che precede di poco l’entrata esplosiva della batteria di Justin Brown. L’andamento martellante del contrabbasso, gli accordi reiterati del pianoforte,  il deflagrare della batteria, non incidono sul fraseggio di Ambrose, che rimane assestato su quelle note lunghe e sui fraseggi lirici dell’inizio.
Il volume si intensifica, arriva quasi ad un fortissimo senza mai nemmeno sfiorare l’urlato, il fracasso.
Quando la tromba tace, pianoforte, contrabbasso e batteria non fanno altro che aumentare la massa sonora fino allo spessore massimo. Poi da quel momento, molto gradualmente, si torna a diminuire fino al rientro della tromba e di quei fraseggi iniziali.

Questa minima telecronaca differita del primo brano serve a me per capire e poter illustrare a chi legge come possano convivere contemporaneamente improvvisazione libera e parti obbligate, le une in funzione dell’altra, in un bilanciamento costante, anche scorrendo parallelamente tra loro e non come episodi giustapposti. Durante ogni brano coesiste un tipo di andamento e il suo contrario, e spesso essi sono simultanei.
Se un tema in 3/4 della tromba è dolce, e melodico, sullo sfondo contrabbasso e pianoforte saranno incalzanti, insistenti, e la batteria di Justin Brown non produrrà mai un battito uguale all’altro, pur garantendo una funzione di quadratura ferrea, al netto dei suoi incredibili e funambolici assoli.

Un’atmosfera rarefatta sarà resa da mallets in luogo delle bacchette, archetto, accordi al pianoforte che sottolineano solo i cambi armonici e dalla tromba che raggiunge pianissimo quasi vicini allo 0: ma inaspettatamente arriveranno improvvisi e brevi urli che ti scuoteranno da quel quasi incanto cui ti stavi abituando.
Un brano lunare, trasognato, pulsa di una continua ricerca del suono complessivo che rende l’atmosfera quasi magica e rituale: ma il deflagrare della batteria dà il via ad un alternanza tra introspezione onirica ed esplosione di battiti e volumi. Quando la tromba riprende il comando, con note lunghe e dense di suono placa e riporta tutto ad un’atmosfera quasi estatica.
L’energia esplicita e l’introspezione spesso convivono nello stesso istante. Sempre il fil rouge di tutto è insito nel suono della tromba di Ambrose Akinmusire, che è particolare, riconoscibile, e connota Akinmusire e nessun altro.

Ma non mancano brani adrenalinici, pura energia, i cui una nota ribattuta può andare avanti anche per tre minuti di seguito, e nei quali il fine sembra quello di saturare i suoni il più possibile. In questi casi il pianoforte assume, come la batteria un’importanza fondamentale, procedendo per accordi pieni e in modo pressoché muscolare.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Non è molto semplice descrivere cosa è accaduto durante un concerto come quello del quartetto di Ambrose Akinmusire, perché la tentazione è quella di non voler capire, e semplicemente di abbandonarsi al suono della sua tromba, che è bellissimo, intenso, ne connota già di per sé la personalità di musicista. Questo suono è emerso da subito nelle introduzioni in solo, quelle in cui come si diceva sopra il pianoforte e gli altri strumenti erano minimali, ma ancora di più stagliandosi durante gli episodi con volume e spessore massimo. Nei momenti in cui la tromba si è tirata fuori dall’ ensemble, credo che molti come me abbiano per qualche secondo avvertito una sorta di ” vuoto” che va al di là della semplice percezione del silenzio. Quel suono è avviluppante e il suo interrompersi provoca un attimo di smarrimento.
In queste righe in cui posso parlare della mia sensazione personale posso dire che il sovrapporsi parallelo di improvvisazione e degli obbligati ha una sua compiutezza, e arriva all’ ascolto come un unico flusso sonoro, in cui gli ostinati martellanti della ritmica e la voce intensa e cangiante della tromba sembrano non aver altra possibilità di persistenza che quella, tanto sono armonici tra loro. Si potrebbe obiettare che è usuale che nel jazz convivano queste due realtà di esecuzione: eppure in questo quartetto l’originalità è nel come si avvicendano gli episodi, i cambi di ruolo e di importanza tra gli strumenti e persino tra le sezioni.
Justin Brown è un batterista prodigioso, dotato di una fantasia irrefrenabile e della duplice capacità di adattarsi, mimetizzarsi assecondando l’atmosfera, ma anche di creare contrasti estemporanei negli episodi in cui sembrava che la ritmica dovesse solo mantenere il punto di una reiterazione potente e martellante.
Il pianoforte di Sam Harris e il contrabbasso di Harish Raghavan sembrerebbero all’apparenza quelli cui è affidato il ruolo della struttura in cemento armato, quella che regge tutto l’edificio: ma se posso rimanere nella metafora è una struttura a vista, originale, tutt’altro che nascosta, anzi volutamente visibile e con una valenza espressiva e non solo di sottolineatura, o accompagnamento.
Un concerto notevole, suggestivo, in cui la personalità del leader emerge senza schiacciare mai i compagni di viaggio. Musica piena di particolari che avrò bisogno di riascoltare, credo, per goderne appieno.





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