RASSEGNA “PIANISTI DI ALTRI MONDI” – Società del quartetto di Milano

Se la celebrata rassegna concertistica curata dalla milanese “Società del Quartetto” fosse paragonabile a un largo fiume tranquillo, che scorre imperturbabile da anni, avremmo allora assistito, domenica 19 gennaio 2020, allo scoccare delle ore 11, a un piccolo miracolo orografico: la nascita di un nuovo affluente. Parliamo di “Pianisti di altri mondi” , rassegna in otto appuntamenti curata da Gianni Morelenbaum Gualberto, inaugurata dal concerto solistico di Vijay Iyer, pianoforte. Con questa nuova importante appendice possiamo dire che il “Quartetto”, fino al sabato istituzione nobilmente conservatrice, si apre a una descrizione della modernità più completa, a una delineazione di paesaggi sonori naturali più esaustiva. Scriveva Pasternak: ”Le correnti moderne immaginavano l’arte come una fontana, mentre è una spugna”. Vale anche per le stagioni concertistiche? Accanto alla musica come “città eterna”, rifugio agli errabondi, museo e reminiscenza, c’è la musica “viarum regina” che sperimenta, rischia, esplora ed è bello – oltre che necessario – che le due anime siano fasi di un medesimo movimento pendolare, respirino dallo stesso polmone. Saprà Milano tener fede alla propria fama di città veloce e dinamica, rispondendo a questa opportunità come merita? Intanto, la scelta del concerto inaugurale è caduta su un artista speciale. Di famiglia tamil, emigrato negli USA dove ha compiuto anche studi matematici di alto livello, Vijay Iyer, che incide per le etichette Act e ECM, ha elaborato uno stile musicale personale. Il concerto, lo dico subito, è stato impressionante. L’artista è latore di una tecnica ‘materica’ non facilmente omologabile. Pare un nuovo Jean Fautrier, il pittore che dissolve il proprio pensiero analitico nell’informale, puntando a far germinare la più lucida emozione attraverso passaggi alchemici. È il classico musicista, Iyer, che non tollera l’ascolto distratto e modella la pasta sonora momento per momento, vergando in ogni anfratto la firma inconfondibile della propria individualità. Con lui tutto è razionale e al tempo stesso imprevedibile. Come i celebri ‘Otages’ del sopracitato artista francese, le composizioni/frattali di Iyer sono autonome, ben connotate individualmente ma comunicano all’ascoltatore, in modo altrettanto chiaro, la propria natura di frammenti derivanti da una sola matrice, da un’unica Presenza: nella diversità si “abbracciano” e percepisci che l’unità espressiva è proprio lì, invisibile e celata in qualche luogo dell’immaginazione del pianista. In questo senso la sua è arte sommamente “schumanniana”. Ma non vorrei allargare troppo lo sguardo. Ovviamente in questa musica c’è molto jazz, approccio grammaticale (quasi) inevitabile oggigiorno nell’improvvisazione, un jazz comunque libero da parentele, a-geografico, che si fa puro segno e vorrebbe definirsi ‘astratto’ in mancanza di determinazioni più precise. Ma queste ultime potrebbe essere profilate forse solo per mezzo delle formule e dei teoremi così cari a Vijay. Se astratto fosse sinonimo di freddezza, va aggiunto che tale parola sarebbe sbagliatissima, giacché in questo torrente c’è anche molto fuoco. Comunque, il non riuscire facilmente a trovare definizioni costituisce un ottimo indicatore del gradiente qualitativo. Il concerto si è articolato in ampi movimenti, strutturati in ‘medley’, che hanno generato altissima tensione e attenzione nel pubblico chiedendo in cambio, com’è giusto, qualcosa alla sua capacità di concentrazione. Esteticamente possiamo parlare di una musica libera quanto elaborata, depurata da elementi inferiori. Il successo è stato vivo e convinto. Gianni Morelenbaum Gualberto ha presentato con il sorriso e un pò di commozione il ‘suo’ artista, ricordando come non sia facile ascoltarlo in solo. Personalmente, sono restato ammiratissimo. Seguiterò a presenziare a “Pianisti di altri mondi”, appuntamenti a cui ciascun cultore della Musica non dovrebbe mancare e le cui date invito a verificare sul sito del Quartetto. Il Teatro Franco Parenti, in verità più noto per la prosa che per la musica, si presta bene a questo tipo di proposte. Infine non possiamo non menzionare il sontuoso Fazioli grancoda, preparato dall’ottimo Davide Lupattelli, che ha donato la sua voce dorata e profonda alle evoluzioni immaginifiche del pianista. Da deuteragonista, merita anche lui gli applausi, unitamente a chi l’ha scelto, poichè da queste cose si distingue un buon organizzatore. Ecco la scaletta del concerto:

1. UnEasy (Vijay Iyer)
2. Work (Thelonious Monk)
3. Libra (V. Iyer)
4. For Amiri Baraka (V. Iyer)
5. Spellbound & Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea (V. Iyer)
6. Autoscopy (V. Iyer) 7. Abundance (V. Iyer)
8. Night and Day (Cole Porter / arr. Joe Henderson)
9. Children of Flint (B. Iyer)

Nico Morelli: la mia musica tra folk pugliese e jazz

Sono le nove del mattino, ora in cui connetto ancor meno del solito. Nel salotto di casa mia c’è un caro amico, il pianista, compositore e arrangiatore Nico Morelli che la sera prima ha presentato al pubblico romano la sua ultima creatura discografica, “Unfolkettable two”. L’album rappresenta un’ulteriore tappa lungo il cammino di ricerca che Nico oramai da molti anni sta percorrendo nell’intento di coniugare le forme espressive del folk pugliese con gli stilemi propri del jazz. E la nostra conversazione prende le mosse proprio dal concerto della sera prima.

“È stata – mi dice Nico – una bellissima esperienza… come sempre ogni qualvolta suoni a Roma. Ci siamo divertiti, il pubblico è stato fantastico, entusiasta… insomma la serata perfetta, si potrebbe dire. L’ultima volta che ho suonato a Roma è stato circa un anno fa, in trio all’Auditorium, questa volta, invece, alla Casa del Jazz, in quintetto con due cantanti”.

-I musicisti con cui suoni in questo quintetto sono tutti pugliesi; vogliamo ricordarli uno per uno?

“Certo che sì; Mimmo Campanale alla batteria, Camillo Pace al contrabbasso, Barbara Eramo voce e percussioni oramai romana d’adozione e Davide Berardi voce e chitarra cui si è aggiunta, come ospite d’onore, la violinista Caterina Bono specialista anche in musica contemporanea”.

Come hai conosciuto Caterina Bono?

“L’ho conosciuta a Parigi in quanto lei era venuta assieme a Barbara Eramo per esibirsi in alcuni concerti. Ci siamo incontrati e devo dire che il suo modo di suonare il violino mi ha davvero impressionato e mi pare che averla inserita in quest’ultimo concerto romano non sia stato un fatto banale”.

Sono assolutamente d’accordo con te: è stata molto brava. Tu, oramai da molti anni, porti avanti questa ricerca basata su una commistione tra la musica folk pugliese e il linguaggio jazzistico. Come ti è venuta questa idea… e il fatto di abitare a Parigi ti induce un qualche sentimento di nostalgia che ti spinge a proseguire su questa strada?

“No, onestamente non è una questione di nostalgia. L’esperienza parigina mi ha messo a confronto con tanti musicisti che vivono lì e che fanno un tipo di ricerca in qualche modo simile alla mia. Parigi, come forse anche Roma, è piena di musicisti che vengono da ogni parte del mondo, musicisti di jazz, musicisti di altre musiche che amano l’atmosfera parigina e decidono di stabilirsi in questa straordinaria città. E sin dagli inizi, parliamo di circa 20 anni fa, ho notato questa tendenza, da parte di molti jazzisti, di mettere assieme le loro differenti origini per dar vita ad un qualcosa di nuovo. E’ un’operazione a mio avviso molto interessante ed anche intelligente… non perché la faccio io… Come ben sai il jazz nasce come musica popolare, musica che racconta la storia di un popolo; poi, con il passare del tempo, il jazz è divenuto una musica sempre più sofisticata tanto da arrivare a delle forme che si discostano molto dall’identità propria di una musica popolare semplice e comunicativa. A volte dimenticando proprio quelle che sono le caratteristiche della semplicità di una musica popolare. Quindi questa ripresa, questo accostamento del jazz alla musica popolare in controtendenza alla estrema sofisticazione del jazz odierno, mi sembra un percorso estremamente interessante. In tal modo si ridà al jazz quella umanità che si può a volte perdere nelle sue attuali sofisticazioni riportando così a questa musica almeno un po’ della sua storia originaria cioè musica della gente, musica di un popolo”.

-Oltre questo indirizzo, c’è qualche altra via che persegui nella tua ricerca, nel tuo modo di esprimerti attraverso la musica e quindi nel tuo modo di comporre, di arrangiare, di suonare?

“In realtà mi sto concentrando molto sul tipo di ricerca di cui abbiamo parlato. Voglio andare quanto più in profondità possibile per cui al momento non sono distratto da altre cose. Devo comunque aggiungere che da qualche anno sto lavorando ad un progetto di piano-solo ma non posso dire che sia pronto; in effetti sto cercando di amalgamare il suono del pianoforte con quello di strumentazioni elettroniche, ma è difficile, complicato, per cui preferisco prendere tempo e presentare il lavoro quando riterrò che sia pronto, al meglio delle mie possibilità. Insomma ci sono queste due strade”.

Tornando alla commistione tra jazz e folk, qui in Italia suoni con musicisti pugliesi, il che è perfettamente comprensibile. Ma a Parigi come fai?

“In realtà questo è il secondo disco che faccio su questa tematica. Il primo l’avevo fatto con dei musicisti che risiedevano tutti a Parigi, non erano pugliesi, però c’era un calabrese – Tonino Cavallo – un musicista bretone di musica world che aveva questa straordinaria capacità di cantare in dialetto pugliese meglio dei pugliesi – Mathias Duplessy – e poi la sezione ritmica con un batterista di origini italiane – Bruno Ziarelli – e un contrabbassista francese – Stéphane Kerecki -. Quindi anche quando suono a Parigi non ho molti problemi a proseguire nella mia ricerca. Comunque da quando è uscito questo secondo album sono riuscito a far venire i miei amici pugliesi a Parigi e quindi a presentarmi al pubblico francese con questa formazione. Ovviamente è molto faticoso perché far venire gente dall’Italia non è semplice, comunque per il momento mai ho dovuto sostituirli. Se capiterà vorrà dire che mi adatterò ma per ora nessun problema”.

Il jazz vive in Italia un momento sotto molti aspetti paradossale: mentre le scuole di musica continuano a sfornare musicisti tecnicamente assai ben preparati, non si capisce bene dove e come questi giovani avranno poi la possibilità di porre in essere queste loro competenze. Qual è la situazione in Francia?

“Sostanzialmente la stessa. C’è un’inflazione di musicisti. Ma la soluzione qual è, chiudere le scuole? Non penso. Comunque questa abbondanza ha i suoi lati positivi. Ti faccio un esempio: quando io ho cominciato era molto, molto difficile trovare un contrabbassista degno di questo nome nel raggio di 200 chilometri quadrati; oggi, giù dalle mie parti ne trovi almeno cinque che è tantissimo. Certo, come dicevi tu, gli spazi si restringono…insomma la situazione è difficile, complessa. Comunque c’è da aggiungere che in questi anni la gente si è abituata a sentire di più questa sorta di parolaccia – “Jazz” – per cui d’altro canto è più facile trovare estimatori”.

Forse in Francia perché in Italia la situazione è sicuramente peggiore: gli spazi si restringono, il pubblico è in calo… per non parlare della carta stampata e dei mezzi radio-televisivi che oramai non dedicano alcuna attenzione alla nostra musica. Se ne parla solo sulla rete con tutti i limiti che ben conosciamo…

“Ti do ragione anche perché in Francia, sotto questo aspetto, le cose non sono molto diverse. La stampa ci dedica sempre meno attenzione. Al riguardo ti racconto un episodio. In Francia c’è un premio che d’abitudine veniva assegnato ad un musicista jazz; ebbene questa volta la presenza di artisti jazz era molto inferiore rispetto al passato. Negli ultimi anni il jazz si è talmente contaminato con espressioni molto più commerciali che oramai ho paura si sia troppo sbilanciato da questa parte”.

Assolutamente d’accordo. In Italia ci sono molti festival jazz che aprono e chiudono i rispettivi programmi con artisti che nulla hanno a che vedere con il jazz avendo come unica preoccupazione quella di riempire gli spazi e chiudere i conti in positivo…

“Che dire… probabilmente è anche colpa del jazz che non è riuscito ad imporsi come forma d’arte capace di sostenersi senza ‘aiuti’ esterni”.

Però questi aiuti pubblici arrivano su larga scala per la musica classica e soprattutto operistica ma nessuno si scandalizza…

“È perfettamente vero. Se non vado errato in Italia i fondi pubblici stanziati dal Ministero vanno per la gran parte alla musica lirica cosicché alle altre forme musicali vanno davvero le briciole. Vogliamo giustificare questo stato di cose con il fatto che il melodramma rappresenta la più genuina tradizione italiana? Sarà anche vero ma questa ripartizione è davvero vergognosa”.

Poco fa parlavamo della Francia. Ci sono altre differenze a tuo avviso tra il mondo del jazz francese e quello italiano?

“Non è facile rispondere a questa domanda. Comunque ti posso dire che in linea di massima l’organizzazione dei concerti è più curata in Francia. L’organizzatore pone la massima attenzione ad ogni aspetto della serata, dal palco alle luci, dalla strumentazione al fatto che la sala sia il più piena possibile. Al riguardo si adottano più strategie: all’inizio i biglietti vengono posti in vendita on-line con uno sconto; avvicinandosi il concerto un’altra parte degli invenduti viene offerta ad un prezzo ancora più basso fino a quando, a ridosso del concerto, spesso si decide di distribuire gratis i rimanenti biglietti di modo che il musicista abbia l’opportunità di esibirsi con una sala piena”.

Scusa se adesso viriamo verso un’altra direzione ma avendo davanti una persona che vive a Parigi ed essendo io un giornalista, non posso fare a meno di rivolgerti la seguente domanda. Qual è in questi giorni la vera situazione a Parigi dal momento che a mio avviso i giornali francesi tendono non dico a nascondere ma quanto meno a minimizzare tutto ciò che sta accadendo nella Capitale francese.

“E purtroppo hai perfettamente ragione. La situazione a Parigi in queste settimane è assolutamente invivibile. Nulla funziona. Non esistono più treni. Le linee della metro sono tutte ferme ad eccezione delle due che funzionano automaticamente senza personale e che attraversano la città in verticale e in orizzontale. Prendi un taxi per recarti in aeroporto e molto spesso perdi il volo perché i blocchi stradali ti impediscono di arrivare in tempo. Così si assiste a scene incredibili. Gente nervosa, gente che litiga, si picchia… e via di questo passo. Non sembra che Macron sia disposto a fornire risposte cosicché questa situazione potrebbe durare ancora a lungo”.

Adesso quando torni a Parigi?

“A metà gennaio. Ma ad aprile sarò di nuovo in Italia e il 10 suonerò all’Alexanderplatz per cui vi aspetto tutti”.

Gerlando Gatto