“The Master” di Jonny Greenwood

Diceva André Breton: occorre che l’altro appaia dall’individuo, oltre il controllo esercitato dall’ “io”. Come dire: è dall’opera stessa che deve evidenziarsi il soggetto creatore, non deve quest’ultimo calarsi a forza nel prodotto della propria arte.
Non si vogliono qui rispolverare le analisi della post-avanguardia, di Cage e Boulez…parliamo in fondo di una semplice colonna sonora. Ma che colonna sonora, e che autore! Nulla sapevo di lui prima di vedere, correva l’anno 2012, “The Master” di Paul Thomas Anderson. Uscito dalla sala, quella sera, vagavo quasi tramortito da un film indubbiamente grandioso quanto poco generoso con lo spettatore. Sembrava però ingiusto avanzare riserve verso un’opera universalmente quanto giustamente lodata. Indiscutibile era stata però l’impressione suscitata in me dalla colonna musicale.
Scoprii allora che l’autore, Jonny Greenwood, classe 1971, milita come chitarrista nel gruppo rock Radiohead, una formazione molto stimata che ha venduto decine di milioni di dischi, influenzata anche dalla musica elettronica e contemporanea: un gruppo che tuttavia a me non piaceva, né
piace tuttora affatto. Proprio per questo la curiosità aumentava e, poco dopo, mi procuravo il disco, che confermava la mia impressione positiva. Oggi voglio riproporvene l’ascolto.
Bretonianamente, ma su un piano puramente psicologico, mi chiedo chi sia Jonny Greenwood. Rimanendo “in re ipsa” credo ci troviamo di fronte ad un musicista dalla spiccata natura, dotato di caparbia intuizione, capace di unificare atteggiamenti diversissimi, da Stravinsky a Strauss a Satie, per mezzo di una grande abilità naturale nel porsi, come soggetto creativo, al servizio della logica del materiale di volta in volta utilizzato.
Come si sa, gli anglo-sassoni hanno pregi preziosi, perlomeno nell’arte. Il principale è forse la capacità di essere liberi, senza che simile libertà assuma le forme, a loro volta coercitive, della contestazione o dell’avanguardia – che mai invecchia. Infatti quelle terre costituiscono la culla ideale per il ‘pop’ migliore del mondo.
Molto di quella scena artistica è pura illusione, ma tale panorama, tutto sommato, sa vivere di vita propria; soprattutto a quelle latitudini e tanto più se ci si sposta negli U.S.A. non si ha paura del nuovo. La bellezza invece, da noi nel Continente, tende ad essere collocata nel passato, rievocata attraverso la retorica (“è il nostro petrolio..”, “salverà il mondo..”), collocata entro i perimetri sicuri di un museo dal quale non possa evadere per nuocere. (altro…)

“OÙ SONT LES NOTES D’ANTAN” ?

 

Milano, Teatro No’hma, mercoledì 22 marzo 2017
OÙ SONT LES NOTES D’ANTAN , di Dino Betti Van der Noot

Direttore: Dino Betti Van der Noot

Orchestra
Trombe e flicorni: Gianpiero LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie
Tromboni: Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena
Trombone basso: Gianfranco Marchesi
Flauti, clarinetto basso e sax alto: Sandro Cerino
Sax alto: Andrea Ciceri
Flauti e sax tenore: Giulio Visibelli
Sax tenore: Rudi Manzoli
Clarinetto e sax baritono: Gilberto Tarocco
Vibrafono: Luca Gusella
Violino: Emanuele Parrini
Pianoforte: Niccolò Cattaneo
Tastiere: Filippo Rinaldo
Arpa bardica: Vincenzo Zitello
Basso elettrico: Gianluca Alberti
Percussioni: Stefano Bertoli, Tiziano Tononi

Ho assistito, mercoledì 22 marzo, al concerto dell’orchestra di Dino Betti van der Noot al Teatro No’hma di Milano. Le musiche erano dello stesso Dino Betti, che ha anche diretto l’orchestra.

È stata una bellissima serata che mi ha stimolato alcune riflessioni. Quando si prova a tradurre il ‘jazz’, che è un lampo elettrico, nel linguaggio dell’orchestra, che è invece un libro aperto a squadernare linee e concetti stratificati, c’è il rischio di perdere qualcosa: l’essenziale. Spogliato della propria nudità, ossia dell’indicibile, al “jazz” orchestrale tocca rivestirsi di slancio nuovo. Violàti da violentatrice necessità, ai suoni ‘organizzati’ tocca così rifarsi una verginità, affinché possano fecondare il nostro interesse di ascoltatori e venire a loro volta resi fecondi dalle emozioni restituite, in un ciclo simile a quello delle piogge. È la ‘Big Band’, sia ben chiaro, un meccanismo di natura cardinale e non affatto ordinale: cioè a dire, non bastano la somma di ottimi solisti, un buon arrangiamento, astute mescolature di timbri a rappresentare lo spirito tormentato, ora giocoso ora schizofrenico, talvolta persino morbosamente sentimentale della musica ‘jazz’; va inserita la variabile umana, un ‘quid’ nel quale confluiscano quel corpo di forze vitali e irrazionali che dell’idioma afroamericano hanno costituito lo slancio e, diremmo, la protesta primigènia.

Dovessi racchiudere la musica di Dino Betti van der Noot in una qualità che la rappresenti, proromperebbe d’istinto una parola: freschezza. (Un’altra sarebbe: passione).

Oggigiorno è dato ascoltare numerosi giovani leoni della musica di matrice afroamericana, anche in terra europea benché il ‘jazz’, mi si consenta, rimanga indiscutibilmente un “black affair”. Dotatissimi, preparati, spesso addirittura laureati. Ma propongono con incrollabile convinzione la musica dei loro padri. “Come vuole la tradizione..”, sogghigna P. Favino nello spot della pasta Barilla. Quest’ultima – la tradizione, non la pasta- è alla base di tutto. Ma quando, oltre all’alfa, la tradizione giunge ad essere anche l’omega di un atto creativo, può accadere che il modo in cui si dicono le cose finisca col divenire più interessante delle cose dette in sé. Dino Betti è un giovane ragazzo che “dice” la musica in modo sempre nuovo, poiché essa sempre nuova è per lui. Dalle composizioni di questo artista trapela una luce vitale, divertita, che chiede solo di essere lasciata filtrare. Lo stile per lui, nato stiloso e non astretto ad una professione unica, è una sinecura.

Ho parlato prima di passione. Ma all’ordine del giorno, di qualità sue se ne potrebbero citare molte altre. Il senso dei colori, il gusto per un calligrafismo “totale”, alla Depero, capace di restituire l’idea di perfezione senza raggelare i molti elementi messi in campo, il grande rispetto per i ‘suoi’ solisti. Amassi la retorica mi spingerei persino a dire che si è innamorato della sua orchestra: come donna amata, essa ha cambiato fisionomia, nel tempo, senza mutare il proprio volto. E la musica che propone, del resto, non ha bisogno di categorie, di riferimenti: basta a se stessa.

Il programma si è svolto attraverso una scaletta composizioni felici, mutevoli come una giornata marzolìna, le quali andranno a costituire il materiale del nuovo album. Dino Betti, ben lo sappiamo , sforna dischi esclusivamente orchestrali con la cura del bravo pasticciere orgoglioso del proprio negozio, perpetuamente affollato di famiglie e bimbi festanti che non vedono l’ora di ricevere dalle sue mani le spumiglie, i bignè, le pastarelle. Il disco annunciato prenderà il titolo da un verso nostalgico di Villon “Où son les notes d’antan”. Uscirà in estate, e lo aspettiamo. Ai solisti, il cui elenco trovate in calce a questa memoria, sono stati tributati interminabili quanto meritati applausi da una sala piena. Tutti, senza distinzione alcuna, meritano lodi. Al maestro oltre agli applausi, è giunto un affetto particolare. Sicuro, armato di “charme”, simile ad un alato Mercurio, la sua performance ha testimoniato di una ispirazione così rifinita, di uno stile così pregiato che a riguardo si può provare solo la più sincera ammirazione.

Davide Cabassi e il “suo” Beethoven

 

 

 

 

Serve un bel coraggio per intraprendere, oggi, una nuova integrale pianistica beethoveniana, e l’ardimento vale doppio se la pubblicazione avviene sotto l’egida di un’etichetta storica come Decca, che può annoverare incisioni di pianisti entrati nell’immaginario collettivo.
Serve lucida inventiva per riuscire a individuare idee, spunti creativi in grado di rigenerare un’interpretazione giunta dopo mille altre.
Occorre infine, ma non da ultimo, possedere mezzi tecnici adeguati.
A me pare Davide Cabassi possieda i requisiti per soddisfare tutte queste condizioni. Il suo lavoro merita il più alto rispetto e la direzione da lui intrapresa può dirsi, nel senso migliore del termine, quella giusta.

Cabassi sceglie infatti la via più difficile: la fedeltà. La sua lettura è uno specchio nel quale vediamo riflessi il testo e le intenzioni palesi dell’autore. Realizzando l’essoterico, il pianista giunge a una lettura imprevedibilmente e magnificamente esoterica, rendendo manifesto il senso celato di composizioni che, per quanto mai troppo note, sono pur tuttavia assai popolari e battute. In questo disco siamo nel cuore del Beethoven che, ai tempi passati, usava definirsi del “secondo periodo” o “secondo stile”: già maturo e grandioso, l’autore però non spìntosi ancora nella fase più sperimentale che giungerà approssimativamente dopo il 1825, è repertorio di sublime profondità. Qui siamo per la precisione tra il 1803 e il 1806.

Le Sonate proposte nel presente CD Decca, il secondo dell’annunciata ed auspicata integrale, sono appunto l’opera 53, dedicata al conte Waldstein, l’opera 54 in due movimenti che è una delle più brevi, e l’opera 57, colloquialmente nota come “Appassionata”, titolo assegnatole surrettiziamente dopo la morte del compositore. A guisa di  suggello il pianista presenta, giustamente, anche l’ampio “Andante favori” che doveva fungere originariamente da tempo lento della “Waldstein”, poi  scartato per via dell’eccessiva lunghezza. Tuttavia, ci racconta Carl Czerny, il brano era spesso eseguito da Beethoven, che gli affibbiò personalmente il nomignolo di “favori”, ossia favorito. (Tra parentesi voglio aggiungere che l’esecuzione di Cabassi è  la mia preferita tra quante, discograficamente, conosco di questo prelibato ‘gateau’: non sono poche). Il pianista italiano suona con un ammirevole senso delle proporzioni. Sono interpretazioni nelle quali la propulsione ritmica gioca una parte dominante, come è giusto accada in Beethoven, i cui elementi architettonici vengono ispirati dal ritmo così come certe case lo sono dai fantasmi. I ‘fortissimo’ improvvisi, gli ‘sforzati’, le sorprese talora minacciose e talvolta ironiche di cui le partiture sono disseminate, così come i motivi ornamentali e tutte le componenti melodiche e affettuose, tutto viene reso da Cabassi con gusto, senza eccessi. Non c’è in questo pianista manifesta volontà di stupire, soltanto l’intento apprezzabile di veicolare nel modo più chiaro la musica. Penso sia il modo migliore di far emergere la poesia.

Pare che un giorno Stravinsky avesse rivolto ad una pianista alcune osservazioni critiche in merito a un’esecuzione da lui ritenuta troppo carica di effetti e nuances. “Suono così, Maestro” – fu la risposta – “poichè reputo questo pezzo “espressivo”.
“Se è “espressivo”, ribatté il maestro, “perché, di grazia, lo esegue “espressivamente”? Non basterebbe semplicemente.. eseguirlo, siccome già espressivo di suo?”. In questo aneddoto, se non vero sicuramente veritiero, c’è tutto Stravinsky. E anche tutto Cabassi, a mio giudizio, che rende a Beethoven il miglior servizio possibile. Scusate se è poco.

IL VENTO DA EST PIEGA L’ERBA DELLA CONSUETUDINE

Nello stupendo romanzo di Julian Barnes “Il senso di una fine” si pronuncia, a un certo punto, la seguente affermazione: “ La nostra vita non è la nostra vita, ma la storia che ne abbiamo raccontato”. Si potrebbe dire altrettanto della storia della musica europea? Ben assestata e avviata sulle solide ‘coulisse’ di stili e autori celebrati, essa presenta, come tutte le invenzioni ‘a posteriori’, delle zone d’ombra. Non si dice alcunché di nuovo affermando che, della musica di alcuni stati, ben poco si conosce, un bel nulla si esegue. Prendiamo a esempio la Bulgaria: a parte la famosa ed eccellente compagine corale “Le Mystère des Voix Bulgares”, nota nello stivale perlopiù per il “Pippero”, nient’altro ci sovviene; e lo stesso si potrebbe dire degli altri molteplici aspetti, tutti molto ricchi, della cultura di un popolo la cui tradizione affonda le radici in terra greca, altra landa musicalmente misconosciuta. È quindi con curiosità che ho iniziato ad ascoltare “Wind from the East” (Geganew), il CD che la pianista italo-bulgara Victoria Terekiev ha dedicato a tre compositori della terra dei suoi avi. Tale curiosità poteva restare semplicemente sentimento in sé conchiuso destinato ad essere archiviato all’ascolto, invece man mano si è trasformata in piacere, infine in gioia. Cosa accomuna le opere che Victoria ha scelto per il suo disco? Sono pezzi brevi articolati in raccolte, “suites” di danze o studi melodici, come avviene spesso con la musica dei paesi dell’est dove mai si dimentica il legame con il folklore tradizionale e l’ispirazione si adatta particolarmente alle piccole forme. (altro…)

Vino, donne e canto: Willi Boskovsky interpreta gli Strauss

Johann Strauss jr. e Josef Strauss, figli del patriarca Johann Strauss comunemente detto Johann Strauss ‘padre’, scrissero a Vienna i loro Walzer raggiungendo acuti di popolarità difficilmente immaginabili persino ai nostri giorni e non soltanto in terra di Cacania. Pensate che, a proposito di Johann Strauss jr. (1825-1899), si andò esercitando in un certo periodo, con lauti profitti, persino un commercio al dettaglio avente come oggetto le ciocche dei suoi capelli; roba che Justin Bieber manco se la sogna. Come giudicare questa musica? Un aneddoto rivelatore pare quello, poco importa se è leggenda, attribuito a Johannes Brahms che avrebbe così apostrofato il rampollo Johann :” Bello il suo ‘Danubio Blu’…complimenti vivissimi …peccato non l’abbia scritto io!”
E’ musica non tanto da valutarsi con il metro della profondità e della creatività, qualità che pure non mancano, quanto da gustare come si apprezza un manufatto d’epoca, un piatto tipico, una creazione autoctona… come, che so, le uova Fabergé, le Porcellane di Capodimonte, il Gamelàn balinese, le Altane veneziane. Altrettante, va senza dire, serie forme d’arte,
Il Walzer di Strauss è infatti Vienna, le Gasthaus e i palazzi, quel conservatorismo come calore rassicurante, l’umorismo anche a volte un poco sempliciotto ma di tradizione poetica fortissima, senza il il bisogno di aprirsi ad ogni costo al futuro.
Va detto anche che è musica, a dispetto dell’apparente semplicità del dettato testuale, assai difficile da interpretare; occorre non tanto conoscerne la sintassi, quanto saperne padroneggiare la complessa semantica: se non di persona, toccherebbe almeno spiritualmente recarsi in loco, alla Salgari, respirare l’aria della città, trovarcisi bene,. (altro…)

“Luys i Luso” di Tigran Hamasyan. Poesia da un mondo lontano

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“Classica” o “concertistica” sarebbe la musica intesa come Pensiero, cristallizzato in quel sudario che prende il nome di Spartito, il quale rimane lettera morta finché un esecutore non decida di infondergli nuova vita. Il ‘nomos’ scritto viene abitualmente considerato superiore per via di un pregiudizio contratto nella notte dei tempi, sul quale non ci dilungheremo. Ma la stessa musica concertistica, nella propria storia, ha notoriamente e non di rado annesso a sé anche l’elemento improvvisativo, la creazione estemporanea, affidandola agli esecutori in una sorta di corpo mistico.
Questa coesistenza di forme alternative del racconto musicale fa tornare alla mente certe luminose parole di Italo Calvino a proposito dell’unione amorosa di Lettore e Lettrice uniti nello stesso letto : ”…reduci da universi separati, vi ritroverete fugacemente nel buio dove tutte le lontananze si cancellano, prima che sogni divergenti vi trascinino ancora tu da una parte e tu dall’altra…”
Il disco che propongo al vostro ascolto (ricordo che questa non è rubrica di recensioni, non sono critico musicale, ma di semplici consigli discografici), “Luys y Luso” ( significa “luce dalla luce”) di Tigran Hamasyan è un’esplorazione della musica sacra armena. Patrimonio di straordinaria bellezza qui riproposto per coro e pianoforte. Diverse orbite s’intersecano: il canto popolare, la scrittura, l’improvvisazione… Diremmo anche: la preghiera. (altro…)