Jazz sì… ma col fischio! Cenni di whistling story

Risentendo alla radio le risposte di fischiettio collocate nel brano sanremese “Viceversa” di Francesco Gabbani, son venuti in mente frammenti di passato e presente di questo “strumento” un po’ Cenerentola che è il fischio.

All’inizio risalendo mnemonicamente, a proposito di favole, al ritornello di “Impara a fischiettar”, la “Whistle While You Work” del film “Biancaneve e sette nani” del 1937,
confluito poi – come “Someday My Prince Will Come” della stessa pellicola – in contesti “maggiorenni” quale ad esempio il 45 giri del 1961 di Piero Umiliani, seguendo cioè la scia di tante canzoni disneyane, già patrimonio dell’umanità giovanile, divenute adulte, “Whistle While You Work” assumeva nel titolo finalità didattica e divulgative a favore di questo strumento non costoso, facile da trasportare e, come la voce, tipicamente umano (In parallelo a quei virtuosi che hanno la capacità di produrre suoni da parti del corpo, Nana Vasconcelos con la cassa toracica, Demetrio Stratos con il canto difonico, in grado di articolare armonici composti di due o tre note).
Il fischio, forse per una strana “triste” leggiadria non scevra dai richiami “aulici” degli antichi aulos, ha un proprio indiscusso fascino. Si associa ad altri contesti come lo yodeling ed è tipico di musiche etniche anche primitive oltre che di musicisti e gruppi contemporanei, vedansi in Italia Vasco Rossi (“Vivere”), Litfiba (“È il mio corpo che cambia”), Lucio Dalla (“Com’è profondo il mare”), il mitico Lucio Battisti (“Umanamente uomo: il sogno”); e, a livello internazionale, gli Scorpions (“Wind of Change”), Bob Sinclair (“World, Hold On”), OneRepublic (“Good Life”), Maroon 5 (“Moves Like Jagger feat. Christina Aguilera”), Flo Rida (“Whistle”) e persino nell’attacco di “Sofia” di Alvaro Soler.

Lucio Dalla

Il fischio ha avuto risalto nel cinema con la colonna sonora di “Per un pugno di dollari”, di Sergio Leone, simbolo maximum del fischio-western e grazie alla Whistle Song resa celebre da Kill Bill di Quentin Tarantino, rielaborata di recente dalla sassofonista salernitana Carla Marciano nell’album “Psychosis”, della Challenge, dedicato al compositore Berhard Herrmann.

Altri esempi-modello la marcetta militare fischiettata, soundtrack del film “Il ponte sul fiume Kway” di David Lean del 1957 e la più recente performance, in “Loro 2” di Sorrentino, di Elena Somaré, una eccellenza italiana e al femminile della “disciplina”, degna erede di Alessandro Alessandroni, storico maestro del fischio in spaghetti-western. E, dato che la Somaré è nell’Italia del jazz, la migliore ‘fischiatrice’, vale forse la pena dedicarle qualche parola in più.

Elena Somaré

Nata a Milano in una famiglia in cui l’arte è di casa, dopo aver studiato fotografia dal 2007 inizia a dedicarsi alla musica per fischio melodico e studia per due anni armonia e ritmica con il maestro Lincoln Almada. Dal 2007 al 2011 collabora con l’orchestra di Massimo Nunzi Nel 2011 incide il suo primo CD, colonna sonora della Mostra multimediale “Il Fischio Magico” alla Casina di Raffaello di Roma. In questi anni avviene l’incontro con il jazz per merito – come racconta la stessa Somaré – di Ada Montellanico che la invita sul palco dello storico Alexanderplatz di Roma a fischiettare qualche brano. Nell’aprile 2016 esce il suo secondo disco, “Incanto”, dedicato alla melodia napoletana dal 1500 ad oggi. Nell’aprile del 2018 ecco il suo terzo album “Aliento” distribuito da Audioglobe e dedicato alla musica sudamericana.

Insomma anche l’Italia, con la Somaré, fa parte di tutto un mondo che ruota attorno a questo settore “sibilante”. Basta guardare i video disponibili su youtube di varie World Whistling Championships per rendersene conto. Lì si trova una forte presenza di materiali classici.

Elena Somaré

E il jazz whistling? Intanto il blues offre vari esempi possibili a partire dal fischio corposo del pianista nero Whistlin’ Alex Moore a quello “orchestrato” in “Whistler’s Blues” di Milton Orent con Mary Lou Williams e la Frank Roth Orchestra (archive.org/details/78). Nel campo della soul/black music svetta l’inarrivabile Otis Redding in “Sittin’on The Dock of the Bay”.

Uno specialista del fischio jazz è stato Ron McCroby unitamente al clarinettista Brad Terry ed è da segnalare il melodioso canto di Muzzy Marcellino. Gran successo fra i jazzisti ha raggiunto Bobby McFerrin con “Don’t Worry, Be Happy”, precisando che il fischio è solo un esempio del suo vasto repertorio vocale (speech, trumpet like, falsetto, scat, body percussion, beatboxing, twang, qualità operistica; cfr. Marco Fantini, “Le voci di McFerrin”: magia o prestigio? vocologicamente.blogspot.com – vocologicamente.blogspot.com).

BobbyMcFerrin

In Europa vanno citati il vocalist francese Henry Salvador, quello di “Siffler en travaillant” (“Whistle While You Work”) e l’armonicista belga Toots Thielemans, inimitabile nella sua “Bluesette”, unitamente agli italiani Antonello Salis e Livio Minafra i quali spesso sogliono usare il fischio concatenato al tema od alla impro di tastiera o fisarmonica. La procedura è grossomodo quella di Keith Jarrett che doppia con la voce il pianoforte, di George Benson che si sovrappone come un octaver alla chitarra e, in passato, di Slam Stewart che soleva duplicare con la voce la linea del contrabbasso: il “comando” dal cervello, nel prevedere i suoni prodotti, li sdoppia su due binari e cioè strumento e voce (o fischio) che diventa una sorta di eco sincronizzata, un secondo canto unisonico.

Toots Thielemans

L’effetto, anche col fischio, è piacevole. Del resto Giacomo Puccini, in “Madama Butterfly”, ha dimostrato che persino a bocca chiusa si può intonare musica di grande bellezza! Chissà, forse sta arrivando la rivincita di questo strumento “di dentro”, che non va preso in mano come una conchiglia, un fischietto, un sonaglio, un’ocarina, un piffero, strumenti più accreditati causa la loro materialità. In un’epoca di tecnologie di alterazione canora tipo vocoder et similia il recupero esteso di questa tecnica vocale potrebbe valere come occasione per un più generale imparare a fischiettar. C’è infatti un ritorno abbastanza diffuso a tale forma flessibile di comunicazione primordiale che risale a San Francesco d’Assisi, ai crociati che diramavano ordini per gli arcieri, agli abitanti di La Gomera, nelle Canarie, che usano il silbo gomero, antico linguaggio fischiato tipico di quest’Isola dei fischi celebrata dal film di Corneliu Porumboiu del 2019. Darwin insegna. Si confida che il fischiettare continui a fiorire, come uno spontaneo “fenomeno” di normalità, da sorgente sonora che nasce dalla congiunzione delle labbra, massa fluida che diventa tono, suono dal cortile di casa, come quello di mio padre che chiamava i familiari fischiando le prime note di “Summertime”. Un suono cangiante che può dar l’idea di nullafacente, malinconico, malandrino e tentatore, approvazione, buonumore, meraviglia, allegria, aiuto, fatica, utile ai pastori erranti per ordinare al gregge il percorso così come per i mandriani nella prateria nell’orientare le bestie affidate loro. Il fischio è dunque un forte segnale comunicativo, chi sta sulle sue e se ne infischia è colui che “non fa il fischio”. E se il fischio nelle orecchie è stridio fastidioso, il fischio melodico è invece sentimento incantatore, sibilo che diventa musica, jazz quando va oltre la melodia e inventa note che tagliano in tutta libertà l’aria col proprio soffio leggero.

Amedeo Furfaro

Antibes/Juan-les-Pins 60 anni e non sentirli: Il programma del più longevo festival del jazz europeo

Decano dei festival di jazz in Europa, “Jazz à Juan” d’Antibes/Juan-les-Pins (dal 9 al 22 luglio) – che è stato il primo dei grandi festival estivi a annunciare il suo programma – ha posto l’accento per la sua 60° edizione sui fondamentali che hanno portato alla sua nascita e alla reputazione internazionale di cui gode oggi, vale a dire il jazz, con le inevitabili deviazioni verso il soul e il funk.

Presentata congiuntamente nel quadro del Bal Blomet a Parigi, da Audouin Rambaud, vicesindaco di Antibes, delegato al Turismo, e Philippe Baute, direttore dell’ufficio del Turismo sempre di Antibes, questa edizione 2020 si basa su alcuni grandi nomi che hanno fatto la leggenda della manifestazione, senza comunque dimenticare la nuova generazione.

Se si prescinde da Ibrahim Maalouf, che si è sempre rifiutato di “fare del jazz” (18 luglio) e una serata hip-hop funky con “The Soul Rebels”, di New Orléans, e “The Roots” (11 luglio), Marcus Miller, Herbie Hancock, Wynton Marsalis, Joe Lovano e Gregory Porter, faranno vibrare quella splendida Pineta Gould che ha visto, nel corso di sei decenni, sfilare tutto il gotha del jazz e quindi ospitato concerti mitici come quello di John Coltrane e del suo quartetto, nel luglio del 1965 con l’unica presentazione live del suo capolavoro “A Love Supreme” o quello di Miles Davis il 25 luglio 1969 con Wayne Shorter sax soprano e sax tenore, Chick Corea al Fender Rhodes piano elettrico, Dave Holland basso e Jack DeJohnette batteria presentando alcuni  brani che avrebbero fatto parte del suo straordinario “Bitches Brew”, concerto a cui era presente l’amico nonché direttore del sito che mi ospita, Gerlando Gatto.

L’apertura, il 9 luglio, sarà affidata a due figure del jazz funky, il sassofonista che si è posto in evidenza nell’orchestra di James Brown, Maceo Parker, e il bassista (nonché clarinettista) Marcus Miller che si è già esibito ben 14 volte a Juan, ovviamente in differenti organici. Una carta bianca sarà assegnata al musicista che questa volta farà salire sul palco, in veste di “very special guests”, altri artisti la cui identità è tenuta rigorosamente nascosta.

In chiusura si esibirà una vera e propria leggenda del rhythm’n’blues, il multi-premiato ai Grammy Wards e generatore di successi, Lionel Richie, et soprattutto una nuova e giovane voce venuta dal Canada, la cantante Dominique Fils-Aimé, che affascina per la soavità del suo timbro.

I momenti salienti del jazz

Nella programmazione del Festival non saranno dimenticati quanti sono stati capaci di trasmettere la tradizione del jazz nonché di interpretare il vero spirito di questa musica, personaggi sempre più rari anche per le problematiche legate all’età degli stessi.

Ecco quindi Herbie Hancock che, sulla soglia degli 80 anni (il 12 aprile), si esibirà il 17 luglio, quindi ben 57 anni dopo la prima apparizione con il quintetto di Miles Davis, e non v’è dubbio alcuno che anche questa volta saprà scaldare il pubblico con le sue tastiere sull’onda di un jazz binario, elettrico e fusion.

Il tandem Lee Ritenour (chitarra)/Dave Grusin (tastiere), e poi Wynton Marsalis (tromba) e Joe Lovano (saxes), incarnano questa generazione di mezzo che cresciuta nel rispetto della tradizione, hanno successivamente assicurato il passaggio del testimone.

Se i primi due traggono la loro ispirazione da un jazz-rock molto ritmato e si esibiranno il 13 luglio in apertura del concerto di Gregory Porter, Wynton Marsalis, alla guida della big band “Jazz at Lincoln Center Orchestra” (JLCO), si è risolutamente impegnato, oramai da molti anni, nella preservazione di un patrimonio e di un repertorio che ha costituito la quinta essenza del jazz (il 10 luglio).

Quanto a Lovano, “sideman di lusso” nel gruppo di Diana Krall, già à Juan anche lo scorso anno, viene a ben ragione considerato uno degli elementi di punta nel panthéon del sax e in questa occasione si esibirà con il suo nuovo quintetto “Sound Prints”, con Dave Douglas (tromba).

Ma un Festival del Jazz a Juan deve avere anche delle esclusive. Ecco quindi due dive.

Melody Gardot sarà accompagnata dall’ Orchestre Philarmonique de Monte-Carlo (12 luglio – nella prima parte il Trio d’Eric Legnini). E soprattutto una delle ultime vere dive della grande epoca della soul music e del rhythm’n’blues degli anni ’60, Diana Ross (76 anni il 16 luglio), volto della Motown, che sia con sia senza il suo gruppo vocale composto da sole donne, “The Supremes”, ha collezionato successi a livello internazionale. Questo sarà il suo primo concerto a Juan.

E a proposito delle nuove generazioni?

Preoccupati di dare una chance ai giovani che dovrebbero assicurare la perennità del jazz, gli organizzatori hanno invitato parecchi talenti emergenti. E’ il caso del giovane e brillante pianista originario di Bali, Joey Alexander (10 luglio – 16 anni appena), consacrato da Herbie Hancock, e l’eccellente virtuoso francese dell’accordéon Vincent Peirani (14 luglio), associato abitualmente al suo compagno di strada, Emile Parisien (sax-soprano) in seno al quintetto “Living Being”, che pratica una musica molto audace , frenetica, caratterizzata  da alti décibels e da un repertorio molto variegato che va da Led Zeppelin a Sonny & Cher …a Henry Purcell !

Spazio ancora alla gioventù con la batterista/cantante e compositrice francese Anne Pacéo (18 luglio), la Tom Peng New Grass Band, venuta de Shanghai, la cui musica originale s’inspira a quelle di Mongolia e di Cina, se non del sud degli Stati Uniti (!), e il pianista israeliano Tom Oren (14 luglio), già sideman del contrabbassista Avishai Cohen e del sax-tenore Eli Degibri.

Senza dimenticare la tradizionale serata gospel (19 luglio) con il duo africano Amadou & Mariam e i Blind Boys of Alabama.

In margine al Festival sarà proposta la “Jammin’ Summer Session”, emanazione estiva del mercato annuale del jazz battezzato “Jammin’ Juan”, che è una sorta di crogiuolo delle scoperte e delle rivelazioni del domani. L’edizione 2020 si terrà dal 2 al 5 dicembre.

Didier Pennequin / (Membro dell’ “Académie du Jazz” de France)

Peppo Spagnoli, ovvero la storia in dischi del jazz italiano

Dopo McCoy Tyner eccomi a commemorare un altro grande del jazz scomparso in questi giorni: Peppo Spagnoli era nato ad Arcisate, in provincia di Varese, il 4 dicembre 1934. Il mondo della musica lo conosceva come un grande appassionato di jazz, ma Peppo nel corso della sua vita ha sempre coltivato altre due grandi passioni, la pittura e la buona cucina.

La sua creatura, la casa discografica Splasc(H) (acronimo di “Società promozione locale arte spettacolo e cultura” completato con l’acca tra parentesi per ottenere, appunto, Splasc(H) nacque nel 1982. In realtà si trattava di una cooperativa che avrebbe dovuto intervenire nel sociale per mezzo di scambi culturali tra le città e la provincia, soprattutto, attraverso gli spettacoli. Senonché l’aver nominato Peppo Spagnoli, da sempre appassionato di jazz, come presidente della cooperativa, fece sì che l’interesse si spostasse immediatamente verso la musica. Nacque così il n.1 del catalogo Splasc(H), il disco di Gianni Basso “Lunet” con Klaus Koenig (p) Isla Ecjinger (b) Peter Schidlin (dr). Da allora è stato un continuo di uscite discografiche (superato il numero di 900) guidate da un intento ben chiaro: dare spazio a quel jazz italiano che già evidenziava segni di grande maturità ma che ancora non trovava sufficiente spazio nella discografia italiana e tanto meno in quella internazionale.

Oggi il disco ha perso gran parte dell’importanza avuta in passato; se ne producono molti ma se ne vendono davvero pochi per cui il CD assolve la funzione più che altro del biglietto da visita con cui il musicista si presenta ai critici e agli appassionati. “Oggi manca tutto, la cultura, l’interesse” affermava lo stesso Spagnoli parlando della crisi del disco, determinata anche da internet e dalla connessa possibilità di scaricare i brani.  Ma negli anni ’80 la situazione era completamente diversa: il disco serviva a veicolare lo stato di salute non solo del jazz come movimento ma anche del singolo artista. Non dimentichiamo che all’epoca un disco ben fatto, ben riuscito, contribuiva in maniera decisiva a decretare il successo di un artista. Di qui la necessità, per un produttore discografico, di avere l’occhio lungo, di saper percepire in anticipo la valenza di un musicista. E non v’è dubbio alcuno che tali capacità Peppo Spagnoli le aveva: basti ricordare che nel 1984 la Splasc(H) pubblicò il primo disco a nome di Paolo Fresu – “Ostinato” – con Roberto Cipelli, Tino Tracanna, Attilio Zanchi e Ettore Fioravanti.

Ma gli artisti giovani valorizzati da Peppo sono stati davvero molti: tanto per fare qualche nome Arrigo Cappelletti, Giuseppe Emmanuele e Luca Flores, artista al quale era rimasto particolarmente legato: “Lo ricordo con grande affetto – ha dichiarato Peppo nel corso di un’intervista – Ero rimasto molto colpito dalla sua arte e dal suo modo di suonare. In lui non vi era solo tecnica, ma anche emozione. In qualche modo, con la sua produzione artistica, è rimasto legato a me.”

Peppo era davvero instancabile tanto che la sua etichetta, in brevissimo tempo, riuscì a superare il numero dei 100 album pubblicati, divenendo sostanzialmente lo specchio più esaustivo del jazz italiano. Egli seguiva le sue creature in maniera quasi maniacale: oltre a occuparsi della registrazione e della produzione, grazie al suo grande talento pittorico, dipingeva le copertine dei vari album, che alla fine sono risultati dei veri e propri pezzi unici dedicati al jazz nostrano.

E quanto i musicisti italiani siano grati a questo straordinario personaggio è testimoniato dalle dichiarazioni rilasciate in queste ore. Così Paolo Fresu riconosce che “se oggi la nostra musica è ricca è anche per merito suo che l’ha catalogata permettendoci di raccontarla al mondo intero”

Accorate e commosse le parole di Roberto Ottaviano: “Mi mancherà molto la sua presenza ma soprattutto mancherà molto il suo slancio autentico e sincero, il suo mecenatismo a tutto il Jazz Italiano, quello blasonato e non, che a lui deve molto”.

Poche ma sentite parole da Tiziana Ghiglioni: “Grazie Peppo Spagnoli! Hai fatto tanto per il jazz italiano! Un grande amico!”.

E questa rassegna dei ricordi da parte dei musicisti potrebbe continuare ancora a lungo ma l’importante è sottolineare come la sensazione generalizzata sia quella della scomparsa di una figura fondamentale per lo sviluppo del jazz italiano.

Ma l’entusiasmo per la buona musica spinse Peppo anche al di fuori dei confini nazionali, creando la “World Series” con lavori di Anthony Braxton, Dave Douglas, Tim Berne, Henry Texier, David S. Ware e tanti altri. Non è, quindi, un caso se numerosi album della Splasc(H) figurano nella “Penguin Guide to Jazz”.

Personalmente ho conosciuto Peppo nei primissimi anni ’80, quando la Splasc(H) muoveva i primi passi e ho subito avuto l’impressione di trovarmi dinnanzi ad un grande, grande appassionato di jazz che coniugava questo amore con una profonda conoscenza dell’universo jazzistico soprattutto nazionale. “Carattere particolare dell’etichetta – affermava Spagnoli – è quello di offrire una musica fresca, nuova, sempre in divenire. Direi alla pari con le espressioni e le manifestazioni che caratterizzano questa musica in tutto il mondo”.

Quando usciva un disco che Spagnoli riteneva particolarmente importante, ci scappava una telefonata ma non tanto per sentire il mio parere quanto per illustrarmi i motivi che l’avevano spinto a produrre quel disco, a spiegare il perché aveva privilegiato quel musicista rispetto ad altri. Ed era una sorta di vulcano in perenne eruzione, sempre spinto sia da un incontenibile entusiasmo, sia dalla voglia di scoprire nuovi talenti. Ogni tanto ci si vedeva di persona ed erano interminabili chiacchierate, naturalmente incentrate sullo stato di salute del jazz italiano. Alle volte non ci trovavamo d’accordo su alcune valutazioni, ma Peppo mai perdeva la sua carica di buonumore e così, con il solito sigaro in bocca, mi diceva “vedrai che tra poco mi darai ragione”. E spesso non sbagliava.

Insomma un vero e proprio personaggio carismatico, capace di dare davvero una svolta decisiva alla crescita del jazz nazionale.

E consentitemi di chiudere indirizzando alla moglie Enrica e alla sua famiglia un pensiero affettuoso da parte di tutto lo staff di “A proposito di Jazz”.

Gerlando Gatto

McCoy Tyner: un immortale non può morire.

Rimuginando, questa notte, su che cosa avrei scritto sulla scomparsa, a 81 anni, di McCoy Tyner ho pensato che ci sono molti verbi che hanno lo stesso significato di “morire” e uno di essi è “spirare”. Spirare è un verbo che ricorda il vento o il respiro… aria in movimento che trasforma ciò che sfiora in qualcosa di completamente nuovo.

Ecco, McCoy Tyner è un respiro agitatore e rivoluzionario che ha trasformato il pianismo jazz degli ultimi decenni sia dal punto di vista espressivo, riscrivendone i linguaggi con una visione del tutto innovativa, sia dal punto di vista tecnico, sviluppando i concetti dell’improvvisazione modale e reimpiantando le radici africane del jazz nel fervido humus della scena jazzistica coeva.

La sliding door di McCoy Tyner si apre nel momento in cui egli decide di lasciare, dopo soli 6 mesi, il Jazztet hard-bop di Benny Golson, dove suonava assieme ai gemelli Art e Addison Farmer, Curtis Fuller e Dave Bailey. Tyner ebbe a dichiarare, in una datata intervista, che scelse di andare dove sarebbe stato veramente felice, ovvero rispondendo alla chiamata di John Coltrane. Trane, dopo aver suonato con Miles Davis e Thelonius Monk voleva formare un suo gruppo, come band-leader.

Fu così che nacque il leggendario John Coltrane Quartet nella cui formazione c’era Trane al sax tenore e soprano, McCoy Tyner al pianoforte (che sostituì Steve Kuhn), Elvin Jones alla batteria e Steve Davis al basso. Dopo alcuni cambiamenti di bassisti, nel 1961 subentrò stabilmente Jimmy Garrison: quattro veri giganti che in carriera si sono esibiti sia come band-leader, sia come sideman (seppur di lusso!) del fior fiore della musica jazz ma che con questo quartetto hanno certamente conquistato l’immortalità! Nei cinque anni di attività, il John Coltrane Quartet è il generatore di quella musica che  ha contribuito a mutare il corso della storia del jazz: parliamo di album come “My Favorite Things” (dove la title track è una rilettura modale del brano di Richard Rodgers), “Live At The Village Vanguard” “Impressions”, il capolavoro in forma di suite “A Love Supreme” e non si può pensare a quei suoni e a quelle atmosfere se non considerando il fondamentale apporto del pianoforte di Mr.Tyner alla stessa stregua del sassofono di Coltrane.

​Purtroppo, la magica alchimia che si era creata all’interno del quartetto si sfascia a seguito di un alterco con Jones e alla decisa sterzata di Trane verso il free jazz, il pianista lascia dunque il gruppo per fondare un suo Trio, che tuttavia non decolla immediatamente.

Tra il 1967 e 1970 Tyner incide alcuni album con l’etichetta Blue Note, continuando sulla scia dell’hard bop: “The Real McCoy”, “Time for Tyner”, “Tender Moments”, “Expansions” (con Wayne Shorter e Ron Carter nientepopodimeno che al violoncello!) ed “Extensions”.

Photo by Bonnie Schiffman

Dopo il passaggio alla Milestone, registra un live dal Montreaux Jazz Festival, “Enlightenment”, con la potente “Walk Spirit, Talk Spirit”. Alla fine della sessione Tyner dice al sassofonista Azar Lawrence che quella è stata la miglior performance della sua vita. Non c’era una sola pagina scritta!

Tyner fu sempre fedele alla strumentazione acustica, tranne in qualche felice occasione, come in “Sahara”, sensazionale brano dove il pianista si cimenta anche con percussioni e con una sorta di cetra giapponese e nell’album “Trident”, dove suona voce celeste (strumento idiofono a percussione, simile al pianoforte N.d.A) e clavicembalo. Sperimentazione e ricerca d’alto rango.

Udin&Jazz 1996: photo by Luca d’Agostino Phocus Agency

Tra gli anni ’80 e ’90 la sua attività – e popolarità – si esprime ai massimi livelli, non potendo citare tutta la sua enorme discografia e collaborazioni, mi limiterò a ricordare gli album di quel periodo per me irrinunciabili: “The Turning Point”, con la sua big band, “McCoy Tyner Plays John Coltrane: Live at the Village Vanguard”, che contiene una delle mie ballad dell’anima, “Naima”; “McCoy Tyner with Stanley Clarke and Al Foster”, uno strano album dove le melodie modali si mescidano al funk e al blues; “lluminations” registrato con Gary Bartz, Terence Blanchard, Christian McBride e Lewis Nash, che vince un Grammy Award come miglior album strumentale nel 2005.

Poderoso e propulsivo. Sono i due aggettivi che mi sovvengono se penso al pianismo di McCoy Tyner, ho scritto ieri notte sulla mia bacheca Facebook e qui aggiungo anche la assoluta perfezione della sua mano sinistra.

Questo 2020 è iniziato davvero male per la musica jazz.

Un ultimo ricordo per questo immenso artista, la cui scia espressiva continua e continuerà ad ispirare innumerevoli musicisti: il 21 giugno del 1996 McCoy Tyner suonò a Udine, al Festival Udin&Jazz, al Cinema Cristallo, con il suo trio composto da Avery Sharpe, al basso, Aaron Scott alla batteria e con il featuring di Michael Brecker.

Udin&Jazz 1996: photo by Luca d’Agostino Phocus Agency

Ne parlavo con il direttore artistico del Festival (che quest’anno festeggia i 30 anni), Giancarlo Velliscig: fuori diluviava ma all’interno l’atmosfera era bollente, la sala gremita, l’entusiasmo alle stelle e gli applausi senza fine…

In scaletta la strepitosa “Impressions” di Coltrane e nel finale una composizione originale  “Flying High”.

Già. Vola alto Mr. Alfred McCoy Tyner.

Marina Tuni

Udin&Jazz 1996: photo by Luca d’Agostino Phocus Agency

 

Si ringrazia il fotografo jazz Luca d’Agostino – Phocus Agency per le immagini del concerto di McCoy Tyner a Udin&Jazz il 21 giugno 1996.

McCoy Tyner e il quarto d’ora di ritardo

Ho sempre amato molto il mio lavoro, ma in questo periodo, lo confesso, un po’ meno: il fatto è che sempre più spesso mi trovo seduto davanti al computer per commemorare qualcuno che se n’è andato, molto spesso qualcuno che ho conosciuto, apprezzato ed ammirato. Oggi il dispiacere è duplice perché il mondo del jazz ha dovuto subire una duplice perdita: McCoy Tyner e Peppo Spagnoli, l’uno straordinario e impareggiabile pianista, l’altro produttore discografico senza il quale probabilmente il jazz italiano non sarebbe assurto agli onori di oggi.

Ma consentitemi per il momento di soffermarmi su McCoy Tyner ché di Spagnoli parlerò domani.

Chi sia stato il pianista di Filadelfia e cosa abbia rappresentato per l’evoluzione del jazz lo spiega assai chiaramente nel contributo qui accanto Marina Tuni per cui non mi pare sia necessario aggiungere altro.

Io invece voglio raccontarvi un episodio che mi ha coinvolto personalmente da cui traspare la grandezza non solo dell’artista ma anche e soprattutto dell’uomo.

E’ il gennaio del 1996 e l’ambasciata norvegese mi invita ad assistere al Festival Jazz di Molde in programma dal 15 al 20 luglio. Naturalmente accetto in quanto si tratta di una delle più belle realtà musicali del Vecchio Continente. Istituito nel 1961, il Festival sito in questa cittadina della Norvegia situata nella contea di Møre og Romsdal, ha visto transitare nel corso degli anni alcuni dei più bei nomi del jazz internazionale, oltre ovviamente i “campioni” del jazz norvegese quali, tanto per fare qualche esempio, Jon Balke (1975), Karin Krog (1978), Knut Riisnæs (1984), Terje Rypdal (1985, 1986, 1988) e Jon Eberson. Anche il cartellone del 1996 è di tutto rispetto con la presenza, tra gli altri, di Meredith D’Ambrosio, James Carter, Søyr, Bob Dylan… ma l’evento clou è rappresentato dalla performance del gruppo di McCoy Tyner con Avery Sharpe al contrabbasso, Aaron Scott alla batteria, e, in veste di ospite, Michael Brecker al sax tenore.

Tyner era da sempre uno di quei musicisti che avrei voluto intervistare per cui prima del concerto mi rivolgo all’ufficio stampa del festival per vedere se fosse possibile organizzare un incontro con il pianista all’ora e nel luogo in cui egli avesse deciso. Dopo appena un’oretta l’ufficio stampa mi risponde dicendomi che McCoy Tyner era disponibile e che mi attendeva in camerino un quarto d’ora dopo il concerto.

Sinceramente non stavo nella pelle; il concerto è straordinario come sempre: il pianista non si risparmia dando un saggio più che eloquente del perché venisse considerato uno dei più grandi pianisti del jazz di tutte le epoche.

Emozionato come un bambino, trascorso il quarto d’ora convenuto, mi reco nel camerino ma lui non c’è; passano dieci minuti ed ecco comparire sulla soglia McCoy Tyner in maniche di camicia, visibilmente affaticato ma sorridente. Mi tende la mano e mi dice “I’m sorry, I’m late” dopo di che si siede accanto a me e mi spiega per filo e per segno i motivi del suo ritardo.

Ma vi rendete conto? Un gigante come McCoy Tyner che chiede scusa per un leggero ritardo quando mi è capitato diverse volte di aspettare per un’intervista mezz’ore intere con personaggi che non valgono un’unghia di Tyner.

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Quasi inutile dire che l’intervista si è svolta in un clima particolarmente caldo, quasi affettuoso, con il pianista che ha risposto a tutte le mie domande.

Ecco un episodio forse piccolo ma per chi conosce il mondo della musica credo possa essere significativo di ciò che era McCoy Tyner e di come amava rapportarsi con gli altri.

Gerlando Gatto

Dodo Versino: “la realizzazione del progetto è nel suo esistere, non nella sua diffusione”

Vorrei immediatamente sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo: mi interesso di questa esperienza musicale perché vi è coinvolto mio figlio? Assolutamente no in quanto il “piccolo” Gatto ha già al suo attivo anche prestigiose incisioni, con un altro celebrato coro, di cui mai ho parlato in questa sede. Allora ne tratto perché si tratta di un nuovo strepitoso gruppo di jazz? Sbagliato anche questo.

Come ben sapete “A proposito di jazz” si occupa di jazz… ma non solo. Essendo assolutamente indipendente, il sito tratta anche altre forme musicali purché, ovviamente, di un certo livello artistico.

Ebbene “Il coro che non c’è”, di cui vi parlo oggi, questo livello artistico a mio avviso l’ha già raggiunto imponendosi come una delle realtà più belle e innovative del panorama musicale romano. Nato dall’aggregazione di un centinaio di giovani dai 14 ai 22 anni, provenienti da vari licei romani (Albertelli, De Sanctis, Keplero e Visconti), nel giro di pochissimo tempo il coro, che canta a cappella sotto la direzione del maestro Dodo Versino, ha ottenuto risultati strabilianti: i video su Youtube sono diventati virali, a “Tú sí que vales” ha intonato un medley dei Queen che ha impressionato sia i 4 giudici sia il pubblico (e l’esclusione dalla finale si spiega forse con la difficoltà di gestire burocraticamente un coro con moltissimi minorenni), ha cantato al MIUR, nel dicembre 2019 è stato invitato al Quirinale per una sorpresa al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, si è esibito in due occasioni nella prestigiosa cornice dell’Auditorium (una prima volta nel corso della serata “1 x Tutti”,  in favore dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù e successivamente ha preso parte al VokalFest 2020, il festival della voce e della musica vocale, insieme ad altre sei formazioni provenienti da tutta Italia). Di recente ha registrato un video caricato su Youtube, quale testimonial di un’iniziativa che ha lo scopo di promuovere il Numero verde contro il fumo dell’ISS 800 55 40 88 quale strumento di supporto per superare la dipendenza, attraverso una comunicazione «smart» e «giovane per i giovani». Il video, girato e ambientato a scuola, presso il liceo Cavour di Roma, con la regia di Marco Signoretti e la direzione artistica di Dodo Versino, contiene la canzone “Stop what you’re doing”, composta da Gabriele D’Angelo e Massimo Fava e invita alla presa di coscienza e al cambiamento, individuale e collettivo.

Insomma un successo davvero incredibile che non era certo possibile prevedere e che non a caso ha suscitato l’interesse dei più importanti quotidiani nazionali.

Ma quali i perché di simile affermazione? A queste ed altre domande risponde direttamente il direttore del coro, il vulcanico Dodo Versino, egli stesso profondo conoscitore e amante del canto corale.

-Cominciamo dal nome. Perché “Il coro che non c’è”?

“Mi piaceva l’idea di creare un gruppo di fantasia, un gruppo che non esiste, un gruppo che – come dice la nostra presentazione – non ha una fissa dimora, non ha una sede, non ha un repertorio fisso, non ha un organico fisso, non ha una divisa, non ha un logo e quindi mi piaceva il legame con questo spazio immaginario al cui interno dei ragazzi ‘persi’ nella loro passione per il canto, trovassero un’occasione per ritrovarsi e cantare insieme. Quando i ragazzi si ritrovano assieme, ad esempio in attesa di effettuare una registrazione televisiva, spontaneamente un gruppo si raduna e comincia a cantare… poi si aggiungono gli altri e il coro si compone. Ciò che di questa realtà mi piace particolarmente è il fatto che la stessa è partita da una loro iniziativa più che mia. Così gli uni hanno cominciato a frequentare le prove degli altri, a conoscersi tra di loro, al “Festival di Primavera” di Montecatini così come in altre occasioni. E’ chiaro che in una certa misura io li ho spinti a conoscersi a frequentarsi, ma ripeto, il tutto è nato dalla loro disponibilità per cui ad esempio io mi ritrovo alle prove di un liceo e sono arrivati sette, otto da un altro liceo per venire a conoscere altri ragazzi che hanno questa stessa passione. Così hanno cominciato a conoscersi, a frequentarsi, a vivere insieme al di fuori delle prove raggiungendo quell’amalgama che si può apprezzare nelle loro performance. Ecco, per rispondere compiutamente alla sua domanda, mi sembrava giusto dare al coro un nome che in qualche modo rispondesse a questa bella fantasia”.

Se non sbaglio attualmente i ragazzi sono 102. Ma ciò significa che il numero può aumentare, diminuire…?

“In realtà i ragazzi attivi sono un’ottantina. Su WhatsApp siamo un centinaio ma ci sono molti ragazzi che non vengono alle prove o che si fanno vedere solo saltuariamente. A “Tú sí que vales” eravamo 102 perché abbiamo coinvolto dei ragazzi che ancora non fanno parte del “Coro che non c’è” ma che avendo preso parte del video dei Queen provenendo dai cori dei licei, abbiamo pensato che era giusto coinvolgerli anche in questa impresa. Ovviamente quella che ci spinge è una logica inclusiva ma abbiamo pensato che sarebbe opportuno includere nel coro quei ragazzi da un canto particolarmente motivati e dall’altro effettivamente in grado di cantare bene. All’inizio abbiamo preso un po’ tutti coloro che mostravano un certo entusiasmo e che provenivano o dai diversi cori dei licei in cui io insegno o da altre scuole in cui ho insegnato nel passato più o meno recente. Oggi un minimo di selezione c’è: per entrare, come già detto, devi essere motivato, devi essere intonato e devi conoscere il repertorio che presentiamo. Adesso che stiamo crescendo abbiamo istituito una sorta di laboratorio in cui entra chi vuole far parte del coro, passa un periodo di apprendistato, se vuole di studio, e quindi entra da titolare nel coro una volta che conoscerà bene i brani in repertorio”.

-A proposito: come scegliete il repertorio?

“Il repertorio pesca prevalentemente dal pop, dalla musica popolare italiana e internazionale, qualche elemento dai gospel e dagli spiritual. Anche in questo caso il tutto è frutto di una collaborazione: in parte sono io che propongo sulla base delle mie preferenze e del mio universo musicale, dall’altro sono i ragazzi che mi sottopongono dei brani a loro particolarmente cari come è capitato per il fortunato medley dei Queen. Ci tengo a sottolineare che una volta scelto il brano noi lo arrangiamo insieme; ovviamente non tutti ma in venticinque, trenta; io durante l’estate lancio il messaggio “chi vuole venire ad arrangiare questo brano?”; di solito mi rispondono circa venti ragazzi e così ci riuniamo e procediamo a studiare e arrangiare il brano, operazione, le assicuro, tutt’altro che banale. Ovviamente “l’azionista di maggioranza” dell’arrangiamento rimango io, perché sono l’unico a possedere alcune competenze specifiche (relative ad esempio all’articolazione delle sezioni, gli intervalli necessari ecc.) che ne rendono possibile la realizzazione. Noi arrangiamo incidendo direttamente sul multi traccia e questo ci consente alla fine di verificare se i nostri sforzi sono approdati a qualcosa di positivo o no. Quest’estate ad esempio abbiamo lavorato su diversi brani, tra cui “Ex’s & Oh’s” di Elle King, brano contemporaneo proposto al gruppo appunto da una nostra corista”.

-Come lei stesso ha avuto occasione di dichiarare in altre interviste, nel coro ci sono elementi assai differenziati, c’è chi sa solo cantare ma senza alcuna esperienza, c’è chi ha l’orecchio assoluto e c’è chi può vantare esperienze corali di diversi anni. Come riesce a fondere queste competenze così diversificate? In particolare che ruolo rivestono i ragazzi più preparati rispetto a quelli meno esperti?

“I ragazzi più preparati sono preziosi perché servono da supporto, da sostegno, da buon esempio ai meno preparati. Io stesso quando sono entrato in un coro tanti anni fa ero accanto a due bassi bravissimi e seguendo loro soprattutto attraverso le registrazioni (li registravo proprio con un ingombrante registratore a nastro che trascinavo con me a ogni prova) ho imparato molto. Quindi tornando al “Coro che non c’è” i più bravi, i più preparati non solo supportano l’ensemble ma aiutano a crescere tutti gli altri. Questi ultimi, dal canto loro, devono prepararsi più che bene, devono impegnarsi il doppio per raggiungere il livello richiesto e se non lo fanno glielo facciamo notare. Arrivare alle prove preparati, dopo aver studiato le partiture è particolarmente importante. Comunque ci tengo a precisare che nel corso della mia vita ho visto dei ragazzi all’inizio non particolarmente capaci che grazie allo studio, alla passione e alla partecipazione sono negli anni letteralmente sbocciati e diventare degli ottimi cantori e questa, mi creda, è una grandissima soddisfazione: io ho visto trascinati diventare trascinatori”.

-Quando vi è capitato di esibirvi live, che tipo di reazione avete registrato da parte del pubblico?

“Di solito reagisce molto bene sia perché facciamo cose note e/o molto efficaci, così non è un caso che sia il medley dei “Queen” sia “Carezze” di Marco Maiero (musicista, direttore di coro e compositore friulano, ndr) stiano nella stessa scaletta perché entrambi hanno un impatto, un’efficacia per cui sono in grado di dire qualcosa, di dare un’emozione al pubblico. Con ciò intendo dire che non è tanto importante presentare la hit, importante è che quello che fai abbia un suo messaggio e che i ragazzi in primis lo sentano come un proprio messaggio. Se noi prendiamo il brano più bello mai scritto nella storia della musica, ma per qualche motivo a loro non piace o non li convince perché ad esempio non sono soddisfatti dell’arrangiamento, è molto probabile che quel brano non abbia la stessa efficacia. I ragazzi sono i primi ad adorare (quasi sempre) i brani che cantiamo”.

-Lei poco fa ha parlato di messaggio; quale messaggio?

“Il messaggio che diamo con il coro è che si può fare bene, che si può fare qualcosa di bello con un folto gruppo di persone, anche molto eterogenee: tra un quattordicenne e un ventenne, tra uno che è cresciuto in centro ed un altro che ha sempre abitato in periferia qualche differenza forse c’è, eppure il canto riesce ad unirli e a renderli amici e compagni, sgretolando così buona parte di quelle sterili barriere culturali di cui siamo spesso ottusamente circondati. Il messaggio è quindi: guardate quanto ci piace farvi sentire questa cosa che a noi piace tanto, e piace farla insieme, quindi ascoltateci, speriamo di riuscire a trasmettervi la bellezza della musica e di quanto la musica stessa possa essere fattore unificante”.

-Quindi si può dire un messaggio di coinvolgimento…

“Assolutamente sì, perché siamo noi i primi ad essere coinvolti, artisticamente ed emotivamente. E la presenza del pubblico è importante ma non indispensabile… nel senso che quando i ragazzi si incontrano e cominciano a cantare a loro poco importa se ci sono i parenti, i bidelli della scuola, i prof. o chicchessia, l’importante è cantare assieme e ciò crea aggregazione. Mi creda è davvero bello assistere a questi incontri”.

-Siete arrivati al successo inaspettato in pochissimo tempo. Cosa vi aspettate adesso?

“L’idea con cui siamo partiti era e rimane ostinatamente amatoriale. E’ ovvio che se ci invitano a fare un tour mondiale di duecento date in due anni noi siamo ben felici…”

-Data la consistenza numerica del coro mi pare un po’ difficile…

“Certo, naturalmente ciò non accadrà ma in cuor nostro noi rivendichiamo la nostra amatorialità e la nostra imperfezione; non siamo il coro migliore del mondo né crediamo di esserlo, e dunque tutto ciò che viene è buono. Non ci aspettiamo alcunché in particolare; devo dire che ci ha stupiti molto questo successo così repentino, non ci aspettavamo che da quel video girato in due ore – perché il  “Queencubo” è stato effettivamente girato in due ore – scaturisse tutto quel che è successo; sì per arrangiarlo ci son voluti sei mesi e altrettanti per impararlo ma rimane pur sempre una sorta di saggio di fine anno fatto nelle scuole. Da lì sono nate un sacco di cose e ci ha fatto molto piacere. Comunque la realizzazione del progetto non è nella sua diffusione ma nel suo esistere in quanto progetto. Se poi staremo un anno, vedendoci una volta al mese per poi fare un concerto per strada al Pantheon, va bene lo stesso”.

-Questa carica di entusiasmo che io stesso ho potuto notare nei ragazzi, da cosa viene?

“Da tanti elementi primo fra tutti l’evidente potere aggregante e trascinante della musica…ma questo è ben noto. Poi che io sia, come dicono, una sorta di pifferaio magico potrà anche essere vero ma deriva dal fatto che in primis mi piace molto la musica corale per cui ci tengo davvero tanto a questa iniziativa. Quindi se questa mia passione trova terreno fertile in tanti ragazzi che sono o diventano anch’essi appassionati di questo genere, di questa musica, allora ne sono davvero felice e non lesino alcuno sforzo. Comunque, mi creda, io sono davvero felice quando mi accorgo che non servo più: quando vedo che i ragazzi si assembrano e cominciano a cantare senza che io li diriga questa per me è la più grande soddisfazione”.

Gerlando Gatto