I nostri CD
Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.
AB Quartet â âI bemolli sono bluâ â TRJ records
LâAB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). Lâalbum prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione cosĂŹ come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente lâinfluenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova giĂ nel primo brano, âMoonâ; il riferimento è al âClair de Luneâ vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto piĂš sostenuto rispetto allâoriginale.
Tiziana Bacchetta â âDriving Home for Christmasâ â G.T.
Unâindispensabile premessa: io non amo particolarmente gli âalbum di Nataleâ per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti âHave Yourself a Merry Little Christmasâ di Martin -Blane e âWhite Christmasâ di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca lâindividualitĂ di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, comâè fin troppo ovvio, il merito principale dellâottima riuscita dellâalbum è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, lâartista dĂ prova di grande maturitĂ sfoggiando notevoli capacitĂ interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues âChristmas Tearsâ portato al successo da Freddy King uno dei piĂš talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la âTitle Trackâ un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con lâevergreen âWhite Christmasâ di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festivitĂ , una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.
Michel Benita – âLooking at Soundsâ – ECM
Lâetichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In âLooking at Soundsâ il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. Lâalbum è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto allâassolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, âInutil Paisegemâ di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e âNever Never Landâ di Styne, Comden, Green. Lâintro affidata al leader è una sorta di manifesto dellâintera poetica dellâalbum: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dellâalbum. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dellâalbum anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo âNever Never Landâ in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei piĂš centrati assolo dellâalbum. Gustosa, infine, lâinterpretazione di âInĂştil Paisagemâ.
Roberto Bindoni Unquiet Quartet â âMediterranean Cowboyâ – Alfa Music
Eâ uscito di recente lâalbum dâesordio dellâUnquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dellâintero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare lâattenzione dellâascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio allâimprovvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in âUnquiet Placeâ e nel giĂ citato âKamikazeâ). Particolarmente suggestivo âEncantoâ con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco dâesordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma giĂ a questo punto è un bel sentire.
Matthieu Bordenave â âLa traversĂŠeâ â ECM
Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, lâidea musicale che ha ispirato lâalbum è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. Lâalbum oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialitĂ dei tre artisti. CosĂŹ se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in âVentouxâ o quello di Weber nel successivo âIncendie blancâ. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la âtraversataâ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.
Yilian Canizares â âErzulieâ â Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare piĂš e piĂš volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste piĂš originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicitĂ nellâalbum in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtĂ prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. QuĂŹ Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso lâalbum è dedicato a âErzulieâ, divinitĂ del pantheon vudu che personifica lâessenza della femminilitĂ e la sensualitĂ . In effetto lâintento della Canizares è piĂš ampio: âraccontare la storia dellâAfrica attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans [âŚ] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamenteâ. Accanto allâartista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalitĂ e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie âBKVKâ Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. Lâalbum si apre con la romanticamente coinvolgente âHabaneraâ e si chiude con âYeyĂŠâ cantata in dialetto yoruba (o lucumi), cosĂŹ come âYemayĂĄâ mentre nella title track e in âNoyĂŠâ lâartista utilizza il creolo haitiano. Unâultima notazione tuttâaltro che secondaria: nel brano âLibertadâ sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.
Donatello DâAttoma â âOnenessâ â Dodicilune
Donatello DâAttoma è uno dei pianisti piĂš interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando piĂš indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, âComing On Thwe Hudsonâ. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire lâascoltatore, ma grande attenzione allâespressivitĂ e quindi alla volontĂ di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare DâAttoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dellâesecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni dâavventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tuttâaltro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, âFluorescent Lightâ, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dellâalbum. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde dâintensitĂ .
Elina Duni, Rob Luft â âLost Shipsâ â ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue â albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in âBrightonâ) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma lâalbum è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dellâemigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: ÂŤCi sono canzoni â afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dellâAlbania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americaneâŚ. Âť. Comunque lâalbum, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, lâuna sempre piĂš convincente nellâinterpretazione di tematiche assai delicate, lâaltro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. CosĂŹ la musica acquista attimo dopo attimo sempre piĂš consistenza, sorretta da unâintesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, âThe Wayfaring Strangerâ. Il controllo delle dinamiche è assoluto cosĂŹ come la capacitĂ di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con âHier Encoreâ di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.
Erodoto Project â âMythos Metamorphosisâ â Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dellââErodoto Projectâ giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo âStories: Lands, Men And Godsâ (2016) e âMolòn Labèâ (2017) arriva âMythos Metamorphosisâ in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso lâavventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla CumanaâŚvia via fino al brano di chiusura dedicato a âLeucosyaâ, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E cosĂŹ è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensitĂ caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nellâoccasione, dal trio dâarchi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano lâascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.
Marco Fumo â âReflectionsâ – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nellâambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è lâennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami â ora palesi ora piĂš nascosti – tra lâuniverso euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dellâOttocento e i primi del Novecento sulle due sponde dellâOceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride pianoâŚal jazz e alla musica classica europea in un confronto tuttâaltro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. Eâ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano lâalbum, ascoltando il âTangoâ di Stravinsky risalente al 1940 e il âCafĂŠ de Barracasâ di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. PiĂš evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per lâappunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia âfrequentato sempre tutta la musica, indistintamenteâ non facendosi mai limitare âda barriere o pregiudiziâ.
Danilo Gallo, Dark Dry Tears â âHide, Show Yourself!â â PMR
Dopo lo splendido album âThinking Beats Where Mind Diesâ del 2016, il quartetto âDark Dry Tearsâ si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nellâintenso dialogo tra i due fiati, nellâincessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per lâapporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuitĂ , fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come lâuso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneitĂ tuttâaltro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca lâintero album nel brano âDemolitionâ caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.
Keith Jarrett â âBudapest Concertâ â 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e lâapproccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrĂ piĂš suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. Eâ il caso di questo âBudapest Concertâ inciso il 3 luglio del 2016 alla BĂŠla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard âItâs A Lonesome Old Townâ di Tobias e Kisco e âAnswer Me, My Loveâ di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la âPart Iâ sicuramente la piĂš complessa e meno melodica dellâintero programma, in cui lâartista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quellâarea culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dallâinizio da una atmosfera piĂš raccolta, intimista e da una piĂš avvertibile cantabilitĂ . Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. Eâ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di piĂš, quellâartista che raccoglie in sĂŠ il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato cosĂŹ come noi che ascoltiamo lâalbum comodamente accovacciati in poltrona.
Anja Lechner, François Couturier â âLontanoâ â ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con âModerato cantabileâ sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo âLontanoâ articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dallâorganico, si tratta di una musica dallâimpianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dallâaltro la scelta del repertorio. Ascoltando lâalbum sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. Dâaltro canto non mancano pagine in cui la capacitĂ di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nellâintento â del tutto riuscito â di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. CosĂŹ, dopo i primi tre brani di impronta âcoltaâ, il ben noto e struggente âAlfonsina y el marâ di Ariel Ramirez. E questa particolare capacitĂ di attualizzare alcune partiture appare altresĂŹ evidente, come chiarito nel libretto che accompagna lâalbum, in almeno altri quattro brani: in âMemory of a Melodyâ ci si richiama allâaria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in âHymneâ si avverte lâinfluenza di Gurdjieff, in âPostludiumâ fa capolino lâarte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel giĂ citato âModerato cantabileâ.
Gianni Lenoci â âWild Geeseâ â Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è lâennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacitĂ improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sĂŠ stessa, dallâaltro nellâestremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunchĂŠ perdere dellâoriginario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. Lâalbum produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo lâammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, âLatin Geneticsâ e il conclusivo âIda Lupinoâ, senza alcunchĂŠ togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso âAnd now the queenâ cui fa seguito âJob Mobâ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dellâalbum costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerĂ anche a costoro.
Ivano Nardi â âHomage to Kandinskyâ –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). LâAlbum, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nellâintento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dallâartista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni â70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che âcontinuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano lâarte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!â.
Novotono â âWood (Wind) at Workâ â Autrecords
Sotto lâinsegna dei âNovotonoâ incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. GiĂ la struttura stessa dellâorganico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sullâaspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico nĂŠ quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacitĂ improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. CosĂŹ ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in âMelodie Per Un Burattino Di Legnoâ, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura piĂš profonda, mentre in âGegheghèâ si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, âOld Durmastâ caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e âContratuba Seguoiaâ con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metĂ del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo lâoriginario schema. Bella la chiusura con âWooden Toysâ scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: lâimprovvisazione è stato, è e sarĂ un elemento imprescindibile della musica jazz.
Enrico Pieranunzi â âTimeâs Passageâ â abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perchĂŠ ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard lâuno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel lâaltro. GiĂ dalle prime note della title track si intuisce quale sarĂ lâandamento dellâalbum: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco cosĂŹ la delicata âTimeâs Passageâ impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il âValzerâ espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con âBiffâ le atmosfere virano decisamente verso uno swing piĂš accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E cosĂŹ fino allâultimo brano, âVacation from The Bluesâ. Una curiositĂ : nel disco câè una doppia versione del brano âIn the wee small hours of the morningâ portata al successo da Frank Sinatra, una con lâensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini âha cantato cosĂŹ bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambeâ. E come dargli torto?
Dino Rubino â âTime of Silenceâ â Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei piĂš fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un poâ di tempo incide per la Tuk Music e con lâetichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Questâultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, âSettembreâ, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dellâalbum con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso câè ed è evidente. In un momento in cui chi strepita piĂš forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. Eâ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tuttâaltro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in âClaireâ il modo in cui, dopo un bellâassolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. CosĂŹ come in âKarolâ, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialitĂ . PotenzialitĂ che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in âOwl in the Moonâ impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicitĂ . Infine come non segnalare lâultimo brano, il malinconico âSettembreâ, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di lĂ della musica, bella la cover dovuta allâartista svizzero Stephan Schmitz.
Terje Rypdal â âConspiracyâ â ECM
Conosco personalmente Rypdal da piĂš di 40 anni e fin dallâinizio lâho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilitĂ : tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker cosĂŹ come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per lâappunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con StĂĽle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e PĂĽl Thowsen batteria, lâalbum si articola in sei composizioni del leader che attraversano un poâ tutto il suo spettro compositivo. Lâaggancio a quel jazz-rock degli anni â70 e â80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernitĂ che si respira evidente mai dando lâimpressione del deja-vu. CosĂŹ se il brano dâapertura âAs if the Ghost⌠was Me?â (âCome se fossi io, il fantasma?â) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che giĂ in âWhat was I thinkingâ ascoltiamo un chitarrista piĂš pensoso, piĂš intimista a dialogare con il basso. PiĂš legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica piĂš evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso unâoncia della sua creativitĂ . Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad âBy His Lonesomeâ.
Dino Saluzzi â âAlboresâ â ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalitĂ che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attivitĂ , tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra lâaltro assai particolare in quanto dopo piĂš di trentâanni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressivitĂ mai raggiunti fino ad oggi. Certo câè sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sĂŹ da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad âAlboresâ che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (âAdios Maestro Kancheliâ) la cui musica ha giĂ inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (âLa cruz del Surâ) cosĂŹ come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (âDon Caye â Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzziâ). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires dâaltri tempi: si ascolti âSegun me cuenta la vidaâ una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo âIntimoâ. Lâalbum si conclude con âOfrenda â Toccataâ, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeitĂ e spiritualitĂ a cui tutti noi siamo invitati.
The Auanders â âText (us)â – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma lâidea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dellâetichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte cittĂ con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti piĂš attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(âScrivici un messaggioâ) â contiene di per sĂŠ una della carte vincenti dellâetichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale lâalbum risulta interessante soprattutto per le modalitĂ di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti dâassieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per lâappunto, modo di esprimere le proprie potenzialitĂ . Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in âSong to the Unbornâ, Filippo Vignato in âOne Weekâ, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.
Tingvall Trio â âDanceâ – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e JĂźrgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la âSkip Recordsâ. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da questâultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano lâascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di unâempatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Questâultimo âDanceâ è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In âSpanish Swingâ, âCuban SMSâ e âBoleroâ è lâanima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in âBoleroâ mentre in âArabic Slow Danceâ si avvertono i profumi dellâOriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. âYa Manâ tratteggia unâatmosfera diversa dal resto dellâalbum in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della âdanzaâ non mancano mezzi piĂš meditativi e introspettivi come il conclusivo âIn memoryâŚâ.
Oltre al CD e allâuscita digitale, sarĂ presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.
Dominik Wania â âLonely Shadowsâ â ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (âUnlovedâ, âThree crownsâ, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un âpiano soloâ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma giĂ alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato âUnlovedâ. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarĂ sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacitĂ improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova piĂš difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati allâimprovvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacitĂ compositive e interpretative. La sua musica, tuttâaltro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande lâattenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come giĂ accennato, siamo nel campo dellâimprovvisazione totale che lâartista maneggia con disinvoltura e con originalitĂ mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare âAG76â un omaggio allâartista polacco ZdzisĹaw BeksiĹski (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre âIndifferent Attitudeâ si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.
Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano â âArctic Riffâ â ECM
Incontro al vertice tra uno dei piĂš grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilitĂ di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualitĂ indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva giĂ evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anchâegli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. CosĂŹ, ad esempio, nella doppia versione di âVashkarâ di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in âFading Sorrowâ mentre in âLâAmour Fouâ è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, âOld Hatâ, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare allâunisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel giĂ rodato meccanismo del trio polacco.