Il grande chitarrista-gentiluomo nei ricordi di Flaviano Bosco

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di Flaviano Bosco –

Pare perfino scontato salutare Franco Cerri ora che ha deciso di raggiungere suo figlio per continuare la sua infinita serie di concerti in un’altra dimensione. Dire che era il decano del jazz italiano è auto-evidente e per onorarlo degnamente bisogna di certo osare di più.
Se c’è qualcuno che ha dato al jazz italiano una fisionomia che gli è propria, un gusto tutto nostro, disincantato, leggero, popolare e al tempo stesso colto e raffinatissimo è stato di certo il chitarrista milanese per antonomasia. Cerri ha traghettato generazioni intere dalla musica d’imitazione americana, che nel nostro paese aveva avuto una gloriosa stagione già a partire dagli anni ‘30, verso un sound tutto nuovo, tra le nebbie e il sole della pianura padana “fino ai laghi bianchi del silenzio” come ricorda in una sua canzone Paolo Conte, altro grande testimone del nostro tempo, mentre parla di un chitarrista che si estenua alla ricerca della giusta intonazione.

Se proprio vogliamo andare in ordine cronologico, tutto era iniziato in Europa con l’inarrivabile Django Reinhardt e con il suo sodale Sthépane Grappelli. Cerri poteva dirsi loro allievo diretto, visto che giovanissimo lavorò con entrambi e condiviso un tour europeo con il secondo, durato due anni con centinaia di concerti.
Leggenda vuole che il jazz in origine sia stato per 2/4 afroamericano, 1/4 italiano e tutto il resto una fantasmagoria gitana. Sempre, come dice l’avvocato di Asti in altro contesto ma nella medesima canzone: “la sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra, il suo essere di frontiera, una verde frontiera tra il suonare e l’amare, verde spettacolo in corsa da inseguire. Da inseguire sempre, da inseguire ancora”.
Franco Cerri chitarrista ha vissuto tutta la propria lunga prodigiosa esistenza di musicista puro in questa luce d’orizzonte, continuando ad esplorare i misteri della musica con il suo sorriso da eterno ragazzo, meravigliandosi sempre dei miracoli delle sue dita, come raccontava spesso.
Chi scrive ricorda d’averlo visto in concerto la prima volta sul finire degli anni ‘80 e poi in moltissime altre occasioni tra le quali una memorabile esibizione con il quartetto di Gianni Coscia (11/06/1999 Gorizia) che celebrava gli anni pionieristici del Jazz italiano. I vecchi appunti di allora recitano:
“Quella musica irripetibile che sapeva di Novembre e di bachelite, quei suoni che erano la colonna sonora del ciclismo dei gregari, le salite e gli aeroplani, il vino rosso nei bicchieri di vetro spesso e delle domeniche pomeriggio… quella musica, a dispetto delle hit parade, esiste ancora. Gianni Coscia e Franco Cerri sono stati i sacerdoti officianti del gran rito della memoria, di qualcosa che non passa, migliora e si affina nei decenni. L’Italia, con i propri enormi difetti, con le proprie miserie, è inspiegabilmente custode di un patrimonio musicale inarrivabile che si esprime anche nelle canzoni popolari del secondo dopoguerra, giudicate spesso troppo superficialmente ma che in realtà sono scrigni all’interno dei quali si conserva molto spesso la nostra anima più pura, quella ingenua e sognante, perfino stupida e stupita in un’armonia di danza e di sberleffi.
Nel nostro cuore la “swing era” non è mai finita, le stelle del jazz appartengono anche a noi, scimmie della pianura padana o dei vicoli in festa tra lacrime e Vesuvio. Il lavoro di riscoperta continua delle nostre radici musicali da parte di questi musicisti è pregevolissimo. Cerri è un chitarrista dal suono e dalle abilità ipnotiche che, pur nella sua estrema sobrietà, sa toccare come pochi le corde dell’emozione. Coscia è un musicista più passionale e istrionico che si serve più del cuore che del virtuosismo”.
È sembrato giusto ricordarlo così, vivo e vibrante com’è stato fino allo scadere di questo suo transito terrestre. Imperturbabile e impermeabile alle mode passeggere, ha sempre continuato a riproporre i suoi accordi cristallini di una musica che apparteneva ad un altro tempo senza mai apparire anacronistica. Da perfetto autodidatta, il chitarrista milanese aveva trovato il proprio suono e continuò ad arrotarlo e affilarlo per decenni in infinite anche minime variazioni, modulazioni e riflessioni.
Ricevette la prima chitarra nel settembre del 1943 e trovò i primi accordi ascoltando i dischi di Benny Goodman, Louis Armstrong, Duke Ellington a casa di un amico più ricco, mentre per mantenersi faceva il muratore. Già durante la guerra cominciò subito a suonare a Radio Tevere, voce di Roma libera che era invece la voce della famigerata Repubblica sociale italiana che, in teoria, considerava il jazz “musica degenerata e negroide”, mentre il figlio di Mussolini era uno dei migliori pianisti jazz della sua epoca, nel nostro paese sempre in mezzo alle contraddizioni e ai miracoli della musica.
Cerri in seguito cominciò a suonare nell’orchestra di Gorni Kramer che scovò il suo talento una domenica pomeriggio mentre, a Milano, faceva ballare la gente in un cortile con la sua piccola band. Lo scritturò all’istante inserendolo nell’ambiente della musica del primo dopoguerra dove, giovanissimo, divenne uno dei musicisti e compositori più importanti e contesi tra Natalino Otto e il Quartetto Cetra, in sintesi i pionieri del jazz italiano più autentico. Il resto della sua lunghissima carriera è consegnato alla storia e alla leggenda con collaborazioni da far tremare le vene e i polsi, con le star più luminose del firmamento della musica di ispirazione afroamericana. Oltre ai nomi già citati ricordiamo almeno: Billie Holiday, Chet Baker – del quale fu contrabbassista per tre anni – Wes Montgomery, Mal Waldron, Dizzy Gillespie e centinaia di altri in una stagione di sogni in musica del tutto irripetibile.
È superfluo citare tutti i suoi successi e la sua discografia infinita. Per evocare tutta un’epoca basta ricordare ancora il suo sodalizio con Nicola Arigliano, grande crooner della canzone italiana, oggi quasi dimenticato dal grande pubblico ma che fu un talento inimitabile, che condivise con il chitarrista anche una vasta fama catodica dovuta, tra l’altro, a iconici spot pubblicitari della televisione d’antan.
Fantastica la loro interpretazione del classico Cherokee di Charlie Parker a Sanremo nel 1959, con Cerri alla chitarra Manouche-Maccaferri proprio come quella di Django Reinhardt. I due calcarono ancora un’ultima volta il palco di Sanremo in una memorabile serata del 2005.
Tra le sue incisioni più recenti vale la pena di ricordare anche quella con Antonio Onorato del 2016, recensita con grande favore su questa stessa rivista nel 2016 dall’ottima Marina Tuni. Un duo chitarristico spettacolare nel quale, sulla base di alcuni standard, Cerri, a 91 anni suonati, si metteva ancora una volta alla prova con musicisti molto più giovani di lui e di diversa formazione, come quelli che componevano la fantastica sezione ritmica di quel disco straordinario, giovani Maestri del Jazz italiano come Simone Serafini e Luca Colussi.
Vogliamo ricordarcelo così Franco Cerri con il sorriso sempre stampato sulla faccia e la chitarra imbracciata. Come diceva quella vecchia canzone di Vera Lynn: “ We’ll meet again, don’t know where, don’t know when, but I know we’ll meet again some sunny day…”

Flaviano Bosco

La foto di copertina è di Angelo Salvin

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