UN BALLO IN MASCHERINA

U.S.A. : Riccardo Muti, sul podio davanti alla Chicago Simphony Orchestra, si è rifiutato di modificare il termine “negri” nella concertazione di “Un Ballo in maschera di Giuseppe Verdi”. La frase incriminata è “s’appella Ulrica l’immondo sangue dei negri”.  Siamo d’accordo col Maestro. Di questo passo la Aida potrebbe essere sbianchettata e così il violento Otello, mentre Carmen la zingara di Bizet la si finirà per definire nomade.
L’anno scorso a Londra si era pensato di censurare pezzi di Madama Butterfly in base all’accusa di “colonialismo” (Pinkerton, turista sessuale? ) da parte del critico Roger Parker. Una provocazione che aveva suscitato molta eco e per contro rivendicazioni italiane della intoccabilità pucciniana.

Se si desse il la a tali “ristrutturazioni” si andrebbe a porre mano a “L’alfier nero” di Arrigo Boito, alla goffaggine dei turchi rossiniani, alla ilarità dell’Idolo cinese di Paisiello con la satira del napoletano sul trono di quel paese. Ma dai, non coltiviamo il talebano che è in noi con la scusa della cancel culture e del politically correct!
Un certo odore di fondamentalismo “linguistico” era stato avvertito nella stessa musica americana dove qualcuno aveva definito offensivo il “Negro dialect” della gershwiniana “Porgy and Bess”.

E dire che vari jazzisti di colore hanno ripreso temi dal film “Orfeu Negro”!
Il razzismo non si combatte creando un “cappotto” al vocabolario, (d/epurandone le parole, istituendo apartheid per i testi di lavori dell’ingegno storicamente dat(at)i.
Sarebbe ovviamente diverso se un certo linguaggio venisse usato oggi, in un contesto radicalmente diverso, dove certe forzature espressive non sono auspicabili. Nel caso della messinscena lirica è ormai ammessa ogni innovazione ma non ci si chieda, per carità, di attualizzare il capolavoro verdiano intitolandolo “Un ballo in mascherina”!

Amedeo Furfaro

Se n’è andato Roberto Masotti: il jazz perde uno dei suoi protagonisti

Ecco un’altra di quelle notizie che mai vorresti leggere e che ti colpiscono forte come un pugno nello stomaco. Ieri mattina, mentre scorrevo le solite stronzate pubblicate su Facebook, mi imbatto in una foto di Riccardo Bergerone e Roberto Masotti e sotto una serie di commenti tutti accomunati da un forte sentimento di tristezza. Stento a capire…  poi leggo meglio e la realtà è lì, Roberto Masotti se n’è andato all’età di 75 anni, dopo una malattia che l’ha colpito più di un anno fa.
Ci eravamo conosciuti nei primissimi anni ’70, quando Roberto era praticamente il volto della ECM in Italia; bellissime, come sempre , le sue foto che impreziosivano gli album della casa tedesca, intelligenti e profonde le sue osservazioni sulla musica che Manfred Eicher cercava di far emergere nel panorama musicale non solo europeo.
Insomma un fotografo colto, un artista di squisita sensibilità, molto competente in fatto musicale e sempre con i piedi ben piantati per terra, mai riposando sugli allori, preferendo piuttosto affrontare sempre nuove sfide, il che lo ha portato ad essere, a ben ragione, considerato uno dei migliori fotografi a livello internazionale. Certo, il jazz restava probabilmente il suo interesse principale, ma la sua arte spaziava ben al di là della musica.

In effetti tracciare una biografia di Masotti in questa sede è tutto sommato inutile; basti sottolineare alcune tappe fondamentali: nel 1973 inizia una lunga e proficua collaborazione con ECM Records di cui è stato responsabile della comunicazione per l’Italia, oltre a veicolare nel mondo l’immagine della casa tedesca; dal 1979 al 1996 è il fotografo ufficiale del Teatro alla Scala di Milano con Silvia Lelli, sua compagna anche nella vita; nel 2005 viene realizzato un programma televisivo a lui dedicato per SKY/Leonardo nella serie Click… nel corso degli anni le sue fotografie sono state esposte in numerose città italiane ed europee, sempre con grande successo
Purtroppo non ci sentivamo così spesso ma ogni volta le nostre conversazioni – il più delle volte telefoniche – erano improntate ad una sincera piacevolezza; ci scambiavamo opinioni, analisi e sempre le sue idee erano perfettamente lucide, a conferma di una mente aperta.
L’ultima volta ci siamo parlati nel settembre scorso, quando ho avuto il piacere di presentare ai lettori di “A proposito di jazz” due suoi libri: “Jazz Area” che lo stesso Masotti considerava la sua “storia attraverso il jazz più che con il jazz” e “Keith Jarrett. A portrait” un vero e proprio atto d’amore che Masotti dedicava ad uno dei più grandi pianisti del jazz. E per comprendere a fondo ciò che la fotografia significava per Roberto, credo importante ricordare alcune sue parole: «le foto sono il risultato di una intima e oggettiva attenzione nei confronti di un artista a lungo seguito e ammirato, ma anche di una sua risposta che è consapevole accettazione, e soprattutto, partecipazione. Suo, solo suo, è il suono di una musica inconfondibile che la serie di fotografie ambisce di evocare e far risuonare».
Ecco, Roberto era in grado di trasmettere a chi guardasse le sue foto con attenzione, non solo un’immagine ma qualcosa che andava al di là, lo spirito del soggetto ritratto, il suo stato interiore, il suo modo – in quel momento – di vivere la realtà. Insomma Masotti era davvero un artista a tutto tondo e il suo contributo alla comprensione del mondo jazzistico, oggi ancora più complesso di ieri, ci mancherà… e tanto!

Gerlando Gatto

Il Jazz per l’Ucraina in Italia e nel mondo

La musica non è un’arma spuntata. Ma non è “inoffensiva” nel senso che può diventare veicolo di messaggi forti – pensiamo a brani come “Imagine” di John Lennon o “Russians” di Sting –  in grado di influenzare le coscienze di intere fasce di popolazioni.
E non è semplice psicologismo (di massa) tant’è che anche in ambito militare si riconosce quanto sia importante il “morale della truppa”.
Può essere inno pacifista come il famoso “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” dei Giganti e i tanti brani dell’epopea hippie ma può tramutarsi anche in un aiuto concreto. Ed è quanto di fatto sta avvenendo in un Occidente dove lo stesso jazz ha iniziato a mobilitarsi. Con qualche distinguo, però, non del tutto secondario che si sta manifestando nel nostro Paese. In effetti consentitemi di nutrire qualche ragionevole dubbio sulla perfetta coincidenza tra l’indire manifestazioni di sostegno e condividere appieno le sofferenze del popolo ucraino. Dubbio determinato da quanto leggo in questi giorni da varie fonti: invece di condannare senza se e senza ma le azioni di Putin, si comincia il discorso con i soliti “sì, ma, allora gli USA, il Libano, la Libia, l’Afghanistan, l’Iraq… e chi più ne ha più ne metta”. Il tutto non tanto e non solo per capire le cause dell’attuale guerra (cosa che si potrebbe benissimo fare ad ostilità concluse) quanto per giustificare se non per appoggiare pienamente Putin nel nome di vecchi slogan che sognavamo sepolti dalla storia e che invece riaffiorano sulla scorta di un “anti-atlantismo” più vivo che mai. Ma tant’è!
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, aggiungo che la redazione intera di “A Proposito di Jazz” ritiene di dover attestare la propria vicinanza alle vittime di questa guerra ripugnante, per riprendere le parole di Papa Francesco. Lo facciamo scrivendo. Computer e strumento musicale non saranno armi, d’accordo. Ma possono arrivare a trasmettere parole, suoni, emozioni, sentimenti. Là dove le armi non arriveranno mai.
Ma torniamo alle tante iniziative di cui in apertura. Fra le tante significative storie da segnalare quella di Tetyana Haraschuk, batterista jazz che vive a Winnipeg in Canada, dove si è trasferita qualche anno fa coi suoi genitori. Lei è nata a Kiev, e in Ucraina ha ancora tanti parenti minacciati dalla guerra. Alcuni di loro sono riusciti a passare il confine e rifugiarsi in Polonia, ma la situazione non è semplice nemmeno lì. Così lei è partita per incontrarli e condurli definitivamente in salvo.

Dal canto suo Tamara Usatova, cantante jazz e soul da oltre 15mila visualizzazioni su Youtube, nata in Ucraina da padre russo e madre ucraina, ha raccontato la lacerazione che sta vivendo in questi giorni. Perché anche lei, come molte persone russe, ha l’impressione di essere nel mezzo di una guerra civile. Per questo ha organizzato dei concerti a Milano con un doppio obiettivo: raccogliere fondi a sostegno del popolo ucraino e creare un ponte che avvicini i due Paesi in ostilità.
Ancora: in Gran Bretagna si è svolto il Concert for Ukraine grazie alla arpista di origine ucraina Alina Bzhezhinska, la quale nell’occasione ha dichiarato che “l’Ucraina è sempre stata un Paese europeo; ha persone straordinarie che vogliono vivere in pace e armonia con il resto del mondo”. Centrando, con tali affermazioni, il perché della reazione dell’Europa al conflitto, concorde ed unitaria come mai era stata in precedenza in situazioni più o meno assimilabili avvenute in territorio europeo. Le ha fatto eco Dave Wybrow, direttore del Cockpit, struttura teatrale sempre aperta alle battaglie ideali e antitotalitarie.

Giungono notizie sul sostegno all’Ucraina anche dagli U.S.A. In particolare il 18 marzo si è svolto a NYC “10,000 Tones for Peace”, un concerto cui hanno partecipato artisti del calibro di Oliver Lake, William Parker, Matthew Shipp, Frank London, Joe Morris, Marty Ehrlich, Melvin Gibbs… e altri. Notevole anche il contributo della Utah Jazz Foundation che ha stanziato fondi per l’accoglienza dei profughi ucraini.

E in Italia? Da noi lo scorso 13 marzo, la Midj, associazione musicisti italiani di jazz ha promosso “Italian Jazz 4 Peace”, una giornata di concerti on line e dal vivo per raccogliere fondi in favore delle popolazioni colpite dal conflitto. L’evento solidale, organizzato in collaborazione con Unchr Italia, l’Agenzia Onu per i rifugiati, è basato sul presupposto che “la musica unisce popoli, culture, persone. Da sempre il jazz è incontro e scambio, estemporanea espressione artistica che riflette la realtà del momento”. Ai vari coordinamenti regionali è stato assegnato il compito delle iniziative in loco per il cui riscontro rinviamo alle varie cronache di spettacoli.
Giovedì 17 marzo 2022 il Conservatorio di Milano ha ospitato presso la Sala Verdi il concerto dell’Orchestra Nazionale Jazz dei Conservatori italiani: gli studenti dei Conservatori si sono esibiti insieme per la pace in Ucraina nel concerto Kings of Pop in Jazz a sostegno del progetto Emergenza Ucraina #HelpUkraine della Fondazione Avis, guidati da Pino Jodice (nella doppia veste di direttore e arrangiatore) e con la voce di Cinzia Tedesco.
Buone nuove anche da Bergamo: la Fondazione Teatro Donizetti e Bergamo Jazz hanno aderito alla raccolta fondi promossa da Fondazione Cesvi con l’iniziativa “Emergenza Ucraina”: in occasione dei concerti, il pubblico ha così potuto effettuare donazioni destinate alla popolazione colpita dal conflitto.
Tra le iniziative locali da segnalare , infine, quella svoltasi a Palermo dove il 26 marzo scorso, al Real Teatro Santa Cecilia, l’Orchestra Jazz Siciliana – Fondazione The Brass Group, sposando l’appello dell’assessore regionale turismo, sport e spettacolo, Manlio Messina, ha dato vita allo spettacolo BRASS and FRIENDS for UKRAINE. Sono stati raccolti 6.000 euro, devoluti alla raccolta fondi promossa dalla Croce Rossa Italiana per il popolo ucraino, Oltre all’Orchestra, sono saliti sul palco molti artisti tra cui Flora Faja e Diego Spitaleri.

Gerlando Gatto

“Suoni del Futuro Remoto” tra i 100 greatest Jazz album del 2021

500 copie in edizione limitata, copertina bellissima realizzata dal giovane Nicola Andrulli sulla quale è riportato uno dei simboli della città di Matera, la scultura dedicata al contadino che attende giornalmente nella piazza di Matera di essere scelto dal proprietario terriero per il lavoro nei campi. Ma nel disco, etichetta Onyx, l’immagine riprende il contadino che indossa una cuffia audio che lo trasforma in un attento ascoltatore di musica.
È così che si presenta “Suoni del Futuro Remoto (Partitura per Orchestra e Suoni Naturali)” il vinile prodotto dall’Etichetta Onyx Jazz Club di Matera (numero di catalogo CdOnyx 029 e 030), del Collettivo Onyx diretto da Joe Johnson con ospite Paolo Fresu e Massimo Ottoni, con i suoni campionati da UniBanda SFR, curato nella parte tecnica da Francesco Altieri di LabSonic.
Il disco testimonia il percorso di ricerca sonora che l’E.T.S. di Matera ha realizzato nel 2019 nella città dei Sassi in occasione dei festeggiamenti di Matera Capitale Europea della Cultura. Progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 ideato e co-prodotto da Onyx Jazz Club e Fondazione Matera Basilicata 2019.
Pochi giorni fa, il disco è stato selezionato dalla prestigiosa rivista specializzata JazzIT tra i 100 GREATEST JAZZ ALBUM DEL 2021.


Un prestigioso traguardo che ripaga gli sforzi fatti in questi anni dall’associazione lucana. Fanno parte del JAZZIT Awards 2021 registrazioni di musicisti del calibro di Chris Potter, Enrico Rava, Dave Liebman, Joe Lovano, Brandford Marsalis, Pat Metheny e tanti altri ancora.
“Suoni del Futuro Remoto” non è solamente un disco, ma, come in un libro, è possibile ritrovare il racconto di uno dei luoghi più belli del mondo, un progetto voluto da un gruppo di soci, quelli dell’Onyx, che nonostante alcune paure iniziali e defezioni, ha condotto in porto una esperienza esaltante attraverso il coinvolgimento di tanta gente.
Tutto ciò lo avverti scartando la cellophanatura che sigilla il disco e aprendo la busta gatefold, che contiene all’interno un libretto di 12 pagine ricche di fotografie e contributi scritti da parte di numerosi testimoni del progetto come ad esempio Paolo Verri, Paolo Mele allora rispettivamente Direttore e Project Manager della Fondazione Matera Basilicata 2019, di Antonella Ciervo ufficio stampa Onyx, Angelo Palmas, Presidente di Nuoro Jazz e Mauro Calderoni, Sindaco di Saluzzo.
Spiccano subito all’interno due cd che riproducono il concerto completo registrato in Piazza San Francesco il 26 agosto 2019 e un progetto nel progetto: “Passeggiando di notte”, che riporta i suoni della città registrati in una notte d’estate.
Dalla tasca laterale della copertina scivola una busta bianca contenente il vinile. Questo disco nero, con un diametro di circa 33 cm, che dopo anni di abbandono, sostituito dal più piccolo e maneggevole compact disc, ritorna prepotentemente sulla scena dell’ascolto dell’alta qualità per gli audiofili più incalliti.
Non resta altro che poggiare il nero disco sul piatto dello stereo e accompagnare il braccio del giradischi sui primi solchi, sedersi in poltrona e dedicarsi all’ascolto.
«Suoni del Futuro Remoto è frutto di un lavoro sinergico fatto tra la Fondazione e il project leader Onyx Jazz Club, che nel 2019 ha raccontato la città di Matera in modo del tutto inedito, attraverso la suggestione dei suoi suoni più simbolici, da quelli urbani a quelli naturali, trasformati poi in una partitura orchestrale – sottolinea il Direttore della Fondazione Matera Basilicata 2019, Giovanni Oliva -. Il prestigioso riconoscimento ottenuto dal progetto è l’attestazione della grande qualità prodotta nel percorso di co-creazione con la scena creativa lucana per Matera Capitale Europea della Cultura 2019, che intendiamo rilanciare con forza nei prossimi mesi».

Redazione

SUONI DEL FUTURO REMOTO
Testo a cura di Luigi Esposito progettazione Direzione SFR.
Onyx Jazz Club, project leader

TEMA DEL DOSSIER DI CANDIDATURA
Futuro Remoto
Progetto di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 ideato e co-prodotto da Onyx Jazz Club e Fondazione Matera Basilicata 2019
COSA
Ogni luogo ha un suono e ogni città ne possiede a volte senza esserne consapevole. È da questi elementi che è nato “Suoni del futuro remoto”, il progetto di Onyx Jazz Club coprodotto dalla Fondazione Matera-Basilicata 2019. L’attività di soundscaping e soundrecording effettuata dagli studenti del Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo dell’Università della Basilicata (UniBanda) si è unita al lavoro ultratrentennale dell’Onyx, che punta da sempre al rapporto stretto fra territorio e musica e che in questo caso ha contato su collaborazioni e partnership che vanno dalla Scuola di Alto Perfezionamento Musicale e dal Comune di Saluzzo, fino all’Università di Hannover. Il risultato è passato da una serie di collaudi sonori e concerti nei quali gli artisti provenienti da tutta Europa si sono lasciati ispirare dal luogo nel quale si sono esibiti, dal chiostro di un museo, al ventre della terra nella profondità di un pozzo, fino ai cortili dei Sassi. Un viaggio nel tempo che non ha trascurato nessuno degli elementi forti di una città millenaria come Matera.
Uno degli eventi più suggestivi è stato il concerto che ha chiuso la serie di sperimentazioni, il 26 settembre 2019, che ha visto sul palco naturale di piazza San Francesco il Collettivo Onyx, composto da Marta Gadaleta, voce; Gianfranco Menzella, sax tenore; Mike Rubini, sax alto, Pepi Romaniello, sax tenore e soprano; Biagio Orlandi, sax tenore e soprano; Nicolò Petrafesa, pianoforte; Gianni Vancheri, chitarra e clarinetto basso; Rino Locantore, voce, tamburi a frizione, bottiglia, metallofonia (frangizzolle); Pasquale Gadaleta, contrabbasso; Giacomo Mongelli, batteria, musicisti provenienti dalla Basilicata e dalla Puglia diretti dallo statunitense  Joe Johnson con ospiti il video artist Massimo Ottoni e il trombettista Paolo Fresu, impegnati nella prima del concerto basato sulla partitura per “Orchestra e Suoni Naturali” composta dallo stesso Johnson con il materiale campionato nelle strade della città e nel Parco della Murgia Materana dagli studenti.
Immaginate, dunque, un’orchestra sinfonica composta da centinaia di elementi: i falchi grillai, il tufo bianco, i mulinelli della Gravina, i pendii della Murgia, le distese di malva selvatica. Il racconto di Matera attraverso uno spartito in grado di leggere l’acustica dei luoghi.
Suoni del Futuro Remoto (SFR) presenta all’Europa Matera e il suo paesaggio attraverso i suoi suoni naturali che sono stati catturati, analizzati, mappati, rielaborati in digitale, per coglierne la voce più autentica e trasformarli in diversi linguaggi, dalla musica, all’installazione artistica e sonora, fino ad essere tradotti in performance dal vivo.
COME
Il progetto, nato all’interno del percorso di co-produzione avviato dalla Fondazione Matera-Basilicata2019 nel 2017, ha avviato le sue attività nel 2018 con una serie di “collaudi sonori” di luoghi acusticamente interessanti della città.  Performance dal vivo di musicisti e artisti hanno sperimentato le particolari sonorità per raccontare un inedito itinerario sonoro.  Il compito di registrare i suoni è stato affidato agli studenti dell’Università della Basilicata, i ragazzi di UniBanda, che hanno lavorato con i loro colleghi dell’Università di Hannover e ai volontari del Servizio Volontario Europeo (SVE) dopo aver appreso alcune tecniche di post-produzione audio in una residenza presso la Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo. Dai suoni naturali della Gravina a quelli delle Festa Patronale passando attraverso i suoni delle piazze, dei vicoli, delle botteghe artigiane, tutto si è trasformato, come per magia in note musicali.
RISULTATI
I suoni campionati sono diventati i protagonisti di due percorsi paralleli, uno più narrativo-performativo, l’altro più artistico-musicale. Nel primo caso l’UniBanda ha utilizzato le tracce per ideare, progettare e realizzare in autocostruzione sei installazioni sonore in alcuni dei luoghi più significativi della città, il campus universitario, ma anche il palombaro di S. Giovanni da Matera (antica cisterna di raccolta delle acque piovane), Casa Cava e la Piazza Vittorio Veneto.
Il progetto artistico-musicale si è avvalso di numerosi compositori e musicisti che hanno dato la loro personale lettura del territorio trasformando i suoni della città in partiture musicali originali, tra questi i Gaze of Lisa (Italia), Niels Berg Cinemascope (Svezia), Hilde Marie Holsen (Norvegia) e Joe Johnson (Stati Uniti). Quest’ultimo ha rielaborato i suoni naturali in note musicali dando vita a una partitura per orchestra e suoni naturali eseguita in prima mondiale assoluta dal Collettivo Onyx e dal trombettista jazz Paolo Fresu il 26 settembre 2019 nella splendida cornice di Piazza S. Francesco a Matera. Il progetto è stato successivamente presentato con grande successo di pubblico nel Teatro Magda Olivero della città di Saluzzo, partner di ferro del progetto, il primo novembre 2019.
Il concerto di Matera del 26 settembre 2019 è oggi conservato nei solchi di questo vinile e nei 2 cd allegati come testimonianza di un processo di condivisione di decine tra artisti, volontari, appassionati, tecnici, studenti, professionisti, Istituzioni, donne e uomini che hanno espresso serenità e competenza. SFR è un omaggio alla città di Matera, ai suoi luoghi fuori dal tempo, ai suoi suoni, agli abitanti permanenti e temporanei, protagonisti di uno spettacolo unico e irripetibile.
Grazie Matera, Capitale Europea della Cultura 2019!

L’Orchestra Jazz Siciliana – Fondazione The Brass Group esclusa inopinatamente dai fondi FUS

Certo che di cose strane nel mondo della musica ne accadono e certamente non poche.
Prendiamo ad esempio i Contributi FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) i cui destinatari sono le attività di spettacolo dal vivo.
Nello specifico si sostengono attività – di produzione e programmazione – nei seguenti ambiti: musica, teatro, danza, circo e spettacolo viaggiante. Vengono finanziati anche progetti multidisciplinari e azioni trasversali.
I contributi vengono concessi per progetti triennali, su programmi annuali.
Sono invece annuali i contributi concessi per le tournée all’estero e per alcuni contributi allo spettacolo viaggiante.
I criteri e le modalità di concessione dei contributi FUS sono disciplinati, a partire dall’esercizio 2018, dal Decreto Ministeriale n 332 del 27 luglio 2017, che prevede la presentazione di un progetto triennale (a partire dal triennio 2018-2020) e di un programma annuale per coloro le cui istanze triennali sono state approvate.
La normativa definisce gli ambiti di attività finanziabili, i requisiti minimi dei soggetti richiedenti, la tempistica e la modalità di invio delle domande, nonché il sistema di valutazione delle domande.
Requisito indispensabile di accesso ai contributi FUS è il comprovato svolgimento professionale dell’attività. Per le attività di musica e danza, e per le attività di promozione, i soggetti richiedenti inoltre non devono avere scopo di lucro. Così posto il problema, sembrerebbe facile definire chi ha diritto… o meglio sembrerebbe ovvio stabilire chi non ne ha diritto.
Ma come al solito nel nostro Paese una cosa è la norma scritta, altra cosa è la sua pratica attuazione. E veniamo al caso che vorremmo porre in questa sede.

Orchestra Jazz Siciliana con Kurt Elling al Real Teatro Santa Cecilia

In Sicilia opera da tempo, da molto tempo l’Orchestra Jazz Siciliana – Fondazione The Brass Group che rappresenta in Italia la prima e unica orchestra permanente di jazz a partecipazione pubblica (legge regionale 1 febbraio 2006, n. 5). Fondata da Ignazio Garsia nei primi anni ‘70 con il nome di Brass Group Big Band, l’Orchestra Jazz Siciliana ha svolto un’intensa e continuativa attività concertistica promuovendo oltre 3.000 concerti in cui ha ospitato alcuni tra i più grandi protagonisti della storia del jazz e formato, attraverso la sua Scuola di Musica, centinaia di giovani musicisti di riconosciuto valore. Il tutto sotto la guida di alcuni dei più prestigiosi direttori d’orchestra del mondo; tra i direttori residenti il M° Tony Vella è stato il primo a dirigere stabilmente la formazione siciliana. Da sottolineare ancora come l’Orchestra operi stabilmente nell’unico teatro pubblico storico che esista al mondo destinato al jazz.
Ebbene, quest’anno inopinatamente la Fondazione The Brass Group è stata esclusa dai finanziamenti nazionali del Fus. La decisione ha gettato nello sconforto l’ente palermitano ed è stata contestata anche dal governo regionale che con l’assessore al Turismo Manlio Messina ha lanciato un appello «affinché l’Orchestra Jazz Siciliana sia riconosciuta dallo Stato al pari delle altre eccellenze musicali siciliane». Appello che fa il pari con un’accorata dichiarazione di Ignazio Garsia, presidente della Fondazione The Brass Group, cui ha praticamente dedicato tutta la vita. «Il provvedimento – afferma Garsia – è inquietante perché è forte il sospetto che una Commissione valutatrice che attribuisce, per esempio, un punteggio bassissimo al Teatro alla Scala e altissimo alla Compagnia Lirica Peloritana, abbia commesso un macroscopico errore nell’apprezzamento, talmente abnorme e grossolano da essere evidente a chiunque, anche a chi non frequenta i teatri musicali, di ravvisare la palese incongruità della valutazione. E poiché è sempre maggiore il sospetto che l’assenza di criteri specifici e trasparenti favorisce l’applicazione, da parte dell’esperto di jazz della Commissione Consultiva del Ministero, di giudizi arbitrari guidati dalla logica di favorire i soli raccomandati, ci stiamo riservando di valutare meglio con i nostri legali la presentazione di un esposto alla Procura della Repubblica».
Come se ne esce? Francamente non sappiamo se effettivamente la Fondazione palermitana adirà la magistratura. Come semplici cronisti, attenti a quel che accade nel mondo del jazz dove in questo periodo cominciano a circolare parecchi soldi pubblici, ci piacerebbe almeno conoscere i criteri per cui la fondazione è stata esclusa dai fondi ministeriali. Potrebbe anche darsi che i responsabili del ministero abbiano ragione ma consentiteci, almeno, di nutrire qualche ragionevole dubbio.

Gerlando Gatto

Franco Cerri, un elegante sorriso a sei corde

di Flaviano Bosco –

Pare perfino scontato salutare Franco Cerri ora che ha deciso di raggiungere suo figlio per continuare la sua infinita serie di concerti in un’altra dimensione. Dire che era il decano del jazz italiano è auto-evidente e per onorarlo degnamente bisogna di certo osare di più.
Se c’è qualcuno che ha dato al jazz italiano una fisionomia che gli è propria, un gusto tutto nostro, disincantato, leggero, popolare e al tempo stesso colto e raffinatissimo è stato di certo il chitarrista milanese per antonomasia. Cerri ha traghettato generazioni intere dalla musica d’imitazione americana, che nel nostro paese aveva avuto una gloriosa stagione già a partire dagli anni ‘30, verso un sound tutto nuovo, tra le nebbie e il sole della pianura padana “fino ai laghi bianchi del silenzio” come ricorda in una sua canzone Paolo Conte, altro grande testimone del nostro tempo, mentre parla di un chitarrista che si estenua alla ricerca della giusta intonazione.

Se proprio vogliamo andare in ordine cronologico, tutto era iniziato in Europa con l’inarrivabile Django Reinhardt e con il suo sodale Sthépane Grappelli. Cerri poteva dirsi loro allievo diretto, visto che giovanissimo lavorò con entrambi e condiviso un tour europeo con il secondo, durato due anni con centinaia di concerti.
Leggenda vuole che il jazz in origine sia stato per 2/4 afroamericano, 1/4 italiano e tutto il resto una fantasmagoria gitana. Sempre, come dice l’avvocato di Asti in altro contesto ma nella medesima canzone: “la sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra, il suo essere di frontiera, una verde frontiera tra il suonare e l’amare, verde spettacolo in corsa da inseguire. Da inseguire sempre, da inseguire ancora”.
Franco Cerri chitarrista ha vissuto tutta la propria lunga prodigiosa esistenza di musicista puro in questa luce d’orizzonte, continuando ad esplorare i misteri della musica con il suo sorriso da eterno ragazzo, meravigliandosi sempre dei miracoli delle sue dita, come raccontava spesso.
Chi scrive ricorda d’averlo visto in concerto la prima volta sul finire degli anni ‘80 e poi in moltissime altre occasioni tra le quali una memorabile esibizione con il quartetto di Gianni Coscia (11/06/1999 Gorizia) che celebrava gli anni pionieristici del Jazz italiano. I vecchi appunti di allora recitano:
“Quella musica irripetibile che sapeva di Novembre e di bachelite, quei suoni che erano la colonna sonora del ciclismo dei gregari, le salite e gli aeroplani, il vino rosso nei bicchieri di vetro spesso e delle domeniche pomeriggio… quella musica, a dispetto delle hit parade, esiste ancora. Gianni Coscia e Franco Cerri sono stati i sacerdoti officianti del gran rito della memoria, di qualcosa che non passa, migliora e si affina nei decenni. L’Italia, con i propri enormi difetti, con le proprie miserie, è inspiegabilmente custode di un patrimonio musicale inarrivabile che si esprime anche nelle canzoni popolari del secondo dopoguerra, giudicate spesso troppo superficialmente ma che in realtà sono scrigni all’interno dei quali si conserva molto spesso la nostra anima più pura, quella ingenua e sognante, perfino stupida e stupita in un’armonia di danza e di sberleffi.
Nel nostro cuore la “swing era” non è mai finita, le stelle del jazz appartengono anche a noi, scimmie della pianura padana o dei vicoli in festa tra lacrime e Vesuvio. Il lavoro di riscoperta continua delle nostre radici musicali da parte di questi musicisti è pregevolissimo. Cerri è un chitarrista dal suono e dalle abilità ipnotiche che, pur nella sua estrema sobrietà, sa toccare come pochi le corde dell’emozione. Coscia è un musicista più passionale e istrionico che si serve più del cuore che del virtuosismo”.
È sembrato giusto ricordarlo così, vivo e vibrante com’è stato fino allo scadere di questo suo transito terrestre. Imperturbabile e impermeabile alle mode passeggere, ha sempre continuato a riproporre i suoi accordi cristallini di una musica che apparteneva ad un altro tempo senza mai apparire anacronistica. Da perfetto autodidatta, il chitarrista milanese aveva trovato il proprio suono e continuò ad arrotarlo e affilarlo per decenni in infinite anche minime variazioni, modulazioni e riflessioni.
Ricevette la prima chitarra nel settembre del 1943 e trovò i primi accordi ascoltando i dischi di Benny Goodman, Louis Armstrong, Duke Ellington a casa di un amico più ricco, mentre per mantenersi faceva il muratore. Già durante la guerra cominciò subito a suonare a Radio Tevere, voce di Roma libera che era invece la voce della famigerata Repubblica sociale italiana che, in teoria, considerava il jazz “musica degenerata e negroide”, mentre il figlio di Mussolini era uno dei migliori pianisti jazz della sua epoca, nel nostro paese sempre in mezzo alle contraddizioni e ai miracoli della musica.
Cerri in seguito cominciò a suonare nell’orchestra di Gorni Kramer che scovò il suo talento una domenica pomeriggio mentre, a Milano, faceva ballare la gente in un cortile con la sua piccola band. Lo scritturò all’istante inserendolo nell’ambiente della musica del primo dopoguerra dove, giovanissimo, divenne uno dei musicisti e compositori più importanti e contesi tra Natalino Otto e il Quartetto Cetra, in sintesi i pionieri del jazz italiano più autentico. Il resto della sua lunghissima carriera è consegnato alla storia e alla leggenda con collaborazioni da far tremare le vene e i polsi, con le star più luminose del firmamento della musica di ispirazione afroamericana. Oltre ai nomi già citati ricordiamo almeno: Billie Holiday, Chet Baker – del quale fu contrabbassista per tre anni – Wes Montgomery, Mal Waldron, Dizzy Gillespie e centinaia di altri in una stagione di sogni in musica del tutto irripetibile.
È superfluo citare tutti i suoi successi e la sua discografia infinita. Per evocare tutta un’epoca basta ricordare ancora il suo sodalizio con Nicola Arigliano, grande crooner della canzone italiana, oggi quasi dimenticato dal grande pubblico ma che fu un talento inimitabile, che condivise con il chitarrista anche una vasta fama catodica dovuta, tra l’altro, a iconici spot pubblicitari della televisione d’antan.
Fantastica la loro interpretazione del classico Cherokee di Charlie Parker a Sanremo nel 1959, con Cerri alla chitarra Manouche-Maccaferri proprio come quella di Django Reinhardt. I due calcarono ancora un’ultima volta il palco di Sanremo in una memorabile serata del 2005.
Tra le sue incisioni più recenti vale la pena di ricordare anche quella con Antonio Onorato del 2016, recensita con grande favore su questa stessa rivista nel 2016 dall’ottima Marina Tuni. Un duo chitarristico spettacolare nel quale, sulla base di alcuni standard, Cerri, a 91 anni suonati, si metteva ancora una volta alla prova con musicisti molto più giovani di lui e di diversa formazione, come quelli che componevano la fantastica sezione ritmica di quel disco straordinario, giovani Maestri del Jazz italiano come Simone Serafini e Luca Colussi.
Vogliamo ricordarcelo così Franco Cerri con il sorriso sempre stampato sulla faccia e la chitarra imbracciata. Come diceva quella vecchia canzone di Vera Lynn: “ We’ll meet again, don’t know where, don’t know when, but I know we’ll meet again some sunny day…”

Flaviano Bosco

La foto di copertina è di Angelo Salvin