Spiritualità e Contrabbasso, in memoria di Gary Peacock

di Alessandro Fadalti –

Un contrabbassista divenuto tale per il fato. Nato nel 1935, la sua educazione musicale passa per vari strumenti. Ha espresso la sua arte sul pianoforte, sulla tromba e sulla batteria, per poi ritrovarsi tra le mani quel grande armadio di pregiata liuteria durante la sua permanenza in Germania poco prima di cominciare a suonare con Bud Shank a Francoforte. Il destino volle che il bassista del gruppo in cui suonava in quegli anni si sposasse e mettesse su famiglia, abbandonando la musica. Gary Peacock dovette passare dalle corde del piano a quelle del contrabbasso in uno schiocco di dita. Studiava e migliorava giorno dopo giorno a una rapidità tale che pareva nato per quello strumento. Tornato negli Stati Uniti, iniziò a farsi un nome suonando in alcune Session con Art Pepper. Successivamente si trasferì con la sposa novizia, Annette, a New York e da lì in poi la sua carriera si compone di numerose collaborazioni con grandissimi nomi del Jazz.

Gary Peacock

Quello che molti sottolineano di Gary Peacock è l’estrema connessione che riesce a stabilire con i musicisti. Nelle interviste è difficile che il contrabbassista parli di artisti o gruppi in cui non si sia trovato a proprio agio. La sua figura è indissolubilmente legata al concetto di Interplay nel senso più puro, forse anche grazie alle esperienze da polistrumentista. Questi caratteri trovano forte spazio nella sua più memorabile e proficua collaborazione con il Keith Jarret Trio, a cui si aggiungono la più datata e duratura fratellanza con il pianista Paul Bley e i primi passi all’interno del mondo del Free con il sassofonista Albert Ayler.

Keith Jarrett Trio

Con lui giunge anche il suo periodo di vita più buio. Gli anni ‘60 stavano tramontando, l’abuso di acidi e i problemi di salute lo portano a mettere in discussione se stesso fino alla radice. Si analizza come essere umano, realizzando che tolto il basso dalle sue mani vivrebbe lo stesso, ma lui è soltanto un musicista e nient’altro. Questa crisi interiore lo porterà ad abbandonare la scena musicale e trasferirsi per qualche anno in Giappone a studiare medicina orientale. Una scelta convergente al suo interesse per il buddismo zen. Ritrova un equilibrio nella sua esistenza attraverso la filosofia orientale e la meditazione Zazen, ma soprattutto riscopre l’entusiasmo di suonare grazie ad alcuni musicisti locali. Produce due album “Eastward”(1970) e “Voices” (1971) con il pianista Masabumi Kikuchi, il batterista Hiroshi Murakami, e il percussionista Masahiko Togashi. I due dischi sono la messa su nastro del risveglio e cambiamento del suo io più profondo. Possiamo udire un netto cambio di stile, il suo approccio mantiene la caratteristica timbrica possente che sa dare al contrabbasso, a cui va ad amplificarsi quella che è la sensibilità armonico-melodica. Nella sua estetica si aggiunge il carattere dello spazio che il suono occupa, includendo molti più silenzi e note sospese. In ultimo, si libera del tempo stabile, carattere quest’ultimo che entra in risonanza con l’amore per Ornette Coleman, che scoprì grazie al suo collega e amico Scott LaFaro. “Ishi” è il brano d’apertura dell’album “Voices”: basterà ascoltare i quattro minuti iniziali del solo di contrabbasso per percepire quanto la spiritualità zen abbia influenzato il suo modo di suonare.

Quanto detto ci permette di capire l’intensità sensibile che, chi lo ama, ritrova nella sua musica con Keith Jarrett e Jack DeJohnette: un trio in cui, a sue parole, si percepiva una magica intesa che portava tutti a essere così dentro le composizioni da riuscire a esprimersi oltre i propri limiti. In esso possiamo sentire la massima maturazione della sua musica, che affonda radici in quella collaborazione nipponica meno discussa tra gli ascoltatori di Jazz. Proprio in Jarrett ritrova quel senso Zen che stava cercando; infatti, in un’intervista per All About Jazz, Peacock riporta la risposta del suo maestro zen John Daido Lori, alla domanda cosa sia lo zen: «Just do what you’re doing while you’re doing it. – e continua commentando – It’s so simple, but it’s so hard! That’s something about Keith. Whatever he’s doing, he’s doing it. In some ways he’s more Zen than anybody I’ve ever met». («Fai semplicemente quello che stai facendo mentre lo stai facendo – e continua commentando – È così semplice, ma è così difficile! È qualcosa su Keith. Qualunque cosa stia facendo, la sta facendo. In un certo senso è più zen di chiunque io abbia mai incontrato».)

Dell’ultima decade, va menzionato con particolare attenzione l’album come bandleader “Tangents” (2016) con il suo trio assieme al pianista Marc Copland, amico di lunga data, e il batterista Joey Baron in cui il brano “Empty Forest” è forse il miglior lascito di questo modo profondamente spirituale di vivere da musicista. Non far diventare il proprio strumento un’estensione di sé, ma connettersi con esso come fosse una persona a parte, così come si fa con gli artisti con cui si suona.

Di lui ricorderemo il suo esser ben più che un musicista nella vita: la filosofia  zen che si fonde con le corde del suo basso.

Alessandro Fadalti