Chick Corea: l’Iperione del pianismo jazz. Un pensiero dedicato al musicista scomparso il 9 febbraio

Hyperion, «colui che precede il Sole», era un Titano della mitologia greca, padre di Elio (Dio del Sole), di Eos (l’Aurora) e di Selene (la Luna). Collegare questa mitologica figura ad Armando Anthony Corea, detto Chick, scomparso a 79 anni a Tampa Bay il 9 febbraio, è stato istintivo: lui è un titano della musica jazz, un audace precursore che come pochi altri ha saputo sviluppare l’arte del pianoforte portandola a livelli altissimi o, come mi ha scritto un amico pianista, un illuminato, «tra i più grandi creatori di archetipi della storia».
Qualche giorno prima che Chick se ne andasse, così… all’improvviso, stavo ascoltando un album, non certo epidittico della sua enorme, cinquantennale produzione. Si tratta di un LP del 1976 (Atlantic Records) «Chick Corea, Herbie Hancock, Keith Jarrett, McCoy Tyner». È un’operazione suggestiva, una sorta di silloge dell’arte pianistica che racchiude due brani per ciascuno dei quattro più importanti pianisti dell’era post-bop, nella formazione in trio.
Chick sceglie un brano di sua composizione “Tones for Joan’s Bone’s” (che è anche il titolo del suo album di debutto, nel 1968) nel nel quale è accompagnato da Joe Chambers alla batteria e Steve Swallow al basso, mentre il secondo, “This is New”, porta la firma “nientepopodimeno che” di Kurt Weill e Ira Gershwin; qui lo accompagnano il trombettista Woody Shaw e il sassofonista Joe Farrell. C’è un assolo di Corea che mi fa impazzire… è bizzoso e puntuto…

Il Chick che ho ascoltato di più, tuttavia, è quello dei Return To Forever, nelle sue varie formazioni (dal 1971 ai giorni nostri) nelle quali sono transitati musicisti molto noti, tra cui alcuni top guitarist come Al Di Meola ed Earl Klugh. L’album di debutto della band, “Return to Forever”, uscito nel 1972 per l’etichetta ECM, con Chick al Fender Rhodes, Stanley Clarke al basso, Joe Farrell al flauto e sax, Airto Moreira, alle percussioni e la grande voce di Flora Purim, è per me uno dei dieci album di jazz-fusion più belli in assoluto…

Già… il Fender Rhodes… c’è un famoso aneddotto legato a questo strumento, che Corea raccontò così in un’intervista:

«Nel gruppo di Miles (Davis) facevo ciò che mi veniva chiesto. Per i primi sei mesi suonai il piano acustico, poi Miles disse che voleva un sound diverso; una notte si presentò con un piano elettrico e mi disse: “suona questo”. All’inizio ho odiato il Fender Rhodes, perché lo suonavo come un pianoforte, cosa che non è. Ma mi sono applicato, ho fatto di tutto per accontentare Miles. Poi quando ho fondato il mio primo gruppo Return to Forever ho suonato soprattutto il Fender».

Chick Corea l’ho incontrato nel 2015 a Udin&Jazz (a Udine venne anche nel 1997 in duo con il vibrafonista Gary Burton) e, al di là dello splendido concerto per piano solo a cui ho avuto la fortuna di assistere, nel quale presentò un repertorio composto non solo dalle sue composizioni originali ma che viaggiava anche sulle note di Gershwin, Scarlatti, Chopin, conservo gelosamente nel mio cuore il ricordo di una persona estremamente aperta e disponibile, sia con il numeroso pubblico presente, sia con noi dietro le quinte.

Sempre generoso e aperto allo scambio, Chick invitò sul palco alcuni pianisti presenti che ebbero l’incredibile opportunità di suonare con una leggenda del jazz, vincitore di ben 23 Grammy Awards! Nel 1993, ricevette anche una Targa Tenco per “Sicily”, interpretata con il nostro Pino Daniele. Corea suonò il pezzo a Napoli, durante il suo concerto all’Arena Flegrea nel 2016, dedicandolo all’amico Pino, scomparso un anno prima, definendolo uno dei più grandi musicisti italiani e del mondo…
Se penso che quest’estate avrei finalmente rivisto questo straordinario pianista in Friuli Venezia Giulia, dov’era atteso a luglio per una data di Grado Jazz…
Nel periodo del primo lockdown, in aprile, lui postava sulla sua pagina Facebook un sacco di video: «Hello everybody, it’s Chick! Day 2» e via così… Ne ho seguiti diversi, rimanendo una volta di più stupefatta dal suo grande cuore e dal suo sempre impellente desiderio di condividere con gli altri la sua visione della musica.
Tra i suoi innumerevoli progetti, tengo particolarmente a menzionare la Chick Corea Elektric (in trio anche Akoustic) Band, con Patitucci, Gambale e Weckl, a testimonianza dell’eclettismo di questo artista e di quanto egli amasse addentrarsi nelle infinite pieghe della sperimentazione, con ibridazioni musicali cross-over.
Herbie Hancock, suo grande amico, racconta su Rolling Stone di quando una sera, nel 1980, al Montreux Jazz Festival… «sono finito sotto il pianoforte, suonavo la parte in legno. Chick era sopra il piano e faceva qualcosa con le corde. Il pubblico era fuori di testa. […] Non facevamo i pagliacci. Volevamo fare musica e allo stesso tempo divertirci. Che c’è di male?
Sapete cosa abbiamo fatto per il quinto bis? Eravamo dietro le quinte e Chick mi ha detto: “Dobbiamo tornare indietro, stanno ancora gridando”. Ho risposto: “Ok Chick, perché non mettiamo due sedie di fronte al pubblico e facciamo dei giochi con loro?”. È andata proprio così. Non abbiamo più toccato il pianoforte. Ci siamo seduti e abbiamo fatto tutto quello che ci veniva in mente: usavamo le parti del nostro corpo per suonare le percussioni, ci toccavamo la gola per fare dei suoni oscillanti. […] Non lo dimenticherò mai. È un ricordo monumentale».

Herbie Hancock& Chick Corea – Ph: Torben Christensen ©

Monumentale, un aggettivo che si attaglia perfettamente all’immenso lascito artistico di Chick Corea, un patrimonio prezioso, una fonte inesauribile di ispirazione per intere generazioni di musicisti, come nel suo ultimo messaggio, scritto quando aveva già la consapevolezza di doverci lasciare: « Voglio ringraziare tutti coloro che nel corso del mio viaggio hanno contribuito a mantenere vivo il fuoco della musica. Spero che chi di voi abbia l’attitudine per suonare, scrivere, esibirsi o altro lo faccia. Se non per voi stessi, fatelo per noi. Non solo perché il mondo ha bisogno di più artisti ma anche perché è molto divertente esserlo!»

Per te, Chick, una dedica speciale con una poesia di Srečko Kosovel, poeta sloveno poco “mainstream”, che quell’attitudine per scrivere di cui parli ce l’aveva eccome!
Purtroppo non ha potuto esprimerla appieno essendo morto a soli 22 anni…
«Oh, ma non c’è morte, morte! Solo il silenzio è troppo profondo. Come in una foresta verde in espansione! Solo ti ritiri, solo diventi silenzioso, solo cresci… solo… solo, solo, solo, invisibile.
Oh, ma non c’è morte, morte! Solo tu cadi, solo cadi… cadi, cadi in un abisso di blu infinito».
I bid you farewell, Chick, I bid you farewell. Ti ritroverò nell’imponderabilità tonale di una nota blu…

Marina Tuni ©

One Earth Choir – Il Coro della Terra un gesto creativo globale con la vocalist Enrica Bacchia

La redazione di A Proposito di Jazz condivide con piacere questa importante e meritoria iniziativa, “One Earth Choir – Il coro della Terra“, decima edizione, che si svolgerà Domenica 21 febbraio e rappresenta una straordinaria Opera d’Arte collettiva, il più grande Gesto Creativo globale fra Culture.
La voce della vocalist Enrica Bacchia viaggerà nell’Universo con il Coro della Terra, assieme a partecipanti di tutto il mondo che condividono il tema ‘abbiamo molte Lingue Native, ma un solo Linguaggio Umano, siamo una sola Umanità’. Il Progetto ideato da Anna Bacchia parte da Lugano e coinvolge ad oggi oltre 3.6 milioni di partecipanti da 73 Paesi. www.OneEarthChoir.net
(MT – Redazione)

COSA È – Cittadini di tutta la Terra in Sintonia – Una nuova Narrazione
Ogni anno il 21 febbraio – il Giorno del Coro della Terra – persone e istituzioni culturali di tutto il mondo, alla stessa ora, stando nelle loro Città, e collegati online attraverso il sito del progetto, ascoltano intonano o suonano la stessa Musica quale Simbolo del Linguaggio Umano che accomuna le diversità culturali in una sola Umanità: una sinfonia, un Coro di Cittadini della Terra creato da empatia, coerenza, compartecipazione quali input e pilastri di una rinnovata coscienza evolutiva.

La Musica del CORO della TERRA, sarà lanciata nello Spazio a cavallo di fotoni di Luce.
Il 21 febbraio, La Musica del Coro della Terra, verrà lanciata nello Spazio, oltre la atmosfera terrestre, in direzione dell’Universo, a cavallo di fotoni di Luce. Sia la versione corale, quale simbolo dell’Umanità, sia una versione melodica – cantata dalla ricercatrice e vocalist Enrica Bacchia – quale simbolo della voce e del canto, viaggeranno alla velocità della luce: a 300.000 Km all’ora, oltre il sistema solare, verso le stelle. Questo è possibile grazie alle straordinarie ricerche e scoperte del ricercatore e inventore Alessandro Pasquali (che sono attualmente al centro dell’attenzione dei massimi centri di ricerca del mondo). In collaborazione con Anna Bacchia e col Team di One Earth Choir, Pasquali opererà in tempo reale durante la diretta del Coro della Terra, trasmessa da Lugano, per realizzare questo progetto. “Questo è un evento unico – dice Pasquali – perché è per la prima volta nella storia che una informazione sintonica espressa da una coralità di culture diverse, viaggerà nello spazio. E, alla velocità della luce, la musica del Coro della Terra in meno di 2 secondi sarà oltre la Luna, e in 2 giorni sarà già oltre il sistema solare. E questo segnale continuerà a viaggiare nel cosmo”.

Enrica Bacchia

LA VOCE AI GIOVANI DELLA TERRA
In collaborazione con LIVING PEACE INTERNATIONAL, quest’anno, la trasmissione includerà interventi di straordinari GIOVANI di tutta la Terra che condivideranno i loro progetti ed il loro vivo impegno concreto a favore della Pace con le comunità dei paesi nei quali operano.
IL DIRETTORE della Musica del CORO della TERRA È UNO SCIENZIATO
Si tratta di uno degli Scienziati più famosi del mondo, Ervin Laszlo: filosofo, teorico dei sistemi e autore di oltre 70 libri tradotti in 23 lingue, due volte candidato al Premio Nobel per la Pace e fondatore del ‘Club of Budapest’, fondazione internazionale per la Scienza, l’Arte e la Cultura.

COME PARTECIPARE AL CORO DELLA TERRA
L’Evento è aperto a tutti (non solo a cantanti). Ci si iscrive al Coro della Terra e si condivide la trasmissione in Streaming al sito Il Coro della Terra.net
La Sinfonia condivisa in contemporanea mondiale avrà luogo alle ore 12 per il nostro meridiano. L’evento può essere seguito online, collegandosi dalle ore 11.20 alla trasmissione in streaming.

OLTRE L’EVENTO Al di là dell’Evento annuale, One Earth Choir è collegato ad una serie di Programmi Culturali e di Formazione ÌNIN, sul tema di ‘Coscienza, Sé, Vita’: una nuova comunicazione intuitiva in sintonia con la natura anà-logica della Vita , sviluppati dalla ricerca di Anna Bacchia in scienze umane e cognitive. Per tali iniziative, Anna Bacchia è tra i premiati del Premio Mondiale per la Pace ‘Luxembourg Peace Prize’. www.AnnaBacchia.net
I Progetti di Anna Bacchia sono supportati da un Comitato Scientifico Artistico Internazionale, che coinvolge Premi Nobel, Scienziati e Artisti di fama mondiale, fra cui: Gerald Pollack, Dominicus Rohde, Hiroo Saionji, Masami Saionji, Franco Ambrosetti, Vladimir Ashkenazy, Marco Bersanelli, Fritjof Capra, Davide Fiscaletti, Stephen Kovacevich, Ervin Laszlo, Leon Lederman, Mario Brunello, Rachelle Ferrell.

Contatti: Associazione Culturale ‘Vocal Sound – Bacchia Studio’ info@vocalsound.org +41 79 733 91 33

Il Jazzista Max Ionata testimonial per la Campagna “Dona Ippoterapia – Sostieni il CRE”

Max Ionata, jazzista di fama internazionale, è il volto della Campagna “Dona Ippoterapia Sostieni il CRE” a favore della ONLUS CRE G. De Marco a Roma.

Centro di riferimento in Italia la ONLUS – con sede a Roma – accompagna con la Terapia a mezzo Cavallo più di 90 utenti all’anno afflitti da diverse patologie, come Sindrome autistica, X Fragile, ADHD, disagio psico-fisico e motorio ed altre.

Da 31 anni, ormai, questa ONLUS offre la possibilità a tutti, anche alle famiglie più fragili, di poter accedere alla Riabilitazione Equestre. Una Terapia tanto efficace, quanto mai costosa! Per questa ragione è nato il  Centro di Riabilitazione Equestre G. De Marco ONLUS, che permette a tutti – soprattutto ai più piccoli – di poter accedere alle indispensabili cure e dove l’utente può partecipare a diversi progetti terapeutici, a seconda della patologia emergente. L’obiettivo, a fine percorso, permette a ciascun utente di ritrovare, nella vita di tutti i giorni, la propria autonomia e i propri affetti, grazie al lavoro svolto con il cavallo.

Quest’opera meritoria è resa possibile grazie alle donazioni di Enti, Fondazioni Bancarie e Privati cittadini e al contributo dell’Esercito Italiano che mette a disposizione luoghi ed animali.

Un grande grazie, dunque, a Max Ionata, sassofonista di origini abruzzesi e figura di spicco della scena jazz internazionale, che ha messo a disposizione della Onlus romana la sua immagine e la sua credibilità a sostegno della campagna  “Dona Ippoterapia: Sostieni Il CRE – G. DE Marco ONLUS”,  volta a trovare nuovi sostenitori e finanziatori che con le loro libere donazioni possano continuare ad assicurare a questi utenti le terapie di cui necessitano.

A dimostrazione dell’alta valenza del progetto, vi sono le numerosissime storie di successo di pazienti che hanno raggiunto traguardi importanti assieme alle loro famiglie che, grazie al prezioso supporto degli operatori del centro, si sono sentite sostenute e accompagnate lungo un percorso spesso gravoso…

Qui il video realizzato  con Max Ionata proprio nel meraviglioso maneggio dei Lancieri di Montebello, storico Reggimento dell’ Esercito Italiano, a Tor di Quinto in Roma.

Campagna: “Dona Ippoterapia, Sostieni il CRE G. De Marco ONLUS”
www.cre-girolamodemarco.org
CRE G. De Marco ONLUS
Sede Operativa: V.le di Tor di Quinto 114/A – Roma

(MT)

Luca Aquino “Gong”, con le tavole di Paladino e i testi di Terruzzi: RomaJazz rompe il Digiuno da spettacoli dal vivo Imposto dalla pandemia con le dirette dal Parco della Musica

Quando in redazione abbiamo ricevuto il comunicato stampa del RomaJazz Festival, 44a edizione, con l’annuncio che i concerti, per ovvi motivi, si sarebbero tenuti live ma in streaming… beh, devo confessare di aver arricciato il naso!
#jazzforchange è il claim scelto per questa edizione. E il cambiamento è epocale, nel senso che se l’adattamento è la chiave di ogni trasformazione, ecco che il direttore artistico Mario Ciampà deve aver fatto suo il concetto di “ottimismo della volontà” per allestire un intero festival in “virtual mood”, in questi difficili tempi di pandemia.
Devo dire che per una giornalista del mio stampo, un’Artemide sempre a caccia di emozioni vive e costantemente alla ricerca di percorsi sinestetici e di suggestioni, un concerto non in presenza rappresentava una bella incognita… quale sarebbe stato il mio approccio a questa modalità? Forse, l’unico modo sarebbe stato quello di considerare la realtà virtuale come mezzo di comunicazione, un ponte attraverso il quale vivere l’esperienza, focalizzando la mia attenzione sugli stimoli provenienti da questo scenario, semplicemente lasciandomi andare… senza pregiudizio alcuno.
Scorrendo il programma, il concerto che più ha solleticato la mia curiosità è senza dubbio quello del trombettista beneventano Luca Aquino, che il 17 novembre presentava in live streaming HD, in anteprima mondiale, il suo progetto “Gong. Il Suono dell’ultimo Round”, dedicato ai grandi personaggi della boxe mondiale, con il suo trio formato da Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso e un ospite specialissimo: il franco-ivoriano Manu Katchè alla batteria, un’autentica leggenda che annovera tra le sue collaborazioni Jan Garbarek, Joe Satriani, Peter Gabriel, Joni Mitchell, i Pink Floyd, i Dire Straits, Sting, Pino Daniele, Stefano Bollani… e l’elenco potrebbe continuare.
A completare la rosa dei protagonisti di questo spettacolo multimediale, le opere visive inedite di Mimmo Paladino, tra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, e i testi di Giorgio Terruzzi, valente giornalista sportivo e scrittore.
Le storie dei boxeur raccontate sono quelle di Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon e Mike Tyson.

Il canovaccio dello spettacolo è molto semplice ma di grande impatto e si snoda attorno alle storie, anche personali, di questi miti dello sport. Le musiche originali accompagnano immagini d’epoca dei match più significativi affrontati dai protagonisti, le loro vittorie e le loro pesanti sconfitte, dai primi anni del ‘900 con il gigante di Sequals, Primo Carnera, per arrivare fino ai nostri tempi con il racconto dell’epopea di “Iron” Mike Tyson.
Sul ring virtuale dell’Auditorium Parco della Musica scorrono sul grande schermo le forme stilizzate ed evocative di Paladino, potenti nella loro essenzialità: sfondo blu notte e tratto bianco. È evidente, da parte del Maestro, la ricerca del segno, in un perfetto equilibrio tra significato e significante inserito in un processo digitale di smaterializzazione del ritratto in megapixel… Il Maestro non è nuovo a queste contaminazioni, mi riferisco all’imponente installazione “I Dormienti” composta da cinquanta sculture in terracotta – venti coccodrilli e trenta uomini – collocati nel 1999 nella undercroft della Roundhouse di Londra, con gli interventi musicali (sebbene sia parecchio riduttivo classificarli come “interventi musicali”) di Brian Eno.
Il talento nella scrittura di Giorgio Terruzzi traspare anche in questi racconti di vite da film quasi sempre senza happy ending… La struttura delle storie è reticolare e consequenziale ed ogni parola confluisce verso un apogeo che spesso, per contro, corrisponde alla fase discendente della carriera e della vita di questi grandi uomini.

Primo Carnera

La prima narrazione è dedicata ad uno dei miei conterranei più famosi: Primo Carnera, il colosso dai piedi d’argilla (due metri per 120 kg!) un guerriero leale, un’anima gentile e un uomo di carne e di valori profondamente radicati, che Aquino ha saputo rappresentare in musica attraverso una ballata dall’andamento solenne, che quasi pareva di udire sul palco il passo cadenzato e greve del gigante… La tromba di Luca ha un impatto timbrico onirico, evocativo e lui ha un’abilità pazzesca nel saper “ascoltare” l’ambiente in cui suona, addomesticando riverberi al servizio del suo strumento.
Le tessiture ritmiche di Manu Katchè sono, ad ogni esibizione, una lezione di sagacia tattile mista ad un’incredibile scioltezza nei movimenti e ad un timbro delicato ma incisivo. Il batterista franco-ivoriano accarezza le pelli, sfiora i piatti, il suo drumming è un dono prezioso che lui elargisce sempre in punta di sorriso. Seducente!
Il secondo round dispiega una delle figure più iconiche del ‘900: Muhammad Ali, nato Cassius Clay nel 1942. “I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”; invero, queste celebri parole del boxeur sono applicabili non solo ai campioni dello sport…

Muhammad Ali

Ali era leggenda, un’icona per i diritti degli afro-americani, un esempio di coraggio contro ogni convenzione, “The Greatest” ricevette persino la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze negli Stati Uniti. Sul ring sembrava un danzatore, era aggraziato, come il brano che accompagna le immagini d’antan: un pezzo lento con la chitarra di Jasevoli dai toni vagamente arabeggianti e il basso di Ranieri protagonista con una linea originalissima, che riunisce armoniosamente aspetti ritmici e melodici; bello lo slide. Il finale molto free è assolutamente in linea con il personaggio a cui il brano è dedicato!
L’estrosa Cadillac rosa del 5 volte campione del mondo dei pesi piuma Sugar Ray Robinson irrompe idealmente sulla scena. Sugar, quello delle epiche sfide con Jake La Motta (il Toro Scatenato di De Niro nell’omonimo film!) era nato nel 1921, ballava il tip tap nei Teatri di Broadway, suonava la batteria e la tromba nei locali jazz… e tirava in palestra: un tipo decisamente eclettico! La musica che lo descrive è dolce come lui, un dio della grazia, e inizia con bel giro di chitarra Fender intorno alla quale s’inseriscono man mano gli altri strumenti. Katchè fa sentire la sua presenza ma con un’inarrivabile leggiadria, un motore ritmico che gira in perfetta simbiosi con i compagni di palco. I cambi inaspettati di tempo, le sfumature jazz-fusion, un bel solo di basso e un volo di trilli della tromba di Aquino, che nel finale passa al flicorno, rendono l’ascolto di questo brano particolarmente avvincente.
“El intocable” Nicolino Locche, mostro sacro, assieme a Monzon, della noble art in Argentina (ma la famiglia era di origini sarde), era un vero e proprio grillo, maestro della schivata e molto incline alla trasgressione (fumava continuamente, anche un minuto prima di salire sul ring!) Morì a 66 anni – i polmoni… ça va sans dire – con un palmares di 136 incontri, di cui 117 vinti, 5 persi e 14 pareggi. Aquino, in scena da solo, ci mette momentaneamente in knock-down con la sua tromba midi e una loop machine con cui crea un tappeto di suoni sui quali ricama con flicorno, djembè, egg shaker… un’azione sonora totale e un’interazione molto ben calibrata tra acustico ed elettronico.
È di questi giorni la notizia che Mike Tyson torna sul ring il 28 Novembre, a 54 anni e dopo ben 15 anni di inattività; combatterà contro Roy Jones.
Iron Mike si porta dietro la nomea di essere il più pericoloso e violento pugile della storia: un cattivo soggetto, per nascita, ceto, destinazione… tante le sue vittorie ma anche squalifiche, accuse di stupro, carcere, botte, morsi (ricordate l’orecchio di Evander Holyfield che Tyson quasi mozzò, sputandone un pezzo sul tappeto e che gli costò la sospensione della licenza da pugile?), una vera e propria Gigantomachia la sua, un gigante solo contro tutti. L’opinione pubblica contro, pronta a giudicare, ad etichettarlo come un animale, senza chiedersi mai quali demoni interiori abbiano albergato in lui che, al contrario del dàimon socratico, lo hanno fatto sprofondare in una spirale distruttiva. E dopo tre mogli e otto figli (una di essi, Exodus, morta a 4 anni) Mike si rialza un’altra volta, forse dopo aver finalmente imparato il valore di una carezza.
Musicisti ora tutti sul palco per un insieme musicale molto mobile, con cambi di tempo, passaggi di tonalità e stacchi, connotato da una linea di basso molto efficace, dove il chitarrista – davvero bravo – esprime una marcata vena fusion e Katchè ci ricorda ancora una volta quanto sia un fuoriclasse, eseguendo in scioltezza le più articolate figure ritmiche, come nel suo solo dove il piede sulla cassa percuote a una velocità tale da trasformarsi nel becco di un picchio rosso su un tronco d’albero!
Il crescendo finale è corale, sulla scia della chitarra entra il flicorno minimalista di Luca Aquino, totalmente disinteressato ai fraseggi virtuosi ma cercando piuttosto l’essenza del suono. È un jazz palpitante, che scalcia e ripudia stilemi banali e dove un ballabile valzer vira improvvisamente in un incalzante ritmo latineggiante.
A questo punto, un applauso agli ingegneri del suono non è solo doveroso ma ampiamente meritato. Bravi! Ho trovato invece meno azzeccate le scelte della regia video: per l’amor del cielo, si vedeva benissimo, fin nei minimi particolari… ma forse, quello che non ha funzionato, a mio avviso, è proprio questo, i continui cambi di campo delle telecamere, i numerosi primi piani, non mi hanno fatto vivere il live come avrei sperato, ovvero facendomi dimenticare di non essere nella platea del teatro…
Nel corso dei saluti finali, Luca ammette quanto non sia facile suonare senza lasciarsi condizionare da file e file di poltrone vuote, in una dimensione quasi irreale.
Chissà se ciò gli avrà ricordato le atmosfere dello splendido concerto tenuto con il suo trio italiano e la Jordanian National Orchestra a Petra, l’antica città Rosa della Giordania, patrimonio dell’umanità UNESCO e considerata una delle sette meraviglie del mondo moderno; ovviamente quella romana non sarà stata un’esperienza così mistica ma ugualmente  surreale ed intensa.
Chiudo citando quelle che mi sembrano le parole più adatte alle sensazioni provate dopo aver sperimentato anche questa nuova pratica di ascolto, imposta dalla pandemia.
Sono del trombettista statunitense Jon Hassel: “gran parte del mondo percepisce la musica nei termini di un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo. C’è però un’altra angolatura: l’ascolto verticale, che consiste nel sentire quel che accade al momento”.
ps: il Digiuno Imposto che ho citato nel titolo di questo articolo è anche quello di un libro di poesie uscito nel 2000 in Germania, per i tipi di Matthes&Seitz Verlag di Monaco di Baviera, illustrato da Mimmo Paladino.

Marina Tuni

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.

La Biblioteca Civica V. Joppi di Udine pubblica alcune riflessioni di Marina Tuni intorno al libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

La Biblioteca Civica Vincenzo Joppi di Udine mi ha invitata a partecipare all’iniziativa “Quarantena d’Artista“, che era partita durante il lockdown ed è poi proseguita con artisti, musicisti, attori, scrittori, giornalisti del Friuli Venezia Giulia.
In pratica, si trattava di scegliere un libro da consigliare, che avesse in qualche modo attinenza al periodo in cui siamo rimasti segregati nelle nostre abitazioni a causa della pandemia, sviluppando delle riflessioni intorno ad esso. Devo dire che nel ricevere la proposta è stato per me naturale pensare a “Il Jazz Italiano in Epoca Covid“, il libro del direttore Gerlando Gatto… più attinente di così! Qui il link del mio intervento che comunque pubblichiamo integralmente anche qui di seguito. (Marina Tuni)

“Silencio… No hay banda. There is no band. Il n’est pas de orquestra.”
<<Con queste parole, pronunciate dal mago sul palco del “Club Silencio” nell’inquietante scena di Mulholland Drive David Lynch ci trasporta in una dimensione straniante, illusoria… che mi ha ricordato quella specie di limbo emozionale nel quale ho fluttuato durante il lungo periodo del lockdown.>>

“In questi giorni si è parlato molto di teatri, esibizioni dal vivo, concerti. Nessuna migliore occasione per il nostro Massi Boscarol per invitare a #quarantenadartista #MarinaTuni, giornalista, che da 16 anni collabora con Euritmica (Udin&JazzOnde Mediterranee, Note Nuove, MusiCarnia) dove è responsabile dell’Ufficio Stampa. Editore della webmagazine instArt e del portale nazionale A Proposito di Jazz, ha scritto e pubblicato cinque fiabe per bambini creando la saga del personaggio di Cioccolino oltre ad aver collaborato per alcuni anni con la cantante Elisa. Ed in tanti di noi la conoscono anche per aver curato la comunicazione di Udine ArtMob e della ciclostaffetta “A Roma per Giulio”, eventi organizzati per chiedere verità e giustizia per #GiulioRegeni.”

<<La citazione di Mulholland Drive l’ho ritrovata anche nel titolo della prefazione, scritta dal M°. Massimo Giuseppe Bianchi, a “Il Jazz Italiano in epoca Covid”, instant book e terzo lavoro di #GerlandoGatto, dove il giornalista e critico musicale intervista 41 jazzisti italiani, “colti” nella loro quotidianità forzata, in un flusso temporale asimmetrico e tralignante.>>

“Abbiamo tra le mani un libro che parla di musica ma nasce dal silenzio. A causa del lockdown; il silenzio ha per mesi eletto a dimora le nostre strade e i nostri spazi. In questi mesi di pausa forzata i palcoscenici hanno taciuto. Non hanno taciuto però gli strumenti, né le matite cessato di grattar la punta sui pentagrammi. Non sono mancati i mille concerti in streaming da casa, eventi coatti che il violinista Uto Ughi, in un’intervista al quotidiano “La Stampa” ha definito “figli della disperazione del tempo che viviamo”. Furono vasi di fiori posati sul davanzale delle nostre provvisorie prigioni. Gerlando Gatto ha pensato di animare questo sfondo plumbeo, spezzando l’incantesimo malvagio. Ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica della loro produzione. Ha provato e ci è riuscito. Gerlando ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla.” (dalla prefazione di Massimo Giuseppe Bianchi)

<<All’interno del libro, tra le tante significative domande che l’autore pone ai musicisti, ce n’è una che mi ha dato molti spunti per riflettere su quanto sia stata importante per me la musica, oltre alla scrittura e al profondo amore per l’arte… passioni che sono diventate parte della mia professione, passioni che mi hanno stimolato e dato la forza per cambiare una vita che in passato indossavo con grande fatica, come avviene con un abito stretto di tre taglie in meno della tua… Perché spesso non basta “volere” a livello conscio per concretare i nostri sogni e le nostre aspirazioni: dobbiamo crederci scendendo ad un piano più profondo, fino ad arrivare all’inconscio.
È ovvio che tutto ciò comporti necessariamente il doversi caricare sulle spalle molti più gravami e consapevolezze, che ci ingabbiano, che compromettono, talvolta, la nostra realizzazione, che condizionano le nostre scelte, che modificano il nostro modo di pensare, portandoci alla privazione della felicità. Tutto questo è uscito ancor più prepotentemente nel trascorrere dilatato del tempo… al tempo dell’isolamento…
Questa è la domanda di Gatto e la risposta che mi ha colpito… quella della vocalist Enrica Bacchia

D: “Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento? Se non la musica a cosa ci si può affidare?”
R: “[…] vorrei chiarire un punto cardine del mio sentire. Se il termine Terribile si
riferisce alle morti di questi giorni: si, la morte appare tanto drammatica agli occhi degli uomini e per la prima volta nella storia dell’umanità paralizza il mondo intero senza discriminazioni…
Sono consapevole di essere una delle (tante) voci fuori dal coro ma mi ascolti bene: spostiamo nuovamente il nostro punto di vista, sintonizziamoci in un’onda diversa e torniamo a considerare quello che lei definisce un momento terribile. Terribile perché l’unico in grado di farci cambiare uno stile di vita intollerabile sotto tutti i punti di vista? Terribile perché ci obbliga a pensare davvero a come reimpostare le nostre esistenze nel micro e nel macro livello? Terribile lo è, forse, perché ciascuno è chiamato a scegliere se farne un’opportunità di crescita epocale. E ora veniamo alla Musica. Ogni pensiero, ogni micro o macro azione, se fatti consapevolmente, possono dare forza al Presente esercitando la creatività, l’immaginazione e la bellezza. E non è forse la musica (ma tutta l’arte della Vita in genere) che ci allena a questo?”.

<<Chiudo con una breve riflessione, affidandomi ad un’altra delle mie grandi passioni, la filosofia. Eraclito diceva: “Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume saranno gli stessi…” con riferimento al processo di trasformazione perenne, il divenire cui sono soggetti gli esseri umani, che nascono e crescono andando incontro al proprio destino, attraversando nel cammino periodi “buoni” e periodi “critici”. In questi ultimi, la “crisi” dovrebbe essere il LA per intonare gli strumenti per una nuova esecuzione, accogliendo il cambiamento come occasione di accrescimento e di sviluppo della conoscenza e del pensiero creativo.
Se non saremo in grado di cogliere questa opportunità, non v’è rimedio… perché niente può vivere in assenza di cambiamento.>>

Giuseppe Cardoni: il fotografo AFIJ del mese di ottobre – la gallery e l’intervista

Continua la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz (qui il link alle gallery della rubrica) e il mese di ottobre ci porta in Umbria a conoscere Giuseppe Cardoni.

Giuseppe Cardoni

Ingegnere, dirigente d’azienda, negli anni Settanta si avvicina alla fotografia che, da quel che vedo, è per lui un processo che fa affiorare l’essenza della “cosa sensibile”, l’eidos dell’essere umano; le sue immagini, infatti, non perseguono criteri puramente estetici ma sprigionano emozioni profonde, che rimangono fissate nella mente di chi le guarda.
Cardoni di generi ne percorre molti: dal ritratto alla fotografia sportiva, dalla fotografia di musica e spettacolo al reportage, con una spiccata predilezione per il B/N. Ha fatto parte del Gruppo Fotografico Leica e frequentato Maestri della fotografia italiana quali Gianni Berengo Gardin – che, parlando dell’iconicità della Leica ha detto: “che c’entri qualcosa il mito è indubbio, ma è un amore di gioventù ed è rimasto tale” – Piergiorgio Branzi, Mario Lasalandra. È coautore, con il giornalista RAI, Luca Cardinalini, del libro fotografico “STTL La terra di sia lieve” (Ed. DeriveApprodi,Roma, 2006); insieme a Luigi Loretoni  nel 2008 ha pubblicato il fotolibro “Miserere”,  nel 2011 “Gubbio, I Ceri” e nel 2014 “Kovilj” (tutti Ed. L’Arte Grafica). Sempre nel 2014 ha pubblicato “Boxing Notes” (Edizionibam) reportage sul mondo della boxe. Si è dedicato per alcuni anni alla fotografia di eventi musicali, è coautore del libro “I colori del Jazz”(Federico Motta Editore, 2010) e nel 2019  ha pubblicato il libro fotografico “Jazz Notes” (BAM Stampa Fine Art by A. Manta). Nel 2020 ha pubblicato “Vita e Morte – Rapsodia Messicana”. Ha esposto i propri lavori in numerose mostre sia personali che collettive in Italia e all’estero e ha vinto (o è arrivato in finale) numerosi concorsi nazionali e internazionali; negli ultimi quattro anni ha conseguito questi importanti risultati in più di settanta contest. (MT)

Un paio d’anni fa, leggendo il libro di Helena Janeczek “La ragazza con la Leica” (premio Strega 2018), mi sono appassionata alla storia di Gerda Taro, tra le prime donne-reporter di guerra, morta a 26 anni sotto i cingoli di un carro armato durante la guerra civile spagnola. Sono rimasta affascinata dalla sua personalità rivoluzionaria ma anche dal fatto che, insieme al suo compagno Endre Friedmann, “costruì” la figura del leggendario fotografo Robert Capa. Le foto più belle di quell’epoca, e non solo di quella… erano scattate con l’altrettanto leggendaria Leica, che anche tu usi. Ci racconti com’è iniziato il tuo amore per questa particolare macchina fotografica?
«La scelta e poi la completa adozione è dipesa direttamente dal genere di fotografia che mi interessa maggiormente cioè il reportage, o meglio, raccontare delle storie. Quando ancora utilizzavo una reflex (a pellicola, il digitale non era ancora arrivato) fotografando insieme ad un amico che utilizzava Leica M (telemetro) mi sono reso conto dei vantaggi di discrezione e prontezza dovute alla silenziosità dell’otturatore, alle piccole dimensioni e alla visione “in diretta” grazie al mirino a telemetro che evita l’attimo cieco del movimento di sollevamento dello specchio. L’elevata qualità delle ottiche contribuì a rafforzare la scelta. Nel mio caso, la scelta dello “strumento” fu essenzialmente tecnica e indipendente da fascinazioni mitiche. Essendo interessato “all’istantanea” e meno alla fotografia “in posa” questo mezzo mi consentiva maggiormente di essere meno notato e di non “perturbare la scena”(credo che queste siano le motivazioni che hanno spinto negli anni tantissimi grandi fotografi interessati alla fotografia umanistica a fare questa scelta). Di fondo comunque sono convinto che come per uno scrittore non importa se scrive con una matita, una penna, una macchina da scrivere o un computer così anche per un fotografo, essendo la fotografia un linguaggio, quello che conta sono i contenuti, ciò che si ha da dire e come si dice, piuttosto che lo strumento utilizzato».

Altra cosa che mi ha incuriosito molto, approfondendo le tue note biografiche, sono i tuoi splendidi reportage (divenuti in seguito libri) in Italia e in Messico, rigorosamente in B/N, una sorta di viaggio iconografico nell’Ars Moriendi.
“Ars Moriendi” è anche il titolo di alcuni testi, scritti a seguito della pandemia di peste nera che si abbatté sull’Europa dal 1347al 1353, che portò non solo sofferenza e morte ma anche rivolte popolari. Al di là delle impressionanti analogie con il periodo che stiamo vivendo a causa del Coronavirus, ti devo confessare un’altra consonanza: nel mio peregrinare per il mondo non c’è stato viaggio in cui io non abbia visitato i cimiteri più importanti, da New Orleans a Parigi, da Roma al Tennessee, ma anche quelli minuscoli, nelle Pievi della mia amata Carnia. Lo diceva Foscolo, ma ci credo anch’io, che la civiltà dei popoli si misura attraverso il culto dei morti. Hai piacere di raccontarci che cosa ti spinge ad interrogarti, soprattutto mediante le immagini che catturi, su una questione imprescindibile come la morte, materia culturale e antropologica?
«Mi hai fatto una domanda da niente…! Sarei tentato di cavarmela rispondendoti sinteticamente: perché mi sento vivo e amo la vita! Oppure…”perché come ci insegna proprio la cultura Messicana il mondo dei vivi e quello dei morti si toccano fino a coincidere”.
Tentando di argomentare, facendomi aiutare da Freud,  credo che la contrapposizione e l’interazione tra Eros e Thanatos  (eros come pulsione energetica e vitale piuttosto che come libido) ci riguardi tutti. Tutti desideriamo la felicità, ma i limiti imposti dalla natura e dalla società spesso ci rendono difficile raggiungere la meta. Ritengo che questa lotta continua (tra gli istinti di vita e la consapevolezza della morte) insieme alle situazioni in cui viviamo contribuisca a determinare i nostri stati d’animo e i nostri sentimenti. Ed è proprio questo, nei pochi casi in cui mi riesce, che con il linguaggio fotografico mi interessa raccontare: emozioni, sentimenti».

-Tu sei anche un bravissimo fotografo di jazz, ho letto di te una magnifica definizione: “la sua Leica si muove improvvisando come uno strumento musicale”. Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Non sento una responsabilità istantanea, specifica “nel momento dello scatto”. Sento una grandissima responsabilità “di fondo” nel mio approccio alla fotografia nel rispetto delle persone che incontro e magari fotografo e nell’onestà del non mistificare o travisare le realtà che viviamo o che osserviamo diventandone interpreti o testimoni. Ma credo che questo si possa estendere per ogni nostra attività».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Sono interessato a realizzare fotografie con una forte connotazione personale, che correlino la mia interiorità con la realtà che ho di fronte o sto vivendo. Quindi la musica può essere importante, come possono essere anche importanti altri “segnali” quali un atteggiamento, uno sguardo, una luce particolare, un espressione, un gesto, in altri termini, ciò che riesce a provocarmi un emozione o un interesse».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Sono orgoglioso soprattutto del mio impegno per questa disciplina che pur non essendo la mia professione mi ha aiutato e mi aiuta a vivere più intensamente.
Premettendo che di scatti veramente “buoni” non ne ho fatti molti, nei lavori o tematiche trattate ho qualche fotografia che preferisco rispetto alle altre o magari ricordo con piacere quelle che hanno vinto importanti premi internazionali ma la mia vera scommessa è di riuscire a realizzare fotografie o meglio ancora racconti fotografici che mi sopravvivano in modo da segnare un futuribile punto a favore nella dialettica esistenziale di cui abbiamo parlato precedentemente».

Marina Tuni