Il Jazz in Friuli Venezia Giulia passa da GradoJazz: un piacevole contagio in musica che oltrepassa le mascherine!

di Alessandro Fadalti –

Dopo tutte le paure, il senso di impotenza e sfiducia che il lungo periodo di quarantena ha imposto a tutti noi, finalmente una boccata d’aria fresca portata dalla musica! Una reazione necessaria, dopo mesi di esibizioni solitarie nelle stantie cantine domestiche o le alternative esibizioni in live streaming sulla rete le quali, seppur innovative, sono state soluzioni raffazzonate per un settore in crisi ancor prima della pandemia globale. L’assenza di calore umano, una mancanza di fisicità, emotività e annullamento dell’esperienza sociale che il palco offre a tutti gli amanti della musica: queste sono le ferite aperte che hanno a malapena cominciato a cicatrizzarsi.

Con l’estate, però, vien dal mare un’allietante brezza che dissolve l’aria stagnante, sicché il festival di cui vi parleremo, con la sua grande affluenza e i tre sold-out, è la concreta dimostrazione della voglia di ripartire, pur nel pieno rispetto delle regole e norme contro il Covid-19. In effetti, gli usi e le modalità di fruizione degli spettacoli che si adattano ai tempi sono l’elemento vincente per combattere quella che in  primavera si prospettava come una stagione di immobilismo culturale.

La seconda edizione di GradoJazz 2020, la trentesima per lo storico festival Udin&Jazz, organizzata dall’associazione culturale Euritmica di Udine, è un simbolo in tal senso. Come ogni anno il festival presenta un cartellone con artisti jazz di grande caratura, di livello nazionale e internazionale, e anche questa edizione, con i suoi otto concerti, dal 28 luglio al 1 agosto nello spazioso e rinnovato Parco delle Rose di Grado, ha rispettato i pronostici. Quasi ironicamente il tema forte ma sottinteso  di quest’anno è stata la contaminazione, che poi è sinonimo di contagio! Tuttavia, mettendo da parte l’ironia, in arte essa assurge a un altro significato e il Friuli è una terra dove la contaminazione culturale fa da padrona e si dirama in ogni dove.

L’apertura non poteva che essere affidata a un gruppo le cui contaminazioni musicali costituiscono il manifesto artistico: i Quintorigo, band romagnola dalle sonorità rock-barocco con incursioni jazzistiche grazie a un organico inusuale (Alessio Velliscig, voce; Andrea Costa, violino; Gionata Costa, violoncello; Stefano Ricci contrabbasso; Valentino Bianchi, sassofoni e Simone Cavia, batteria) uniscono molteplici mondi della musica, reinterpretandoli nel loro stile. Parlando della formazione: Alessio Velliscig, cantante friulano, ha una voce in grado di sopraffare l’orecchio dell’ascoltatore grazie a un registro canoro ampio e a un mirato controllo dinamico. Alessio, dimostra grande tecnica e teatralità, senza scadere in eccessi di poco gusto. Tra i brani più apprezzati ci sono stati alcuni arrangiamenti tra cui “Alabama Song” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, che fu anche un successo dei Doors, un duplice tributo a Charles Mingus con “Moanin’” e “Fables of Faubus” infine “Space Oddity” di David Bowie. In essi, la caratteristica che colpisce è quella di saper sorprendere con rimaneggiamenti invasivi, senza che le canzoni perdano la loro unicità. Infatti, a seguito della più classica struttura strofa-ritornello, seguono dei terzi temi aggiunti al brano e delle improvvisazioni al sax dal suono aggressivo rhythm’n’blues o gli archi con il distorsore, districando il gomitolo dei variopinti generi della musica popular. È in conclusione dell’esibizione che il gruppo riserva due pezzi da novanta che sono la matrice di un’idea di fare musica che si avvicina all’estetica del gruppo, ovvero Frank Zappa. Con gli arrangiamenti di “Cosmik Debris” e “Zomby Woof”, tutte le caratteristiche singolari del gruppo sono evidenziate e la sobrietà teatrale del frontman diventa un’esplosione di gesti e movimenti più dinamici e coinvolgenti, accompagnati da svariati salti di registro, spingendosi in acuti lontani dalle corde di un tenore, che vengono sottolineati da espedienti rumoristici degli strumentisti. Quintorigo è la dimostrazione di come “jazz” sia da anni non solo un genere, ma un multiforme modo di concepire l’approccio alla musica.

Il set successivo è stato quello del duo Bill Laurance (pianoforte) e Michael League (basso). Il progetto è una riproposizione di vari loro brani scritti ed eseguiti per altre formazioni, tra cui gli stessi Snarky Puppy. Stiamo parlando di due amici che nella musica ritrovano un’alchimia, che è sensibile dal primo ascolto. Non è un progetto artistico preciso e definito: il repertorio è costituito da brani con continui incastri ritmici tematizzati a cui seguono degli stacchi omofonici e omoritmici in stile funk, che prosegue in improvvisazioni prima dell’uno, poi dell’altro e si conclude riprendendo il tema. A questo, si aggiunge il tocco risolutivo di Laurance che, quasi scherzando, finge una cadenza finale che lascia il pubblico con l’applauso mozzato, un approccio sicuramente non convenzionale. Il duo respira in un ciclo di opposizioni: se il bassista è molto selvaggio, intuitivo ed espansivo con il suo strumento, Laurance è intellettuale, introverso e colto… una sintesi tra il nietzschiano spirito Apollineo e Dionisiaco. Se i vari brani in stile più classico, tra cui “December in New York” e “Denmark Hill” di Laurance, sono quelli in cui l’anima e il flusso del pianista vengono meglio espressi, in contrapposizione vi è l’estro di League, che scaturisce in brani dal sapore funk come “Semente” degli Snarky Puppy o “Spanish Joint” di D’Angelo. La sintesi è comunque altrove, s’insinua in brani come “Two Birds in A Stone”, un inedito scritto da League dove il bassista prende in mano l’Oud, strumento di cui è promettente novizio.
Nonostante l’esibizione sia stata prossima alla perfezione, nel destreggiarsi acrobatico dei brani c’era una schematicità ripetitiva. Laurance si adagiava spesso sulle ottave medie del pianoforte mentre League non sembrava ascoltare sempre il compagno, nei decrescendo dinamici o nei rallentando pareva inseguirlo più che accompagnarlo, asincronia che non è tuttavia pesata su tutto il concerto. Va detto, in conclusione, che la chiave di lettura dello spettacolo è forse quella di due amici che essenzialmente non ne potevano più di starsene chiusi in casa e lontani dai palchi. Si sono ritrovati e hanno mostrato il loro spirito giocoso, fatto di sguardi e sorrisi di complicità. Una gioia per gli occhi e per le orecchie.

Il giorno seguente è Alex Britti ad occupare un palco già molto caldo dal giorno precedente. Sullo schermo sul fondo sovrasta la scritta “jazz” a caratteri cubitali, ma solo alcuni brani hanno forti influssi blues e jazz. “Mi Piaci”, “Bene Così”, “Buona Fortuna” e “Immaturi” sono canzoni fortemente pop con alcune contaminazioni funk, blues e southern rock, mantenendo però uno stile rigoroso alla canzone italiana tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. Britti sfrutta intelligentemente la sua vena profondamente blues, ma quei brevi call and response, sotto forma di stacchi con la chitarra, tra i versi e i soli pentatonici corti e in struttura sono abbastanza per parlare di blues e influenze? A mio parere no! Ma ecco il colpo di scena. La similitudine più forte per spiegare la sensazione è attraverso una partita di calcio. Un primo tempo stanco con poche palle gol e molte azioni a centro campo a cui segue un secondo tempo dove la squadra si trasforma. Dopo i primi 45′ di gioco scende in campo il trombettista Flavio Boltro. Entra nel vivo del brano, sul concludersi di “Le cose che ci uniscono”, esibendo un solo che mostra le sue indubbie qualità. Il trombettista torinese è rapido nei fraseggi, il linguaggio è molto modale, è un invito a dialogare rivolto al chitarrista, mettendo in mostra la sua anima più virtuosistica. Cambia profondamente anche lo schema dei brani: dopo un’esposizione della canzone in stile pop seguono delle lunghe sessioni di improvvisazione tra i due, tornando al ritornello come finale. Il brano “Jazz” è un fast che fa da modello a quanto illustrato, un vero e proprio rilascio delle qualità artistiche e tecniche di Britti. Il resto della band (Davide Savarese, batteria; Matteo Pezzolet, basso; Benjamin Ventura, tastiere; Cassandra De Rosa e Oumy N’Diaye, cori) è impeccabile, riescono a salire d’intensità con un accompagnamento perfetto durante i solo. Purtroppo ci sono delle note dolenti; nessuno di loro ha avuto un momento per splendere (eccezion fatta per il solo di batteria di Savarese) e, complice un pessimo mastering, le tastiere e il basso erano poco udibili. Infine, lo spazio quasi nullo dato alle coriste. La seconda parte è stata la più interessante, il picco massimo di spettacolarità è un medley acrobatico tra “Oggi Sono Io” e “7.000 Caffè”; dove tra le due canzoni possiamo sentire una versione completa del tema di “Round Midnight” e “Gasoline Blues” che fungono da ponte. La distensione musicale a chiusura si compone di tre hit per far cantare il pubblico. “La Vasca”, “Solo una volta” e “Baciami” hanno fatto alzare il pubblico dalle sedie, personalmente sarebbe stato molto più di classe concludere con il medley, ma è il pubblico a smentirmi.

La terza giornata è stata una pennellata di voci rosa. Doppio set per due cantanti molto interessanti, l’una all’opposto dell’altra per certi versi. Il primo è il duo Musica Nuda di Ferruccio Spinetti (contrabbasso) e Petra Magoni (voce). Il concerto si apre con un arrangiamento di “Eleanor Rigby” dei Beatles. La loro musica funziona molto bene, la cantante si cimenta in acrobazie vocali, salti di registro importanti, cambi di stile, dal bel canto agli espedienti rumoristici che ricordano Cathy Berberian e molto altro. Il contrabbassista ha una sensibilità compositiva raffinatissima, i brani hanno una struttura solida con tocchi fantasiosi che permettono alla Magoni di trovare spazio in slanci vocali. L’impressione generale è che insieme funzionino in maniera assoluta. La diversità di background musicale tra loro è palpabile e crea ricchezza. Spinetti, nei suoi arrangiamenti, fa percepire un’osmosi tra contaminazioni di musica classica, jazz e contemporanea. Petra, d’altro canto, ha un’esperienza come cantante e interprete vicina agli ambienti alternative pop. La qualità attoriale è quel quid che rende i loro brani diversi, unici.
Ne è un esempio “Paint it Black” dei Rolling Stones, su cui incidono un tono oscuro, amplificando i tratti del dolore intrinseco che permea tutta la canzone; oppure il finale con “Somewhere Over The Rainbow” in cui la sensazione di malinconia e speranza viene accentuata con lunghi sospiri e respiri. Nei brani originali come “Qui tra poco pioverà” e “Come si Canta una Domanda” emerge quanto l’uno debba all’altro, Spinetti offre composizioni e arrangiamenti artistici interessanti, mentre Magoni dona la sua imponente abilità ed estro.
La seconda grande voce femminile, nel set successivo, è molto composta e senza sospiri in coda alle note, con una prorompente carica di emotività. Chiara Civello a Grado è accompagnata da Marco Decimo al violoncello e dall’eclettica Rita Marcotulli al pianoforte. Il trio è inedito e fa percepire la sua estetica dal primo brano con un arrangiamento di “Lucy In The Sky With Diamond” dei Beatles. Ricchezza di riverberi e delay, accompagnati da alcuni solerti colpi di Pandero della cantante, violoncello percosso sulla cassa armonica, alternato a lunghi glissando dal registro medio all’acuto con l’archetto. Il risultato è un’atmosfera onirica e trascendentale, superiore all’originale. Si tratta tuttavia di un unicum, in quanto nei brani successivi lo stile vocale della Civello resta fedele a un’ispirazione brasiliana, in una sorta di “Saudade nostrano”; la voce è dolce e malinconica, risaltata da una scaletta fatta di ballad eleganti come “Estate” di Bruno Martino, “Travessia” di Milton Nascimento e “Anima” di Pino Daniele. Il pianismo della Marcotulli è l’altro grande protagonista del concerto: sfrutta tutte le ottave del piano in una libertà assoluta, ondeggia tra i registri in maniera ipnotica, passa dal pizzicare le corde, all’inserire oggetti metallici nella cordiera (pianoforte preparato), per poi toglierli e percuotere le corde bloccandone la risonanza con le dita. Non sta ferma sul seggiolino e a livello espressivo suscita una sensazione di moto perpetuo; oltretutto inserisce note dissonanti a commento della voce e dell’atmosfera dei brani. In sintesi, ricopre all’interno di questo trio un ruolo timbrico, ritmico, melodico, dinamico, rumoristico ed espressivo. Quello che personalmente definisco “pianismo totale”. Ciò che meglio emerge da questo trio è una forte capacità di espressione attraverso una scaletta fatta da brani lenti, eseguiti con un trasporto e sentimento unico. Punctum dolens di questo concerto, per me, la versione poco gradevole di “Bocca di Rosa” di De André, dai toni molto dark e tragici che cozza con il testo del cantautore genovese, nonostante abbia trovato coraggioso l’arrangiamento. Nel finale, tutti gli artisti dei due set sul palco, per un’esplosione di bellezza!

 

Una delle poche giornate di vaga frescura nella bella isola di Grado ci ha regalato l’esibizione del trombettista Paolo Fresu e del suo quintetto (Tino Tracanna, Sax; Roberto Cipelli, Piano; Attilio Zanchi, Contrabbasso; Ettore Fioravanti, Batteria). Ad arricchire l’ensemble, il trombone di Filippo Vignato. Il progetto riprende lo storico album del 1985, rinominato Re-Wanderlust in occasione della performance dal vivo: un fiore all’occhiello per la rassegna! Un jazz dai tratti un po’ desueti, che non sa di aceto, ma è un vino pregiato. Dal primo brano “Geremeas” si capisce la cifra stilistica, il repertorio è in continuo equilibrio tra fast e slow, come “Touch Her Soft Lips and Part” di William Walton. La sonorità è un riferimento che va dal Bebop al Modal, con accenni di Free. Le strutture sono quelle classiche del jazz ma risalta un’instancabile energia dei musicisti, che con grande vigoria aggrediscono ogni solo, esprimendo libertà. Il sestetto può essere diviso in due sezioni per ruolo, quella del trio: piano, basso, batteria e quello dei tre fiati. Questo scisma emerge soprattutto durante le improvvisazioni collettive, dove ogni fiato emette una voce ostinata e sovrappone frasi sopra altre frasi, per nulla scontate e non omoritmiche, concedendosi di oscillare sul tempo. Il risultato è piacevolmente caotico e non ti permette di concentrarti su un’unica fonte sonora, tutti gli strumenti raggiungono una loro vocalità estemporanea, a tratti indipendente a tratti contagiandosi, divenendo isole in un arcipelago, distanti ma interconnesse. La sezione trio fornisce magistralmente un tappeto solido ai fiati, impedendogli di prendere il volo e di perdersi nel loro stesso processo creativo. Molte sono le eccezionalità e finezze da mettere in luce. In “Trunca e Peltunta” il tema ricalca l’estetica melodica monkiana dell’album “Underground”. In brani soffusi come “Ballade”, si riesce a sentire la colonna d’aria uscire dai fiati e in “Favole” si percepisce molto bene come mai Fresu ami il calore del suono del flicorno, unendolo al suono del Rhodes. Con il finale,“Only Women Bleed”, queste caratteristiche del sestetto raggiungono la loro summa, la contaminazione è anche nell’approccio, specie in quei solo collettivi.

Ultima giornata con il concerto del sassofonista Francesco Cafiso e il suo quintetto “Confirmation”, (Alessandro Presti, Tromba; Andrea Pozza, Piano; Aldo Zunino, Basso; Luca Caruso, Batteria), una dedica al Bebop in tributo ai 100 anni dalla nascita del suo massimo esponente: Charlie Parker. Il primo brano è “Tricotism” di Oscar Pettiford, un inizio differente da quello che ci si poteva aspettare. Quelli che dovrebbero essere dei fast sono più lenti del previsto e gran parte del repertorio, fatta eccezione per “Repetition” e “Little Willie Leaps” di Bird, sono brani di artisti coevi dell’era bebop come “Budo” di Miles Davis e alcuni post bebop come “Little Niles” di Randy Weston. La qualità del lirismo e del fraseggio di Cafiso, assieme alla tromba con sordina di Presti, sono i due elementi più significativi. Il duo, sul fronte del palco, trasmetteva le stesse sensazioni della coppia della 52esima strada: Parker e Gillespie. Non è manierismo bebop come potrebbe sembrare, ed infatti nei solo cercano di far dialogare il linguaggio del passato con alcuni espedienti tecnici del jazz non esclusivamente bebop, come il linguaggio modale, i poliritmi e la rinuncia all’approccio armonico in favore di molteplici variazioni sul tema.
Colpisce la qualità espressa da Cafiso, le frasi dove la punteggiatura si avvicina al parlato, con idee fraseologiche articolate anche in otto battute, trovando respiro soltanto a posteriori.
Dal lato ottoni, i solo di Presti erano ricchi di ritmo e staccato a cui contrapponeva una grande ariosità del suono. Quello che è venuto a mancare da parte di tutto l’organico è l’enfasi scoppiettante tipica dei quintetti di inizio anni ’50. La risultante sonora è rattenuta, dando il sentore di una jam session in concerto, dove il classico rhythm change senza alcuna variazione è lo stilema. Fattore che emerge soprattutto da un batterismo che nell’accompagnamento e nei solo dimostra tecnica e tocco pulito, a cui si oppone una non perfetta connessione con il gruppo e un linguaggio accademico da manuale. La conclusione è una buona ma contenuta esibizione, dove a risplendere sono Cafiso e Presti.

Nel gran finale di GradoJazz by Udin&Jazz sale sul palcoscenico Stefano Bollani, che porta un progetto unico, il musical di Lloyd Webber e Rice: Jesus Christ Superstar del 1971, in variazioni per piano solo. Il primo pensiero che ho avuto è stato quello della paura del flop. Il musical è ricco di tanti stili e generi che trovo complessi da racchiudere in un piano solo annullando la varietà timbrica. Non avevo fatto i conti con l’oste, Bollani è riuscito, grazie alle sue spiccate qualità interpretative, a restituire tutti i sentimenti e le caratteristiche dei personaggi del dramma all’interno delle corde roventi dello Steinway. L’arduo compito è stato rispettato in toto. Udiamo delle variazioni sui temi di alcuni pezzi più importanti della rock opera come: “What’s the Buzz”, il trio tra il personaggio di Maria Maddalena, Gesù e Giuda, dove i pensieri di ogni protagonista hanno un’unità melodica che è stata rispettata, mentre la variazione sta nell’improvvisazione sopra di essi, che amplifica al meglio gli aspetti drammaturgici legati al personaggio. Stesso discorso vale per la romantica e triste aria di Maria Maddalena che si questiona su come manifestare il suo amore per il messia in “I don’t Know How To Love Him”. Così come il dissidio interiore di Giuda in “Damned For All Time”, quando vende Gesù ai Farisei, oppure la reazione sconcertata e confusa degli Apostoli in “The Last Supper”. Altrettanto forte, a livello immaginifico, è il turbinio di semicluster nel brano “The Temple”, che corrisponde alla scena in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio e il monologo di Ponzio Pilato in “Pilate’s Dream”. Sono molti gli espedienti musicali che ricalcano in maniera geniale le immagini del film del ’73. Oltre alle già note abilità pianistiche di Bollani è interessante notare come abbia caratterizzato al meglio i personaggi attraverso la musica. Finale da superstar tra ironia e musica, in un serrato dialogo tra il palco e la platea, chiamata a scegliere dieci brani che il pianista unisce a formare un medley.
Metaforicamente parlando, veder finire questa cinque giorni di concerti jazz è stato come entrare nel finale del film Jesus Christ Superstar: tutti gli spettatori salgono in macchina e abbandonano il Parco delle Rose di Grado, così come nel film i fedeli abbandonano l’ultimo grande spettacolo, ovvero la crocifissione, salendo sul pullman da cui sono arrivati!
Commento finale: un elogio ai fonici e al service in primis che per quanto abbiano potuto risentire del periodo di lockdown hanno tutti lavorato con serietà e professionalità, dimostrando quanto il loro compito sia il motore e l’ornamento che permette agli spettacoli dal vivo di essere “vivi”. L’esperienza globale è stata estremamente gratificante. I migliori auguri per l’edizione invernale di Udin&Jazz, annunciata sul palco dal presentatore Max De Tomassi di Radio 1 Rai (partner ufficiale del Festival) e dal direttore artistico Giancarlo Velliscig, che porterà, senz’ombra di dubbio, quel clima jazz che fa respirare a pieni polmoni nell’ecosistema della musica dal vivo.

Alessandro Fadalti

Si ringrazia l’ufficio stampa di GradoJazz by Udin&Jazz e i fotografi: Angelo Salvin, GC Peressotti e Dario Tronchin

 

Romolo Grano, un grande musicista per il piccolo schermo

Con “La grande magia”, scritta nel 1948, Eduardo De Filippo opera una frattura nel proprio repertorio passando ad una drammaturgia di solco pirandelliano. Rai 5 ne ha trasmesso, lo scorso 15 agosto per la serie “Stardust Memories”, la produzione TV del 1964, interpreti, fra gli altri, Giancarlo Sbragia, Antonio Casagrande, Lando Buzzanca, Enzo Cannavale.

La messinscena, ripresa con successo da Strehler nel 1985, è di taglio psicologico/psicoanalitico e si snoda su un intreccio in cui si guarda, fra pulsioni e cervello “indipendente”, alle varie forme di percezione del reale. La stessa offre anche una lettura più interna, quella musicale, che è opera di Romolo Grano, compositore e direttore d’orchestra nato a Cosenza alla vigilia del ferragosto 1929, noto per colonne sonore cinematografiche (“Ça ira”, “Il fiume della rivolta”, il documentaristico diario africano “Le montagne della luce” con Gianni Oddi, il cui album è stato ristampato nel 2019 da Four Flies), dischi per oltre 30 titoli fra cui “Messico” e “Tropical” del ’72, “Musica elettronica” del 1973, con effetti sonori ascoltabili anche nel suo famoso tema “Killimangiaro”, del 1975, stesso anno di “Sweet Dream” inciso con Oddi al sax per la RCA, nonché autore di sigle per trasmissioni come “Telefono giallo” e soprattutto di soundtrack per sceneggiati TV.

Non era semplice adattare suoni ad una rappresentazione eduardiana così amaramente dedicata all’illusione, dalla trama noire incentrata sulla sparizione, nel pieno dello spettacolo di un giocoliere, di una donna, con relative rimostranze del di lei marito, il geloso Calogero Di Spelta, destinato allo stralunamento per lo choc derivante dall’aver appreso della fuga dell’amata con l’amante. L’illusionista Otto Marvuglia (Eduardo) tratta le sue cavie con esperimenti dilettanteschi che mescolano verità e finzione, addentrandosi peraltro in questioni filosofiche come quella inconoscibilità del reale, adombrata da Pirandello in “Cosi è se vi pare”. Grano, all’inizio della pièce, utilizza una partitura che si può ascrivere alla musica contemporanea. La diretta conoscenza di Luigi Nono e la frequentazione della Scuola di Darmstadt, la padronanza esecutiva di brani di Bruno Maderna ma anche il rapporto con Diego Carpitella per le ricerche etno-musicali fanno parte del suo versatile curriculum artistico. Nel successivo sviluppo della commedia il musicista adopera toni bandistici dotati di andamento nostalgico alla Nino Rota, alternandone altri festosi, onirici o misterici, a seconda della situazione scenica da chiosare. Un musicista, Grano, che De Filippo ha modo d’includere nello staff dell’allestimento – giocato su due piani, realtà e magia illusoria di teatro e vita – riservandogli spazi che la prosa non sempre lascia alla musica. Successivamente Grano verrà chiamato a musicare sceneggiati come alcuni episodi di “Sheridan” (1967) e “Maigret” (1968), “Nero Wolfe” (1969), “Joe Petrosino”(1972), “L’amaro caso della baronessa di Carini” (1975), “Madame Bovary” (1978), Punto d’osservazione” (1981), “Buio nella valle” (1984) …

Un maestro del ramo, un Morricone delle colonne sonore televisive, alcune delle quali raccolte in un prezioso LP RCA del 1976 che il database Discogs cataloga nei generi “electronic, jazz, classical, stage & screen” con apertura stilistica a 360 gradi fra sperimentale ed “easy listening”.

E il binomio De Filippo/Grano – replicato nel ’64 in “Chi è cchiù felice ‘e me” – rende ancora più visibile la poliedricità di un musicista la cui opera andrebbe maggiormente valutata e rivalutata.

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Amedeo Furfaro

Riflettori su Mafalda Minnozzi e Francesco Di Giulio e i loro nuovi progetti

In attesa di pubblicare la solitamente corposa rubrica su “I nostri CD”, cosa che avverrà nei primi di settembre, vorrei sottoporre alla vostra attenzione due artisti che ritengo particolarmente interessanti: una, Mafalda Minnozzi, continua a proporre in giro per il mondo la musica italiana… e non solo, l’altro, Francesco Di Giulio, è un giovane artista abruzzese che meriterebbe ben altra considerazione.

Ma procediamo con ordine. Anticipato esclusivamente dalla pubblicazione di due singoli estratti dall’album – “A felicidade” (24 giugno) e “Once I Loved”D (9 luglio) – e da 8 concerti “première” realizzati a novembre con il quintetto americano, di cui 6 in Italia e 2 al Birdland di NYC (sold-out), il 20 luglio scorso è stato lanciato l’ultimo album di Mafalda Minnozzi, “Sensorial- Portraits in Bossa & Jazz”, distribuito su tutte le piattaforme digitali. Contemporaneamente è stata data la possibilità non solo di ascoltare i brani sulle piattaforme ma anche di vederli sul canale YouTube di Mafalda (disponibili 13 video realizzati durante la registrazione in studio a NY, uno per ogni brano) e di approfondirli con il podcast, per entrare nello spirito dell’artista. Al momento l’approfondimento con i podcast riguarda solo tre brani ma è intenzione dell’artista dedicare ad ogni pezzo la stessa attenzione. Insomma un’azione promozionale a tutto campo che ben si attaglia ad un album che presenta numerosi punti di forza.
Innanzitutto la ‘ricchezza’ dell’organico. A conferma della statura di artista internazionale, per quest’ultima impresa la Minnozzi è riuscita a raccogliere accanto a sé una pletora di musicisti di assoluto rilievo: al contrabbasso si alternano Harvie Swartz (classe 1948) a ben ragione considerato il bassista dei chitarristi avendo inciso tra gli altri con  John Scofield, Mick Goodrick, John Abercrombie, Gene Bertoncini, Mike Stern, Jim Hall, Leni Stern, e Essiet Okon Essiet già con Benny Golson, Johnny Griffin,  Cedar Walton; alla batteria Victor Jones, personaggio di assoluto rilievo nel panorama jazzistico internazionale come dimostrano gli oltre cento dischi cui ha partecipato sia come leader sia come sideman; alle percussioni Rogerio Boccato che può vantare collaborazioni con Maria Schneider, John Patitucci, Danilo Perez; al  pianoforte Art Hirahara già leader in trio e in quartetto con Linda Oh e Donny McCaslin; Will Calhoun  vincitore di decine di premi tra cui il ‘Buddy Rich Jazz Masters Award for outstanding performance by a drummer’ all’Udu nigeriano e shaker nel brano n. 7 (“Samba da Benção”) …e naturalmente quel Paul Ricci, alle chitarre sulle cui eccelse qualità mi sono già soffermato diverse volte su questi stessi spazi.
Secondo punto di forza, la bellezza del repertorio. In cartellone ben sette composizioni di Antonio Carlos Jobim tra cui le notissime “A Felicidade” che apre l’album, “Dindi”, “Desafinado” e “Triste”, mentre gli altri sei pezzi completano un magnifico affresco dei maggiori compositori brasiliani chiamando in causa Baden Powell (“Samba da Benção”), Chico Buarque (“Morro Dois Irmãos”), Toninho Horta (“Mocidade”), Filó Machado (“Jogral”), Alcyvando Luz e Carlos Coqueijo (“É Preciso Perdoar”).
In terzo luogo, ma non certo in ordine d’importanza, l’eccellente livello delle esecuzioni che come sottolinea lo stesso titolo dell’album non si limita ad una mera riproposizione della bossa-nova ma introduce ben individuabili elementi jazzistici nelle celebri melodie brasiliane (si ascolti a mo’ di esempio con quanta pertinenza le note del coltraniano “Lonnie’s Lament” vengano utilizzate per introdurre “É Preciso Perdoar”).

Il risultato è affascinante. La Minnozzi si conferma interprete sensibile, sorretta da una tecnica vocale di rilievo che le consente di ascendere senza difficoltà alcuna alle  note più alte, brava anche nello scat (la si ascolti in “Mocidade”) e cosa non proprio comune perfettamente in grado di esprimersi sia in perfetto portoghese sia in perfetto inglese; la sua voce, a tratti lievemente nasale, si staglia stentorea sul meraviglioso tappeto armonico-ritmico disegnato dai compagni di viaggio, sulla scorta di pregevoli arrangiamenti cui non è di certo estranea la mano di Paul Ricci. E di rilievo il modo in cui riesce a colloquiare con i compagni di viaggio: certo l’intesa con Paul Ricci è cementata da anni di fruttuosa collaborazione ma con gli altri no. Eppure l’intesa è perfetta: si ascolti come riesce a interloquire con le improvvisazioni di Hirahara in “Vivo Sonhando” (Jobim).
E le perle offerte dalla vocalist si succedono senza soluzione di continuità fino al conclusivo “Dindi” di Jobim impreziosito da un ispirato arrangiamento, di sapore blues.
Insomma un album di assoluto spessore, forse il migliore nella già prestigiosa carriera della Minnozzi.

Si ringrazia Chris Drukker per la photogallery di Mafalda Minnozi

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Trombonista abruzzese, classe 1983, Francesco Di Giulio è sulle scene jazzistiche oramai da parecchi anni.
Dopo la maturità scientifica conseguita nel 2002, si dedica interamente alla musica, al jazz. Così nel 2007 ottiene una borsa di studio presso i seminari estivi di Siena Jazz e successivamente partecipa ad un International Jazz Master a Siena. Nel 2009 ottiene il Diploma Accademico di primo livello in Jazz, Musiche improvvisate e Musiche del nostro tempo (Triennio Superiore Sperimentale di I livello) presso il Conservatorio di Musica “G. B. Martini” di Bologna. L’anno successivo vince una borsa di studio presso la New Bulgarian University in cui ha l’occasione di studiare, tra gli altri, con Glenn Ferris. L’attività professionale vera e propria inizia già nei primissimi anni 2000 e negli ultimi dieci anni si è notevolmente intensificata con la partecipazione, tra l’altro, a numerosi gruppi e orchestre sia come I trombone, sia come side-man, sia come compositore.
Per conoscerlo meglio ecco tre album, registrati in periodi diversi.
Cuneman – “Tension and Relief” UR Records è il secondo capitolo del progetto musicale Cuneman che in questa occasione cambia radicalmente pelle: non più il quartetto composto da sax, tromba, contrabbasso e batteria del primo disco del 2018 ma una formazione allargata a sei, con l’aggiunta del trombone suonato proprio da Francesco Di Giulio e del susafono nelle sapienti mani di Mauro Ottolini. Il risultato è eccellente in quanto il gruppo conserva le sue caratteristiche migliori, vale a dire una sapiente ricerca sulle armonie senza scivolare nel banale, con una giusta considerazione del passato ma con più di un occhio rivolto al free jazz. In quest’ambito particolarmente positivo l’inserimento di Di Giulio che riesce a ben dialogare con i compagni di viaggio (si ascolti il suo assolo in “Schifano”). Il gruppo sarà impegnato il prossimo 18 agosto alla Civitella di Chieti.

Completamente diverso il secondo album, “Mo’ Better Band” – “Li vuoi quei kiwi?”
La Mo’ Better Band nasce nel 2003 da un’idea di Fabrizio Leonetti, fondatore e sassofonista del gruppo: l’obiettivo era fondere la versatilità e l’organico tipici della classica banda italiana, con l’energia di un repertorio principalmente funky con “ammiccamenti” al jazz. Il tutto portato per le strade, in mezzo alla gente, per farla ascoltare anche a chi non è un appassionato di jazz.  Il nome della band proviene da ‘Mo’ Better Blues’, il brano eseguito, nell’omonimo film di Spike Lee del 1990, dal Brandford Marsalis Quartet. Di Giulio entra nella band nel 2007 nella duplice veste di strumentista e compositore ed in questo album firma il brano d’apertura (“Jam”) e quello di chiusura (“Soul In Da Hole”) a conferma di un apporto tutt’altro che marginale, come evidenziato anche dal convincente assolo nella title track.
Determinante è invece il ruolo di Di Giulio nel terzo album, “Re-Birth of The Cool” il cui contenuto musicale è già chiaramente espresso nel titolo. Si tratta, infatti, della rilettura dello storico album di Miles Davis pubblicato nel 1957 dalla Capitol Records che raccoglie le registrazioni effettuate tra il 1949 e il 1950 dal “nonetto”, capitanato da Miles Davis con gli arrangiamenti di Gil Evans. Come sottolineato dall’amico e collega Fabio Ciminiera “sulla scorta delle trascrizioni del trombonista Francesco Di Giulio e della sua conduzione e, va da sé, sulla scia delle registrazioni originali è stato costituito un nonetto fedele all’originale, con l’incontro tra musicisti jazz e classici e con alcuni dei solisti emergenti della scena abruzzese-marchigiana”. Confrontarsi con un’impresa del genere non era certo impresa facile e il trombonista-leader in questa occasione ne è uscito più che bene; sotto la sua conduzione il gruppo ha evidenziato un buon affiatamento generale e i musicisti hanno avuto modo di esplicitare appieno le proprie potenzialità data la scelta, effettuata allo stesso Di Giulio, di dare maggiore spazio agli assolo mantenendo inalterate per il resto le strutture architettate all’epoca. Ulteriore elemento che rende particolarmente riuscito l’album, il fatto che è stato registrato dal vivo il 21 giugno del 2012 durante un concerto alla Villa Comunale di Roseto degli Abruzzi.

Gerlando Gatto

“Re: Connections”: il ritorno in Italia nell’album del contrabbassista Paolo Benedettini

E’ una delle leggende viventi del jazz, Ron Carter, a scrivere dettagliatamente -brano per brano – le liner notes di “Re: Connections”, l’album del grande contrabbassista Paolo Benedettini, rientrato da qualche anno in Italia dopo una lunga permanenza a New York, dove è stato membro stabile del trio del compianto batterista Jimmy Cobb insieme al pianista Tadataka Unno, collaborando con molti altri artisti tra cui Harold Mabern, Joe Magnarelli, Joe Farnsworth, Eric Reed, e per le tournée europee con Joe Farnsworth, Eric Alexander e David Hazeltine.

In Italia ha collaborato con Dave Liebman, Steve Grossman, nelle formazioni di Piero Odorici con molti special guest tra cui Eddie Henderson, George Cables, Ronnie Mathews, Curtis Fuller, Eliot Zigmund. Tra le prime sinergie importanti quella con i gruppi di Tom Kirkpatrick, Gianni Cazzola e soprattutto con Bobby Durham, suo primo mentore, in una formazione completata da Massimo Faraò al piano, accompagnando grandi musicisti come Archie Shepp, Benny Golson e Hal Singer.
Per anni ha fatto parte del Nicola Conte Jazz Combo nelle tournée mondiali, e ha suonato nei gruppi di Ronnie Cuber, Joel Frahm, Jesse Davis, Bud Shank, Steve Gut, Mark Sherman.
Tornato stabilmente nella sua Pisa nel 2018, Paolo Benedettini porta con sé e continua a coltivare una lunga carriera di collaborazioni illustri con cui si è esibito in tutto il mondo, e incisioni con le più prestigiose etichette discografiche tra cui Blue Note Records, Impulse! Records, EmArcy Records, Verve Records.
Per il disco “Re: Connections”, che descrive proprio il ritorno e la riconnessione con il suo Paese d’origine, l’Italia, Benedettini ha scelto due musicisti con cui ha condiviso una grande parte della sua carriera iniziale: il chitarrista Marco Bovi e il pianista Nico Menci.

Suo insegnante sia alla prestigiosa Juilliard School che privatamente, Ron Carter è stato per Benedettini un vero e proprio mentore: “Capitava spesso che, oltre alle lezioni settimanali, mi trovassi ad accompagnarlo a ai vari soundcheck, a recording session o prove varie, oltre a frequentare la sua casa in occasione di festività o momenti musicali, sempre disponibile a condividere le sue opinioni e i suoi punti di vista rispetto alla musica, per me una grande opportunità di crescita.”

Tra i brani più apprezzati del disco da Ron Carter spicca “Chovendo Na Roseira”, uno standard brasiliano di Jobim: “Mi sono sorpreso a riascoltare più volte la loro versione, apprezzandola ogni volta di più.”

Sempre nelle liner notes, Ron Carter scrive: “Il “Coro a bocca chiusa” della “Madama Butterfly di Puccini, è suonato dal trio da una meravigliosa angolazione, piena di rispetto e ammirazione.” Difatti, un altro elemento ricorrente nel repertorio del trio sono le idee provenienti dalla musica lirica: in questo album sono presenti anche “Entr’acte I”, derivato dalla Carmen di Bizet, e una composizione originale “Modes From D.G.” ispirata da una successione di accordi presenti nella Overture del Don Giovanni di Mozart.
Paolo Benedettini: “Per un periodo la lirica è diventata per me quasi un’ossessione, come se mi consentisse di riappropriarmi di una sfera di percezione emotiva che sentivo radicata profondamente nella mia cultura di origine e che per qualche misterioso motivo avevo fino ad allora trascurato.”
La tracklist completa di “Re: Connections”: “Intro”, “Modes from D.G.”, “Love Walked In” (G. Gershwin), “Bruno’s Lines”, “Coro a bocca chiusa” (da Madama Butterfly di G. Puccini), “I Concentrate on You” (C. Porter), “Hindsight”, “Fantasy in D”, “Martha’s Prize” (C. Walton), “Entr’acte I” (dalla Carmen di G. Bizet), “Chovendo Na Roseira” (A.C. Jobim), “For Toddlers Only” (R. Carter).
L’album è disponibile nei maggiori digital stores e piattaforme streaming tra cui Spotify https://bit.ly/SPOTIFYreconnections e iTunes https://bit.ly/ITUNESreconnections.

CONTATTI
Paolo Benedettini FB https://www.facebook.com/paolo.benedettini.3
Paolo Benedettini IG https://www.instagram.com/paolobenedettini/
Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com www.fiorenzagherardi.com

Il complesso mondo di Rosalba Bentivoglio: il concerto della vocalist in apertura di “Milo Jazz&Wine”

Cielo stellato, calura estiva delle classiche serate siciliane, sedute distanziate, nelle gradinate dell’anfiteatro “Lucio Dalla” a Milo, piccolo paese alle falde dell’Etna, ricco di storia contadina, costruito  sulla pietra lavica di precedenti colate. Sentori di vini che restano nell’aria, dopo le vendemmie autunnali. Questo è un  luogo magico, dove scorrono fiumi rossi o bianchi nei bicchieri, perché bere in compagnia rende la vita più preziosa e interessante, ce ne siamo accorti ancor di più durante il lockdown… Ed è in questo luogo che Lucio Dalla aveva trovato il suo “buen retiro” e a cui oggi il Comune ha dedicato una targa e  dato il nome all’anfiteatro in cui adesso siamo, in attesa dell’inizio deel concerto di Rosalba Bentivoglio, artista che da tempo vive qui in questa Milo, che accoglie anche un altro personaggio, artista e poeta importante: Franco Battiato.

È il 2 agosto, giorno d’inizio del primo “Festival Jazz&Wine”, che vede in cartellone, in una veste quasi da madrina, un’artista importante per la Sicilia – regione che ha ben saputo rappresentare in Europa – Rosalba Bentivoglio, musicista compositrice, cantante jazz e docente di Canto al Conservatorio. La vocalist, con le sue composizioni, traccia oramai da anni un percorso nuovo nella musica, fuori dai soliti schemi. Il panorama musicale è impreziosito da artisti quali Norma Winstone, Sainkho Namtchylak, Greetje Bijma, Mejra Asher, Susanne Abbuehl che, affrancandosi dalla cultura e dalle radici afroamericane, hanno voluto percorrere strade innovative, avventurose, muovendosi lungo i confini, tra jazz ed espressioni musicali colte contemporanee. Tra queste voci, da diversi anni, si pone Rosalba Bentivoglio, che ci propone melodie di ampio respiro, linguaggi jazz personali, improvvisazioni d’impronta europea e seducenti e merlettati vocalizzi, ispirati all’insondabile profondità dell ’animo umano.
La sua voce, che a tratti, esplode in vortici di ricordi ancestrali, si libera in  performance improvvisative, ispirata e ben sostenuta da quattro bravi professionisti dei suoni  che, in perfetta sintonia con le composizioni della Bentivoglio, hanno modo di esprimere al massimo le loro personalità artistiche,

La cantante collabora anche con Paul McCandless (cofondatore, insieme a Ralph Towner, degli Oregon) con il quale ha inciso tre album, tutti a suo nome e con le sue composizioni, avvalendosi in uno di questi della collaborazione del pianista Art Lande.
In questo periodo sta incidendo “Sciroccu” con la Gateway Music / Subzonique di Copenaghen con Kim Kristensen al piano e  bass flute, Marilyn Mazur  alle percussioni e Klavs Hovman, al basso acustico.

A Milo l’artista ha presentato un progetto dal titolo: “La mia Musica, il mio Jazz  – ritratto di un’Artista, Musicista e Donna” con il suo ben affiatato Sicilian Jazz Quintet, completato da Valerio Rizzo al piano, Samyr Guarrera ai sax soprano e tenore, Gabrio Bevilacqua al contrabbasso e Carmelo Graceffa alla batteria; musicisti tutti siciliani, giovani ma dotati di grande talento e tutti in sintonia col sentire musicale della leader.
In apertura “Rememb’rin”, composizione della Bentivoglio che troviamo nel suo sempre attuale  album  “Transparences”, brano che inizia come una nenia o una preghiera per poi sfociare in una ballad che ben presto  passa in 5/4.
A seguire “Orange blossoms in summertime” (C. Landy/Kurt Elling) e una splendida “Tight “di Betty Carter; quindi altri due original della vocalist, al cui interno ritroviamo suoni che ci fanno ricordare con delicatezza il blu intenso del mare siciliano e i gialli odorosi di miele delle ginestre che si stagliano luminose in tutta la loro bellezza sul terreno vulcanico dell’Etna.

Ed è una musica estremamente evocativa che coinvolge pienamente gli spettatori.
“Cieli di marzo” è un’altra composizione della Bentivoglio che così illustra la genesi del pezzo:  «Questo brano l’ho scritto ispirandomi ai nostri cieli, azzurri, alti, profondi, cangianti come una stagione appena accennata, non ancora definita, con le nuvole veloci in cielo che ci chiudono o aprono… la vista del sole».
Lasciata sola sul palco dai suoi musicisti, Rosalba imbraccia la sua Takamine sei corde
acustica e propone un omaggio ad una grande compositrice, poetessa e cantante americana, Joni Mitchell, con due brani: “A case of you” e “Blue motel
room”; in conclusione di concerto la vocalist presenta “The sing of the white sea” (brano che troviamo nel suo cd “Only Light Blue” con un virtuosistico Paul McCandless ai fiati) e il mare bianco non è altro che il Mare Mediterraneo nell’antica lingua araba e turca, le cui popolazioni così indicavano questo mare.

Per il bis, chiesto a gran voce dal folto pubblico, un’altra perla delle sue composizioni: “I Luoghi di Eolo”, dove Il luogo è un non luogo.
La forma di questa musica è eterea e il «soffio» è corrente di vita, afflato di energia, filo conduttore che unisce il corpo umano all’universo; il linguaggio-canto implica una visione del mondo in cui non esiste più alcuna differenza tra microcosmo e macrocosmo. «I luoghi di Eolo sono i luoghi del mio immaginario, ed è anche così che io mi identifico con la mia Sicilia», spiega Rosalba.
Tutti brani molto intensi, che mettono in evidenza le sue non comuni doti compositive e vocali e che nulla concedono alla dimensione commerciale, facendone un prodotto di musica colta, raffinato per alcuni versi, che fa riaffiorare alla mente certa musica contemporanea nord europea (leggasi ECM), con sfumate suggestioni etniche e  non trascurabili riferimenti        jazzistici.
Insomma una musica originale, mai scontata o banale, carica di emozioni e di comunicatività, che certamente richiede un ascolto impegnativo ma proprio per questo con risultati assolutamente appaganti.

(MT)

Foto di Enrico Guarrera