La prima serata di un Festival sempre più importante, per passione e per cultura.

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Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA
La foto della mostra fotografica è di FABRIZIO CIRULLI

Assisto a molti concerti, un po’ ovunque, bellissimi, meno belli, in posti prestigiosi e meno battuti. Ma ci sono Festival in cui io, che scrivo di musica per passione, mi trovo con gente che organizza quattro giorni di eventi mossa dalla stessa mia passione. Il mio fine è scrivere. Il loro fine è portare il piazza il Jazz. Uno di questi festival è Alba Jazz.
Assisto ad un “dietro le quinte” che non è poi così “dietro le quinte”, perché tutto avviene davanti agli occhi di tutti: il direttore artistico Fabio Barbero, gli amici dell’associazione Alba Jazz, i volontari, i figli dei volontari, per quattro giorni ma in realtà da molto prima, sono in fermento e organizzano tutto, ma proprio tutto, rimediano agli imprevisti, corrono a prendere cose che mancano all’ultimo momento, recuperano gli artisti all’aeroporto con le proprie macchine, allestiscono i banchetti con i gadget che permettono di autofinanziarsi, cercano e trovano gli sponsor, che evidentemente, se da anni intervengono, è perché Alba Jazz è ritenuto un evento positivo per la città.
Alba Jazz non fa guadagnare un euro agli organizzatori: ma di certo fa guadagnare la città in cultura.
Destinare le proprie risorse personali sulla musica senza avere nient’altro in cambio oltre che la gioia di veder realizzato il sogno che ci si proponeva è ammirevole, e mostra che a volte, a muovere le cose, non sono solo gli interessi economici.
Il sogno degli appassionati di Alba Jazz è questo festival in piazza, aperto a tutti, veramente a tutti, a ingresso libero, con musica scelta dopo un anno di ascolti attenti e condivisi. E bisogna dare atto a Fabio Barbero che sul palco di Alba Jazz praticamente sempre abbiamo incontrato sul palco almeno un gruppo che in Italia non aveva mai suonato prima, almeno un nome internazionale, almeno un gruppo italiano. Progetti diversi per diversi gusti, con la volontà oltre che di divertirsi anche, rischiando, di far conoscere, apprezzare, incontrare artisti di ogni genere.

Quest’ anno ad Alba, all’Oratorio della Maddalena è stata anche organizzata una mostra fotografica, in collaborazione con l’associazione Alec. Obiettivo: Alba e il Jazz è una mostra importante, che racchiude dieci anni di Alba Jazz visti da cinque fotografi che questo festival lo conoscono bene e lo hanno seguito, ognuno con il suo obiettivo, con la propria sensibilità, e, anche in questo caso, con la propria passione. I fotografi sono Roberto Cifarelli, Fabrizio Cirulli, Daniela Crevena, Carlo Mogavero e Franco Truscello. Cinque foto a testa e la storia di Alba Jazz in un percorso affascinante nella percezione della musica in immagini. Venticinque foto dalle quali trapela l’atmosfera che si respira qui ad Alba, attraverso gli artisti ritratti. Il vero protagonista ritratto è il Festival in questi 12 anni.

Alba Jazz 2018 si apre con un concerto inedito in Italia.

Piazza Cagnasso, Mercato Coperto, ore 21

DIEGO PINERA 4TET Despertando

Diego Pinera, batteria
Tino Derado, pianoforte
Omar Rodriguez Calvo, contrabbasso
Julian Wasserfurh, flicorno

Diego Pinera è un giovane batterista uruguaiano che vive in Germania da anni, e che ha un nutrito curriculum artistico e anche un prestigioso premio all’attivo come miglior batterista in Germania. Dunque a salire sul palco è uno strumentista eccellente, con una padronanza tecnica assoluta del suo strumento. Con lui tre musicisti altrettanto performanti, che volentieri si prestano, già dai primi minuti, ad assecondarne l’energia, esplosiva, e l’innegabile comunicativa.
Il gruppo esegue standard e anche musica originale, con varianti ritmiche spesso previste in tempi dispari e con un sottofondo latin che trapela senza mai prendere il sopravvento.
Il concerto comincia con assolo di batteria di Pinera: un ostinato della cassa sul quale si sovrappongono e si sommano via via, in sequenza altre cellule ritmiche ostinate, poliritmiche, in contrasto. Si moltiplicano e si sovrappongono, come mattoncini sonori, fino ad arrivare naturalmente ad uno spessore massimo, che da quel momento ricomincia a destrutturarsi fino a riassottigliarsi e tornare al solo ostinato della cassa. Un piccolo capolavoro tecnico, ispirato a Max Roach, che prelude al primo brano in trio.

Il brano è Last tango in Paris, di Gato Barbieri, ed è il contrabbasso (con arco) di Rodriguez Calvo ad introdurlo, non senza lirismo: poi tocca al pianoforte di Derado ereditare questa melodia così intensa, e Derado da quel momento non la molla mai, pur destrutturandola, nemmeno durante il solo di contrabbasso, nemmeno durante la progressiva trasformazione del linguaggio verso un latin sempre più esplicito, non solo ritmicamente, ma anche dal punto di vista del linguaggio, soprattutto pianistico.

Si passa a Caravan, in 11/8: adrenalinico, velocissimo, ricco di frasi (ritmiche – melodiche) ripetute a loop, anche contemporaneamente tra tutti gli strumenti. Il flicorno di Wasserfuhr è tanto fedele nell’esporre i temi quanto torrenziale nell’improvvisazione. Le sue note ribattute diventano battiti incalzanti della batteria.


Si prosegue con un brano coltraniano, poi si approda a St.Thomas, di Sonny Rollins, eseguito in 9/4. Il quartetto procede coinvolgendo il pubblico, anche perché il suono di ognuno è potente ma la coesione è innegabile.
Gli obbligati sono ad effetto, si ascolta più di un eco afrocubano, gli stop con ripresa improvvisa di una precisione quasi disarmante.

Non mancano le ballad, delicatamente rese con una particolare cura per i temi melodici, per una timbrica complessiva morbida ma sonora per il tessuto armonico pieno e soffuso: in questo senso Vulnerability è particolare, con quella oscillazione tra un accordo di maggiore e quello costruito al semitono sotto ma in modo minore, il tutto a ritmo quasi di milonga.
Il bis è dedicato a Wayne Shorter e al suo Footprint, in chiave afrocubana, in un crescendo di energia, applauditissimo.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto divertente, coinvolgente ed energico.
Diego Pinera possiede una creatività notevolissima. Sa modulare molto bene il potenziale deflagrante dei suoi battiti e dello strumento, qualità che io ritengo fondamentale per poter definire davvero bravo un batterista. Si diverte, è comunicativo, e tiene perfettamente le fila di un quartetto composto di musicisti che hanno una spiccata personalità: in questo caso sono sidemen, ma si percepisce in ogni momento il loro spessore di solisti.
Il tocco del pianista Tino Derado, infatti, mi è parso particolare. Mi è piaciuto molto il modo cristallino di esporre i temi, ma anche la nettezza dei suoni, degli accordi, della definizione ritmica, oltre che la capacità di essere duttile e fluido in un dipanarsi veloce di episodi anche completamente contrastanti tra loro.
Omar Rodriguez Calvo ha un suono tondo, pieno, e sa essere granitico nei momenti più adrenalinici e ritmici e melodico, cantabile, a volte persino poetico nelle ballad e nei (pochi) momenti meno “tecnici” della performance.
C’è un ma. Nonostante Pinera sia giovane, talentuoso, ferratissimo tecnicamente, il suo Jazz non potrei definirlo davvero innovativo, a meno di non ritenere che l’eseguire St. Thomas in 9/4 sia un’innovazione: è uno sfizio, è anche divertente ascoltare quel quarto in più, è una sfida che i suoi musicisti accolgono con bravura, è interessante seguire lo spostamento di tutti gli accenti o quella battuta in più che ti fa attendere la ripresa del tema lasciandoti in tensione. Ma questo non esprime nulla di più che il saper attuare l’idea di eseguire uno standard in 9 invece che in 4. Forse (ed è l’unico appunto che posso fare ad un gruppo pressoché ineccepibile) dovremo aspettare che Pinera si liberi della voglia di mostrare tutta la sua bravura perché emergano le sue doti di musicista, che ci sono, e si intravedono: e che prima o poi supereranno quelle, strepitose, di strumentista.


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