Quando la musica jazz incontra gli iPhoneografi del New Era Museum

Oggi le modalità di fruizione della musica sono molteplici e differenziate a seconda del genere. Così per la musica classica e per la lirica l’ascolto diretto in teatro conserva un suo pubblico. Per la pop e il jazz il discorso è completamente diverso.

Si va sempre più affermando la cosiddetta ‘musica liquida’, cioè quella musica che scaricata direttamente dalla rete si ascolta sul computer senza alcun bisogno di supporto sia esso CD, lp o cassetta. Come ho avuto modo di affermare diverse volte, personalmente non frequento questo tipo di ascolto dal momento che la resa sonora è quanto meno discutibile. Certo, esistono delle apparecchiature che migliorano, e di molto, il suono ma sono ancora molto care.

Di qui la mia preferenza per i concerti e i classici supporti: innanzitutto gli lp e poi i cd.

C’è comunque un’altra modalità di presentare la musica che, se ben condotta, ottiene risultati straordinari e molto coinvolgenti: accompagnare la musica live con proiezioni sia di filmati sia di foto. Un esempio esauriente si è avuto sabato 12 maggio con l’evento organizzato presso la Sala delle Donne, dove il musicista Marco Testoni e il fotografo Andrea Bigiarini, con gli artisti internazionali del New Era Museum, hanno proposto MAJE, una vera e propria Mobile Art Opera.

In buona sostanza mentre Marco Testoni – handpan, tastiere e live electronics – e Simone Salza – sax e clarinetto – propongono un jazz spesso incentrato sull’improvvisazione, sulle pareti della sala e sui due grandi pannelli posti all’ingresso e alla fine della stessa, scorrono una serie di immagini tutt’altro che casuali, realizzate con supporti digitali mobili, smartphone e tablet.

Si tratta di circa 600 opere fotografiche, suddivise in atti, per stati d’animo del soggetto ripreso, proiettate ad alta definizione e tratte dalla mostra Impossible Humans: una scelta dei migliori ritratti contemporanei realizzati dagli iPhoneografi del New Era Museum di Andrea Bigiarini, selezionati da una giuria di fotografi internazionali composta da Andrea Bigiarini (Italia), Cadu Lemos (Brasile), Manuela Matos Monteiro (Portogallo), Joanne Carter (UK), Linda Hollier (Emirati Arabi), Lee Atwell (Usa), Nettie Edwards (UK), Sukru Mehmet Omur (Turchia). Di qui un connubio interessante, a tratti trascinante, in cui la spettacolarità delle immagini che avvolgono lo spettatore si coniuga alla perfezione con una musica che interpreta al meglio quanto si vede sugli schermi: uno scambio di sensazioni, di emozioni che evidenzia come, in coerenza con quanto accennato in apertura, esistono ancora frontiere da esplorare per una fruizione musicale che non sia banale.

Certo, affinché eventi del genere abbiano successo, occorre che siano soddisfatte almeno tre condizioni: che l’allestimento sia curato al meglio (spazi adatti, luci, ambiente accogliente), che la qualità delle immagini sia superlativa ad onta degli apparecchi usati, che la musica sia di assoluto spessore. Ebbene, tutte e tre le condizioni sono state rispettate.

In chiusura concedetemi di spendere qualche ulteriore parola sui musicisti. Marco Testoni è personaggio ben noto agli appassionati di jazz dal momento che, tra l’altro, guida il Pollock Project, di cui ho personalmente recensito un album su queste stese colonne. Artista preparato, innovativo, è in grado di far ricorso ad un misurato uso dell’elettronica cui si contrappone il sound degli strumenti acustici, a disegnare un puzzle dove si inseriscono, senza problema alcuno, le pause che i due musicisti si ritagliano, lasciando fluttuare la musica preregistrata. Così il flusso sonoro si mantiene costante, ora onirico ore incalzante, ora fortemente percussivo a soddisfare le esigenze sia di chi ama sonorità più moderne, più caratterizzate dall’elettronica, sia di chi preferisce il jazz più canonico, grazie soprattutto alle sortite solistiche di Simone Salza, sassofonista che avevamo imparato ad apprezzare nel già citato Pollock Project.

In definitiva una serata interessante all’insegna della novità… ma anche della buona musica.

Gerlando Gatto

VICENZA JAZZ: Manhattan Transfer al Teatro Comunale (sold out)


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ
Teatro Comunale, 18 maggio 2018, ore 21

Manhattan Transfer

Alan Paul, Cheryl Bentyne, Janis Siegel, Trist Curless (voce)
Yaron Gershovsky (pianoforte)
Boris Kozlov (basso)
Ross Pederson (batteria)

A Vicenza Jazz, Festival arrivato alla XXIII edizione e che quindi possiamo definire storico, il direttore artistico Riccardo Brazzale ha voluto uno di quei gruppi divenuti leggendari e che matematicamente, o quasi, attirano un vasto pubblico: e, io aggiungo, Brazzale ha fatto un’ottima scelta. In una programmazione molto varia tra eventi collaterali e concerti serali (ove per collaterale non si debba intendere “di seconda categoria” ) l’evento Manhattan Transfer, stava benissimo.

Parliamo di uno spettacolo che ha fatto il sold out al Teatro Comunale di Vicenza, 900 posti di capienza.
Accompagnati da un trio di tutto rispetto i Manhattan Transfer appaiono sul palco fedeli a se stessi e fanno un’ora e mezzo di musica di cui coloro che li conoscono bene già sanno quasi tutto: arrangiamenti vocali perfetti, di complessità notevole a dispetto dell’impatto molto diretto sul pubblico, glissando funambolici che atterrano sulla nota di arrivo con precisione matematica, dinamiche espanse all’inverosimile, swing a mille, momenti a cappella sublimati da silenzi improvvisi del trio, soli gigioneggianti ma ineccepibili formalmente e stilisticamente, interplay, acrobazie vocali compiute con la divertita ed eccitata disinvoltura di chi ha le spalle coperte da una preparazione ferrea, e in forza della quale può godersi la velocità, la caduta, la rapidissima ascesa, un po’ come credo succeda a tuffatori, acrobati, piloti ed equipaggio del bob a tre, senza rischiare troppo per la propria incolumità fisica: in fondo si tratta solo (!) di cantare. 


Musica – spettacolo, ma di altissimo livello.
Il repertorio? Quasi tutto quello che li ha fatti amare in questi 40 anni di carriera sfolgorante, compresi Java Jive, Birdland, A Tisket A Tasket, Soul Food to go (come terzo bis, con la voce registrata del fondatore Tim Hauser  scomparso quattro anni fa), altri ancora, e qualcosa dal nuovo cd un po’ più in veste bossanova – tranquilla, come spesso accade, meno coinvolgente perché il nuovo o è veramente nuovo oppure un po’ delude.

 

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Mi sono sentita di dover avvisare i nostri lettori più esigenti, più attenti alle novità e alla sperimentazione, a volte ritenuta un valore assoluto nell’arte e nel Jazz, che questa è una recensione più che positiva su un gruppo vocale oramai storico e che non ha cambiato quasi una virgola nel modo di fare musica dalla sua nascita. Ha cambiato solo un membro del gruppo per cause del tutto naturali, come si accennava più sopra.
Premetto per correttezza che io stessa, per anni ho cantato musica arrangiata per quartetti vocali, e che alcuni dei brani che ho studiato erano proprio presi dai loro arrangiamenti.
Premetto che io amo moltissimo i Manhattan Transfer e i gruppi vocali (penso ai Take Six, anche, ma non solo) . Premetto anche che amo il Jazz mainstream e gli spettacoli musicali.
Fatte queste doverose premesse, i Manhattan Transfer mi sono sembrati strepitosi. Dal vivo li avevo visti una sola volta moltissimi anni fa. Poi li ho sempre ascoltati nei dischi. Speravo facessero i pezzi più noti del loro repertorio, e li hanno fatti. Speravo nelle loro coreografie, nella loro comunicativa, nella loro musica di intrattenimento, certo, ma complessa, strutturata, a partire dagli arrangiamenti, per arrivare alla precisione quasi maniacale volta ad ottenere determinati effetti, senza mai separare il virtuosismo dalla capacità di coinvolgere il pubblico. E le mie aspettative non sono state deluse, anzi!
I Manhattan Transfer portano in scena se stessi, e vale la pena di andarli ad ascoltare dal vivo, almeno una volta, fino a che suoneranno, perché quando non ci saranno più li si andrà a cercare su Youtube come testimonianza di musica di altissimo livello.  E’ un gruppo straordinario di musicisti, che fanno ottima musica, con la quale trascinano un pubblico del tutto eterogeneo.
Voglio rassicurare i musicisti avanti, anche i più sperimentatori, e ai fruitori della loro musica, che li amo e ascolto il loro lavoro con attenzione, cura, ammirazione.
Consiglio di andare ad ascoltare questo gruppo di musicisti, una volta nella vita: l’ intrattenimento e lo spettacolo possono essere di grande qualità.
Nella foto qui sotto scattata da Daniela Crevena : i Manhattan Transfer ed il loro selfie con il pubblico che li acclama. Noi li abbiamo trovati bellissimi.

Altri concerti seguiti a Vicenza:
Gavino Murgia e Cantar Lontano Officium Divinum 

 

 

Presentato in anteprima assoluta al Salone del Libro di Torino il secondo libro di Gerlando Gatto

Anche il secondo volume di Gerlando Gatto ha avuto il suo battesimo ufficiale al Salone del Libro di Torino: “L’altra metà del jazz – Voci di donne nella musica jazz” (KappaVu / Euritmica edizioni) è stato presentato domenica 13 maggio nella città della Mole Antonelliana alla presenza dello stesso autore, di Claudia Fayenz, giornalista RAI nonché autrice della prefazione, e della vostra cronista, Marina Tuni, responsabile dell’ufficio stampa di Euritmica e del Festival Internazionale Udin&Jazz, mentre ha dovuto dichiarare forfait, per motivi personali, Giancarlo Velliscig direttore artistico del festival udinese.

Proprio da questa manifestazione ha preso il via l’incontro di domenica. È ovviamente spettato alla sottoscritta illustrare il programma del Festival, giunto alla sua ventottesima edizione, che quest’anno si svolge nello spirito di “Take a Jazz Break”, che sarà il filo conduttore di Udin&Jazz 2018. Una sorta di invito, dunque, a rallentare i ritmi, a prendere una pausa dalla superficialità e dalla frenesia di questa epoca, a uscire dall’illusorio universo virtuale, dai social, dalla tecnologia, per ritrovare il sapore delle emozioni vere, della condivisione vissuta realmente, facendolo, nel caso appunto del festival, attraverso il jazz! Molti i concerti e gli eventi in programma in un arco di tempo che va dal 27 giugno al 24 luglio, ma sul Festival torneremo nei prossimi giorni anche per gli imprevisti risvolti determinati dalle dichiarazioni del patron Giancarlo Velliscig.

E veniamo alla presentazione del libro. Da esperta giornalista radiofonica Claudia Fayenz ha tracciato, con poche frasi, il quadro ambientale ed artistico in cui si inserisce il lavoro di Gatto: dare voce ad un universo femminile che oramai rappresenta una realtà ben consolidata, nell’ambito di una musica che spesso resta ancorata a pregiudizi anacronistici. Non sono passati molti anni da quando una donna jazzista veniva considerata al massimo come vocalist. Oggi, per fortuna, le cose cono cambiate… e in modo radicale. Così ci sono artiste che suonano strumenti una volta impensabili nelle mani di una donna come il sax baritono, il contrabbasso, la batteria… per non parlare della direzione orchestrale e della composizione.

Ecco, Fayenz ha evidenziato in modo assai chiaro come il libro da un canto cerchi di far emergere non solo il lato artistico ma soprattutto quello umano del personaggio (emblematica al riguardo la lunga intervista con Enrica Bacchia), dall’altro come getti un fascio di luce su questo universo, ponendone in rilievo alcuni paradossi: è il caso di una grande pianista catanese, Dora Musumeci, una vera antesignana delle jazziste che in anni lontani riuscì a raggiungere una posizione di assoluto rilievo, lodata dallo stesso Arrigo Polillo, ma proprio per questo invisa ai colleghi “maschietti” che non mancarono di metterle qualche bastone tra le ruote, tanto per usare un eufemismo. Gatto l’ha intervistata nel 1978 e quando Fayenz lo ha invitato a ricordare la figura di questa grande pianista, il critico musicale non ha potuto nascondere un moto di commozione data l’amicizia che li legava e il modo assurdo in cui se n’è andata (travolta sulle strisce della sua città da un pirata della strada mai trovato).

Un altro momento particolarmente intenso si è vissuto quando, sempre su sollecitazione della Fayenz che gli chiedeva quale delle artiste intervistate gli fosse rimasta impressa, Gatto ha rievocato la figura di Radka Toneff, straordinaria vocalist norvegese di origini bulgare, suicidatasi a soli 30 anni, sembra per ragioni sentimentali. Radka non ha avuto il tempo di farsi conoscere ed apprezzare anche dal pubblico italiano, ma quanto fosse stimata in casa lo dimostra il fatto che in sua memoria è stato istituito il “Radka Toneff Memorial Award”.

A parte questo momento di intimi ricordi, Gerlando Gatto ha risposto a tutte le domande della Fayenz ricordando cosa l’aveva spinto a scrivere questo libro, quali i criteri seguiti nella scelta dei personaggi da intervistare, le difficoltà incontrate al riguardo specie con le musiciste straniere, poco inclini ad addentrarsi nel privato. Il tutto con quel tono disteso, colloquiale, scevro da qualsivoglia intellettualismo che caratterizza anche lo stile di scrittura dell’autore.

Alla fine dell’incontro, rispondendo alla domanda di uno spettatore che chiedeva come mai non vi sia un turnover nel jazz e perché, al contrario di quanto accade nel resto dell’Europa, in Italia i giovani non siano motivati a seguire questo genere musicale, si sono registrate risposte praticamente univoche da parte di tutti e tre i relatori: il jazz non è adeguatamente supportato, né riceve le attenzioni dovute da parte dei media e delle istituzioni, basti pensare, ad esempio, che le trasmissioni televisive, specie sui canali pubblici, che ne parlano si sono via via ridotte fino a scomparire quasi del tutto… sign o’ the times, direbbe Prince!

Io ho voluto aggiungere che spetta agli organizzatori avvicinarsi in qualunque modo e forma al mondo giovanile, raccontando questa musica nelle scuole e nelle università e soprattutto affiancando queste azioni ad una politica che preveda importanti agevolazioni nell’acquisto di biglietti per i concerti.

Insomma, un’ora circa di chiacchierata sulle musiciste donne e sul jazz, in senso più lato.

Marina Tuni

 

Jazz e francobolli in Italia, un rapporto da costruire

Il rapporto tra jazz ed emissioni filateliche nel nostro Paese è uno di quegli argomenti non proprio ‘battuti’ che “A proposito di jazz” ha trattato con attenzione grazie soprattutto alla passione del nostro collaboratore Amedeo Furfaro.

Proprio un anno fa, per l’esattezza il 24 marzo 2017, Furfaro con l’articolo “Affrancare il jazz. Con una serie di francobolli sul “grande jazz italiano” si augurava che il jazz italiano potesse costituire oggetto di emissioni molto più ricorrenti dato che, mentre hanno avuto il proprio meritato spazio i vari Leoncavallo e Rossini, Verdi e Puccini, Vivaldi e Casella, Pavarotti e Mino Reitano, come anche “Tintarella di luna” e “Nel blu dipinto di blu” fra le canzoni, l’industria della fisarmonica e persino zampogna e launeddas fra gli strumenti etnici, poca attenzione è stata riservata al mondo della musica afro-americana.

Purtroppo anche quest’anno l’appello è caduto nel vuoto, in quanto ancora i nostri francobolli non ospiteranno alcunché concernente il jazz, come si evince dal programma di emissioni filateliche 2018 definito di recente a cura del competente Sottosegretariato di Stato allo Sviluppo Economico.

Debutta, lo si rileva dal comunicato ufficiale, la serie tematica “Le eccellenze italiane dello spettacolo” con due emissioni dedicate a Domenico Modugno e Mia Martini.

Una lodevole iniziativa che conferma e stabilizza un’attenzione già manifestata in precedenza, come il postcard dedicato a Luigi Tenco dello scorso anno. Per il Mimmo nazionale si tratta di una sorta di bis dopo l’emissione 2008 che ne celebrava ‘Nel blu dipinto di blu’ affiancato a ‘Tintarella di luna’ di Mina (per la cronaca peraltro Volare si cantava a ritmo di swing).

A volte, giustamente, ritornano. Ed ecco ora questo “ritorno” giornalistico per perorare la causa di dar spazio raffigurativo, magari anche all’interno di questa nuova serie tematica, ad aspetti e protagonisti del jazz italiano, secondo quanto proposto, su queste colonne, nel già citato articolo peraltro poi riassunto in una specifica istanza al Ministero dello Sviluppo Economico.

A dire il vero il protocollo d’intesa stipulato di recente fra MiBACT e neonata Federazione nazionale “Il jazz italiano”, presieduta da Paolo Fresu, tendente alla valorizzazione e sviluppo dell’attività artistica con particolare riferimento al jazz, aveva fatto ben sperare che si sarebbe estesa, per collegialità, tale motivazione pro-jazz anche ad altri settori dell’attività governativa. Come quello dei francobolli ordinari destinati, oltre che ai collezionisti, a viaggiare ed a portarsi un po’ ovunque per essere visti di sfuggita o semplicemente scrutati, comunque vettori di un messaggio comunicativo importante, “immortalato” in una composizione grafica stampata su pochi millimetri di carta.

da Redazione

L'”Ellington Sinfonico” di Luca Bragalini allo Zingarò di Faenza

La stagione dello Zingarò Jazz Club si concluderà giovedì 17 maggio 2018: nella prima parte della serata, Luca Bragalini presenterà il suo nuovo libro, intitolato «Dalla Scala ad Harlem: I sogni sinfonici di Duke Ellington», dedicato alle pagine sinfoniche del grande compositore e musicista statunitense. A seguire, si terrà il Concerto finale del Laboratorio dedicato al Piano Trio, coordinato da Michele Francesconi con Paolo Ghetti al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria. La serata è ad ingresso libero con inizio alle 21.30.

Luca Bragalini studia da tempo la musica che Duke Ellington ha scritto per orchestra sinfonica, un ambito spesso ingiustamente dimenticato. Il musicologo ha presentato i suoi studi nei più prestigiosi convegni internazionali ed ha pubblicato di recente il libro “Dalla Scala ad Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington” (EDT) dove riassume le ricerche svolte. Bragalini presenta l'”Ellington Sinfonico” attraverso ascolti inediti, immagini mai rivelate, preziosi video per dare vita ad un racconto coinvolgente.

Luca Bragalini è docente di Storia e Analisi del Jazz al Conservatorio de l’Aquila, collabora anche con i conservatori di musica de La Spezia, Brescia e Trento; ha tenuto, in Italia e all’estero, corsi e masterclass in 13 conservatori. È stato direttore di tre seminari di musica e docente in 25 edizioni di sette diversi workshop. Ha rappresentato l’Italia in diversi convegni internazionali di musicologia e, nel 2015, è stato invitato come Distinguished Scholar al Reed College di Portland (Oregon) per un ciclo di conferenze su Ellington rivolto ad allievi e docenti. Ha scoperto l’ultima opera sinfonica di Ellington di cui ne ha curato la Prima Registrazione Mondiale, che verrà discussa nel suo libro «Dalla Scala ad Harlem: I sogni sinfonici di Duke Ellington» (EDT). Ha scoperto opere inedite di Luciano Chailly (di cui ha curato la world premiere) e ha riportato alla luce dei manoscritti inediti di Chet Baker con un progetto che ha coinvolto Paolo Fresu. La sua pubblicazione precedente «Storie poco standard» (EDT), in questi giorni in ristampa, è diventata un format radiofonico ed uno spettacolo teatrale. È un apprezzato divulgatore della storia del musical e della cultura musicale afroamericana.

Nella seconda parte della serata, invece, si terrà il Concerto finale del Laboratorio dedicato al Piano Trio, coordinato da Michele Francesconi con Paolo Ghetti al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria. Nel concerto, si alterneranno al pianoforte colleghi musicisti e allievi dei corsi tenuti da Francesconi per dare vita e sostanza al percorso compiuto durante l’anno accademico: un ragionamento divulgativo, appassionante e appassionato intorno ad uno dei formati – il piano trio, appunto – più amati e frequentati nel jazz moderno.

Lo Zingarò Jazz Club è a Faenza in Via Campidori, 11.

Ambrose Akinmusire 4tet all’ Auditorium Parco della musica

Foto di Adriano Bellucci

 

                                                                                                      AMBROSE AKINMUSIRE QUARTET

Auditorium Parco della Musica, sala Petrassi, 23 aprile 2018, ore 22

Ambrose Akinmusire, tromba
Sam Harris, pianoforte
Harish Raghavan, contrabbasso
Justin Brown, batteria

Ambrose Akinmusire apre il concerto con una intro in cui il pianoforte di Sam Harris appare con accordi sul secondo e sul quarto tempo: giusto un minimale appoggio armonico al suono della tromba, che si apre in una introduzione suggestiva, intensa, quasi struggente fatta di note lunghe, cambi espressividi timbro, dinamiche contrastanti. Fino all’apparire dell’ostinato di contrabbasso di Harish Raghavan, che precede di poco l’entrata esplosiva della batteria di Justin Brown. L’andamento martellante del contrabbasso, gli accordi reiterati del pianoforte,  il deflagrare della batteria, non incidono sul fraseggio di Ambrose, che rimane assestato su quelle note lunghe e sui fraseggi lirici dell’inizio.
Il volume si intensifica, arriva quasi ad un fortissimo senza mai nemmeno sfiorare l’urlato, il fracasso.
Quando la tromba tace, pianoforte, contrabbasso e batteria non fanno altro che aumentare la massa sonora fino allo spessore massimo. Poi da quel momento, molto gradualmente, si torna a diminuire fino al rientro della tromba e di quei fraseggi iniziali.

Questa minima telecronaca differita del primo brano serve a me per capire e poter illustrare a chi legge come possano convivere contemporaneamente improvvisazione libera e parti obbligate, le une in funzione dell’altra, in un bilanciamento costante, anche scorrendo parallelamente tra loro e non come episodi giustapposti. Durante ogni brano coesiste un tipo di andamento e il suo contrario, e spesso essi sono simultanei.
Se un tema in 3/4 della tromba è dolce, e melodico, sullo sfondo contrabbasso e pianoforte saranno incalzanti, insistenti, e la batteria di Justin Brown non produrrà mai un battito uguale all’altro, pur garantendo una funzione di quadratura ferrea, al netto dei suoi incredibili e funambolici assoli.

Un’atmosfera rarefatta sarà resa da mallets in luogo delle bacchette, archetto, accordi al pianoforte che sottolineano solo i cambi armonici e dalla tromba che raggiunge pianissimo quasi vicini allo 0: ma inaspettatamente arriveranno improvvisi e brevi urli che ti scuoteranno da quel quasi incanto cui ti stavi abituando.
Un brano lunare, trasognato, pulsa di una continua ricerca del suono complessivo che rende l’atmosfera quasi magica e rituale: ma il deflagrare della batteria dà il via ad un alternanza tra introspezione onirica ed esplosione di battiti e volumi. Quando la tromba riprende il comando, con note lunghe e dense di suono placa e riporta tutto ad un’atmosfera quasi estatica.
L’energia esplicita e l’introspezione spesso convivono nello stesso istante. Sempre il fil rouge di tutto è insito nel suono della tromba di Ambrose Akinmusire, che è particolare, riconoscibile, e connota Akinmusire e nessun altro.

Ma non mancano brani adrenalinici, pura energia, i cui una nota ribattuta può andare avanti anche per tre minuti di seguito, e nei quali il fine sembra quello di saturare i suoni il più possibile. In questi casi il pianoforte assume, come la batteria un’importanza fondamentale, procedendo per accordi pieni e in modo pressoché muscolare.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Non è molto semplice descrivere cosa è accaduto durante un concerto come quello del quartetto di Ambrose Akinmusire, perché la tentazione è quella di non voler capire, e semplicemente di abbandonarsi al suono della sua tromba, che è bellissimo, intenso, ne connota già di per sé la personalità di musicista. Questo suono è emerso da subito nelle introduzioni in solo, quelle in cui come si diceva sopra il pianoforte e gli altri strumenti erano minimali, ma ancora di più stagliandosi durante gli episodi con volume e spessore massimo. Nei momenti in cui la tromba si è tirata fuori dall’ ensemble, credo che molti come me abbiano per qualche secondo avvertito una sorta di ” vuoto” che va al di là della semplice percezione del silenzio. Quel suono è avviluppante e il suo interrompersi provoca un attimo di smarrimento.
In queste righe in cui posso parlare della mia sensazione personale posso dire che il sovrapporsi parallelo di improvvisazione e degli obbligati ha una sua compiutezza, e arriva all’ ascolto come un unico flusso sonoro, in cui gli ostinati martellanti della ritmica e la voce intensa e cangiante della tromba sembrano non aver altra possibilità di persistenza che quella, tanto sono armonici tra loro. Si potrebbe obiettare che è usuale che nel jazz convivano queste due realtà di esecuzione: eppure in questo quartetto l’originalità è nel come si avvicendano gli episodi, i cambi di ruolo e di importanza tra gli strumenti e persino tra le sezioni.
Justin Brown è un batterista prodigioso, dotato di una fantasia irrefrenabile e della duplice capacità di adattarsi, mimetizzarsi assecondando l’atmosfera, ma anche di creare contrasti estemporanei negli episodi in cui sembrava che la ritmica dovesse solo mantenere il punto di una reiterazione potente e martellante.
Il pianoforte di Sam Harris e il contrabbasso di Harish Raghavan sembrerebbero all’apparenza quelli cui è affidato il ruolo della struttura in cemento armato, quella che regge tutto l’edificio: ma se posso rimanere nella metafora è una struttura a vista, originale, tutt’altro che nascosta, anzi volutamente visibile e con una valenza espressiva e non solo di sottolineatura, o accompagnamento.
Un concerto notevole, suggestivo, in cui la personalità del leader emerge senza schiacciare mai i compagni di viaggio. Musica piena di particolari che avrò bisogno di riascoltare, credo, per goderne appieno.