Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi

Ezio Bosso… un cammino che non si interrompe

Ezio Bosso – foto di Barbara Domenis

Ezio Bosso è venuto a mancare oggi all’età di 48 anni per una malattia neurodegenerativa. La notizia della morte di questo musicista sta lasciando, mentre scrivo, una forte eco. Ezio Bosso ha avuto una vita non facile, la salute ha deciso di rendere ancora più tortuoso il suo cammino di musicista, già periclitante di suo. Era artista amato e molto discusso. Mi si permetta una riflessione generale, che esula un poco dalla figura di questo musico. Quando ci riferiamo a un’icona, un personaggio, dimentichiamo spesso che dietro di lui si cela una vita. Egli vive e soffre, prova simpatie, antipatie, subisce ingiustizie. A volte parteciperà a meccanismi più grandi di sé, spinto da forza d’inerzia: meccanismi spesso criticabili, mai veramente controllabili, siccome governati da forze collocate altrove. Non di rado si ascoltano giudizi ‘tranchant’ sui musicisti e spesso siamo noi artisti i primi protagonisti di queste piccole crudeltà. Si è incapaci di ricordare che l’artista nelle sue manifestazioni è pur sempre qualcuno che suona alla nostra porta per portarci un ‘cadeau’, un mazzo di fiori, un presente. Si ricorda di noi quando stiamo male e anche gli amici non si fanno più sentire, rimane con noi nel momento della più acuta sofferenza, basta concentrarsi e possiamo sentire il calore della sua mano sulla nostra spalla. L’artista dedica la propria vita a qualcosa di più alto e non a fronte di un titolo di credito ma in ossequio a un Dio che forse neppure c’è, a una chiamata cui forse non seguirà risposta: a un pensiero, di cui la vita è fatta.

Quando Ezio Bosso, prima contrabbassista e poi pianista, direttore d’orchestra e compositore, entrò d’improvviso nelle case degli italiani grazie a un invito di Carlo Conti al festival di Sanremo, non era conosciuto dal grande pubblico se non, forse e parzialmente, grazie a alcune colonne sonore realizzate per Gabriele Salvatores. Immediatamente per lui iniziava il successo, lo sfruttamento, la sovraesposizione quasi morbosa dell’immagine e, quasi contestualmente, l’inevitabile processo di delegittimazione. In Italia, infatti, quando cominci a salire su un palcoscenico iniziano i problemi.

Ezio Bosso – foto di Alice B. Durigatto

Non esaminerò musicalmente composizioni di Bosso, che si collocano in uno spazio tra la pop music, il minimalismo, un classicismo conciliante e vivono in un luogo lontano da quello che io quotidianamente abito. Non rientrando nel raggio della mia formazione mentale mi è mancata, per così dire, l’urgenza di frequentarle. Ha davvero importanza? Se nella musica cerco altro, ciò riguarda il mio gusto personale. Ho però ascoltato attentamente Ezio Bosso e so che la sua musica è quella di un musicista senza dubbio attrezzato, che si rivolge a un largo, larghissimo pubblico, sa ispirare e non si pone lo scopo di innovare quanto di piacere. Bosso non è Dallapiccola, somiglia più a Sem Benelli che ad Anton Čechov. Ma se l’autore della “Cena delle beffe” avesse copiato “Il Giardino dei Ciliegi” di cinque anni prima non avrebbe scritto la “sua” pagina nel libro della drammaturgia moderna. Coerenza è tutto, e nel valutare un’opera musicale non bisognerebbe fermarsi al “mi piace” ma considerarne con discernimento le qualità organolettiche: è fatta bene oppure no? La musica di Bosso sublima un’idea di ‘pop’ in una dimensione sinfonica, cerca l’ibridazione tra il suono dello strumento acustico e la vibrazione elettronica, tenta di inserirsi, come il suo collega Ludovico Einaudi, in una tradizione di chiara matrice americana. E in fondo raggiunge un proprio (ambizioso) obiettivo: non perdere di vista il Mondo, accordarsi con la verità odierna. Sono grato a Ezio Bosso per una cosa sopra tutte: la generosità con cui ha messo la carriera al servizio della più nobile divulgazione. Non sembri poca cosa! La divulgazione della musica classica in Italia è una medicina indispensabile, specialmente in questi tempi calamitosi. Sono blasfemo se dico che gli artisti sono gli eroi spirituali di questi giorni, quando i medici e gli infermieri sono gli eroi sul campo di battaglia? Divulgare cultura, farlo bene, nel mondo odierno equivale a comporre la Sinfonia Eroica. Privo di arte, l’uomo è simile al prigioniero che si trova davanti a una porta chiusa e non sa come girar la chiave.

Or non è molto, sono andate in onda in Tv in una fascia oraria importante due puntate con Bosso dedicate a Beethoven e Čajkovskij.  Alcuni milioni di concittadini si sono incollati allo schermo per ascoltare e sentir parlare, con passione e competenza, di Beethoven, del contrappunto, della variazione. È accaduto veramente. Con simili trasmissioni superbamente condotte egli ha dato agli italiani il più alto aiuto che si potesse. Ci siamo abituati fino all’indifferenza al brutto, il bello essendo più difficile a cogliersi. Anima e corpo, pensiero e immaginazione oggi si trovano dolorosamente disgiunti e la musica, che del bello è figlia primogenita, serve a unirli sigillando la ferita. Questo artista, che purtroppo salutiamo, ha fatto molto per la musica, forse più di tantissimi che si credono oggi indispensabili. Rendiamogli pertanto il giusto omaggio.

Ezio Bosso – foto Barbara Domenis

L’orologio oggi si è fermato ma Ezio Bosso continua il suo cammino.

Massimo Giuseppe Bianchi

Yonathan Avishai: ovvero il pianismo secondo una personale linea espressiva

Ne ’Il libro del jazz’’ uscito nel 1952 il giornalista Joachim Ernst Berendt esponeva una propria articolata definizione del termine jazz : “È un modo artistico di suonare la musica.” Così esordendo, trasportava il concetto sul piano operativo, pragmatico.
Secondo Berendt il jazz sarebbe in primis un modo, una pratica, un ‘come’ piuttosto che un ‘cosa’, gesto paralogico la cui sostanza si colloca al di là, o al di qua, del linguaggio.
Vi sarebbe poi un’idea di “artisticità”, un sentire iperbolico che ci trasporta verso una dimensione altra, non codificabile, percepita in modo chiaro, nelle sue peculiarità, dalla comunità degli artisti, meno chiaramente da parte di chi non sappia o non voglia cogliere la qualità della musica.
Si annida infine nel verbo “suonare” l’aspetto esteriore, plastico. La ricerca dell’effetto come manipolazione del sentimento dell’ascoltatore.
Il ‘jazz’ sarebbe allora musica di pancia più che di testa, sapere pratico prima che pensiero codificato su carta. Aspetti che andrebbero a dire il vero ben approfonditi, e fattori tutti decisivi quanto non esaurienti.
Comunque, simili concetti si affacciavano alla mia mente in ordine sparso domenica 23 febbraio dopo il concerto del pianista Yonathan Avishai al Teatro Franco Parenti di Milano nell’ambito della rassegna ‘Pianisti di altri mondi’, curata dall’ottimo Gianni Morelenbaum Gualberto in seno alla stagione della Società del Quartetto.


Trovare una definizione, infatti, per questo recital sotto il profilo del repertorio non era affatto semplice – e aggiungerei per fortuna.
Il timido e intelligente Avishai è noto jazzista e attualmente incide per l’etichetta ECM di Manfred Eicher. Il suo ultimo album, realizzato in duo con il trombettista Avishai Cohen, si intitola “Playing the room” ed è uscito nel 2019 (c.f.r. rubrica “I nostri cd” del 30 gennaio 2020). A Milano però egli non ha suonato il jazz che ci si aspetta ovunque, si è rivolto ad autori, oltre a se stesso, come il brasiliano Ernesto Nazareth, il cubano Ernesto Leucona e l’americano Scott Joplin, tutti apparentati alla musica concertistica più che all’idioma afro-americano. E li ha eseguiti ‘iuxta propria principia’. Scelta non consueta essendo il jazz un “mantram” che ritorna come riferimento obbligato ogniqualvolta si parli di musica improvvisata, quasi che l’improvvisazione non possa ormai articolarsi secondo approcci che non siano quello, sincopato e reattivo, inaugurato da James P. Johnson, che del jazz si autoproclamava il padre. Avishai ha saputo andare oltre, al cuore di linguaggi lontani e mondi paralleli, guidato da una personale linea espressiva. Il virtuosismo non sembra essere la dimensione che più gli si confà. Non è un difetto, anzi, egli punta su altro. Ascoltandolo, il nostro orecchio si è preso una vacanza da quegli aspetti protervamente muscolari che spesso infestano le esecuzioni pianistiche. La capacità maggiore dell’artista israeliano, domiciliato in Francia, è sembrata invece il saper avvicinare tali musiche non ‘mainstream’ con raffinatezza, lirismo, sconfinando in altri mondi sì, ma in punta di piedi, l’improvvisazione limitata allo stretto necessario. Perché una bella melodia la si può porgere anche in purezza, senza forzature e manierismi. Ci siamo ritrovati allora in una camera degli specchi dove non soltanto il pianista ritrovava sé medesimo negli autori proposti, ma gli stessi sembravano riconoscersi e stringersi in vicendevoli abbracci, gemelli di quelli tra pensiero e suono.
Ho apprezzato in modo particolare l’idiomaticità con cui è stato riletto Scott Joplin, specie sotto il profilo della scelta dei tempi.
Joplin, considerato “cheap” da qualche male informato, è in realtà difficilissimo da eseguire con proprietà. Non è raro sentire il rag-time, questa così delicata mistura musicale, violentato da esecuzioni sguaiate, perennemente troppo rapide (il rag non va suonato velocemente), irrispettose dei colori e del delicato connubio tra armonia e ritmo approntato da Joplin. Avishai ha saputo conferire ai dispositivi apparentemente semplici quanto in realtà complessi di questa musica lo spirito e il make-up necessari, proponendolo non alla lettera ma in azzeccatissime rielaborazioni personali. Ernesto Nazareth è in fondo – possiamo dirlo? – una sorta di Joplin brasiliano, armonicamente anche più ricercato: così come Lecuona era detto Chopin cubano (ma anche Liszt cubano, Gershwin cubano e via denominando). Siamo sicuri, in Italia, di essere così ricchi da poterci permettere di ignorare questi compositori di terre lontane?
Comunque sia, le loro opere sono state ritratte dal paesaggista Yonathan Avishai con perizia. Il pubblico ha colto il rapporto splendidamente interiore intessuto tra esecutore e autori e si è abbandonato alla musica, come il gatto, chiatton chiattoni, ci si apparecchia tra le ginocchia e cade in stato alfa.


Che Yonathan abbia letto André Gide: “Non si vuole la felicità già fatta, ma su misura” ?
Il concerto è stato introdotto da Roberto Zadik il quale, con entusiasmo, sottolineava quanto la musica israeliana, di cui in Italia si conosce poco, sia variopinta, intessuta di voci diversissime d’accento, meritevole di figurare in una nuova avanguardia. Ben detto. Ma ci vorrebbe un’avanguardia di segno nuovo, che respiri aria libera, sganciata da avalli accademici. Il tempo nostro, complesso, frammentato e decadente, sommerso da sonorità e clangori, attende ancora di venir musicato. Di certo, musicisti come Yonathan Avishai sono un acconto su questi tempi futuri, che speriamo di veder nascere presto.
Se la rassegna “pianisti di altri mondi” aveva tra i suoi obiettivi quello di riappropriarsi di un senso più vasto della musica, dei repertori, degli stili esecutivi direi che ci sta riuscendo bene. Simili programmi si pongono al di fuori del consueto per metterci in rapporto col mondo, anzi permettono di osservarne di nuovi, e Yonathan Avishai ha proposto una musica del senso più che del consenso.
Perciò il pubblico lo ha accolto, dopo l’iniziale circospetto pudore, con affettuoso entusiasmo.
Ecco la scaletta del concerto:

1. Carioca (Nazareth)
2. Maple leaf rag (Joplin)
3. Danza Lucumi (Lecuona)
4. Tango (Avishai)
5. Batuque (Nazareth)
6. Confidencias (Nazareth)
7. Danza del Nanigos (Lecuona)
8. La Comparsa (Lecuona)
9. Lya (Avishai)
10. Elite Syncopations (Joplin)

Bis: La Vie en Rose e Starting from Tomorrow (Avishai)

Massimo Giuseppe Bianchi

A Proposito di Jazz ringrazia Cesare Guzzardella per le immagini inserite nell’articolo.

RASSEGNA “PIANISTI DI ALTRI MONDI” – Società del quartetto di Milano

Se la celebrata rassegna concertistica curata dalla milanese “Società del Quartetto” fosse paragonabile a un largo fiume tranquillo, che scorre imperturbabile da anni, avremmo allora assistito, domenica 19 gennaio 2020, allo scoccare delle ore 11, a un piccolo miracolo orografico: la nascita di un nuovo affluente. Parliamo di “Pianisti di altri mondi” , rassegna in otto appuntamenti curata da Gianni Morelenbaum Gualberto, inaugurata dal concerto solistico di Vijay Iyer, pianoforte. Con questa nuova importante appendice possiamo dire che il “Quartetto”, fino al sabato istituzione nobilmente conservatrice, si apre a una descrizione della modernità più completa, a una delineazione di paesaggi sonori naturali più esaustiva. Scriveva Pasternak: ”Le correnti moderne immaginavano l’arte come una fontana, mentre è una spugna”. Vale anche per le stagioni concertistiche? Accanto alla musica come “città eterna”, rifugio agli errabondi, museo e reminiscenza, c’è la musica “viarum regina” che sperimenta, rischia, esplora ed è bello – oltre che necessario – che le due anime siano fasi di un medesimo movimento pendolare, respirino dallo stesso polmone. Saprà Milano tener fede alla propria fama di città veloce e dinamica, rispondendo a questa opportunità come merita? Intanto, la scelta del concerto inaugurale è caduta su un artista speciale. Di famiglia tamil, emigrato negli USA dove ha compiuto anche studi matematici di alto livello, Vijay Iyer, che incide per le etichette Act e ECM, ha elaborato uno stile musicale personale. Il concerto, lo dico subito, è stato impressionante. L’artista è latore di una tecnica ‘materica’ non facilmente omologabile. Pare un nuovo Jean Fautrier, il pittore che dissolve il proprio pensiero analitico nell’informale, puntando a far germinare la più lucida emozione attraverso passaggi alchemici. È il classico musicista, Iyer, che non tollera l’ascolto distratto e modella la pasta sonora momento per momento, vergando in ogni anfratto la firma inconfondibile della propria individualità. Con lui tutto è razionale e al tempo stesso imprevedibile. Come i celebri ‘Otages’ del sopracitato artista francese, le composizioni/frattali di Iyer sono autonome, ben connotate individualmente ma comunicano all’ascoltatore, in modo altrettanto chiaro, la propria natura di frammenti derivanti da una sola matrice, da un’unica Presenza: nella diversità si “abbracciano” e percepisci che l’unità espressiva è proprio lì, invisibile e celata in qualche luogo dell’immaginazione del pianista. In questo senso la sua è arte sommamente “schumanniana”. Ma non vorrei allargare troppo lo sguardo. Ovviamente in questa musica c’è molto jazz, approccio grammaticale (quasi) inevitabile oggigiorno nell’improvvisazione, un jazz comunque libero da parentele, a-geografico, che si fa puro segno e vorrebbe definirsi ‘astratto’ in mancanza di determinazioni più precise. Ma queste ultime potrebbe essere profilate forse solo per mezzo delle formule e dei teoremi così cari a Vijay. Se astratto fosse sinonimo di freddezza, va aggiunto che tale parola sarebbe sbagliatissima, giacché in questo torrente c’è anche molto fuoco. Comunque, il non riuscire facilmente a trovare definizioni costituisce un ottimo indicatore del gradiente qualitativo. Il concerto si è articolato in ampi movimenti, strutturati in ‘medley’, che hanno generato altissima tensione e attenzione nel pubblico chiedendo in cambio, com’è giusto, qualcosa alla sua capacità di concentrazione. Esteticamente possiamo parlare di una musica libera quanto elaborata, depurata da elementi inferiori. Il successo è stato vivo e convinto. Gianni Morelenbaum Gualberto ha presentato con il sorriso e un pò di commozione il ‘suo’ artista, ricordando come non sia facile ascoltarlo in solo. Personalmente, sono restato ammiratissimo. Seguiterò a presenziare a “Pianisti di altri mondi”, appuntamenti a cui ciascun cultore della Musica non dovrebbe mancare e le cui date invito a verificare sul sito del Quartetto. Il Teatro Franco Parenti, in verità più noto per la prosa che per la musica, si presta bene a questo tipo di proposte. Infine non possiamo non menzionare il sontuoso Fazioli grancoda, preparato dall’ottimo Davide Lupattelli, che ha donato la sua voce dorata e profonda alle evoluzioni immaginifiche del pianista. Da deuteragonista, merita anche lui gli applausi, unitamente a chi l’ha scelto, poichè da queste cose si distingue un buon organizzatore. Ecco la scaletta del concerto:

1. UnEasy (Vijay Iyer)
2. Work (Thelonious Monk)
3. Libra (V. Iyer)
4. For Amiri Baraka (V. Iyer)
5. Spellbound & Sacrosanct, Cowrie Shells and the Shimmering Sea (V. Iyer)
6. Autoscopy (V. Iyer) 7. Abundance (V. Iyer)
8. Night and Day (Cole Porter / arr. Joe Henderson)
9. Children of Flint (B. Iyer)

Jed Distler e il Monk rivelato

Alcuni musicisti hanno la capacità di travalicare i generi. Leonard Bernstein, oltre che sommo direttore d’orchestra, fu compositore sinfonico e di ‘musical’. Andrè Previn, direttore e compositore assai attrezzato, ed apprezzato, fu un favoloso pianista jazz. Figure come Joseph Schillinger, Gunther Schuller, e prima di loro Ernst Krenek, Erwin Schuloff e soprattutto Kurt Weill (ci fermiamo qui per non appesantire) hanno saputo creare mondi che inglobano contenuti e valori stilistici diversi, spesso eterogenei e, per così dire, intercambiabili.

Non avevo mai pensato, però, di inserire Thelonious Monk (1917-1982) in tale novero.

Non prima, almeno, di aver ascoltato “Fearless Monk” (TNC Jazz) di Jed Distler.

È opportuna una distinzione tra il Monk improvvisatore e il Monk compositore (non molti, in realtà poche decine, i temi da lui congegnati). Il Monk improvvisatore lo potremmo paragonare a un bambino che trae suoni da un giocattolo. Il fascino delle sue improvvisazioni non consiste, credo, nel magistero, nella virtuosità esibita quanto nella capacità di ricreare un ‘ur-ton’, una nuova verginità, oltre che nella gioia che ne scaturisce. Non solo il pezzo eseguito al momento, quindi, ma la Musica stessa sembra ricrearsi quando Monk suona. Come Apollo il sole, Monk porta la musica sul suo carro.

Si sente affermare di quando in quando, da parte di alcuni pedagoghi, che l’artista originario di  Rocky Mount al pianoforte aveva “un brutto suono”. Sorridiamo. Cosa è “brutto” nell’ arte? Dirò invece che possedeva un suono “perfetto” poiché in completo accordo con la sua estetica, scabra e fanciullesca. Il Bill Evans, per fare un esempio, non aveva un “bel” suono in sè, giacché questo non esiste in senso assoluto, ma uno adatto alla poetica che egli veicolava attraverso le dita. Questa era la sua magia. E i pianisti che oggi ripropongono il repertorio di Monk, si osservi, sono giustamente refrattari ad allontanarsi da certe asprezze timbriche tipiche del loro patriarca. All’atto di eseguire “Bemsha Swing”, o “Friday the 13th” li si vede letteralmente ’monkizzarsi’, almeno un poco, farsi spigolosi, apodittici, per risultare non sepolcrali. Tanto si è detto circa l’improvvisazione.

Il Monk compositore invece squaderna tale bellezza di temi, ma verrebbe da dire saggezza di temi, un’armonizzazione tanto sofisticata, da librarsi facilmente oltre il recinto pur confortevole dell’idioma jazzistico del suo tempo per approdare a quello della musica “classica”. Proprio da qui muovono le esecuzioni di Jed Distler. Il loro merito principale? Con arrangiamenti e improvvisazioni di alta qualità, esse rivelano il Monk autore in una luce originale. Nelle sue strabilianti perfomance Distler modella ogni tema come recipiente di foggia via via diversa, nel quale il pianista e compositore di New York riversa lo ‘stream of consciousness’ del proprio sconfinato immaginario musicale. Confluisce di tutto in questo fiume: dalla musica euro-colta di Aaron Copland e William Schuman a George Gershwin, da Olivier Messiaen a Cole Porter, da Beethoven allo swing, dallo stride a La Monte Young. Ciò che colpisce naturalmente non è l’accumulo, ma la naturalezza con cui questo materiale viene integrato, la plausibilità con cui leghe differenti sanno coesistere, la capacità del contenitore – Monk, simile alle tasche di Eta Beta, di accogliere tutto.

Non semplici citazioni, parodie o fuochi fatui, ma un periplo oceanico illuminato da molte isole, rischiarate dal sorriso della perpetua immaginazione musicale di Distler. La musica racchiusa in questo album si discosta dalla logica tema-improvvisazione-conclusione per approdare all’universo della composizione più pura, libera dai crismi di genere. E forse, almeno per me, il ‘vero’ Monk è qui. Dobbiamo ringraziare Distler, quindi, non già per

averci riproposto Monk, ma per avercelo fatto riconoscere. Definirei il suo un Monk scatenato nel senso letterale del termine, ossia libero da catene, convenzioni, sovrastrutture. Scatenato e piacevolissimo. Ascoltare “Fearless Monk” è stato per me come scoprire un padiglione nuovo, lussuoso e confortevole, nella casa dove avevo sempre abitato e i cui spazi credevo di padroneggiare. Era lì da sempre e non lo sapevo. Sono grato a questo disco e al suo artefice, che attendiamo a nuove prove.

Massimo Giuseppe Bianchi

L’UOMO ALBERO: Dino Betti van der Noot al Teatro Franco Parenti di Milano

Un po’ Prospero, mago saggio severamente bonario o bonariamente severo, un po’ Ariel, spirito dell’aria, l’altra sera Dino Betti solcava a passo svelto e dinoccolato il palcoscenico, nonché il traguardo degli 83 anni, festeggiatissimi come diremo poi. Uno a uno, i musicisti della sua orchestra venivano invitati ad accomodarsi sulle loro sedie, dove trovavano ad attenderli impassibili gli strumenti. Un cenno svelto del Maestro e la musica cominciava a piovere dal soffitto del “Franco Parenti” gremito di pubblico. Si dice, del jazz, che questa musica ha raggiunto ormai ‘un’età’. Ricordarlo non sembri mancanza di rispetto. L’arte sonora afroamericana, infatti, dalle prime esperienze rupestri fino al chill-out che sprizza dalle stazioni radio alla moda, passando per il radicalismo integrale e le contaminazioni più singolari, quest’arte, dicevo, ne ha viste di cotte e di crude e oggi il ‘jazz’ è un bel signore in doppiopetto che porta con disinvoltura, a guisa di ombrello al braccio, un secolare bagaglio i cui princìpi vengono impartiti oramai nelle scuole insieme ai capitoli dei “Promessi Sposi”.

La musica di Dino Betti, però, il “suo” jazz, somiglia al suo creatore: non invecchia e non è interessato a farlo. Betti, da buon milanese, quantunque nato in Liguria, a Rapallo, ha troppe cose da organizzare per occuparsi di inezie come le ingiurie del tempo. Come non capirlo? La sua ricerca, come tutti sanno, si indirizza verso la dimensione del gruppo allargato, o big band. A cadenze regolari l’incessante suo percorso creativo viene fotografato e stampato in opere discografiche che sono altrettanti mattoni di una casa sonora il cui completamento, per fortuna, è di là da venire.

La predilezione per l’organismo collettivo di improvvisatori non deve stupire, essa è l’amplificazione più naturale, direi l’unica possibile, della mente di questo musicalissimo uomo- albero ossigenante, mente dotata di molti rami frondosi dai quali si dipanano variegati frutti ognuno con un sapore, un profumo e una consistenza diversi, molteplici foglie, radici avventizie. Pertanto un sol musicista, o due, o tre, o quattro, non potranno restituire la multiforme attitudine alla vita dei suoni di questo musicista ‘plurale’. Per errore di battitura avevo scritto “altitudine alla vita” e, forse, avrei dovuto lasciare il termine sbagliato come più adatto all’uomo ‘stratosferico’ che qui si racconta. Nulla mai di basso, di infimo, di sporco, di irragionevole alberga infatti nell’universo di questo musico. Ma a differenza del Paradiso cattolico, nel quale solo il meritevole viene eletto, la sua musica è uno spazio aperto a tutti: sofisticata ma transitiva, accessibile e lontana dalle trite consuetudini. A voler tenere un discrimine puramente musicale nel parlare del concerto dello scorso 18 settembre, che poi era una presentazione del nuovo CD “Two ships in the night” (Audissea Records) diremo per sommi capi che i suoi brani sono architetture ampie e strutturate. Gli episodi vengono fusi e fatti funzionare all’interno di un preciso meccanismo lirico, che, per usare le parole del suo autore “deve evocare, non descrivere”.

Il cielo coloratissimo, delle sue composizioni, è ricco di un armonismo avvolgente nel quale si ritrovano molti accordi ‘puri’ accanto a fusioni armoniche più ricercate. In questo panorama, che rassicura l’ascoltatore facendolo sentire a proprio agio, gli interventi dei solisti veicolano le istanze più problematiche, più ‘rischiose’ della musica… la creatività è lasciata a briglia sciolta e non mancano, nelle sortite individuali, suggestioni ‘free’ e ombreggiature rock, cioè a dire le tendenze più evolute di un tempo, il nostro, così avaro di coraggio musicale. La dialettica tra solisti/figli e orchestra/madre (non mi è possibile declinare la musica di Dino Betti al genere maschile, non riuscendola a concepire diversamente da una Cerere generosa dalle mani paffute cariche di doni della terra) funziona egregiamente, questa a tenere per mano quelli, mentre scalpitano, corrono a coppie, si abbracciano. Simile al tripode delfico, l’orchestra poggiava, caso non frequente, su tre piedistalli ritmici: la batteria, ricca di colori e ammirevole, di Tiziano Tononi, i tabla del virtuoso Federico Sanesi e la batteria, esattissima, di Stefano Bertoli. Questo sincretismo, spiegava l’autore, rimanda alle stratificazioni culturali e ai debiti contratti dalla musica ‘afro-americana’ con altre culture.

Limitato e gustoso l’uso dell’elettronica, mentre ingegnosi sono parsi svariati allacciamenti timbrici, ad esempio tra violino e tromba. Tutti i solisti sono stati straordinari e all’altezza del compito e vanno citati senza esclusioni : Gianpiero LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie, trombe; Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena, Gianfranco Marchesi, tromboni; Sandro Cerino, Andrea Ciceri, Giulio Visibelli, Rudi Manzoli, Gilberto Tarocco, ance; Luca Gusella, vibrafono; Emanuele Parrini, violino; Niccolò Cattaneo, pianoforte; Filippo Rinaldo, tastiere; Vincenzo Zitello, arpa bardica; Gianluca Alberti, basso elettrico; Stefano Bertoli, batteria; Tiziano Tononi, percussioni; Federico Sanesi, tabla. A loro molte lodi. Colpisce in modo speciale nella musica di Dino Betti la costruzione delle melodie che, rispolverando l’antica locuzione wagneriana, si direbbero ‘infinite’: cerimoniali, intense, mutevoli, un pò alla Rachmaninov, ieratiche a volte, cantabili sempre, leggermente destabilizzate ritmicamente. Un melodismo in perfetto equilibrio sulle proprie gambe, che non sente il bisogno di saturazioni d’armonie, polifonie ed atonalità per procedere a testa alta, con sonnambulistica intelligenza. Melodie “pensanti”?

Negli applausi, lo accennavamo all’inizio, c’era un sottinteso. Non si celebrava infatti solo un’occasione musicale ma anche di vita: l’ottantatreesimo genetliaco del maestro Dino Betti. Ognuno sarebbe concorde nell’affermare che gli anni li portano benissimo sia lui sia la sua musica. Ci attendono quindi nuove avventure. Lunga vita ad entrambi. Dopo il concerto, tra il pubblico, felicità e molti sorrisi, a suggellare una festa bella per tutti.

Massimo Giuseppe Bianchi