Napoli: la scomparsa, a soli 60 anni, del pianista Joe Amoruso, il principe delle stelle

Coltrane Circle

Io credo che esista un legame tra il jazz e la complessa struttura del cosmo. C’è un libro di Stephon Alexander, fisico e sassofonista americano (The Jazz of Physics), che approfondisce questo argomento e che racconta anche del famoso “cerchio Coltrane”, un circolo delle quinte, modificato dal grande sassofonista che amava connettere la discipline della fisica e della matematica con la musica. Coltrane posizionò le note nel cerchio collegandole con delle linee che componevano un pentacolo; partendo da questo egli formulò i suoi personalissimi pattern, che sono ormai entrati negli standard del jazz.

Io so che Joe Amoruso, il pianista dello storico gruppo di Pino Daniele (con James Senese, Rino Zurzolo – che ci ha lasciato nel 2017 – Tony Esposito e Tullio De Piscopo), scomparso ieri a sessant’anni all’Ospedale del Mare di Napoli per un arresto cardiaco, amava collegare la musica alle stelle e ai pianeti, tanto da elaborare uno studio particolare attraverso il quale, partendo da una progressione numerica e riportandola in scale musicali, formava melodie uniche per ognuno di noi, una sorta di DNA musicale dal quale sapeva riconoscere a colpo sicuro la congenialità o la difformità tra le persone.

Il supergruppo di Pino Daniele

Questa è una delle cose che mi ha raccontato il suo fraterno amico Antonio Onorato, chitarrista e compositore di fama internazionale, che ho sentito proprio questa mattina per esprimergli la mia vicinanza e per raccogliere questo suo personale ricordo: “Joe è stato un dono divino, un genio della musica, il suo talento artistico è immenso… ed io ho avuto la fortuna di conoscerlo sia umanamente sia artisticamente. Abbiamo collaborato insieme per oltre vent’anni, con concerti in tutto il mondo, nei dischi… Joe creava una magia unica quando suonava, ti ipnotizzava… tra noi c’è stato un grande sodalizio artistico e umano, non eravamo semplicemente amici, eravamo fratelli. La prima volta che lo sentii suonare fu ad un concerto di Pino Daniele, all’inizio degli anni Ottanta, c’era anche Gato Barbieri come ospite e Tullio De Piscopo… indimenticabile! La nostra amicizia era fortemente consolidata e tra noi c’erano moltissime affinità e punti in comune, oltre al fatto di essere entrambi nati sotto il segno del Capricorno, lui il 12 io il 13 gennaio. Parlavamo molto e non solo di musica ma anche degli interessi che condividevamo, come l’astronomia e l’esoterismo. Joe era molto preparato anche nell’astrologia; aveva infatti elaborato uno studio per trovare una musica personalizzata per ognuno di noi. Lo studio era basato sulla posizione dei pianeti nel momento preciso della nostra nascita e abbinando  le note relative a quei pianeti si viene a creare una melodia esclusiva per ciascuna persona; raffrontando queste melodie, che ognuno di noi ha al suo interno, si può capire quali siano i punti in comune e le note discordanti o dissonanti tra le persone. Anche da questo Joe comprendeva se due persone potevano andare o meno d’accordo. Dopo la malattia non l’ha più potuto fare ma ora potrei riprendere io questo studio, molto interessante.

Joe lo porterò sempre nel mio cuore… ho perso un fratello.”

Joe Amoruso, Udine 18.6.2016 ph. Elia Falaschi, Phocus Agency

La malattia di cui parla Antonio è l’emorragia cerebrale che lo colpì il 9 dicembre 2017, in Puglia, pochi attimi prima di un concerto. Ricordo molto bene l’episodio perché mi trovavo a San Severino Marche, dove stavo curando l’ufficio stampa per un concerto di solidarietà alle popolazioni terremotate marchigiane, che vedeva riuniti, assieme alla vocalist Mafalda Minnozzi, parecchi pezzi da novanta del jazz italiano, tra cui anche Onorato. Non posso dimenticare quei momenti né il dolore silenzioso che si poteva scorgere negli occhi di Antonio, che suonò con quell’enorme peso nel cuore. Da allora la vita di Joe cambiò radicalmente… un Golgota durato fino a ieri: la lungodegenza, la faticosa riabilitazione… hanno minato nel profondo non solo le sue forze ma soprattutto il suo animo sensibile.

Antonio Onorato Trio feat Joe Amoruso, Udine 18.6.2016 ph. Elia Falaschi, Phocus Agency

Joe Amoruso è stato un enfant prodige divenuto ben presto una delle figure di riferimento del Neapolitan Power, un nuovo linguaggio che ibridava gli idiomi del blues, del rock e i suoni elettronici alla tradizione melodica napoletana. Oltre a quelle già citate, sono molte le sue collaborazioni, da Roberto Murolo a Roberto De Simone, da Zucchero e Vasco Rossi ad Andrea Bocelli, per un progetto targato Sugar Music.

Joe era un’alchimista della musica e quella che lui componeva racchiudeva un’essenza quasi mistica; il pianista ne parla in prima persona nel libro “Accordati con me. Le alchimie della musica“ (Sigma Libri ed.) nel quale si racconta intimamente, aprendo le porte di un suo mondo interiore… immateriale, chimerico, fatto di musica, di spiritualità, di esoterismo, con semplicità e sincerità: un grande artista, anti-divo per scelta. A Udin&Jazz, nel 2016, dove ebbi modo di conoscerlo, preferì alla cena ufficiale lo spaghettino con il pomodoro fresco preparatogli dall’amica Rita, originaria di Napoli, alla quale disse: “Rita mi hai fatto uno spaghetto tale e quale come me lo fa mammà!”

Udine, 18/06/2016 Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso ph Elia Falaschi/Phocus Agency

C’è un brano, tra quelli che Amoruso ha composto, che più di ogni altro lo rappresenta, s’intitola “The Gardener” ed è inserito nel bellissimo cd “Un Grande Abbraccio” del suo amico Antonio Onorato, che lo definisce “il manifesto della sua anima” e dev’essere proprio così perché ascoltandola mi è parso di sentire l’universo e il suono delle stelle…

C’è una frase che cito spesso, proviene da uno dei libri che amo, “Il Piccolo Principe”: “E mi piace la notte ascoltare le stelle. Sono come cinquecento milioni di sonagli…”

Cinquecento milioni di sonagli e un pianoforte… il tuo Joe.

Marina Tuni©

Udine, 18/06/2016 – Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso ph Elia Falaschi/Phocus Agency

Le immagini pubblicate sono state scattate a Udine dal fotografo jazz Elia Falaschi – Phocus Agency il 18 giugno 2016 al concerto di Antonio Onorato Trio feat. Joe Amoruso, courtesy Udin&Jazz

Manu Dibango, Bill Smith e Ray Mantilla: in pochi giorni il jazz perde tre grandi artisti

Continuano i lutti anche nel mondo del jazz, a ulteriore conferma di un inizio d’anno che definire traumatico è semplicemente eufemistico. Mentre il Coronavirus colpisce duramente in tutto il pianeta, ovviamente si continua a morire anche per altre cause; ed ecco quindi che dalla Francia e dagli States ci arrivano le ferali notizie della scomparsa di tre grandi musicisti: il sassofonista Manu Dibango, il clarinettista e compositore Bill Smith e il percussionista Ray Mantilla.

Manu Dibango con Enzo Avitabile

Contrariamente a molte altre occasioni si tratta di tre jazzisti che ho avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo ma con i quali non avevo intessuto alcun rapporto personale neanche di “buon giorno e buona sera”. Ve ne parlo, quindi, da semplice cronista e appassionato. Ma procediamo con ordine.

La notizia della scomparsa di Manu Dibango, sassofonista, compositore, vibrafonista e cantante, mi è giunta pochi minuti prima di pubblicare il ricordo di Bill Smith e Ray Mantilla, rendendo, se possibile, la mia giornata più pesante.

Manu Dibango è uno di quegli artisti la cui fama aveva superato i confini del jazz,  grazie al successo internazionale dell’album “Soul Makossa” del 1972, e detiene il non invidiabile primato di essere stato il primo jazzista di fama internazionale ad essersene andato a causa di questa sconvolgente pandemia: era stato ricoverato la scorsa settimana in un ospedale parigino dopo essere stato trovato positivo al test per il coronavirus.

Manu Dibango, affettuosamente soprannominato “Papy Groove”, nasce in Camerun, a Douala il 12 dicembre 1933 per spegnersi a Parigi questa mattina (24 marzo 2020). Evidenzia una grande predisposizione per la musica sin da bambino cosicché, all’età di 15 anni, i suoi lo mandano a studiare musica a Parigi. Qui viene affascinato soprattutto dal jazz e dalla musica della sua terra che mai ha dimenticato. Studia quindi con interesse questi due linguaggi e negli anni sessanta, mentre si sviluppa il movimento africano per l’indipendenza, entra a far parte degli “African Jazz”. In quest’ambito nasce quello stile che lo renderà famoso in tutto il mondo, uno stile che mescola jazz, soul, musica del Congo e dello Zaire, e che trova la sua più esemplare declinazione in quel brano “Makossa” accennato in precedenza. E’ l’inizio di una strepitosa carriera che lo porta a collaborare con moltissimi musicisti e a incidere innumerevoli album. Tra queste collaborazioni ricordiamo quella con il sassofonista napoletano Enzo Avitabile per l’album “Black Tarantella”, e all’annuncio della dipartita dell’amico camerunense, addolorato è stato il suo commento «Purtroppo il mio grande amico Manu Dibango si é spento stamane a causa di questo maledetto virus. Quanti concerti insieme, quanti ricordi. Sono addolorato!». Cordoglio che in queste ore viene manifestato da tanti musicisti e appassionati che hanno avuto modo di apprezzare la carica innovativa insita nella sua musica, quella straordinaria intuizione di capire, ben prima della world music, che la musica africana potesse ben essere esportata negli altri continenti senza alcunché perdere della sia originaria valenza. A conferma di tutto ciò le molteplici nomination al Grammy, le nomine di Ambasciatore dell’Unesco e di Cavaliere delle Arti in Francia, nonché la pubblicazione della sua autobiografia “Tre chili di caffè – vita del padre dell’afro music” per i tipi in Italia della Edt.

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Bill Smith

William Overton Smith, detto “Bill”, nasce il 22 settembre del 1926 a Sacramento ma cresce a Oakland, California. Scompare nella sua casa di Seattle, all’età di 93 anni, per le complicazioni di un tumore alla prostata, dopo una lunga e straordinaria carriera che l’ha visto tra i protagonisti assoluti del jazz contemporaneo.

Comincia a studiare il clarinetto all’età di 10 anni, a 13 costituisce un gruppo di musica da ballo, a 15 fa parte della Oakland Symphony. A seguito di approfonditi studi, diversifica i suoi interessi occupandosi sia di jazz sia di musica colta. Così negli anni ’50 si afferma sulle scene del West Coast Jazz accanto al pianista Dave Brubeck del cui gruppo è una colonna importante. Contemporaneamente il suo ‘Five Pieces for Clarinet Alone’ diviene nel 1959 la prima composizione, mai registrata, con uso di suoni multipli per clarinetto. Nello stesso anno realizza presso i Columbia-Princeton Electronic Music Studios di New York il primo lavoro che integra una esecuzione del clarinetto dal vivo con un nastro registrato composto da suoni dello stesso clarinetto trasformati. Alcuni anni dopo partecipa, con Paul Ketoff a Roma, allo sviluppo del primo sintetizzatore elettronico portatile e del primo microfono per clarinetto. Nel 1960 completa il suo catalogo di oltre 200 suoni multifonici per clarinetto. All’attività di musicista affianca quella di didatta: dal 1966 dirige presso l’Università di Washington il Contemporary Music Ensemble.

Oltre cinquanta i dischi incisi con le etichette Columbia, Rca, New World, Contemporary Crystal e Edipan. A conferma della sua straordinaria statura di musicista da segnalare che Luigi Nono gli ha dedicato il suo concerto per clarinetto.

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Ray Mantilla – ph Arturo Di Vita

Completamente diverso il percorso artistico di Ray Mantilla, batterista e percussionista di origine cubana molto conosciuto in Italia per aver inciso a lungo con la Red Record di Sergio Veschi e aver lavorato sia con il M’Boom Re Percussion fondato da Max Roach, sia con altri grandissimi jazzisti quali, tanto per fare qualche nome, Tito Puente, Art Blakey, Max Roach, Gato Barbieri, Charles Mingus, Herbie Mann, Bobby Watson, Cedar Walton, Muhal Richard Abrams, Ray Barretto…Negli anni ’80 costituisce la sua Ray Mantilla Space Station, con cui raggiunge risultati di assoluto livello. Insomma un vero e proprio gigante delle percussioni amato e apprezzato in tutto il mondo.

Ray Mantilla nasce nel 1934, nel South Bronx, e già all’età di vent’anni, si esibisce a New York, con uno stile del tutto personale che riesce a fondere le sue radici afro-cubane con il linguaggio jazz contemporaneo dell’epoca. Il successo come side-man arriva quando comincia a collaborare con Art Blakey ed i Jazz Messengers, con cui rimane per diverso tempo negli anni ’70. Debutta come solista nel 1978 con ‘Mantilla’ per la Inner City (con Eddie Gomez al basso, Joe Chambers alla batteria, Car Ratzer alle chitarre e Jeremy Steig nella duplice veste di flautista e produttore) ma bisognerà attendere il 1984, quando viene pubblicato “Hands of Fire” (Red Records), perché la carriera da solista acquisti definitivo slancio. Da questo momento Mantilla si dedica quasi esclusivamente a gruppi da lui guidati tra cui la “European Space Station” formata da musicisti italiani

Nel 2017 il suo ultimo album, “High Voltage” per Savant Records con Jorge Castro al sax baritono e flauto, Cucho Martinez al basso, Diego Lopez alla batteria, Edy Martinez al piano, Ivan Renta al sax tenore e soprano e Guido Gonzalez alla tromba e flicorno.

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Jimmy Heath

E consentitemi in questa sede di ricordare un altro grande scomparso il 19 gennaio scorso a 93 anni, per cause naturali: il sassofonista Jimmy Heath, vera e propria leggenda del jazz americano. Conosciuto nell’ambiente come ‘Little Bird’ per l’influenza che Charlie ‘Bird’ Parker ebbe sul suo passaggio al sassofono tenore, Jimmy nasce il 25 ottobre 1926 a Filadelfia, Pennsylvania, in una famiglia evidentemente baciata dalla dea dell’arte dal momento che la sorella diventa pianista e i due fratelli Percy e Albert rispettivamente bassista e batterista.

Jimmy si interessa alla musica sin da giovanissimo e a 13 anni ha in dono il suo primo sassofono da cui mai si separerà. Negli anni ‘50 anch’egli ha problemi con la droga e viene condannato a quattro anni e mezzo di prigione per spaccio. Fortunatamente si libera dalla dipendenza e impara a suonare il flauto, approfondendo gli studi di composizione e arrangiamento. Il suo primo album, «The Thumper», risale al 1959 e accanto al sassofonista ci sono il fratello Albert, Paul Chambers al basso, Nat Adderley alla cornetta, Wynton Kelly al piano, Curtis Fuller al trombone. A partire dai primissimi anni ’60, Jimmy Heatyh rimane sulla cresta dell’onda lavorando con nomi come Miles Davis, John Coltrane e Dizzy Gillespie. In particolare nel 1975, forma con i fratelli il gruppo “Heath Brothers”, comprendente anche il pianista Stanley Cowell.

Nel corso della sua lunga carriera Heath partecipa sia come side-man sia come leader ad oltre 100 album, ottenendo tre Grammy Nomination e un dottorato onorario in Lettere Umanistiche presso il “Queens College, City University of New York”.

 Gerlando Gatto