Intervista a Gerlando Gatto su JazzDaniels, il blog di Daniela Floris e Daniela Crevena

Pubblichiamo con piacere l’intervista a Gerlando Gatto, fatta da Daniela Floris e pubblicata sul suo blog Jazz Daniels, Jazz e altra Musica (Note e Immagini di Daniela Floris e Daniela Crevena), in occasione dell’uscita del libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

«Terzo libro per Gerlando Gatto, giornalista, critico musicale, e direttore del sito A Proposito di Jazz. Un nuovo libro di interviste, protagonisti i musicisti, intervistati in uno dei periodi più drammatici degli ultimi anni: il lockdown durante l’emergenza Coronavirus, che ha costretto l’Italia a fermarsi quasi completamente per quasi tre mesi. La categoria dei musicisti è stata una di quelle maggiormente colpite, una delle ultime a riprendersi, per la impossibilità non solo di organizzare concerti live, ma anche di registrare, provare, promuovere. Tutto bloccato.
Il libro, edito da GG edizioni, contiene una quarantina di interviste tra quelle precedentemente pubblicate nel sito A Proposito di Jazz, ideate dallo stesso Gatto e raccolte in parte anche da Marina Tuni, che ha collaborato alla realizzazione del libro, e dalla sottoscritta.
Qui di seguito la mia intervista a Gerlando, che ringrazio, come sempre, per la disponibilità e la stima che mi dimostra da tanto tempo.

Questo libro di interviste è molto diverso dai due precedenti. Si potrebbe dire che è quasi un’indagine, una fotografia istantanea di una realtà con cui sei costantemente in contatto, quella del mondo del Jazz italiano, in un periodo del tutto eccezionale, una pandemia mondiale. Sembra rispondere a una vera e propria esigenza giornalistica: quale?
“Partiamo da un dato di fondo che nel nostro Paese non mi sembra molto condiviso: gli artisti non servono “a farci divertire”. La loro funzione è molto ma molto più profonda. In tale contesto il jazz è la Cenerentola tra le Cenerentole e quindi da sempre gode di scarsissima attenzione. Di qui la mia idea di focalizzare l’attenzione su un comparto che al momento del lockdown stava attraversando un momento particolarmente difficile e delicato, con tanti musicisti privi di qualsivoglia mezzo di sussistenza. Ecco, volevo tracciare un quadro d’assieme di quel che stava vivendo il mondo del jazz italiano in quei terribili momenti”.

–Scegliere un format unico di domande da porre uguale è una scelta sicuramente ponderata. Ce ne spieghi il perché?
“Tu mi conosci abbastanza bene e come dimostrano anche i miei due precedenti libri io amo studiare chi mi troverò ad intervistare e preparo una serie di domande che possano far venir fuori non tanto il personaggio, l’artista quanto l’uomo, la donna che si celano dietro la maschera ufficiale. In questo caso il mio intento era completamente diverso: non mi interessava il singolo intervistato quanto un ambiente, un insieme, un milieu che potremmo identificare nel mondo del jazz italiano, senza la pretesa, ovviamente, di volerlo rappresentare nella sua globalità. Come noterai, infatti, i singoli musicisti sono introdotti semplicemente con nome, cognome e strumento senza una riga di curriculum. Quindi tutti sullo stesso piano, musicisti, jazzisti che stavano attraversando una congiuntura particolarmente pesante e non solo dal punto di vista economico”.

–Quante testimonianze sono raccolte in questo libro?
“Le testimonianze derivano dalle interviste che io, Marina Tuni e tu stessa avevamo già fatto e pubblicato sul mio blog “A proposito di jazz”. Per il libro sono stato costretto ad eliminarne alcune perché altrimenti lo stesso sarebbe stato troppo voluminoso e di conseguenza caro. Comunque, per rispondere alla tua domanda, le interviste sono 41”

–Come hai individuato le domande da porre, e dunque che tipo di domande hai posto ai musicisti intervistati?
“Questa è stata la parte più difficile del lavoro. Mi interessava scendere nello specifico, nell’intimo, ponendo domande, lo riconosco, indiscrete, crude, come quelle relative ai mezzi di sussistenza o alle eventuali compagnie durante il lockdown, ma era l’unica via da seguire per raggiungere l’obiettivo prefissato. Ho quindi cominciato ad intervistare i musicisti che mi conoscono meglio, che mi sono amici e che quindi mi riconoscono un’assoluta buona fede; viste le loro reazioni più che positive ho rivolto la mia attenzione anche ad artisti che non avevo molto frequentato e devo dire che mi è andata alla grande nel senso che nessuno si è rifiutato di rispondere alle mie domande, anzi…”.

–Il lockdown, l’emergenza, hanno significato per molti un fermo lavorativo spesso drammatico, specie per chi non aveva le spalle coperte dall’insegnamento, magari nei conservatori. Non deve essere stato facile per i musicisti parlarne. Quali sono gli stati d’animo che hai visto prevalere, quali le paure, quali le diverse modalità di raccontare una situazione così difficile?
“Come tu stessa sottolinei gli stati d’animo, con riferimento ai problemi di sussistenza, erano piuttosto diversificati. Così c’è chi, avendo alle spalle una lunga e gloriosa carriera, affrontava questi momenti con pazienza e senza alcuna preoccupazione. Per gli altri netta era la differenza tra chi poteva contare comunque su un’entrata derivante dall’insegnamento e chi no. I primi erano preoccupati ma non troppo e comunque aspettavano con ansia la ripresa delle attività. I secondi sottolineavano la necessità che qualcuno si ricordasse anche di loro, che i sussidi messi in campo dal governo non erano sufficienti. E tutto ciò si trasmetteva nelle modalità con cui raccontavano la loro situazione, modalità che transitavano dal tranquillo-paziente al moderato allarmista all’aperto S.O.S.”.

– Un giornalista di lungo corso come te ha certamente tratto delle conclusioni da questa che, anche se di lettura molto agevole, appare quasi un’inchiesta. Puoi darci una tua lettura complessiva di queste testimonianze? Quale l’impatto nel mondo del Jazz italiano, quali i tempi di reazione, quali le prospettive, secondo te, in un inverno che si preannuncia comunque difficile?
“Le conclusioni sono abbastanza semplici: il mondo del jazz italiano lamenta una sottovalutazione che si trascina oramai da anni e che riguarda non solo l’universo politico ma anche il cosiddetto mondo culturale e tutto ciò che vi gira intorno. L’impatto del virus è stato terrificante, nel senso che da molti degli intervistati non trapela alcuna nota di ottimismo, anche perché ci si rende perfettamente conto che il domani non sarà più come l’ ieri che abbiamo conosciuto. E tutti sono concordi nell’affermare che la stagione dei concerti così come l’abbiamo conosciuta è finita… almeno per un lungo lasso di tempo”.

– Prendo spunto dalle parole che estrapolo dalla bellissima prefazione del Maestro Massimo Giuseppe Bianchi: “Gerlando capisce e ama la musica, rispetta i musicisti e da loro è rispettato nonché, come da qui traspare, riconosciuto quale interlocutore credibile. Ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla.”
Quanto è importante, alla luce di questo tuo lavoro, godere della fiducia e della stima di coloro che si decide di intervistare per ottenere un risultato come quello ottenuto in questo libro? Come si ottengono fiducia e stima? E quanto importante saper scegliere un linguaggio che sia ad un tempo agile e comprensibile ma adatto a situazioni complesse da spiegare?
“Prima di risponderti, consentimi di ringraziare dal più profondo del cuore l’amico Massimo Giuseppe Bianchi che ha scritto una prefazione per me davvero toccante. E veniamo alla tua domanda che in realtà ne contiene parecchie. La prendo quindi alla lontana e parto dal linguaggio, dalla chiarezza del linguaggio, che è sempre stato una direttrice fondamentale del mio lavoro da giornalista, Come forse ricorderai, io ho vissuto la mia carriera da ‘giornalista economico’; in tale branca essere chiari, usare le parole giuste nel contesto appropriato è assolutamente prioritario. Per ottemperare a questa sorta di obbligo assolutamente personale, quando ho cominciato a lavorare nei primissimi anni ’70 quando ancora stavo a Catania, collaborando con riviste specializzate, una volta finito un pezzo lo facevo leggere alla mia mamma, persona molto intelligente ma assolutamente priva di qualsivoglia rudimento in economia. Se lei capiva ciò che avevo scritto significava che l’articolo andava bene, altrimenti no, e lo rifacevo, Ecco mi sono portato appresso questo insegnamento per tanti anni e lo utilizzo ancora adesso che andato in pensione e lasciata da parte l’economia mi occupo solo di musica. Quindi un linguaggio piano, scevro da tecnicismi che può essere capito ance da chi non si interessa di musica. Quanto alla stima dei musicisti, oramai credo che molti di loro sappiano che mi occupo di musica non per scopo di lucro ma per passione: certo ci sono voluti anni, molti anni ma credo che alla fine sono riuscito ad acquisire la fiducia di molti artisti e per alcuni di loro credo di poter usare la parola ‘amico’. Certo non nego che con alcuni di loro ho avuto dei contrasti alle volte anche energici ma, ovviamente, non si può andare d’accordo con tutti. Comunque una cosa è certa: senza la stima e la fiducia dei jazzisti non avrei potuto porre loro domande così crude e indiscrete”.

– Per finire, c’è una frase, o un pensiero, tra tutte queste interviste, che ti ha colpito particolarmente? Ti chiedo di non fare il nome di chi l’ha formulata: ci penseranno i lettori a scoprirla.
“In tutta franchezza c’è stata un’intervista che mi ha particolarmente colpito per le manifestazioni oserei dire di affetto manifestate nei miei confronti. Per il resto ci sono state molte dichiarazioni che mi hanno impressionato o per i loro contenuti culturali o per il modo particolare di vedere e quindi affrontare il futuro. Ma farei torto a molti se dovessi citarne qualcuna”.»