Strauss e Zemlinsky: poesia in divenire

Se si dovesse evocare, per il ventesimo Secolo, un nome soltanto a testimonio di quella succursale della modernità che prende il nome di avanguardia, nessuno penserebbe a Richard Strauss.
Forse erroneamente.

Nato nel 1864 e scomparso nel 1949, è il più importante e noto compositore del periodo cosiddetto tardoromantico. Che significa? In parole (troppo) semplici, che egli continuò ad adottare il sistema tonale anche dopo la rivoluzione di Schönberg, la dodecafonia, approntata quando era molto giovane e che mai lo interessò se non marginalmente per soluzioni particolari (penso ad alcuni luoghi del melodramma “Elektra”).

Se però, come dicevamo, il sistema accordale è, di principio, quello tradizionale inaugurato dal Rameau, per nulla tradizionale – per contro – è in Strauss la maniera di declinare questo linguaggio: l’imprevedibilità delle concatenazioni tonali, la gravida ricchezza delle melodie, spesso soggette a complicate permutazioni, il caleidoscopio strumentale e soprattutto la stratificazione dell’armonia fanno del suo stile un modello di eleganza.
Molto condivisibile appare la tesi di Quirino Principe che, nel suo bel saggio-biografia sul compositore monacense, tende a collocarlo nel novero di chi guarda al futuro, pur restando ancorato a un passato vagheggiato come irraggiungibile.
Benché Strauss risentisse di indubbie influenze wagneriane, il poema sinfonico “Till Eulenspiegels lustige Streiche” op.28, composto tra il 1894 e il 1895, non è opera d’epigono.
Vuol raccontare gli scherzi e le avventure di quel personaggio di fantasia molto popolare in Germania. I due temi che rappresentano Till sono presentati, rispettivamente, dal corno e dal clarinetto: il tema del corno descrive l’esteriorità del carattere, lo spirito giocoso; quello affidato al clarinetto è più elaborato, quasi a simboleggiarne l’ingegnosità. Il discorso è ricco di sorprese, pur tuttavia molto saldo nelle sue parti costituenti. Lunghe inquadrature di suggestivi paesaggi, confessioni intime, sorprese: tutto si tiene in un memorabile capolavoro che ha anche la caratteristica di spingere taluni strumenti (come ad esempio il succitato corno) a virtuosità inaudite nell’ambito della scrittura orchestrale. (altro…)

Classica. Contro il potere distruttivo del tempo

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Questo stupendo disco pubblicato da Hyperion rappresenta per me e mi auguro sarà lo stesso per voi, una vera scoperta.
Del “Madrigale”, forma fissa di andamento strofico che ha origine in Italia nel XIV secolo (ne accenna già Dante nel Purgatorio, canto secondo, nell’incontro con il musico Casella) si parla a proposito dell’ “Ars Nova Musicæ” e naturalmente nel secondo ‘500; di questo periodo dorato della storia della Musica, tale genere costituisce la base.
Claudio Monteverdi, Luca Marenzio, Carlo Gesualdo da Venosa sono soltanto alcuni dei nomi che portarono all’eccellenza questa pratica, e con essa la Musica stessa.

L’arte del “madrigalismo” che, terra terra, consiste nell’applicare musica a un testo, si stemperò via via in altri generi, in particolare nel teatro musicale e in quello stile borghese e domestico che è il “Lied”. In epoca classica, punte o pochissime sono le testimonianze e il genere sembrava dato per estinto. In effetti, parlando di Madrigale, si evoca sempre il passato, un passato dotto e patrizio nel quale musica, poesia, matematica parlano un linguaggio simile. Ci sovviene invece – grazie a questa incisione – che in terra d’Albione, dove il tempo sembra essersi fermato, attraverso molti canti secolari scritti come complemento al madrigale elisabettiano diversi compositori eccellenti proseguirono una tradizione remota.

Vi dice nulla, ad esempio, il nome del compositore Robert Lucas Pearsall (1795-1896)?
Forse no. Ebbene, i cinque suoi madrigali che aprono il CD sono un’autentica delizia: di forma, di pensiero, di canto sottile. Un giuoco che non si può accerchiare in una sola descrizione, ma di certo espresso mirabilmente da ciascuno di questi lavori. Bene si percepisce come questo compositore cercasse di coniugare fra loro, in un compromesso, gli incanti armonici di Purcell con le sofisticazioni che, nell’epoca sua, giungevano dal continente: tentativo, come sempre, mediato da quella irriducibile prospettiva isolana secondo la quale – lo si dice con il massimo rispetto – fuori dall’Inghilterra nulla avviene di rilevante. Ma tant’è.

Ancora più spiccato, nel secondo compositore qui presentato, Henry David Leslie (1822-1896), sembra il rapporto con la tradizione della musica popolare autoctona, il “gymel” in particolare. Le sue canzoni d’amore sembrano collocate al di là del tempo ed esprimono un candore noviziale, diremmo parrocchiale, che certo non ne sminuisce il fascino. (altro…)

Ferenc Fricsay su Deutsche Grammophon. Un mito induttivo

Il grande direttore magiaro Ferenc Fricsay (1914-1963) divenne famoso, oltreché per le equilibratissime interpretazioni di un vasto repertorio, anche per aver costituito un’orchestra, la RIAS (Radio nel Settore Americano) destinata a divenire sotto la sua guida un organismo ammiratissimo in tutto il mondo. «Per un interprete è doveroso suonare tutto. Non si deve mai insistere su un compositore in particolare». Così ammoniva, e fu coerente. Allievo dei grandi musicisti-docenti dell’Accademia Liszt di Budapest (Bartók, Kodály, Weiner ) Fricsay era un polistrumentista, caso raro già fra quanti la musica la suonano, figuriamoci tra i direttori. Altra qualità fu la grande apertura culturale, che lo avvicina forse solo a Mitropolous. Non a caso l’incarico berlinese gli venne affidato con due opere nuove: “Dantons Tod” di Gottfried von Einem e “Le vin herbé” del compositore svizzero Frank Martin, autori che non erano certo delle ‘pop star’. La morte prematura a 59 anni, nel 1963, consegnò quindi agli archivi del mito un nuovo nome intramontabile. Karajan, dopo la morte di Furtwängler, prese il timone della Filarmonica di Berlino e la trasformò, come noto, nella migliore orchestra del mondo, ma l’eccellenza raggiunta dalla RIAS di Fricsay non fu inferiore. Anzi: se è vero che il gregge vincolò il nomade Karajan a seguirlo, le scelte direttoriali di Fricsay e della sua orchestra, meno vincolati allo star-system, furono in certo qual modo più libere. Particolarmente feconda poi fu la naturale collaborazione con alcuni compatrioti come i pianisti Géza Anda, Andor Foldes e Louis Kentner e il grande violinista Tibor Varga. (altro…)

Angelo Gilardino: i tre Concerti per chitarra e orchestra

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C’è una componente immateriale, sospesa nella musica di Angelo Gilardino, classe 1941, un colore indecifrabile che attrae insieme con la musica stessa, una luce nascosta nella luce.
Di che cosa si tratta, esattamente? Forse il segreto ce lo spiega il compositore stesso, parlando apparentemente d’altro. “ E’ l’orchestrazione che stabilisce il destino dello strumento solista”, egli afferma.
A proposito di concerti solistici, non è raro trovarsi di fronte ad opere antagonistiche, situate sul terreno di un conflitto, quello tra il solista e l’orchestra, che può anche divenire aspro. Gli esempi potrebbero essere molti.
Sarebbe tuttavia difficile percorrere una strada simile con la chitarra, strumento intimo, solare ed ermetico insieme, dotato di sonorità limitata. Angelo Gilardino ricava dalla propria immaginazione un materiale sonoro di raffinata lega in cui, grazie all’alternanza di zone lucide ed opache, di contrasti di luce ed ombra, vengono delineati e composti i frammenti di un tessuto pregiato. I suoi lavori per chitarra e orchestra rappresentano dunque, di per sé, una soluzione nuova al problema dell’integrazione di questo strumento con ampie masse strumentali: già non è poco. (altro…)

Classica. TESORI ITALIANI DOMENICO NORDIO INTERPRETA CASELLA E CASTELNUOVO – TEDESCO

domenico nordio

Dobbiamo ripeterci. Il perché la musica italiana risulti estromessa dal repertorio corrente rimane un mistero, partiture alla mano, non spiegabile.
Non mi riferisco qui tanto al concerto di Castelnuovo- Tedesco il quale, se pure certo non sfiancato da troppe esecuzioni, si conosce tuttavia almeno per via dell’ enorme fama del dedicatario, Jascha Heifetz, che consegnò al disco la sua interpretazione (oggi pubblicata da Naxos). L’oblio che circonda il bellissimo Concerto di Alfredo Casella non è motivato da circostanze di ordine musicale: poiché qui regna l’invenzione più fervida, e la più riuscita resa strumentale.
Scritto nel 1928, dopo che il compositore aveva contratto per sua stessa ironica ammissione “il morbo atonale”, è un’opera fiammeggiante che descrive un mondo in perenne moto. Il compositore sa sognare e concepire la musica secondo un concetto di puro timbro, nel quale i gruppi strumentali contrapposti al solista fungono da riflettori, quasi oggetti metallici posti sul limitare di una superficie assolata. In questo senso, e in questo soltanto, il lavoro è paragonabile ad analoghe esperienze dodecafoniche con le loro “melodie di timbri”. Ovviamente il linguaggio adottato qui è più stratificato. L’armonia in particolare ha un suo gradiente, e colori primari vividissimi.
Per il melodizzare, si potrebbero in questo Concerto spendere i nomi di Bartòk e di altri modernisti numi tutelari, alle cui ragguardevoli personalità manca forse, rispetto al Casella, quel geniaccio melodico tipicamente italiano che, con buona pace di chi snobba la nostra musica, ci fa sorpassare non pochi altri genii. L’autore qui sa anche come sviarsi, di quando in quando, dal complesso castello da lui stesso edificato, per rifugiarsi nel canto e nella contemplazione estatica.
Se il Concerto caselliano è, per la libertà innovativa, opera essenzialmente poetica dove regnano le leggi delle più pure associazioni e i voli pindarici, ecco che con Castelnuovo si squadernano nobilissime pagine di prosa. (altro…)

Carlos Kleiber su Deutsche Grammophon

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Chi si avventura nel mondo della musica classica capisce ben presto che l’oggetto della propria passione è diviso.
Senza scomodare Kant e le differenze tra l’oggetto in sé (fenomeno) e l’oggetto percepito (noùmeno) non vi è dubbio che si possano amare contemporaneamente, e stereoscopicamente, sia la musica che l’interpretazione. Le quali cose se risultano perfettamente separabili e delineate nel nostro cervello, lo sono assai meno al nostro orecchio, incapace di scindere le note dalle scelte. Amiamo di più Rubinstein, il pianismo cavalleresco di Rubinstein, o l’immagine della Polacca op. 53 di Chopin evocata dalle sue dita? Quando ci trastulliamo, assorti in magici pensieri, all’ascolto dello “Schiaccianoci” di Ciakovsky, è il suono dei Berliner Philarmoniker che in primis ci seduce, o la musica lussureggiante del compositore russo?
Il cervello non avrebbe esitazioni, direbbe la musica. Il cuore, forse, esiterebbe.
Quando dirige Kleiber ci conquista, anzitutto, Kleiber stesso: il suo fuoco, la perfezione…soltanto quando gli occhi si siano abituati alla luce di questo sole abbagliante, si rivela alla mente la musica.
In questo cofanetto troviamo tutte le registrazioni effettuate per la sua etichetta, la Deutsche Grammophon, celebre marchio che egli contribuì non poco a fare grande.Nelle sue esecuzioni non trova spazio l’oscuro, l’indistinto: tutto prende forma in piena chiarezza e nulla è meno che perfetto. Ogni interpretazione è l’illusione di un tempio greco che riemerge dal passato non solo incarnando il messaggio dell’autore ma traducendone la forza nel presente.
Si ascolti l’inizio della Traviata, un portento di modernità timbrica; come Kleiber riesca a rigenerare tutta la sua misteriosa, minacciosa ‘allure’, ripulendolo dai cascami sentimentali(sti) per restituirlo allo spleen originario. O la poesia romantica del canto finale del Freischütz, con il suo carattere così distinto, definibile.
Nelle interpretazioni di questo sommo direttore la perfezione non è, come spesso accade, qualcosa di algido, vampirizzato, ma consiste in un paesaggio che circonfonde e circoscrive la musica conferendole passione.
Schivo, amante del vivere nascosto, convinto di essere la reincarnazione del cane di Emily Dickinson, egli fu aporìa vivente: riuscì nell’intento (unico) di farci amare, parimenti, le opere che dirigeva e quelle che non avrebbe mai diretto, facendocele, queste ultime, immaginare e rimpiangere.
Fu votato, in un sondaggio, quale direttore più amato dal pubblico, sopravanzando persino Herbert von Karajan, colui cioè che lo star-system lo aveva praticamente inventato; eppure Carlos Kleiber non fu mai ‘star’, anche se – persino più di Karajan – diede vita a una nuova religione estetica. Casomai un’anti-star, fieramente quanto inconsapevolmente anticonformista.

Nella strana epoca che viviamo, misera e opulenta, dove il denaro detta legge e la musica è divenuta competizione, l’irriducibile serenità del suo messaggio ancora sconvolge. Svjatoslav Richter lo definì una volta “Titano insicuro” poiché, come tutti i veri artisti, perennemente insoddisfatto di sé, ma in queste registrazioni di insicurezza non vi è traccia; si apprezza al contrario su quale piano elevatissimo egli abbia saputo proiettare la propria visione.
In questo stupendo cofanetto si possono riascoltare alcune Sinfonie di Schubert e di Beethoven, una mitica “Quarta” di Brahms, la “Traviata” di Verdi (con la meravigliosa Ileana Cotrubas e Domingo) il “Freischütz” di Carl Maria von Weber, il “Tristano e Isotta” di Wagner e il “Fledermaus” di Strauss.

Se non li conoscete, questi dischi diventeranno i vostri più fedeli compagni, ciascuno di essi una finestra per far entrare nelle nostre case la luce di un grande scandagliatore di abissi sonori, sempre, per quanto umanamente possibile, all’altezza dei testi che interpretava.