I NOSTRI CD. Grandi nomi alla ribalta

Nik Bärtsch’ S Ronin – “Awase” – ECM 2603
Una musica iterativa, a tratti quasi ipnotica: questo il tratto caratterizzante questo nuovo album del pianista zurighese che nell’occasione si presenta in quartetto con Kaspar Rast alla batteria, Thomy Jordi al contrabbasso e Sha al clarinetto basso e al sax alto. La musica appare del tutto coerente con le posizioni più volte espresse dallo stesso musicista secondo cui “alcune tra le nostre strategie musicali e drammaturgiche sembrano abbeverarsi di procedure minimali: concentrazione dei materiali, consapevolezza attraverso la ripetizione, combinazione di pattern” procedure che si ritrovano non solo nel mondo del jazz ma anche in altre espressioni musicali come il funky. Comunque, tornando al jazz e a Bärtsch c’è da sottolineare come il pianista ancora una volta sia riuscito a coniugare la fedeltà a quei modelli cui prima si faceva riferimento con una sincera ansia di ricerca che ha sempre caratterizzato la sua arte. In questo nuovo album da evidenziare ancora il significativo apporto di tutti i componenti il quartetto, dal batterista che con il suo drumming costante e preciso è servito da collante per tutto il gruppo, al contrabbassista ‘fornitore’ di un flusso armonico-ritmico tanto elegante quanto funzionale per finire con le ance di Sha che si fa apprezzare non solo come strumentista (specialmente al clarinetto basso) ma anche come compositore (suo “A” uno dei brani più suggestivi dell’intero album). Dal canto suo il leader evidenzia come si possa strutturare un minimalismo di marca europea, distinto da quello statunitense, in cui ripetitività e groove, si conciliano con improvvisazione da un lato e disciplina, dall’altro. Tra i vari pezzi da segnalare il lungo “Modul 58” in cui dopo un’introduzione soft il clima si trasforma man mano fino a trasportare l’ascoltatore in un’atmosfera funky, assai movimentata che si distacca nettamente dal resto dell’album.

Greg Burk – “As a River” – Tonos Records
Musicista di rara sensibilità e uomo di squisito garbo, Greg Burk è uno dei non tantissimi musicisti con cui è gradevole parlare non solo di musica. Ma evidentemente in questa sede ci occupiamo di Greg in quanto jazzista ed in quanto autore di questo gradevolissimo piano solo. Esperienza non nuova per Burk che nel 2016 incise per la Steeplechase Lookout, sempre per piano solo, “Clean Spring”. “As a River”, registrato a Milano nel 2018, rappresenta comunque l’ennesima testimonianza di un talento che più passa il tempo e più si affina. Un talento che riguarda congiuntamente esecutore e compositore in quanto anche questa volta, come spesso nei precedenti album, i brani eseguiti sono da lui stesso composti. I pezzi appaiono ben strutturati, sorretti da un solido impianto formale in cui Burk riesce a sintetizzare i molteplici input che rendono così variegata la sua arte. Ecco quindi il sapiente mescolarsi di scrittura e improvvisazione, ecco una ricca tavolozza timbrica cui far ricorso, ecco un fraseggio sempre elegantemente ritmico, ecco quella varietà di situazioni che costituisce un’altra delle sue caratteristiche peculiari. Così, ad esempio, al clima quasi onirico di “The Slow Hello” si contrappone il fraseggio più libero, improvvisato di “Into The Rapids”, fino a giungere all’evocativo “Sequoia Song” scritto a seguito di una visita al Sequoia National Park. Dal punto di vista più strettamente pianistico, il linguaggio di Greg è allo stesso tempo forte e fluido, sempre caratterizzato da una evidente cantabilità che mai lo porta a forzare sul lato meramente spettacolare (si ascolti con attenzione “Sun Salutation” in cui Greg fornisce un’evidente dimostrazione di cosa significhi per un pianista l’indipendenza delle mani o ancora “Serena al telefono” caratterizzato da un ritmo latineggiante ben introdotto da un fraseggio con la sinistra).

Javier Girotto – “Tango nuevo revisited – act 9878-2
Chi segue “A proposito di jazz” sa bene quanto il sottoscritto ami Piazzolla e la sua musica. Di qui l’interesse con cui ascolta ogni nuovo album che includa brani del compositore argentino e la difficoltà di trovare un interprete che, in qualche modo, possa rielaborare e far rivivere adeguatamente la sua musica. Con questo album ci troviamo dinnanzi ad un’operazione assolutamente nuova e assai ben riuscita: la riproposizione di un album oramai considerato storico, vale a dire quel “Tango Nuevo” (conosciuto anche come “Summit” o “Reunion Cumbre”), registrato nel 1974 da Astor Piazzolla con il sassofonista Gerry Mulligan. Accanto a questi due grandi c’era un organico piuttosto ampio composto da Angel Pocho Gatti (pianoforte, Fender Rhodes, organo Hammond), Filippo Daccò e Bruno De Filippi (chitarre), Pino Presti (basso), un giovane Tullio De Piscopo (batteria e percussioni), Alberto Baldan Bembo e Gianni Zilioli (marimbe), Umberto Benedetti Michelangeli (violino), Renato Riccio (viola) e Ennio Miori (violoncello). Fu un successo internazionalmente straordinario e questo nuovo album si riallaccia prepotentemente a quelle registrazioni del ’74: in effetti – come spiega lo stesso Girotto – Siegfried “Siggi” Loch, fondatore e produttore di ACT, particolarmente affezionato al lavoro di Piazzolla e Mulligan avendone curato la produzione e la distribuzione su scala mondiale, ha proposto al sassofonista argentino ma oramai italiano d’adozione, di registrare nuovamente il disco che consolidò l’incontro tra l’ultimo innovatore del tango e uno dei migliori sax-baritonisti dell’intera storia del jazz. Girotto ha accettato, scelto l’organico (Gianni Iorio bandoneon e Alessandro Gwis (piano, tastiere)…ed ecco questo nuovo straordinario album. L’organico come si nota, è notevolmente ridotto rispetto alla versione originale ma è stato fortemente voluto da Girotto per “dare più apertura all’improvvisazione e spazio ad ogni solista”. In programma “Close Your Eyes And Listen”, “Twenty Years Ago”, “Summit”, “Reminiscence”, e “Years Of Solitude” già presenti in “Summit” cui si aggiungono “Escualo”, “Deus Xango” e “Fracanapa” sempre composti da Piazzolla nonché “Aire de Buenos Aires” e “Etude for Franca” di Gerry Mulligan. Dieci brani che se da un canto ci riportano, vivissima, l’immagine di un compositore straordinario come Piazzolla, dall’altro ci confermano la statura artistica di un personaggio come Javier Girotto che non ha paura di misurarsi con dei veri e propri mostri sacri della musica globalmente intesa.

Larry Grenadier – “The Gleaners” – ECM 2560
La discografia jazzistica per solo contrabbasso non è certo ricchissima: sono passati cinquant’anni da quando Barre Phillips incise da solo “Journal violone” subito acclamato da pubblico e critica. Da allora non sono stati moltissimi i bassisti che si sono cimentati in questa non facile impresa: tra di loro ricordiamo Barry Guy, Stanley Clarke, Dave Holland, Eberhard Weber, Miroslav Vitous… Adesso è la volta di Larry Grenadier, strumentista sontuoso che si è fatto le ossa suonando con alcuni mostri sacri del jazz quali, tanto per fare qualche nome, Herbie Mann, Paul Motian, Charles Lloyd ma soprattutto Brad Mehldau con il quale ha collaborato per molti anni. Nessuna sorpresa, quindi, che il patron della ECM, Manfred Eicher, gli abbia proposto questa sfida, vinta brillantemente. L’album è infatti profondo, stimolante e porta in primo piano la straordinaria tecnica di Larry nonché la sua sensibilità interpretativa. Il titolo s’ispira al film The Gleaners di Agnès Varda, in cui la regista racconta i suoi incontri ovunque in Francia con spigolatori e spigolatrici, recuperanti e robivecchi. Tra i pezzi composti dallo stesso Grenadier una dedica al suo primo eroe Oscar Pettiford, cui si accompagnano riproposizioni di temi firmati da George Gershwin, John Coltrane, Paul Motian, Rebecca Martin e Wolfgang Muthspiel. E in ognuna di queste parti Larry adotta uno stile differente, creando anche mirabili compilation con brani di compositori assai differenti come “Compassion” di John Coltrane e “The Owl of Cranston” di Paul Motian “. Egualmente mirabile il linguaggio vagamente folk adoperato nell’interpretazione di “Woebegone”. Insomma un album pregevole sotto ogni punto di vista che risponde pienamente a quell’esigenza, esplicitata dallo stesso Grenadier, di operare “uno scavo sugli elementi fondamentali di chi sono io come bassista. La mia era una ricerca verso un centro di suono e timbro, fili di armonia e ritmo che formano il punto cruciale di un’identità musicale. ”

Vijay Iyer e Craig Taborn – “The Transitory Poems” – ECM 2644
E’ il 12 marzo del 2018 quando Vijay Iyer e Craig Taborn salgono sul palco della Franz Liszt Academy di Budapest per dar vita ad un concerto che la ECM registra e che ci viene proposto in questo eccellente album. I due pianisti sono personaggi noti nella comunità del jazz, così come nota è la loro intesa cementata da lunghi anni di collaborazioni: era, infatti, il 2002 quando i due iniziarono a collaborare nella Note Factory di Roscoe Mitchell, partecipando ambedue agli album di Roscoe Mitchell «Song For My Sister» (PI, 2002) e «Far Side» (ECM, 2010). Questa nuova realizzazione in duo non presenta, quindi, particolari sorprese restituendoci due artisti nel pieno della maturità e perfettamente consapevoli delle proprie possibilità. Di qui una musica senza confini stilistici che si rivolge al futuro senza tuttavia dimenticare il passato. Ecco quindi tre significativi omaggi ad altrettanti giganti del jazz: “Clear Monolith” dedicato a Muhal Richard Abrams, “Luminous Brew” per Cecil Taylor e la riproposizione di “Meshwork/Libation – When Kabuya Dances” composta da Geri Allen, mentre “Sensorium” è un omaggio a Jack Whitten, pittore e scultore americano scomparso nel 2018, che nel 2016, è stato insignito della National Medal of Arts. Queste citazioni non sono fine a sé stesse ma illustrano la mentalità di due grandi musicisti che non si chiudono in una torre eburnea ma vanno incontro ad un universo culturale onnicomprensivo. Ovviamente la musica non è fatta per palati semplici: qui non c’è alcunché di consolatorio né ascrivibile alla categoria del facile ascolto. E l’unico momento in cui i due si lasciano andare ad un qualche risvolto melodico è nel finale dell’album, ovvero nell’interpretazione di “When Kabuya Dances”, della Allen Occorre, quindi, una fattiva partecipazione da parte dell’ascoltatore che sia in grado di percepire l’onestà intellettuale dei due pianisti che non si lasciano andare a virtuosismi di sorta preferendo addentrarsi, pur tra indubbie difficoltà, nei meandri dei rispettivi animi.

Landgren, Wollny, Danielsson, Haffner – “4WD”- ACT 9875 2
Album godibile questo “4 Wheel Drive” che vede assieme per la prima volta quattro fra le maggiori personalità del jazz europeo, vale a dire Nils Landgren (trombone e voce), Michael Wollny (piano), Lars Dannielsson (basso e cello) e Wolfgang Haffner (batteria). Questi quattro jazzisti si erano incrociati molte volte in passato, ma prima di adesso mai avevano avuto la possibilità di registrare tutti assieme. E il fatto di aver titolato l’album “4 Wheel Drive” (“Quattro ruote motrici”) è tutt’altro che casuale: in buona sostanza i quattro hanno voluto sottolineare come il gruppo non abbia un vero leader ma tutti i musicisti sono sullo stesso piano ed hanno la stessa responsabilità nella strutturazione e nell’esecuzione dei brani. Quindi, a seconda dei vari pezzi, ognuno di loro riveste ora il ruolo di solista ora quello di accompagnatore…ed essendo tutti dei maestri nei rispettivi strumenti è facile avere un’idea della qualità offerta. Qualità rafforzata dalla felice scelta del repertorio: quattro original firmati da ciascuno dei musicisti e poi una serie di cover tratte dalla produzione di alcuni giganti della musica: Paul McCartney, Billy Joel, Phil Collins e Sting. Insomma un album di chiara impostazione moderna anche se non riconducibile completamente al jazz. In effetti i quattro interpretano le cover alla luce della loro sensibilità evidenziando come gioielli della musica pop possano validamente entrare a far parte del repertorio di jazzisti di vaglia. Si ascolti con quanta sincera partecipazione Nils Landgren interpreti vocalmente “Another Day in Paradise” di Phil Collins, “Shadows in the Rain” di Sting, “Maybe I’m Amazed” di Paul McCartney mentre dal punto di vista strumentale lo si apprezza nella intro e nella parte finale di “If You Love Somebody Set Them Free”; Michael Wollny è superlativo soprattutto in “Just The Way You Are” di Billy Joel mentre Lars Danielsson fa cantare il suo cello in “That’s All”. Quanto a Wolfgang Haffner non ‘cè un solo brano in cui il suo apporto non sia determinante.

Dominic Miller – “Absinthe” – ECM
Sarà la mia natura un po’ malinconica, sarà la mia passione per il tango o comunque per le atmosfere legate a questa musica, fatto sta che ho trovato questo album del chitarrista argentino Dominic Miller semplicemente straordinario. Ben coadiuvato da Santiago Arias al bandoneon, Manu Katché alla batteria, Nicolas Fiszman al basso e Mike Lindup alle tastiere, Miller distilla le sue preziose note rifuggendo da qualsivoglia pretesa virtuosistica accompagnando l’ascoltatore nella scoperta di un universo sonoro che man mano si dipana con sempre maggior chiarezza sotto i nostri sensi. Universo disegnato con mano sicura dallo stesso Miller autore di tutti e dieci i brani in programma, in cui la bellezza della linea melodica la fa da padrona assoluta. In apertura facevo riferimento al tango: in effetti qui le atmosfere tanghere sono ricreate magnificamente dal bandoneon di Arias che non disdegna, comunque, di ricordarci che buona musica si può fare anche ricorrendo a linee, a stilemi propri del pop più significativo. E così nell’album tutti hanno un proprio spazio: splendidi Manu Katché alla batteria e Nicolas Fiszman al basso in “Christiania”, mentre Lindup si fa ammirare in “Mixed Blessing” (al sintetizzatore), in “Étude” (al piano) e nel brano di chiusura, “Saint Vincent”, di cui sottolinea ed evidenzia il toccante lirismo. Dal canto suo il leader si mette in evidenza, come strumentista, soprattutto nel già citato “Étude” caratterizzato da un crescendo di ritmo e volume e da un ostinato arpeggio di chitarra che dona al brano un andamento circolare tutt’altro che banale.

Sokratis Sinopoulos – “Metamodal” – ECM 2631
Sokratis Sinopoulos, lyra; Yann Keerim, pianoforte; Dimitris Tsekouras, contrabbasso; Dimitris Emmanouil, batteria: questi i componenti del quartetto che nel luglio del 2018 ha inciso questo album, “Metamodal”, apparso quattro anni dopo “Eight Winds”. Ma il tempo non sembra essere trascorso invano nel senso che il quartetto ha abbandonato certi toni forse un po’ troppo patinati, per avvicinarsi maggiormente ad una world music in cui le diverse influenze dei musicisti si amalgamano in un linguaggio oscillante tra musica cameristica di impostazione classicheggiante e improvvisazione jazzistica. Il tutto impreziosito da una ricerca sul suono che rimane forse la caratteristica principale dell’artista greco, sempre straordinario con la sua lyra. E per quanti non lo conoscono è forse opportuno spendere qualche parola su Sinopoulos. Dopo aver studiato chitarra classica e musica bizantina alla Tsiamoulis school – una scuola della capitale dove fa anche parte del coro dell’istituto- nel 1988 si avvicina alla lira bizantina, strumento ad arco, risalente alla Bisanzio del decimo secolo dopo Cristo. Studia altresì il liuto con Ross Daly e nello stesso periodo dà vita al suo primo gruppo musicale, i Labyrinthos,. Nel 1999 riceve il Melina Mercouri National Award, fra i più importanti premi ellenici in campo musicale, nella categoria miglior giovane artista. Nel 2010 fonda il Sokratis Sinopoulos Quartet, con cui debutta nel 2015 con il già citato album ‘Eight Winds’ mischiando tradizione e sperimentazione. Indirizzo cui non si sottrae in questo “Metamodal”: in tal senso assolutamente riuscito il connubio con il pianoforte di Yann Keerim, connubio che si lascia apprezzare in ogni brano (si ascolti solo a mò di esempio con quale e quanta delicatezza il pianista introduca la lyra di Sokratis in “Metamodal II – Illusions”). E a proposito del repertorio, occorre sottolineare come a conferma delle notevoli capacità di scrittura del leader, i nove brani del CD sono tutti composti dal leader eccezion fatta per la chiusura “Mnemosyne” riservata ad una improvvisazione collettiva. Ci siamo già soffermati su Sinopoulos e Keerim, ma il quartetto non avrebbe la valenza che ha se al contrabbasso e alla batteria non ci fossero altri due strumentisti di classe eccelsa che forniscono al tutto un delizioso tappeto ritmico-armonico.

David Torn, Tim Berne, Ches Smith – “Sun of Goldfinger” – ECM 2613

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Album sotto molti aspetti straniante questo che vede protagonisti David Torn alla chitarra elettrica, Tim Berne al sax alto e Ches Smith alla batteria cui si aggiungono nel secondo brano Craig Taborn al piano ed effetti elettronici, il quartetto d’archi Scorchio e altri due chitarristi, Mike Baggetta e Ryan Ferreira. Il fatto che il trio Torn-Berne-Smith sia giunto a questa realizzazione discografica è la logica conseguenza di una lunga collaborazione che a partire dal 2010 li ha visti protagonisti in numerosi concerti. Per non parlare del fatto che da un canto Torn e Berne vantano una fruttuosa collaborazione di vecchia data (si ricordi «Prezens», del 2007) mentre Ches Smith collabora con Berne già dal 2012 quando fu inciso «Snakeoil». Tutto ciò per inquadrare il contesto anche storico in cui l’album si inserisce e che comunque la dice lunga sul tipo di musica che si ascolta. Mattatore del primo pezzo, “Eye Meddle” è l’inesauribile Tim Berne che fornisce un’impronta precisa all’esecuzione del brano all’insegna di quel “caos organizzato” al cui interno è praticamente impossibile (ammesso che poi sia così importante) distinguere tra parti scritte e libera improvvisazione. Il linguaggio di Berne è more solito magmatico, trascinante, senza un attimo di pausa, mirabilmente sostenuto dalla batteria di Ches, mentre Torn scarica sull’ascoltatore altre vagonate di masse sonore. Il secondo brano, “Spartan, Before It Hit”, si differenzia notevolmente innanzitutto per l’allargamento dell’organico che vede impegnati anche i già citati Craig Taborn al piano ed effetti elettronici, il quartetto d’archi Scorchio e altri due chitarristi, Mike Baggetta e Ryan Ferreira. Questo ha un effetto immediato sulla musica cha appare più aperta, più strutturata in cui il quartetto d’archi ha un ruolo importante nell’evocare atmosfere più cameristiche e, perché no, godibili. Dal canto suo Craig Taborn interviene con un pianismo misurato ma del tutto pertinente e quindi capace di ricondurre a sé anche le sortite solistiche di un Berne altrimenti inarrestabile. Nella terza parte dell’album, si ritorna alle temperie del primo brano ossia a quella sorta di magma ribollente, di caos in qualche modo ordinato al cui interno rifulgono le capacità improvvisative dei singoli.

Huw Warren, Mark Lockheart – “New Day” – Cam Jazz 79442
Anche questo album fa parte delle registrazioni effettuate da Stefano Amerio per la CAM JAZZ nelle cantine del Friuli-Venezia Giulia; in particolare questa volta siamo nella cantina Livio Felluga di Brazzano di Cormòns. Protagonisti il pianista Huw Warren e il sassofonista Mark Lockheart impegnati su un repertorio di otto brani di cui cinque scritti da Warren, due da John Taylor e uno dal sassofonista. Dopo quello di Vijay Iyer e Craig Taborn ecco quindi un altro album in duo. Ora, quando ci troviamo dinnanzi ad un duo ci assale sempre il dubbio che i due artisti siano in grado di superare brillantemente una prova difficile. L’impresa appare ancora più ardua quando il mini-organico è costituito soltanto da pianoforte e sassofono. Bene, ma come si dice spesso si fanno i conti senza l’oste, ovvero senza tenere nella giusta considerazione i due musicisti che, nel caso in oggetto, sono due autentici fuoriclasse. Huw Warren l’abbiamo imparato a conoscere grazie anche alle collaborazioni con Maria Pia De Vito; il pianista e compositore gallese costituisce una delle più interessanti realtà del panorama jazzistico europeo grazie alla sua straordinaria versatilità che gli consente di affrontare con disinvoltura diversi generi musicali. Mark Lockheart è un sassofonista del jazz britannico che si è fatto le ossa come membro della grande band di Loose Tubes negli anni ’80, dopo di ché ha proseguito una brillante carriera solistica. In questo album i due offrono il meglio del loro repertorio: grande empatia, linguaggi che si compenetrano alla perfezione, capacità di articolare il discorso musicale senza far rimpiangere la mancanza di batteria e contrabbasso ché il pianoforte esalta le doti armoniche di Warren mentre il sostegno ritmico è costantemente assicurato da ambedue i musicisti in un gioco ora di chiamata e risposta ora di reciproche puntualizzazioni che mai denunciano sbandamenti o rifugi nella banalità espressiva.