Il “Coro che non c’è” fa ancora una volta centro: Straordinario successo della loro versione di “Helplessly Hoping”

Poco tempo fa vi ho parlato del “Coro che non c’è” un insieme di circa 100 ragazzi provenienti dai licei e dalle università romane che si stava affermando come una delle più belle realtà musicali capitoline.

Una clamorosa conferma della validità artistica di questo coro a cappella si è avuta nei giorni scorsi; per iniziativa di una ragazza hanno deciso di tentare un’impresa difficile. Così, scelto un pezzo – il celebre “Helplessly Hoping” di Crosby, Stills Nash, contenuto nel loro album di debutto nel 1969, nell’arrangiamento degli ‘Home Free’ – si è proceduto a scrivere le varie parti. Queste sono state inviate ai singoli ragazzi che le hanno incise da casa ovviamente con strumenti tutt’altro che professionali. Una volta registrate, le varie parti sono state assemblate da un membro del coro, Leonardo Ciamberlini. Risultato il video che potrete vedere qui: https://youtu.be/KtX1r0SzxlI.

Screenshot youtube

Immediate e francamente inimmaginabili le reazioni dei social (Youtube, Twitter, Instagram). In poche ore ci sono state oltre 80.000 visualizzazioni con circa 2.500 like e soli 8 dislike, e una serie di commenti positivi provenienti in massima parte dagli States.

In particolare molte e incredibili le reazioni del mondo musicale. Ecco quindi farsi sentire proprio alcuni componenti di quel gruppo a cappella da cui, come si diceva, è stato tratto l’arrangiamento, vale a dire Adam Chance, e Rob Lundquist degli “Home Free”, dichiarare rispettivamente: “Questa è bellissima, ragazzi! Questo gruppo ha fatto una versione in quarantena del nostro arrangiamento di Helplessly Hoping, ed è veramente commovente. Guardatela. Questa è meravigliosa ragazzi! Restate al sicuro e sani e continuate a cantare!”, “Questa è bellissima”.

Home Free

Ma nessuno avrebbe potuto immaginare che si sarebbe pronunciato niente di meno che uno degli autori del pezzo, vale a dire il mitico David Van Cortlandt Crosby, il quale si è lasciato andare ad un complimento tanto lusinghiero quanto inaspettato: “Grazie Italia per avermi reso la giornata meravigliosa cantando quella canzone così bene e con un tale cuore… amo l’Italia e gli italiani e questo spirito è una delle principali ragioni. Questa ora è la mia versione preferita di questa canzone in assoluto… mi piace più della nostra versione originale.”

David Crosby

Sintetici ma efficaci i messaggi di Jamie Margulis (Snarky Puppy): “Wow… 💗💗💗💗💗   -Jamie” e di Steve Van Zandt chitarrista, cantante, attore meglio conosciuto come Little Richard, in onore di Little Richard, o come Miami Steve, soprannome datogli da alcuni amici per il fatto che pare soffrisse sempre il freddo (Miami è una delle città più calde degli Stati Uniti d’America) “Wow. È bellissimo”.

Diverse le testimonianze anche dal mondo della cultura. Così Jeff Jarvis, giornalista, professore, scrittore americano “Questo mi ha illuminato la mattinata. Attraverso il mio maestro di coro via internet.”

Significativa la notazione di Deborah Copaken scrittrice, fotogiornalista anch’ella statunitense “Giusto per contrapporla all’odio che spopola qui, eccovi una canzone che vi metterà in ginocchio con l’amore.”

Diane Lewis, giornalista ed editrice di KING-TV, rete televisiva americana, ha scritto: “Questa è sempre stata una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi. Amo questa versione. Mi fa piangere data la situazione in cui siamo, ma amerò per sempre la versione dei CSN fino alla morte.”

Dello stesso tenore il parere dell’altra giornalista dell’Atlantic e del New York Times, Rachel Donadio, secondo cui: “Ok, questo è meraviglioso. Ricordate che in italiano la H non si pronuncia.”

Ad occhi chiusi la reazione di un altro giornalista americano che scrive per il Wall Street Journal, Francis Xavier Rocca: “Piuttosto immaginatevi questo: degli studenti romani in un concerto virtuale.”

Screenshot YouTube

Bene ha interpretato lo spirito del video il critico d’arte, sociologo e saggista statunitense Howard Rheingold il quale è certo che “questo vi solleverà lo spirito. I volti e le voci della speranza.”

Entusiasta l’invito dell’arts administrator e scrittore Howard Sherman, anch’egli statunitense, “Avete visto questa bellissima Helplessly Hoping fatta da studenti italiani?”

E per non annoiarvi mi fermo qui tralasciando quindi le numerose testimonianze giunte dall’Italia nonostante il terribile momento che stiamo vivendo. Ma credo sia stato importante segnalare la voglia di questi ragazzi che amano la musica e vogliono farne una sorta di inno alla speranza che tutto passi e che si possa tornare presto alla normalità…magari, aggiungo io, con qualche differenza non proprio secondaria, rispetto al passato.

Gerlando Gatto

Napoli: la scomparsa, a soli 60 anni, del pianista Joe Amoruso, il principe delle stelle

Coltrane Circle

Io credo che esista un legame tra il jazz e la complessa struttura del cosmo. C’è un libro di Stephon Alexander, fisico e sassofonista americano (The Jazz of Physics), che approfondisce questo argomento e che racconta anche del famoso “cerchio Coltrane”, un circolo delle quinte, modificato dal grande sassofonista che amava connettere la discipline della fisica e della matematica con la musica. Coltrane posizionò le note nel cerchio collegandole con delle linee che componevano un pentacolo; partendo da questo egli formulò i suoi personalissimi pattern, che sono ormai entrati negli standard del jazz.

Io so che Joe Amoruso, il pianista dello storico gruppo di Pino Daniele (con James Senese, Rino Zurzolo – che ci ha lasciato nel 2017 – Tony Esposito e Tullio De Piscopo), scomparso ieri a sessant’anni all’Ospedale del Mare di Napoli per un arresto cardiaco, amava collegare la musica alle stelle e ai pianeti, tanto da elaborare uno studio particolare attraverso il quale, partendo da una progressione numerica e riportandola in scale musicali, formava melodie uniche per ognuno di noi, una sorta di DNA musicale dal quale sapeva riconoscere a colpo sicuro la congenialità o la difformità tra le persone.

Il supergruppo di Pino Daniele

Questa è una delle cose che mi ha raccontato il suo fraterno amico Antonio Onorato, chitarrista e compositore di fama internazionale, che ho sentito proprio questa mattina per esprimergli la mia vicinanza e per raccogliere questo suo personale ricordo: “Joe è stato un dono divino, un genio della musica, il suo talento artistico è immenso… ed io ho avuto la fortuna di conoscerlo sia umanamente sia artisticamente. Abbiamo collaborato insieme per oltre vent’anni, con concerti in tutto il mondo, nei dischi… Joe creava una magia unica quando suonava, ti ipnotizzava… tra noi c’è stato un grande sodalizio artistico e umano, non eravamo semplicemente amici, eravamo fratelli. La prima volta che lo sentii suonare fu ad un concerto di Pino Daniele, all’inizio degli anni Ottanta, c’era anche Gato Barbieri come ospite e Tullio De Piscopo… indimenticabile! La nostra amicizia era fortemente consolidata e tra noi c’erano moltissime affinità e punti in comune, oltre al fatto di essere entrambi nati sotto il segno del Capricorno, lui il 12 io il 13 gennaio. Parlavamo molto e non solo di musica ma anche degli interessi che condividevamo, come l’astronomia e l’esoterismo. Joe era molto preparato anche nell’astrologia; aveva infatti elaborato uno studio per trovare una musica personalizzata per ognuno di noi. Lo studio era basato sulla posizione dei pianeti nel momento preciso della nostra nascita e abbinando  le note relative a quei pianeti si viene a creare una melodia esclusiva per ciascuna persona; raffrontando queste melodie, che ognuno di noi ha al suo interno, si può capire quali siano i punti in comune e le note discordanti o dissonanti tra le persone. Anche da questo Joe comprendeva se due persone potevano andare o meno d’accordo. Dopo la malattia non l’ha più potuto fare ma ora potrei riprendere io questo studio, molto interessante.

Joe lo porterò sempre nel mio cuore… ho perso un fratello.”

Joe Amoruso, Udine 18.6.2016 ph. Elia Falaschi, Phocus Agency

La malattia di cui parla Antonio è l’emorragia cerebrale che lo colpì il 9 dicembre 2017, in Puglia, pochi attimi prima di un concerto. Ricordo molto bene l’episodio perché mi trovavo a San Severino Marche, dove stavo curando l’ufficio stampa per un concerto di solidarietà alle popolazioni terremotate marchigiane, che vedeva riuniti, assieme alla vocalist Mafalda Minnozzi, parecchi pezzi da novanta del jazz italiano, tra cui anche Onorato. Non posso dimenticare quei momenti né il dolore silenzioso che si poteva scorgere negli occhi di Antonio, che suonò con quell’enorme peso nel cuore. Da allora la vita di Joe cambiò radicalmente… un Golgota durato fino a ieri: la lungodegenza, la faticosa riabilitazione… hanno minato nel profondo non solo le sue forze ma soprattutto il suo animo sensibile.

Antonio Onorato Trio feat Joe Amoruso, Udine 18.6.2016 ph. Elia Falaschi, Phocus Agency

Joe Amoruso è stato un enfant prodige divenuto ben presto una delle figure di riferimento del Neapolitan Power, un nuovo linguaggio che ibridava gli idiomi del blues, del rock e i suoni elettronici alla tradizione melodica napoletana. Oltre a quelle già citate, sono molte le sue collaborazioni, da Roberto Murolo a Roberto De Simone, da Zucchero e Vasco Rossi ad Andrea Bocelli, per un progetto targato Sugar Music.

Joe era un’alchimista della musica e quella che lui componeva racchiudeva un’essenza quasi mistica; il pianista ne parla in prima persona nel libro “Accordati con me. Le alchimie della musica“ (Sigma Libri ed.) nel quale si racconta intimamente, aprendo le porte di un suo mondo interiore… immateriale, chimerico, fatto di musica, di spiritualità, di esoterismo, con semplicità e sincerità: un grande artista, anti-divo per scelta. A Udin&Jazz, nel 2016, dove ebbi modo di conoscerlo, preferì alla cena ufficiale lo spaghettino con il pomodoro fresco preparatogli dall’amica Rita, originaria di Napoli, alla quale disse: “Rita mi hai fatto uno spaghetto tale e quale come me lo fa mammà!”

Udine, 18/06/2016 Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso ph Elia Falaschi/Phocus Agency

C’è un brano, tra quelli che Amoruso ha composto, che più di ogni altro lo rappresenta, s’intitola “The Gardener” ed è inserito nel bellissimo cd “Un Grande Abbraccio” del suo amico Antonio Onorato, che lo definisce “il manifesto della sua anima” e dev’essere proprio così perché ascoltandola mi è parso di sentire l’universo e il suono delle stelle…

C’è una frase che cito spesso, proviene da uno dei libri che amo, “Il Piccolo Principe”: “E mi piace la notte ascoltare le stelle. Sono come cinquecento milioni di sonagli…”

Cinquecento milioni di sonagli e un pianoforte… il tuo Joe.

Marina Tuni©

Udine, 18/06/2016 – Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso ph Elia Falaschi/Phocus Agency

Le immagini pubblicate sono state scattate a Udine dal fotografo jazz Elia Falaschi – Phocus Agency il 18 giugno 2016 al concerto di Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso, courtesy Udin&Jazz

Manu Dibango, Bill Smith e Ray Mantilla: in pochi giorni il jazz perde tre grandi artisti

Continuano i lutti anche nel mondo del jazz, a ulteriore conferma di un inizio d’anno che definire traumatico è semplicemente eufemistico. Mentre il Coronavirus colpisce duramente in tutto il pianeta, ovviamente si continua a morire anche per altre cause; ed ecco quindi che dalla Francia e dagli States ci arrivano le ferali notizie della scomparsa di tre grandi musicisti: il sassofonista Manu Dibango, il clarinettista e compositore Bill Smith e il percussionista Ray Mantilla.

Manu Dibango con Enzo Avitabile

Contrariamente a molte altre occasioni si tratta di tre jazzisti che ho avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo ma con i quali non avevo intessuto alcun rapporto personale neanche di “buon giorno e buona sera”. Ve ne parlo, quindi, da semplice cronista e appassionato. Ma procediamo con ordine.

La notizia della scomparsa di Manu Dibango, sassofonista, compositore, vibrafonista e cantante, mi è giunta pochi minuti prima di pubblicare il ricordo di Bill Smith e Ray Mantilla, rendendo, se possibile, la mia giornata più pesante.

Manu Dibango è uno di quegli artisti la cui fama aveva superato i confini del jazz,  grazie al successo internazionale dell’album “Soul Makossa” del 1972, e detiene il non invidiabile primato di essere stato il primo jazzista di fama internazionale ad essersene andato a causa di questa sconvolgente pandemia: era stato ricoverato la scorsa settimana in un ospedale parigino dopo essere stato trovato positivo al test per il coronavirus.

Manu Dibango, affettuosamente soprannominato “Papy Groove”, nasce in Camerun, a Douala il 12 dicembre 1933 per spegnersi a Parigi questa mattina (24 marzo 2020). Evidenzia una grande predisposizione per la musica sin da bambino cosicché, all’età di 15 anni, i suoi lo mandano a studiare musica a Parigi. Qui viene affascinato soprattutto dal jazz e dalla musica della sua terra che mai ha dimenticato. Studia quindi con interesse questi due linguaggi e negli anni sessanta, mentre si sviluppa il movimento africano per l’indipendenza, entra a far parte degli “African Jazz”. In quest’ambito nasce quello stile che lo renderà famoso in tutto il mondo, uno stile che mescola jazz, soul, musica del Congo e dello Zaire, e che trova la sua più esemplare declinazione in quel brano “Makossa” accennato in precedenza. E’ l’inizio di una strepitosa carriera che lo porta a collaborare con moltissimi musicisti e a incidere innumerevoli album. Tra queste collaborazioni ricordiamo quella con il sassofonista napoletano Enzo Avitabile per l’album “Black Tarantella”, e all’annuncio della dipartita dell’amico camerunense, addolorato è stato il suo commento «Purtroppo il mio grande amico Manu Dibango si é spento stamane a causa di questo maledetto virus. Quanti concerti insieme, quanti ricordi. Sono addolorato!». Cordoglio che in queste ore viene manifestato da tanti musicisti e appassionati che hanno avuto modo di apprezzare la carica innovativa insita nella sua musica, quella straordinaria intuizione di capire, ben prima della world music, che la musica africana potesse ben essere esportata negli altri continenti senza alcunché perdere della sia originaria valenza. A conferma di tutto ciò le molteplici nomination al Grammy, le nomine di Ambasciatore dell’Unesco e di Cavaliere delle Arti in Francia, nonché la pubblicazione della sua autobiografia “Tre chili di caffè – vita del padre dell’afro music” per i tipi in Italia della Edt.

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Bill Smith

William Overton Smith, detto “Bill”, nasce il 22 settembre del 1926 a Sacramento ma cresce a Oakland, California. Scompare nella sua casa di Seattle, all’età di 93 anni, per le complicazioni di un tumore alla prostata, dopo una lunga e straordinaria carriera che l’ha visto tra i protagonisti assoluti del jazz contemporaneo.

Comincia a studiare il clarinetto all’età di 10 anni, a 13 costituisce un gruppo di musica da ballo, a 15 fa parte della Oakland Symphony. A seguito di approfonditi studi, diversifica i suoi interessi occupandosi sia di jazz sia di musica colta. Così negli anni ’50 si afferma sulle scene del West Coast Jazz accanto al pianista Dave Brubeck del cui gruppo è una colonna importante. Contemporaneamente il suo ‘Five Pieces for Clarinet Alone’ diviene nel 1959 la prima composizione, mai registrata, con uso di suoni multipli per clarinetto. Nello stesso anno realizza presso i Columbia-Princeton Electronic Music Studios di New York il primo lavoro che integra una esecuzione del clarinetto dal vivo con un nastro registrato composto da suoni dello stesso clarinetto trasformati. Alcuni anni dopo partecipa, con Paul Ketoff a Roma, allo sviluppo del primo sintetizzatore elettronico portatile e del primo microfono per clarinetto. Nel 1960 completa il suo catalogo di oltre 200 suoni multifonici per clarinetto. All’attività di musicista affianca quella di didatta: dal 1966 dirige presso l’Università di Washington il Contemporary Music Ensemble.

Oltre cinquanta i dischi incisi con le etichette Columbia, Rca, New World, Contemporary Crystal e Edipan. A conferma della sua straordinaria statura di musicista da segnalare che Luigi Nono gli ha dedicato il suo concerto per clarinetto.

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Ray Mantilla – ph Arturo Di Vita

Completamente diverso il percorso artistico di Ray Mantilla, batterista e percussionista di origine cubana molto conosciuto in Italia per aver inciso a lungo con la Red Record di Sergio Veschi e aver lavorato sia con il M’Boom Re Percussion fondato da Max Roach, sia con altri grandissimi jazzisti quali, tanto per fare qualche nome, Tito Puente, Art Blakey, Max Roach, Gato Barbieri, Charles Mingus, Herbie Mann, Bobby Watson, Cedar Walton, Muhal Richard Abrams, Ray Barretto…Negli anni ’80 costituisce la sua Ray Mantilla Space Station, con cui raggiunge risultati di assoluto livello. Insomma un vero e proprio gigante delle percussioni amato e apprezzato in tutto il mondo.

Ray Mantilla nasce nel 1934, nel South Bronx, e già all’età di vent’anni, si esibisce a New York, con uno stile del tutto personale che riesce a fondere le sue radici afro-cubane con il linguaggio jazz contemporaneo dell’epoca. Il successo come side-man arriva quando comincia a collaborare con Art Blakey ed i Jazz Messengers, con cui rimane per diverso tempo negli anni ’70. Debutta come solista nel 1978 con ‘Mantilla’ per la Inner City (con Eddie Gomez al basso, Joe Chambers alla batteria, Car Ratzer alle chitarre e Jeremy Steig nella duplice veste di flautista e produttore) ma bisognerà attendere il 1984, quando viene pubblicato “Hands of Fire” (Red Records), perché la carriera da solista acquisti definitivo slancio. Da questo momento Mantilla si dedica quasi esclusivamente a gruppi da lui guidati tra cui la “European Space Station” formata da musicisti italiani

Nel 2017 il suo ultimo album, “High Voltage” per Savant Records con Jorge Castro al sax baritono e flauto, Cucho Martinez al basso, Diego Lopez alla batteria, Edy Martinez al piano, Ivan Renta al sax tenore e soprano e Guido Gonzalez alla tromba e flicorno.

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Jimmy Heath

E consentitemi in questa sede di ricordare un altro grande scomparso il 19 gennaio scorso a 93 anni, per cause naturali: il sassofonista Jimmy Heath, vera e propria leggenda del jazz americano. Conosciuto nell’ambiente come ‘Little Bird’ per l’influenza che Charlie ‘Bird’ Parker ebbe sul suo passaggio al sassofono tenore, Jimmy nasce il 25 ottobre 1926 a Filadelfia, Pennsylvania, in una famiglia evidentemente baciata dalla dea dell’arte dal momento che la sorella diventa pianista e i due fratelli Percy e Albert rispettivamente bassista e batterista.

Jimmy si interessa alla musica sin da giovanissimo e a 13 anni ha in dono il suo primo sassofono da cui mai si separerà. Negli anni ‘50 anch’egli ha problemi con la droga e viene condannato a quattro anni e mezzo di prigione per spaccio. Fortunatamente si libera dalla dipendenza e impara a suonare il flauto, approfondendo gli studi di composizione e arrangiamento. Il suo primo album, «The Thumper», risale al 1959 e accanto al sassofonista ci sono il fratello Albert, Paul Chambers al basso, Nat Adderley alla cornetta, Wynton Kelly al piano, Curtis Fuller al trombone. A partire dai primissimi anni ’60, Jimmy Heatyh rimane sulla cresta dell’onda lavorando con nomi come Miles Davis, John Coltrane e Dizzy Gillespie. In particolare nel 1975, forma con i fratelli il gruppo “Heath Brothers”, comprendente anche il pianista Stanley Cowell.

Nel corso della sua lunga carriera Heath partecipa sia come side-man sia come leader ad oltre 100 album, ottenendo tre Grammy Nomination e un dottorato onorario in Lettere Umanistiche presso il “Queens College, City University of New York”.

 Gerlando Gatto

I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

I video dei grandi concerti storici di 30 anni di Udin&Jazz dal 21 marzo sul sito web di Euritmica!

La nostra testata lo segue da diversi anni e il nostro direttore lo considera “una delle manifestazioni più interessanti dell’intero panorama jazzistico italiano, per il giusto mix tra musicisti internazionali e italiani con una particolare attenzione verso gli artisti friulani, alla valorizzazione del territorio e dei relativi prodotti”. Stiamo parlando di Udin&Jazz, Festival Internazionale che compie quest’anno trent’anni. E in attesa della trentesima edizione, in programma (virus Covid-19 permettendo) tra giugno e luglio 2020, per ricordare i momenti più emozionanti e i grandi musicisti che nel corso degli anni si sono esibiti sui vari palchi della regione Friuli Venezia Giulia, Euritmica ha deciso di aprire il proprio archivio e di diffondere, a partire dal 21 marzo 2020, i video di alcuni tra i concerti più significativi dei suoi 30 anni di storia (tra questi Abdullah Ibrahim, Michel Petrucciani, Ornette Coleman, John Zorn, Charles Lloyd). Ne saranno felici, come lo siamo noi, i tanti jazzofili, costretti a casa in questo drammatico periodo per le misure atte a contenere la diffusione del corona virus, che potranno così gustare comodamente online alcune autentiche perle inedite di ottimo jazz.

Udine, 26.6.2005 – Abdullah Ibrahim – ph Luca A. d’Agostino

Si inizia il 21 marzo con il primo dei concerti, online dalle 12: Abdullah Ibrahim in Piano Solo, dal Teatro Palamostre di Udine il 26 giugno 2005 (XV edizione)
I concerti saranno visibili a rotazione, con cambio ogni due giorni, all’interno della sezione speciale sulla homepage del sito www.euritmica.it, mentre sulle pagine Facebook di Udin&Jazz ed Euritmica sono già disponibili quotidianamente pillole video di altri concerti jazz, con alcuni spezzoni di significative performance del Festival

Top jazz tra avanguardia e tradizione, grandi nomi internazionali e italiani, e molta attenzione alla valorizzazione dei talenti locali, fanno di Udin&Jazz un unicum culturale che, nel tempo, ha consentito anche la nascita di un vero e proprio movimento jazz in FVG. L’importante rassegna è da sempre organizzata da Euritmica, associazione culturale con sede a Udine che propone e realizza attività culturali e musicali in tutta la regione.

Udine, 27.6.2009, Ornette Coleman – ph Luca A. d’Agostino

Ricordiamo che nel corso di questi 30 anni, Udin&Jazz ha ospitato artisti del calibro di Max Roach, Stan Getz, Jim Hall, Michel Petrucciani, Paul Bley, Pat Metheny, James Brown, Cassandra Wilson, Bill Frisell, Michael Brecker, Bill Evans, Joe Zawinul, McCoy Tyner, Charlie Haden, Ahmad Jamal, B.B. King , Ornette Coleman, Charles Lloyd, Archie Shepp, John Zorn, Dionne Warwick, Paul Simon, Chris Cornell, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Vinicio Capossela, Ezio Bosso, Mario Biondi e tanti, tantissimi altri, di alcuni dei quali sarà possibile, in questi tempi di forzato isolamento, gustare i concerti comodamente on line.

Oltre allo storico festival Udin&Jazz, Euritmica ha organizzato negli anni: Incontri Jazz a Gorizia, Jazz Terminal aTrieste, Jazz Time al teatro Verdi di Codroipo, Tra Miti e Sorgenti nella Bassa Friulana, Le vie della Musica, OndeSea, Festival del Cinema Mediterraneo a Grado, Onde Mediterranee (Medaglia d’Argento del Presidente della Repubblica per meriti culturali) e Lettere Mediterranee, ora a Cervignano ma per anni anche a Monfalcone e in diverse altre località, Note Nuove, a Udine e in vari centri della regione e MusiCarnia, a Tolmezzo e in varie località carniche. Euritmica cura inoltre, da quindici anni, la sezione musica della stagione artistica del Teatro Pasolini di Cervignano ed ha anche portato in regione grandi eventi in ambito diverso dal jazz tra Udine, Villa Manin (Codroipo) e Palmanova: Goran Bregovic, i Madredeus, Franco Battiato, Pino Daniele, Bob Dylan, Mark Knopfler, Andrea Bocelli, Paolo Conte, Renzo Arbore e la sua Orchestra…

Udine, 28/06/2004 – John Zorn Electric Masada – Foto Luca d’Agostino

dalla Redazione di A Proposito di Jazz

Crediti fotografici: Luca A. d’Agostino / Phocus Agency

 

BANDCAMP SOSTIENE GLI ARTISTI!

Il noto sito di vendita di musica online oggi azzererà le commissioni sulle vendite.

Il messaggio è stato pubblicato direttamente sul sito di Bandcamp da Ethan Diamond, il fondatore della piattaforma Bandcamp (che è una delle più vantaggiose per i musicisti indipendenti): mentre il Coroavirus si espande a grande velocità tour e concerti sono stati cancellati, e l’unica fonte di reddito per i musicisti è rimasta la vendita on line.

Per dare un contributo Bandcamp si è impegnata, venerdi 20 marzo, dalla mezzanotte alla mezzanotte successiva (Pacific Time, che vuol dire per noi dalle 8 a.m. di venerdì alle 8 a.m. di sabato) a non caricare la sua percentuale sulle vendite ma a lasciare l’intera somma agli artisti.

Jazzit insieme a JazzdanielsA proposito di Jazz e Jazzespresso ha già creato l’hashtag #AiutaLaMusica , e cliccando qui potrete trovare l’elenco degli artisti che hanno condiviso i loro lavori, molti proprio sulla piattaforma Bandcamp.