Cettina Donato: una splendida conferma! Miriam Fornari: una luminosa promessa!

Ancora una serata molto positiva alla Casa del Jazz di Roma in occasione de “L’altra metà del Jazz” la serie di incontri curati da Gerlando Gatto e dedicati alle musiciste di jazz.
La serata si è aperta con la pianista messinese Cettina Donato; come prima di lei Giuliana Soscia, anche la Donato vanta un curriculum di pregio: laureata in composizione Jazz a Berklee, piano classico, musica jazz e didattica musicale al Conservatorio “A. Corelli”, e psicologia sociale all’Università di Messina, ha conseguito due master in Didattica Speciale; ha collaborato con numerosi artisti, tra i quali Stefano Battista e Fabrizio Bosso, ed è stata insignita del premio JazzIt per i suoi arrangiamenti nel 2013, 2016, 2018 e 2019. Con lei sul palco il noto attore, e conterraneo della musicista, Ninni Bruschetta, con cui ha lavorato in vari progetti.

In una vitale e rilassata atmosfera, arricchita dalla verve siciliana di Cettina e Ninni, la chiacchierata è iniziata con una panoramica sulla situazione del jazz in Sicilia, da cui è emersa una delle problematiche principali legate all’ambiente socio-culturale. Secondo la Donato, i musicisti, spesso dotati di un notevole talento, si accontentano di troppo poco, mancando la volontà di esplorare ciò che accade oltre i confini dell’isola.  Cettina ha poi raccontato gli inizi della sua carriera di direttrice d’orchestra e ha illustrato come il noto pianista Salvatore Bonafede si sia prodigato per farle da maestro di piano e mentore: in seguito, grazie alla profonda esperienza maturata negli anni,  ha evidenziato l’esistenza di una profonda differenza tra i conservatori italiani e quelli statunitensi, ricordando con molto affetto come questi (riferendosi in particolare al Berklee College of Music di Boston, dove come già detto si è laureata in composizione jazz) siano luogo di incontro tra persone provenienti da diversi Paesi e dagli innumerevoli background culturali. Come logica conseguenza, se un arrangiatore ha la necessità di uno strumento particolare, in quell’ambiente è facilissimo trovarlo; è proprio grazie a questa particolare situazione che, nel 2011, la musicista siciliana ha potuto assemblare in pochissimi giorni la Cettina Donato Orchestra e a registrare un disco in mezza giornata! Di qui il discorso si è spostato sulle sue capacità di  far convivere musica classica e jazz: in realtà – ha sostenuto la musicista – la definizione di jazz è molto vaga, difficile da dare anche dagli stessi jazzisti, sottolineando un genere in continuo mutamento, oltre che un abbattimento del concetto stesso di genere musicale, tema che verrà poi ripreso dalla seconda musicista della serata. Infine, interpellata riguardo ai consigli che lei darebbe alle nuove generazioni di musiciste jazz, Cettina suggerisce savoir-faire, umiltà, studio costante in primis e di acquisire le competenze necessarie, soprattutto non sottovalutando il ruolo che la fortuna e la serendipity possono avere in queste situazioni.
Anche questa parte è stata allietata da alcuni brani suonati dalla pianista; i primi sono stati Vorrei Nuotare e l’ironico e divertente I Siciliani, entrambi impreziositi da un bravissimo Bruschetta il cui apporto alla serata è stato tutt’altro che marginale, con interventi sempre misurati e quanto mai pertinenti. In conclusione, una struggente The Sweetest Love, brano dedicato alla memoria della madre con la Donato visibilmente commossa.

La protagonista del secondo intervento è stata Miriam Fornari: nativa di Assisi, laureata in Piano Jazz alla Siena Jazz University, è attualmente studentessa al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma (dove risiede) e all’Accademia La Voce.
Miriam narra del suo avvicinamento al mondo della musica fin dai primi anni di età e della sua progressione negli anni. Nel corso dell’intervista riprende un po’ il concetto di genere di cui la Donato aveva parlato in precedenza, sia descrivendo una scena musicale in cui il concetto di genere sta diventando ormai desueto, sia con il suo stesso stile eclettico, influenzato dal jazz, dal rock e dalla musica elettronica. Ne ha dato alcuni esempi con le sue composizioni Samsara, Drawing (di cui è stato proiettato e illustrato il video in anteprima assoluta) e Cielo. Parte importante della sua musica, racconta Miriam, è la ricerca del silenzio, ovvero lo studio del rapporto che vi è tra il suono e il terreno fertile su cui esso si sviluppa, argomento, tra l’altro della sua tesi di laurea. Miriam spiega anche di come la sua musica voglia esprimere il rapporto tra la realtà e i sogni, specificatamente di come questi influenzino la vita di tutti i giorni. Infine, parla delle aspettative per il suo futuro, della musica che rappresenta la sua vita, delineando un quadro in cui la maggior parte dei musicisti sono uomini ma che, come già affermato da Rossella Palagano lo scorso martedì, è in continua evoluzione e cambiamento.
In conclusione, anche questo secondo appuntamento è stato molto stimolante e interessante: un degno seguito alla puntata di martedì scorso che, nonostante il meteo sfavorevole, è riuscita ad attrarre un numeroso pubblico alla Casa del Jazz.

Il prossimo incontro è in programma martedì 31 ottobre, con inizio sempre alle 21, ed avrà come protagoniste Maria Pia De Vito, Sonia Spinello ed Eugenia Canale. Ingresso 5€. Clicca qui per acquistare i biglietti online

APdJ ringrazia Riccardo Romagnoli per le immagini

Redazione

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

 

Il Jazz al tempo delle Macchine. Riflessioni in musica a Udin&Jazz 2023

La XXXIII edizione del festival udinese ha riguadagnato i propri luoghi d’elezione nella città di Udine dopo il rifiuto a collaborare con la precedente amministrazione comunale dalle chiare derive autoritarie.
Dopo un esilio dorato nella città di Grado nella quale le proposte del festival hanno continuato a richiamare una grande quantità di pubblico e, solo dopo aver avuto la certezza che la città di Udine, medaglia d’oro della Resistenza, fosse rinsavita attraverso nuove elezioni, Udin&Jazz ha potuto rientrare in pompa magna nel capoluogo friulano.
Lo ha fatto con un’edizione che resterà nella memoria di tanti per i meravigliosi artisti che vi hanno partecipato, ma anche perchè tutta la città ha potuto riprendere il filo di un discorso di crescita personale e democratica, anche attraverso la musica, che sembrava essersi interrotto.
All’associazione Euritmica, che da più di tre decenni cura la manifestazione e molto altro, va il grande merito di considerare ancora il jazz non solo come intrattenimento estivo per un pubblico di vacanzieri, ma come uno strumento per riflettere su se stessi e sul mondo in cui viviamo, sui diritti e sulla solidarietà.
La musica è certamente anche divertimento, ma lo è ancora di più se il pubblico, che fa lo spettacolo assieme ai musicisti, è consapevole della sinergia positiva che si crea e della progettualità in essere. Il Jazz nasce dal grido di lotta degli afroamericani che attraverso la musica esprimevano tutta il loro dolore, ma anche la volontà di riscatto ed emancipazione da ogni tipo di schiavitù fisica e spirituale. E’ ancora così, ma la questione non riguarda solo una singola minoranza discriminata, interessa e coinvolge ognuno di noi esortandoci a spezzare le catene che ci costringono ad uno stato di minorità.
Jazz against the Machine. E’ stato questo lo slogan del festival che ha voluto fare da cornice ideale a tutti gli eventi per provare a riflettere in musica e parole sul significato del fare musica d’improvvisazione più o meno strumentale in un mondo che si appresta ad essere dominato dalle cosiddette “macchine intelligenti” dotate di una sorta di raziocinio in grado di competere con quello umano.
Naturalmente, non vi era nessuna forma di neo-luddismo nelle intenzioni degli organizzatori, quel “contro” era una provocazione per suscitare un discorso più ampio. La diffusione e la pervasività della tecnologia sembra nascondere una forma di potere ancora più subdola del solito. Il sistema economico sociale del quale tutti facciamo parte tende sempre di più a marginalizzare tutto ciò che di umano ci è restato sostituendolo con le Macchine, di certo più docili ed ubbidienti oppure trasformando ognuno di noi in cyborg comandati da algoritmi.
L’utopia perseguita dagli organizzatori di Udin&Jazz è quella che la musica sia l’antidoto all’avvelenamento progressivo delle nostre coscienze, l’elisir che può permetterci di continuare a sognare e a sperare nella nostra libertà, due cose che decisamente alle Macchine non riescono.
Udin&Jazz (in) book; Il Jazz e i mondi. Musiche, nazioni dischi in America, Africa, Asia, Oceania.
Guido Michelone è un critico musicale di razza con una preparazione sulla storia del jazz di carattere enciclopedico, ricco di un’erudizione mai fine a se stessa e di piacevolissima conversazione. Fa parte di una generazione di giornalisti che ha potuto confrontarsi e formarsi ai concerti dei grandi colossi del jazz moderno, coloro che hanno scritto la storia della musica afroamericana nella sua fase più matura. Michelone è stato testimone vigile e attento di una stagione che non tornerà più, ma per fortuna senza alcuna nostalgia ha compreso gli sviluppi del genere ed ha saputo seguirli e raccontarli nelle sue recensioni e nei suoi moltissimi libri. Quello che ha presentato allo Spazio 35 nel corso del festival fa parte di una ricca documentatissima trilogia che indaga la diffusione del jazz fuori dagli Stati Uniti, in particolare in Italia, Europa e resto del mondo.
Claudio Cojaniz “Black”. Il pianista friulano ha una particolare predilezione per le radici africane della musica dei neri americani ed ha al proprio attivo una serie di lavori incentrati sul continente nel quale l’idea stessa di musica si è generata. Con il suo nuovo trio di eccellenti musicisti (Mattia Magatelli al contrabbasso, Carmelo Graceffa alla batteria) ha presentato il suo ultimo lavoro in un’atmosfera raccolta e intima, seppur molto partecipata, che ha saputo creare con le sue melodie trasformando in oasi di bellezza uno luogo urbano di certo confortevole come lo Spazio 35, ma pur sempre caratterizzato da rumori di fondo piuttosto importanti visto che si affaccia su una via trafficata della città.

Cojaniz ha un’anima blues che traspare prepotentemente in ogni sua composizione, i rumori e le voci della città si sono sposati benissimo con la sua vera e propria rimemorazione delle radici più antiche e ancora vigorose della musica afroamericana nelle sue declinazioni più varie dalle calde istanze della musica caraibica e afrocubana, fino al Latin Jazz, al Klezmer, alla tradizione italiana e poi ancora folk americano e via di seguito. La bravura del maestro friulano è stato quello di dar conto di tutte queste influenze senza alcun accademismo ma con la passione e il carattere che contraddistinguono il suo talento.

Stewart Copeland & FVG Orchestra; Stewart Copeland’s Police Deranged For Orchestra.
Tra gli eventi più attesi, non solo di Udin&Jazz ma dell’intera estate udinese, c’era proprio l’esibizione dell’inarrivabile ex batterista dei The Police con il suo nuovo progetto “Police deranged” che ritorna sui brani del vecchio gruppo riscrivendoli per gruppo rock e orchestra in modo del tutto originale e inaspettato. Nel gremito teatro principale della città, Copeland ha dato prova della sua classe assoluta come musicista e compositore, ma ha anche come istrionico intrattenitore del pubblico con le sue gag ed estemporanee esibizioni “punkeggianti” alla chitarra.
Ciò che ha reso l’esibizione davvero unica sono però stati i suoni e la magia dei nuovi arrangiamenti dei brani dei The Police, spesso completamente stravolti dal lavoro del batterista che li ha reinventati del tutto a partire da frammenti di registrazioni inedite e altri materiali di studio disseminati nel suo archivio. Il risultato è un magnifico mosaico con le tessere, paradossalmente tutte al posto sbagliato. Molte delle hits sono a tutta prima irriconoscibili, ma spingono l’ascoltatore a cercare nella propria memoria accordi e melodie con le quali ricostruire l’immagine sonora che gli permetterà di trovare una prospettiva nuova in brani ascoltati forse migliaia di volte. Le parti orchestrali e le nuove vocalità dovute alle tre splendide coriste non sono solo ornamentali ma contribuiscono in modo determinante alla riuscita di un’operazione che potrebbe sembrare furbescamente commerciale e di “fan-service”.

Copeland non ha scelto la strada più facile dell’auto celebrazione riproponendo pedissequamente i brani che gli hanno dato fama imperitura, come molti musicisti sul viale del tramonto che si avviliscono in cover band di se stessi “Per un pugno di dollari”. Lo straordinario batterista ha, al contrario, voluto mostrare quanto quella grandissima musica che il trio produsse possa colpire al cuore anche rimodulata e rimaneggiata in modo intelligente e geniale da uno dei suoi straordinari autori. Con una scherzosa metafora si potrebbe dire che Copeland, utilizzando gli stessi mattoncini Lego di una bellissima precedente astronave in musica, ne ha costruita un’altra altrettanto meravigliosa e “filante” che ci può portare ancora una volta a “camminare sulla Luna” (Walking on the moon).

Udin&Jazz/Talk&Sound. Doctor Delta. Zappa, idrogeno e stupidità.
Frank Zappa, il musicista/compositore di Baltimora, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è un continente a se stante nella storia della musica. Qualunque tentativo di etichettarne la vulcanica creatività va inevitabilmente fallito perchè proprio come un’autentica forza della natura essa è inesauribile e ancora oggi a distanza di trent’anni dalla scomparsa non si è riusciti ad individuarne perfettamente la vastità.
Ad oggi sono 163 gli album pubblicati a suo nome, moltissimi dei quali postumi tratti dai suoi immensi archivi di registrazione che non finiscono di regalare meravigliose sorprese. Giorgio Casadei e Alice Miali hanno cercato piacevolmente di costruire, tra parole e musica, un percorso scenico che raccontasse gli aspetti principali della luminosa carriera di Zappa a partire da un concetto come la stupidità che gli era molto caro e che è stato alla base di molta parte del suo lavoro.

Nella sua autobiografia scrive che gli sembra addirittura l’elemento più universalmente diffuso e disponibile. L’umorismo acido di Zappa e il suo serissimo genio di compositore contemporaneo con Edgar Varese come punto di riferimento iniziale sono stati gli elementi che ne hanno fatto uno dei fustigatori della società consumistica e del capitalismo in generale.
Nell’album delle sue “Mothers of Invention” del 1968 “We are Only in it for the Money” prendeva in giro ferocemente il “flower power” dei miliardari Beatles e di tutto lo show business che mascherava la propria avidità appropriandosi dello slogan Peace, Love & Music. In quell’album nel brano “Let’s make the water turn black” si racconta di due fratelli adolescenti sporcaccioni che pensano solo a divertirsi tra frizzi, lazzi e coprofagia (Whizzing & pasting & pooting through the day) mentre i loro genitori “producono, consumano e crepano”. Uno di loro finirà per far carriera nell’esercito e l’altro diverrà tossicodipendente. Con questi versi e la sua musica Zappa faceva a pezzi l’American dream svelando l’assurdità e la protervia di un sistema che si fonda sull’ipocrisia e sul sopruso.

Udin&Jazz (in) book, Sonosuono.
Tra i libri più interessanti presentati durante il festival c’è di certo quello dello psicologo e musicista, Matteo Cimenti che nel suo “Sonosuono” ha voluto indagare il percorso interiore di un musicista alla ricerca del significato della propria arte e dei suoni. Se ne è discusso a Casa Cavazzini, nuova prestigiosa sede del Museo d’arte moderna di Udine, vero scrigno della storia dello spirito creativo della città.
La recente ristrutturazione ha messo in bella evidenza non solo le tempere murali di Afro Basaldella e i pregevoli affreschi risalenti alla seconda metà del ‘300, ma anche un deposito di vasellame protostorico (VIII sec. a.C.). Nei nuovi spazi sono esposte le opere dei maggiori artisti del XX° sec italiani e internazionali. Scegliere di parlare del significato del fare musica oggi in un luogo come quello che fa risuonare i secoli e le epoche non è affatto indifferente o casuale.
Prendendo spunto dal libro di Cimenti e seguendo il tema del festival, il filosofo Cantone, il pedagogista Paolone, lo stesso autore e i musicisti De Mattia e Pacorig si sono interrogati sui pericoli, veri o presunti, legati alla musica nell’età dell’intelligenza artificiale “generativa”. Che ci piaccia o meno, il nostro tempo è quello nel quale le Macchine sono in grado non solo di riprodurre precisamente un manufatto artistico rendendolo indistinguibile da quello umano, ma anche di produrre e di comporre in autonomia. Il discorso sull’originale e sulla copia ha dei risvolti di bizantina complessità da chiamare in causa tutta la storia dell’estetica da Platone a Derrida. Per questo chi scrive queste brevi note non prova nemmeno a sintetizzare le abissali tematiche chiamate in causa dagli illustri relatori, ma si limita a citare il fatto che Sir Paul McCartney, dopo aver duettato virtualmente con il defunto John Lennon al Festival di Glanstonbury nel 2022, attualmente sta lavorando all’esumazione di una “nuova” canzone dei Beatles ibridando vecchie registrazioni con parti sintetiche generate dall’A.I. Un ironico Alice Cooper ha commentato: “In molti si preoccupano di cosa succederà quando l’IA si renderà conto che la razza umana non è più necessaria, ma posso immaginare come Paul McCartney, con la sua creatività interagirà con essa. Le direbbe “Ehi, fammi un disco dei Beatles”. Poi entrerebbe nel merito tramutandolo in un vero album dei Beatles con una protesica voce di John Lennon. Potrebbero accadere cose interessanti.” (Classic Rock) Mala tempora currunt.

Agnese Toniutti, Piano Maestro, concerto partecipato per bambini e famiglie. L’incantevole pianista, che da anni associa la sua inesausta attività di “esplorazione del repertorio pianistico contemporaneo e del Novecento (in particolare Cage, Scelsi, Cardini)…all’educazione musicale a partire dalla prima infanzia fino ad arrivare alla formazione dei futuri insegnanti” (www.agnesetoniutti.com), ha estasiato i piccoli spettatori che hanno partecipato alla sua lezione-concerto dimostrando che quelle che si considerano generalmente come delle astruse bizzarrie della musica contemporanea (toy piano, pianoforte preparato, inside piano) in realtà sono solo diverse modalità d’approccio al mistero dei suoni e della musica.

Molto spesso gli adulti hanno una capacità d’ascolto limitata dai pregiudizi dovuti alla loro educazione musicale molto spesso limitata e settoriale. I bambini al contrario e chi si lascia trasportare dalla magia del fare musica comprendono meglio l’universo che si nasconde tra un suono e l’altro. Il vero Maestro aiuta gli allievi a formarsi un proprio gusto e metodo non imponendosi, ma sviluppando il loro attraverso l’esempio, la volontà di fare e di rischiare sbagliando e riprovando (learning by doing).
Il prezioso lavoro di Agnese Toniutti germina a propria volta da quello del Maestro John Cage che, tra le altre sue avventure compositive, “Nel 1984, a Torino, realizzò un Musicircus for childeren in cui riunì 800 bambini di età compresa tra i 4 e i 12 anni, che suddivisi in gruppi, cantarono, suonarono, fischiarono simultaneamente canzoni, filastrocche, inni che già conoscevano, secondo un ordine determinato da Cage; il movimento dei vari gruppi permetteva di percepire la variazione dei suoni sia da parte di chi ascoltava, sia da chi eseguiva”.

Ragazzi dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. Udin&Jazz ha voluto coinvolgere direttamente nelle proprie attività un gruppo di ragazzi delle scuole superiori del territorio per trasmettere loro la passione per la musica non tra le quattro mura di un’aula ma direttamente nel backstage dei concerti, nella gestione della sala, nell’accoglienza degli spettatori, nell’attività di maschere o di addetti al bookshop e ancora in tutto il resto delle attività logistiche e organizzative che rendono possibile un festival.
Coadiuvati e diretti dall’ottima Silvia Colle, i ragazzi si sono dimostrati inaspettatamente efficienti, interessati, partecipi, volenterosi e disponibili quasi a dispetto degli enobarbi soloni che li vogliono sempre inebetiti davanti ai loro cellulari.

Il Jazz e la musica d’improvvisazione continueranno a vivere nei cuori e nelle orecchie di coloro, giovani di qualunque età, che avranno la volontà di aprirsi a tutto ciò che non viene dato per scontato e che non si vende a peso sulla bilancia come la libbra di carne dell’incorreggibile Shylock.

Flaviano Bosco

Udin&Jazz 2023: all’insegna del Jazz d’autore

Dopo aver assistito alle ultime giornate di Udine Jazz 2023 mi sono vieppiù radicato nel convincimento che il Festival friulano, che vede da 33 anni alla direzione artistica Giancarlo Velliscig, sia oggi uno dei pochi ad aver veramente diritto di cittadinanza nell’universo festivaliero che oramai da anni accompagna l’estate degli italiani dalle Alpi alla Sicilia.
I perché sono molteplici: innanzitutto il giusto peso dato ai musicisti italiani e friulani in particolare; in secondo luogo, il tentativo, spesso riuscito, di allargare i confini del discorso oltre i limiti strettamente musicali per approdare a tematiche di carattere sociale che interessano anche chi di musica poco si occupa. E’ stato questo, ad esempio, il caso della mattinata dedicata al problema del rapporto tra jazz e donna approdato rapidamente alla più larga tematica del rapporto tra donna e mondo del lavoro.
Ciò, ovviamente, senza alcunché togliere alla qualità della musica che si è mantenuta su livelli più che buoni con punte di assoluta eccellenza. Tra queste punte va annoverato senza dubbio alcuno il concerto del quintetto ‘Eternal Love’ di Roberto Ottaviano al sax soprano con Marco Colonna ai clarinetti, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti che il panorama jazzistico internazionale possa oggi vantare e che quindi non ha raccolto tutto ciò che effettivamente merita.

Quest’ultimo lavoro, presentato anche a Udine, lo conferma appieno: Ottaviano, prendendo spunto dalla spaventosa realtà che ci circonda, caratterizzata da intolleranza, flussi migratori che non si fermano, guerre assurde si rivolge alla musica e alla sua capacità di accomunare anziché dividere, per innalzare un sentito omaggio alla spiritualità africana e lo fa rileggendo con autentica passione le musiche di Don Cherry, Charlie Haden, John Coltrane e Dewey Redman. Ma attenzione, nelle interpretazioni di Ottaviano, nulla c’è di calligrafico: il musicista pugliese è in grado di rileggere queste storiche partiture facendole proprie e quindi rivitalizzandole alla luce di un’esperienza di molti, molti anni, in ciò perfettamente coadiuvato da un gruppo che funziona magnificamente, in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente ideato dal leader.

Le positive sensazioni lasciatemi dal concerto di Ottaviano sono state ribadite, ma con alcuni distinguo, poche ore più tardi dal concerto di Matteo Mancuso in trio con Stefano India al basso elettrico e Giuseppe Bruno alla batteria. Siciliano, classe 1996, figlio d’arte, Matteo è considerato l’enfant prodige della chitarra jazz italiana ed in effetti presenta una tecnica davvero straordinaria. Ma ovviamente ciò non basta per fare di un buon musicista, un vero artista: ci vuole ben altro. Ed in effetti l’inizio del concerto non mi aveva convinto dato l’impianto sonoro più vicino ai concerti pop-rock che non a quelli jazz. Poi il giovane chitarrista ha rotto gli indugi ed ha presentato una bellissima versione di ‘Black Market’ che ha spinto gli astanti a tributargli una vera e propria ovazione.

Ora, come si diceva, Mancuso è sostanzialmente agli inizi ma le premesse sono più che buone: adesso dovrà dimostrare non solo di avere una digitazione velocissima, ma soprattutto di far muovere quelle dite secondo idee ben precise (come in “Black Market”) e di essere capace di scrivere e arrangiare in maniera acconcia. Insomma, lo aspettiamo con curiosità a prove più impegnative.

Il giorno dopo di scena un altro artista siciliano ma oramai udinese d’azione: il pianista Dario Carnovale con Lorenzo Conte al contrabbasso, Sasha Mashin alla batteria e Flavio Boltro alla tromba. L’incontro tra uno dei migliori trombettisti italiani ed un pianista eclettico, talentuoso, prorompente come Carnovale prometteva scintille… e così è stato. Alternando pezzi originali a brani ben conosciuti il gruppo ha entusiasmato il numeroso pubblico presente.

Definire il loro stile non è impresa facile, ammesso poi che sia così importante. Comunque, per dare solo un’idea anche a chi non ha visto il concerto, si potrebbe dire che la loro musica si inserisce nell’alveo di un moderno main stream ora ricco di lirismo ora carico di coinvolgente energia. Ovviamente merito della bella riuscita del concerto è sicuramente dei due leader…ma anche della sezione ritmica con un Conte cha ha fatto capire a tutti perché ha suonato accanto a mostri sacri quali Art Farmer, Bob Sheppard e Enrico Rava mentre il batterista russo Sasha Mashin si è confermato uno dei musicisti più interessanti a livello europeo.

In serata tutti al Castello per la serata brasiliana accolta, more solito, con favore dal numeroso pubblico e preceduta in mattinata da una dotta conversazione sulla musica brasiliana guidata da Max De Tomassi, conduttore di Radio1RAi e vero esperto della materia. Due gli appuntamenti in programma. Dapprima si presenta sul palco per l’atteso solo-piano Amaro Freitas indossando un improbabile completino da spiaggia che avrebbe fatto invidia ai miei amici di Capalbio. Comunque, abbigliamento a parte, Freitas ha confermato le attese di quanti vedono in lui il nuovo esponente dell’odierno jazz brasiliano. Dotato di un’energia prorompente, che comunque riesce a dosare grazie ad un approfondito studio sullo strumento, Freitas si lascia andare ad una serie di improvvisazioni, molto giocate sul lato percussivo, che catturano l’attenzione dell’ascoltatore, preso per mano e condotto alla scoperta della storia e della filosofia della gente brasiliana attraverso la musica. In effetti obiettivo del nuovo lavoro del pianista – “Sankofa” – presentato a Udine è proprio quello – per esplicita ammissione dello stesso Freitas – di “capire i miei antenati, il mio posto, la mia storia come uomo di colore”.

C’è riuscito? Onestamente non posso dirlo in questa sede ma se avremo occasione di intervistarlo glielo chiederò; quel che è certo è che Freitas continua ad evolversi stilisticamente parlando e a rendere il suo discorso sempre più convincente e coinvolgente. A quest’ultimo proposito bella la conclusione del concerto con un brano dolce dedicato alla mamma che è stato supportato dal coro di tutto il pubblico.

Completamente diverso il discorso sul secondo concerto che vedeva sul palco una vera e propria icona non solo della musica brasiliana ma della musica in generale: Eliane Elias pianoforte e voce con accanto il compagno di vita nonché personaggio di assoluto rilievo nel mondo del jazz, Marc Johnson al contrabbasso, Leandro Pellegrino alla chitarra e Rafael Barata alla batteria. Per introdurre la Elias a quei pochi che ancora non la conoscessero, basti dire che nel 2022 ha vinto il Grammy come Miglior Album Latin Jazz con “Mirror Mirror” straordinario album di duetti con Chick Corea e Chucho Valdes. A Udine la Elias ha sciorinato solo una piccolissima parte del suo vastissimo repertorio facendo intendere come l’appellativo di “The Bossa Queen” sia ancora oggi più che meritato.

La classe esecutiva rimane cristallina mentre il vocale denuncia qualche piccola crepa che non inficia la bontà della performance impreziosita anche dall’altissimo livello degli altri componenti il quartetto. Tra questi assolutamente strabiliante il batterista Rafael Barata con la Elias da oltre dieci anni ma anche con Dianne Reeves e Jaques Morelenbaum. Barata è davvero fenomenale per come riesce a tenere in mano le redini del flusso ritmico che rimane costante per tutta la durata del concerto senza un attimo di stanca, senza che mai si avverta una qualche sensazione di vuoto o di scansione men che perfetta. Risultato: alla fine del concerto pubblico in piedi e meritatissima ovazione.

Il 16 al Giangio Garden Parco Brun esibizione del “Green Tea in Fusion” al secolo Franco Fabris Fender Rhodes e synth, Gianni Iardino sax alto e soprano, flauto, synth, Maurizio Fabris percussioni e vocale e Pietro Liut basso elettrico. Il quartetto, costituito nel 2022, ha già al suo attivo ben due CD e a quanto ci risulta è già in lavorazione il terzo. Il gruppo sta assumendo sempre più visibilità e consensi grazie ad una proposta musicale di livello caratterizzata da una raffinata ricerca melodica e da un impianto ritmico tutt’altro che banale.

Questi elementi assumono ancora maggior forza ove si tenga conto che il repertorio è composto unicamente da pezzi originali che ben arrangiati danno la possibilità ai singoli (tutti musicisti esperti eccezion fatta per il giovane ma bravissimo bassista) di evidenziare le proprie potenzialità. Con specifico riferimento al concerto di Udine, la musica è entrata in connessione con la performance di action painting dell’artista Massimiliano Gosparini che ha prodotto una bella tela donata al gruppo alla fine del concerto.

In serata, in piazza della Libertà, quella che io considero la più bella sorpresa del Festival: organizzata da Cinemazero, la proiezione del film muto “The Freshman – Viva lo sport” diretto da Sam Taylor e Fred Newmeyer, con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra. Per quanto mi riguarda è stato sinceramente emozionante vedere scorrere sullo schermo le immagini di un bel film magnificamente commentate da una splendida orchestra tutta costituita da musicisti del Triveneto, tra cui Mirko Cisilino tromba e trombone, Francesco Bearzatti sax tenore, Luca Colussi batteria, Juri Dal Dan piano, Luca Grizzo percussioni.

La Zerorchestra nasce su iniziativa di Cinamezero, in occasione del centenario della nascita del cinema, come laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole che rappresentano il repertorio del cinema muto spesso ignorate dal grande pubblico. Io non so se il risultato è sempre pari a questo di Udine, non so se sia meglio l’orchestra nascosta agli occhi del pubblico o viceversa…quel che so è che a Udine la serata è stata davvero unica, magnifica, merito, a mio avviso, soprattutto dell’orchestra che ha saputo cogliere come meglio non si potrebbe gli stati d’animo dei personaggi. Di qui interventi solistici sempre acconci, misurati, pertinenti mentre i pieni orchestrali suggellano alcuni dei passaggi più significativi del film.

Il 17 luglio si apre, a Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna, con un duo di improvvisazione totale costituito da Massimo De Mattia al flauto e Giorgio Pacorig al pianoforte. Devo confessare che la musica totalmente improvvisata non è di certo in cima ai miei gusti ma, ciononostante, Massimo De Mattia rientra tra i miei musicisti preferiti. Il perché non è facilissimo da spiegare: la sua musica mi soddisfa, ogni volta che la ascolto sento come se il flusso della vita moderna con le sue insidie, le sue mille sfaccettature, i suoi dolori, le sue gioie fossero racchiuse nelle note emesse dal suo flauto il cui discorso rimane sempre intellegibile a chi sappia ascoltare.

Ricordo qualche anno fa, sempre a Udine, che, mentre De Mattia stava suonando all’aperto, cominciarono a sentirsi distintamente il suono di campane e il cinguettio di uccelli. Bene, il flautista fu talmente bravo da inserire questi elementi nella sua musica ottenendo degli effetti semplicemente straordinari a dimostrare che la musica può essere fatta di moltissimi elementi. A Udine, in quest’ultimo concerto, ha dimostrato ancora una volta tutte le sue potenzialità duettando egregiamente con Pacorig, altro esponente di rilievo dell’area improvvisativa. Non a caso flauto e pianoforte si sono integrati alla perfezione con un gioco di rimandi, suggestioni, tensioni e distensioni che denotano quanto profonda sia la conoscenza della musica da parte di questi due artisti.

In serata altro evento clou del Festival: il concerto della sassofonista Lakecia Benjamin. Devo dire immediatamente che l’artista ha entusiasmato i numerosi spettatori grazie ad una performance caratterizzata da straordinaria energia, da un sound alle volte “sporco” a richiamare i più grandi esponenti del soul, e da un repertorio che ha toccato da molto vicino i grandi nomi del jazz. Ecco, quindi, l’immortale “A Love Supreme” riproposto con sincera partecipazione anche se, ovviamente, nessuna interpretazione può raggiungere il pathos, la drammatizzazione, l’aspirazione verso il divino così ben rappresentata da Coltrane. A Udine l’alto sassofonista ha presentato il suo ultimo lavoro – “Phoenix” – che racchiude una doppia metafora: da un lato racconta le cadute e le risalite di New York città in cui è cresciuta, dall’altro si riferisce ad una sua esperienza personale vissuta nel 2021 quando sfuggì miracolosamente alla morte dopo un grave incidente stradale.

A proposito del concerto, qualche commentatore ha posto l’accento sulla mise dell’artista lodandone l’indubbia eleganza. Apriti cielo! Sui social si è scatenata una dura polemica e qualche musicista (o forse pseudo tale) si è spinta fino ad ipotizzare che la scelta di presentarsi sul palco ben vestiti sia vetero borghese se non addirittura “fascio” (questa la parola usata). E poi ci meravigliamo perché tanti giovani che nulla capiscono di musica, che non sanno intonare neppure due note di seguito riescono ad avere un vasto pubblico: basta vestirsi da straccioni, parlare un italiano approssimato e il gioco è fatto.

Martedì 18 luglio ultima giornata funestata da una breve tempesta di vento sufficiente, comunque, a mandare per aria tutte le sedie già approntate nello spiazzale del Castello per il concerto finale di Pat Metheny. Fortunatamente il tempo è volto al meglio e quindi il concerto si è potuto svolgere regolarmente seppure iniziato con un’oretta di ritardo. E personalmente ho ritrovato il Metheny che negli ultimi anni avevo smesso di seguire data l’involuzione stilistica che a mio avviso aveva caratterizzato le ultime produzioni del chitarrista.

A Udine Pat è tornato sui suoi passi e perfettamente coadiuvato da giovani musicisti, quali Chris Fishman al pianoforte e Joe Dyson alla batteria a costituire il “Side-Eye Trio”, ha riproposto alcuni dei suoi pezzi storici quali “Bright Size Life”, “Better Days Ahead” e “Timeline” lasciando perdere complicati meccanismi e riproponendo quel sound nutrito da tanta tecnica, tanto studio ma anche tanta sincerità d’ispirazione, che l’aveva contraddistinto negli anni scorsi. Entusiasta la reazione del pubblico che ha calorosamente applaudito ogni brano e che dopo l’ultimo bis ha regalato all’artista una più che meritata standing ovation.

Gerlando Gatto

My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2

Flaviano Bosco – My Favorite Things, le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia – part 2 Udin&Jazz Winter 2

L’Associazione culturale Euritmica, che da tre decenni e oltre organizza la manifestazione jazzistica udinese, si è sempre distinta per il proprio impegno sociale e politico. In tutti questi anni di successi, che l’hanno vista estendere le proprie programmazioni e rassegne a tutto il circuito regionale e ben oltre, non ha mai dimenticato le proprie origini militanti. Fare musica, soprattutto jazz, non può e non deve essere solo puro intrattenimento.
Quella musica è nata per dare voce agli ultimi della terra e deve continuare a farlo, porta con se un’energia, una voglia di giustizia e di riscatto che sono insopprimibili, far finta di non sentire le voci e le grida di dolore che si porta dietro anche nelle melodie più delicate significa impedirsi di capirne l’importanza e le prospettive. Se dopo più di cento anni di evoluzioni e di stili possiamo ancora goderne, è perché il Jazz ha saputo farsi portavoce di tutte le diversità culturali e sociali del mondo, la sua forma malleabile, flessibile e ora anche liquida, la sua anti-convenzionalità ne hanno fatto lo strumento ideale per esprimere e trasmettere le sofferenze e la gioia di chi non ha altro modo per farsi sentire; ancor di più attraverso il jazz si è potuto trovare un linguaggio musicale universale in grado di parlare contemporaneamente a tutti i cuori e a tutti i cervelli contemporaneamente in tutto il mondo.
Proprio dalla profonda consapevolezza di questa dimensione globale e militante della musica d’ispirazione afro-americana vengono modulate le proposte di Euritmica, che certo non trascurano la parte di divertimento e di svago che la musica porta con se ma non fine a se stessa. Nell’edizione invernale di Udin&Jazz, tenutasi dal 6 all’8 dicembre 2021 al teatro Palamostre di Udine, il focus è stato centrato sulle rotte dei migranti, sia quella balcanica che ha la regione FVG come punto d’arrivo sia quelle Mediterranee che, più in generale, toccano le coste del nostro paese tutto intero.

Esprimere e sottolineare con la musica quell’esodo non è solo un dovere ma un imperativo morale inderogabile. Solo chi chiude occhi, orecchie e cuore può ritenerla una fastidiosa questione di ordine pubblico. Al contrario, quei fatti atroci che ogni giorno avvengono a pochi passi delle nostre case chiedono la nostra attenzione, invocano il nostro aiuto in qualunque modo. La musica, come potentissimo mezzo di comunicazione, deve servire da megafono per denunciare ogni insipienza e ogni indifferenza.
La seconda edizione di Udin&Jazz Winter segue in realtà di pochi mesi la prima, che fu spostata in avanti fino alla primavera per i ben noti problemi con l’epidemia. Tre intense giornate di grande musica hanno confermato sia il gradimento del pubblico per l’estemporanea collocazione della rassegna, sia la grande versatilità degli organizzatori in grado di costruire cartelloni sempre interessanti e perfino insoliti, in tempi che definire complicati è un eufemismo, potendo contare su una lunga teoria di collaborazioni e contatti con i musicisti più importanti della scena nazionale e oltre.
Particolare attenzione come sempre è stata rivolta verso le produzioni regionali che sanno distinguersi sempre per la qualità altissima delle proposte validate anche dall’interesse delle più blasonate riviste di settore e dei mezzi d’informazione. Il jazz friulano conferma da almeno 50 anni la sua presenza significativa nel nostro paese e Udin&Jazz ne è sempre stato un ottimo testimone coniugando tradizione e innovazione senza mai smentirsi, anzi rilanciando continuamente il proprio impegno in questo senso con un’attenzione alle produzioni artistiche locali di grande respiro d’orizzonte.
“Jazz Noir – Indagine sulla misteriosa morte del leggendario Chet” (My Foolish Heart) di Rolf van Ejik (2018): la rassegna si è aperta con un omaggio a Chet Baker attraverso la proiezione di un film biografico che però non rende giustizia allo sfortunato trombettista. Il lungometraggio gioca sui soliti stereotipi dell’artista maledetto per raccontare una storia del tutto inconsistente a sfondo vagamente psicoanalitico. È vero che il trombettista alla fine della propria vita era ridotto davvero male, il ritratto che se ne ha da parte di conoscenti e amici è davvero squallido; è vero anche che dal punto di vista strettamente tecnico e creativo la consistenza è sempre stata poca se lo paragoniamo ai suoi coetanei (ad es. Miles Davis) ma da qui a farne un mascherone senza arte né parte ce ne corre. Il film di Rolf van Ejik, al suo esordio, costruito come un noir investigativo, si rivela davvero fiacco soprattutto quando cerca di parlare di musica. Non una sola nota della colonna sonora è di Chet in una reinterpretazione che con il suo stile ha davvero poco a che fare.
Tony Momrelle “Best is yet to come”: quello del cantante degli Incognito è stato di certo uno dei concerti più sorprendenti dell’intera rassegna. Lo spettatore medio si aspettava acid-jazz, suadente, ballabile e facile-facile, si è invece trovato davanti ad un raffinatissimo soul contemporaneo cantato con voce morbida e setosa piena di romanticismo, intima e dolce. In alcuni momenti il pensiero andava alle composizioni più riuscite di Stevie Wonder ed è tutto dire. Momrelle tiene insieme la tradizione del soul più classico con le visioni di un futuro che la sua musica è capace di farci immaginare, gioioso e felice. Non è poco di questi tempi.
Angelo Comisso Trio “Numen”: Angelo Comisso, pianoforte; Alessandro Turchet, Contrabbasso; Luca Colussi, Batteria. A proposito di “risorse locali” o di “jazz a chilometri zero” questo trio tutto friulano è una splendida realtà di livello internazionale. Sono davvero talenti brillanti e preclari con una lunga serie di collaborazioni attive in varie formazioni. Il progetto musicale presentato, frutto della creatività dell’ottimo pianista Comisso, ha visto la luce del laser in un’incisione a cura di Artesuono di Stefano Amerio, altra gloria locale conosciuta ovunque per la sua infinita qualità. Il termine “Numen” per gli antichi significava la potenza e la presenza della manifestazione divina, la sua epifania nel mondo fisico; è proprio questa presenza, che in modo del tutto laico, s’avverte durante l’esibizione del Trio. È la musica che si manifesta nel virtuosismo misurato e intimo degli interpreti e nel loro suono per immagini, quasi cinematografiche, che evocano paesaggi e strutture aeree nell’aria calda di un pomeriggio assolato.

Art Trio: Andrea Centazzo, Percussioni; Roberto Ottaviano, sax soprano; Franco Feruglio, Contrabbasso. Questa formazione rappresenta l’antica sorgente del nuovo jazz regionale, anzi udinese, in un certo senso sono quelli che hanno permesso al trio di Comisso di cui parlavamo più sopra di esistere. Il suo leader è, infatti, uno dei decani della musica sperimentale italiana tra i più innovatori, creativi e ancora attivi. Centazzo, che ormai è cittadino di Los Angeles, non dimentica le sue origini friulane. In modo molto ironico, presentandosi, ha voluto ricordare i molti concerti tenuti sul medesimo palcoscenico del Palamostre dal 1972, dimostrando di essere non solo memoria viva ma un musicista in grado di attraversare le epoche e gli stili in un continuo rinnovamento e progettualità. Non sono stati da meno i suoi compagni di viaggio, vecchi amici che lo accompagnano da quasi cinquant’anni. Nessuna nostalgia nel ricordare l’amico Steve Lacy.
Nicoletta Taricani “In un mare di voci” con Fabrizio Gatti. Un progetto davvero ambizioso, dallo slancio sociale e ideologico encomiabile per la sua esortazione alla fratellanza e alla riflessione sui temi della solidarietà e sulla tragedia dei migranti. Purtroppo il risultato non è stato calibrato allo sforzo e all’eticità del progetto. Quello che è mancato, soprattutto, è un senso registico del coordinamento drammaturgico tra la parte recitata e letta dallo stesso Gatti e la parte musicale che prevedeva un doppio quartetto jazz e d’archi, alcune vocalist e un’ulteriore lettrice. L’effetto finale è stato caotico e tutto è sembrato sovradimensionato, sopra le righe, ridondante, in una parola, eccessivo.

Andrea Motis Trio: Andrea Motis, Tromba, sax soprano, voce; Josep Traver Llado, chitarra; Giuseppe Campisi,  Contrabbasso. Una voce d’angelo con un’eleganza innata che ricorda la migliore Audrey Hepburn di “Colazione da Tiffany”, Andrea Motis è un miracolo, un’apparizione da lasciare senza parole. Il suo repertorio spazia dai brani originali, agli standard più classici, un po’ di  saudade brasileira, fino al pop catalano contemporaneo e tanta anima latina. Tutto filtrato dalla  grazia straordinaria di un canto sussurrato da incantatrice di serpenti anche quando soffia dentro la sua tromba o nel sax sopranino.

Muudpodcast@ud&jazz winter. Novità di questa seconda edizione invernale della rassegna gli incontri a tarda sera, dopo gli spettacoli, nella “cripta” del Teatro Palamostre di Udine. Esattamente sotto il palcoscenico principale, intitolato a “Pier Paolo Pasolini” è stata ricavata una piccola ma accogliente sala sotterranea che, giustamente, è stata dedicata a Carmelo Bene suprema “macchina attoriale”. Il format è stato quello attualissimo del podcast di un piccolo spettacolo dal vivo tra talk show con gli artisti che si erano appena esibiti, tante chiacchiere e piccole, interessanti, preziose jam session con il meglio dei musicisti regionali. Il tutto, naturalmente, in diretta live sui principali social e piattaforme on line, dove le serate sono ancora disponibili a futura memoria.
Tanta è stata la musica che si è potuta ascoltare in Friuli Venezia Giulia in questo “beato anno del castigo” epidemico, ma siamo sicuri che “tutto il meglio deve ancora venire” come ha cantato Momrelle.

Flaviano Bosco

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021

My Favourite Things… le cose che preferisco: Jazz in Friuli Venezia Giulia 2021, part 1 – di Flaviano Bosco

In barba alle più catastrofiche previsioni che volevano il mondo dello spettacolo in ginocchio per le restrizioni dovute all’epidemia, le proposte musicali in Friuli Venezia Giulia negli ultimi 12 mesi sono andate moltiplicandosi a dismisura. Per quanto riguarda soprattutto il jazz non si era mai visto un tale fermento, i circuiti tradizionali di sale da concerti e locali si possono considerare paradossalmente saturi tanta è l’offerta. La risposta del pubblico, tenuto conto del momento, è sempre stata assolutamente straordinaria dimostrando tutta un’autentica passione per un genere musicale generalmente considerato “difficile”.
Il successo delle varie rassegne che prenderemo in considerazione è dovuto anche alla tenacia di associazioni e di organizzatori che da decenni operano sul territorio e che hanno “educato” e cresciuto un proprio pubblico con proposte sempre di alto livello, regalando la possibilità anche a chi risiede alla “periferia dell’impero” ma in diretta connessione con le realtà centroeuropee, di gustare le star internazionali e la musica più raffinata sulla scena mondiale.
Basta mettere insieme i vari cartelloni che si susseguono ininterrottamente durante l’anno in regione per capire quanto sia apprezzata la musica dal vivo. Certo non è possibile contare su centinaia di migliaia di potenziali spettatori come succede nelle metropoli, ma gli appassionati friulani, giuliani e gli amici d’oltre confine, austriaci e sloveni, garantiscono un seguito attento e fidelizzato.
Certo permangono delle problematiche e zone d’ombra particolarmente evidenti come quelle causate dalla cecità di alcune amministrazioni comunali che, per motivi biecamente strumentali e ideologici, cercano inutilmente in ogni modo di boicottare alcune manifestazioni; si è fatta più evidente la carenza di spazi adeguati per l’ascolto e per le esibizioni, i luoghi ci sono ma, inspiegabilmente, qualcuno preferisce tenerli chiusi o riservati ai pochi eletti; manca quel coordinamento a livello regionale tra i vari enti e associazione che potrebbe rendere omogenea e competitiva una proposta unitaria per quanto riguarda la musica e, in generale, il mondo dello spettacolo. Se esistesse una qualche forma di coordinamento le proposte e le risorse che il Friuli Venezia Giulia è già in grado di mettere in campo anche dal punto dell’attrattiva turistica non avrebbero uguali e nemmeno rivali almeno a livello nazionale. Un’amministrazione lungimirante della cultura, in questo senso, potrebbe essere un vero volano anche per l’economia locale di straordinaria forza trainante anche per gli altri settori. Qualcuno comincia ad accorgersene ma non si è ancora fatto abbastanza.
Senza fare troppe polemiche comunque è il caso di spendere qualche parola almeno sulle tre rassegne più blasonate, le prime due (Udin&Jazz e Il Volo del Jazz) ormai radicate, vincenti e per così dire storiche, che da anni si ripetono stagione dopo stagione con grande capacità di rinnovamento e di crescita; l’ultima nata (Estensioni), invece, è stata la più bella sorpresa dimostrando che con impegno, costanza e passione è sempre possibile trovare nuove suggestioni per la musica jazz nel senso più largo possibile della definizione.
Suddivideremo questa recensione in tre articoli, partendo di seguito con la rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso 2021.

Estensioni Jazz club Diffuso 2021 è una rassegna di concerti che ha voluto riportare l’atmosfera di creatività e socialità di un jazz club, al di fuori di contesti metropolitani, andandosi a collocare in luoghi inusuali, lontani dalle solite rotte. Dagli spazi industriali di Schio passando per le architetture militari di Forte Col Badin, ai confini con l’Austria e Slovenia, per approdare nella pianura friulana che si unisce con l’Adriatico per proseguire verso il Po, alla ricerca dell’essenza del suono e della contaminazione tra linguaggi. 7 mesi di programmazione artistica, Concerti, Mostre, Workshop, 4 regioni italiane, 70 artisti”.
Così recitava la locandina della rassegna concepita dalla luciferina creatività di Luca A. d’Agostino e così è stata la lunga avventura di “Estensioni” un’esperienza musicale con pochi precedenti in regione o forse nessuno. Nuove traiettorie e una nuova concezione del fare musica e dell’ascoltarla. Naturalmente non è possibile, almeno in questa sede fare una disamina puntuale di ogni concerto o esibizione, abbiamo scelto di concentrarci su due degli artisti più significativi tra i tanti, trascurando gioco-forza le autentiche epifanie musicali di Alfio Antico, Arti & Mestieri, Patrizio Fariselli Area Open Project, Ginevra di Marco, Francesco Magnelli, Giovanni Maier, Andrea Massaria, Maistha Aphrica e tutti gli altri fino alla chiusura con il Bluegrass del “bisteccone” Joe Bastianich, non ce ne voglia nessuno ma non possiamo fare altrimenti.
Marco Colonna: artista di grandissima intensità, il sassofonista romano è stata una delle stelle più luminose di questa rassegna. Amico del Friuli ha già partecipato ad altre manifestazioni regionali. In questa occasione ha suonato al Impro festival di Schio (Vi) gemellato con “Estensioni” e dedicato a John Coltrane e poi ad Aiello del Friuli con il mago delle tastiere Giorgio Pacorig.
Per non sembrare troppo apologetici e pedissequi descrivendo le sue due ottime esibizioni della rassegna, si ritiene che valga la pena soffermarsi su un’incisione live che ne è stata il preludio e l’antefatto. Sempre durante una rassegna estiva friulana (Musica in Villa di Gabriella Cecotti) Colonna aveva dedicato alla musica di Coltrane alcune sue meditazioni per clarinetto basso e sax sopranino che oggi si possono ascoltare in: “Offering, Playing the music of John Coltrane”.
Il funerale di Trane fu alla St.Peter’s Lutheran Church. Suonarono il gruppo di Albert Ayler e quello di Ornette. Ayler fece Truth is Marching on, ma non era vero con Trane se ne andava una buona parte di verità. Tutto suonò più falso, dopo. La morte del griot ebbe conseguenze terribili. Perdemmo l’equilibrio, sbandammo, ci perdemmo nei vicoli, nelle nicchie, nell’inconseguenza. Non eravamo l’avanguardia di niente e di nessuno. Quando i cacciatori di teste si scatenarono in lungo e in largo per il Paese, noi ci affidammo a sogni d’oppio, divinità vendute al supermarket, canti di sirene che ditoglievano dalla lotta. I fortunati trovarono una vita in Europa, alcuni scelsero l’Africa, come Stokely Carmichael. C’è chi tornò da dove era venuto, di qualunque posto si trattasse. (WuMing 1, New Thing, Einaudi, pag 190)

Accostarsi alla musica di Coltrane è di per se un’esperienza spirituale. Non si tratta minimamente di un semplice ascolto musicale. È in tutto e per tutto un’ascesa, un tortuoso itinerario in una dimensione ineffabile nella quale l’ascoltatore è guidato come in una pubblica preghiera dalle note, verso un’introspezione interiore, una vera e propria meditazione che non esclude a priori il dolore e la solitudine. E’ necessaria una radicale rinuncia alla propria protervia, ragionevolezza e volontà di comprendere sempre tutto a tutti i costi. Sembra paradossale ma la musica di Coltrane non ha bisogno di essere “capita” , ma vuole solo essere accettata e metabolizzata, assimilata, fagocitata.
È materia complessa che dobbiamo imparare a rispettare e ascoltare
L’approccio di Marco Colonna è programmaticamente del tutto meditato e rispettoso, proprio come deve essere. In questo concerto non mancano di certo i momenti in cui i suoi sax esprimono un afflato mistico e spirituale ma l’interpretazione è del tutto laica e perfino materialistica, predilige l’astrazione ma non è per niente confessionale.
La vera mistica elevazione è quella che contempla l’assoluto vuoto, disanimato, minerale e sidereo. Potrebbe essere proprio questa la chiave per capire la sua interpretazione che volutamente tralascia i momenti più lirici della produzione coltraniana più nota (non ci sono brani da A Love Supreme) concentrandosi sui luoghi più desolati della riflessione del grande sassofonista.
Nessun sotto testo liturgico, nessuna giaculatoria, ma tutta immaginazione creativa ed estatica rielaborazione, in una ritualità della musica che diventa materia sottile che si sottrae ad ogni tentativo di definizione o al contrario, di astrazione. “Manifesta la sua presenza” e questo ci deve bastare.
Colonna ha dichiarato in una recente intervista riferendosi all’opera di Coltrane:
“La cosa che mi affascina da sempre, è il suo rigore, la sua continua ricerca di esprimere attraverso l’eccellenza una visione più alta della musica” (da kulturunderground.org)
Riservandosi la libertà e la personale identità nell’interpretare quei testi sacri della letteratura sassofonistica, Colonna ne rispetta profondamente l’intenzione. La grande differenza sta nel fatto che Coltrane aveva una vera e propria ossessione per il controllo di ogni singola nota attraverso la quale il suo spirito si manifestava. Colonna è, al contrario, un improvvisatore nato che sa osare mantenendosi sempre è assolutamente libero e non ha paura di perdersi e di sbagliare. Coltrane non se lo poteva permettere, lui era l’avanguardia , l’esploratore di territori incogniti e della loro vastità. Grazie a lui e agli altri pionieri dell’avant garde siamo relativamente liberi di vagare in quegli spazi e in quei luoghi del nostro cuore.
Si permetta un accostamento iperbolico ma “Offering” per associazione di idee fa venire in mente La Musicalisches Opfer, l’Offerta musicale di Johann Sebastian Bach. Il re Federico II di Prussia, grande appassionato di musica e discreto flautista egli stesso, nel lontano 1747, invitò a corte il grande compositore per onorarlo. Gli fornì un tema musicale e Bach si offrì di improvvisare delle variazioni.
È proprio questo che Marco Colonna ha offerto anche nelle sue esibizioni per Estensioni Jazz club diffuso: meravigliose variazioni e interpretazioni sulle musiche dell’imperatore del sassofono.
Quella che si è officiata nella chiesetta di Santa Maria delle Grazie di Castions che il live documenta in presa diretta su CD, è un genere di celebrazione non meno spirituale ed elevata di quella tenutasi alla chiesa luterana di San Pietro a New York in quel triste mattino del 1969.
Certo è stata meno luttuosa e ferale ma la carica emotiva è stata in ogni caso enorme. Come documentato dal video, facilmente reperibile on line e anche da qualche puntuale recensione, il concerto si è svolto in una location particolarmente raccolta, un a piccola luogo di culto con una discreta comunità che da sempre gli si stringe attorno “in fondo alla campagna” friulana.
La Glesie Viere di Castions è uno di quei luoghi che da secoli sono vocati alla spiritualità più angelica e ingenua quella dei figli di una terra contadina, “bambine bionde con quegli anellini alle orecchie, tutte spose che partoriranno uomini grossi come alberi e se cercherai di convincerli allora lo vedi che sono proprio di legno” così come dice l’avvocato di Asti in una famosa canzone, andando avanti nella metafora probabilmente quello è legno di risonanza, proprio lo stesso che amplificava la voce del violino di Paganini o della spinetta di Mozart, certo anche i friulani d’oggi, in un certo senso, possono essere definiti uomini e donne di legno ma proprio per questo sensibili alla musica.
Proprio quest’anno abbiamo salutato mestamente uno dei decani della musica friulana l’organaro Gustavo Zanin artigiano dei sogni e di meraviglie musicali che ben rappresentava questa rustica raffinatissima sensibilità. Proprio lui ha testimoniato per decenni l’antica vocazione alla spiritualità in musica degli abitanti di queste terre tra le sorgenti e il cielo.
Tra i muri della chiesetta fatti di sassi di fiume e impastati di sudore, vibrano e risuonano da centinaia di anni le preghiere, mormorazioni, giaculatorie, richieste di grazia e perfino bestemmie di quelle stesse anime che li costruirono pietra dopo pietra. E’ proprio una questione di risonanza che ha reso il concerto di Marco Colonna così intenso e straordinario. La chiesetta con il ristretto pubblico seduto composto sugli scomodi banchi di legno, ha un’acustica particolarissima del tutto liturgica che fa risaltare i toni gravi del clarinetto basso rendendoli strazianti e trasforma la voce del sax sopranino nel belato di un agnello.
Naturalmente, la registrazione per quanto accurata e tecnicamente raffinatissima non ha potuto cogliere anche quella speciale magia che solo l’esibizione dal vivo in presenza sa regalare.
In questi anni di insopportabili concerti e spettacoli in streaming, videoconferenze, meeting sulle piattaforme, didattica a distanza, smart-working abbiamo davvero capito almeno una cosa, da tutte le informazioni digitali che ci è toccato sorbirci dai nostri device: la presenza umana è insostituibile.
La parola così come la musica, costretta nei bites dei nostri devices, muore.
È proprio per questo che, forte anche di queste precedenti esperienze, la rassegna “Estensioni Jazz club diffuso” ha rifiutato lo streaming preferendo disseminarsi e disperdersi in location insolite e perfino imprevedibili ma sempre cariche di umanità autentica come quella chiesetta di sassi. L’arte e la musica in particolare non sopportano più la musealizzazione cui la pseudo-cultura della visione televisiva o digitale l’hanno costretta, hanno bisogno di ritornare a dissolversi nel paesaggio, ridiventare figura tra le figure, materia viva che diventa mondo nel proprio divenire.
In questo senso, è possibile comprendere la bizzarra ma intelligente istallazione artistica “Jazz a perdere” di Luca A. d’Agostino che ha fatto da sfondo, è il caso di dirlo, ad alcuni concerti sul Forte di Col Badin presso Chiusaforte (UD). Lungo la salita verso il forte stampate su carta biologica le suggestive immagini del fotografo se ne stavano appese agli alberi come preghiere tibetane nel vento fino a che gli agenti atmosferici e il tempo se le sono riprese riassorbendole nell’ambiente circostante. Un’idea davvero poetica dall’effetto garantito.

Autostoppisti del magico sentiero: l’ensemble, agglutinato attorno alla magia del poeta Franco Polentarutti e ai “chilometri” del chitarrista Fabrizio Citossi, ha una formazione del tutto variabile che nelle sporadiche, preziose esibizioni riesce a creare una particolarissima alchimia, così è stato nell’ambito di “Estensioni” in cui hanno riproposto alcune atmosfere dei loro due lavori discografici sui quali ci permettiamo di dilungarci un po’.
Poche chiacchiere! Le ultime due incisioni de Gli Autostoppisti del Magico Sentiero sono quanto di meglio la musica sperimentale Avant Garde abbia prodotto nell’ultimo decennio nel nostro paese, se ancora esiste una cosa che si può chiamare così.
Quello che si ascolta in quei dischi è difficilmente catalogabile, non esiste qualcosa di paragonabile. I due lavori pubblicati a breve distanza quasi l’uno di seguito all’altro rappresentano riflessioni in musica e parole sulla contemporaneità.
Il primo, “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia” s’interroga sul tema del significato del viaggio nel mondo contemporaneo massificato, nel quale sembra che non ci sia più niente da scoprire, esplorare, conquistare. È vero il contrario; Gli smartphone, la geolocalizzazione e le immagini satellitari modificano e confondono le nostre percezioni, quindi noi vediamo solo cosa l’algoritmo ritiene necessario farci vedere, gran parte della realtà dalla quale siamo abitati è per noi buio fitto molto più di prima; a volte non conosciamo nemmeno il nostro quartiere e se passeggiamo per la nostra città senza la “vocina” della nostra mappa virtuale ci sentiamo perduti. Le nostre abitazioni ordinate, chiuse dalle tangenziali come barriere esterne dei nostri agglomerati sono in realtà allevamenti intensivi di zootecnia umana, tecnologici ovili che preludono ad altrettanto meccanizzati mattatoi “for your eyes only”.

Il secondo lavoro “Pasolini e la peste” è ibrido, caotico, magmatico, pulsante, sporco, blasfemo, in una parola meraviglioso e davvero stimolante. È una delle opere ispirate al poeta di Casarsa, più creative e diagonali degli ultimi anni. Davvero poche reggono il confronto, vengono in mente, in questo senso, solo la messa in scena teatrale di “Una giovinezza enormemente giovane” di Gianni Borgna per la regia di Antonio Calenda con la magistrale, spettrale interpretazione del poeta da parte di Roberto Herlitzka (2015) e anche le Graphic Novels a tema pasoliniano dell’Allegro Ragazzo Morto Davide Toffolo.
Negli ultimi anni, appropriarsi del corpo morto del poeta (His mortal remains) è diventata una prassi senza alcuna remora o criterio; ognuno di tanto in tanto, ne sbrana un pezzettino, per poi masticarselo in tutta calma in interpretazioni e male letture. Quei brandelli di carne coriacea e indigeribile finiscono poi sputati in qualche angolo quando la loro amara sostanza fecale si è rivelata disgustosa per quei palati e quegli stomaci borghesi.
Nel corso degli anni se ne sono sentite di tutti i colori: dal Pasolini ultra-cattolico integralista a quello cripto-fascista; dal maniaco sessuale, pedofilo e onanista, al santo laico con la mano sul cuore; dal bandito rapinatore con la rivoltella d’oro in pugno fino all’eretico anarco-comunista con la bandiera nera, le spighe tra i capelli e molto altro.
Per fortuna, la sua figura e le sue opere sono talmente indecifrabili, eretiche, liminali, trasversali, non allineate, eccentriche che nessuno, proprio nessuno, può davvero appropriarsene.
Il Pasolini romantico, nostalgico e radical chic ricordato da Nanni Moretti nel suo detestabile “Aprile”, si contrappone ai tanti “Mortacci” assassinati nei vari film pseudo biografici, alcuni anche piuttosto ben confezionati, dedicati al caso del “Delitto Pasolini”. Gli “Autostoppisti” fanno un passo al di la di tutto il ciarpame pseudo pasoliniano e scelgono di bestemmiare e dissacrare il poeta con lo sberleffo dell’ironia e del sarcasmo, proprio come sarebbe piaciuto a Pasolini.
Bastano questi due esempi luminosi per comprendere che “Estensioni Jazz Club Diffuso” dopo questa prima edizione saprà farsi valere nel prossimo futuro continuando ancora con le sue scelte creative e fuori dai sentieri battuti in uno splendido nomadismo musicale e culturale sempre in viaggio verso il cuore della musica.

Flaviano Bosco

Mino Cinelu e Luca Aquino, simbiosi elettroacustiche sul palco virtuale di Roma Jazz Festival 2020

di Alessandro Fadalti

Il grande pregio che emerge dal Roma Jazz Festival 2020 è la volontà di adattarsi al tempo e cercare nuove soluzioni, rimettendo in discussione, citando Philip Auslander e Paul Sanden, il concetto di Liveness. Il 19 novembre si è tenuto un concerto che ha visto esibirsi su un palco fisico, ma virtuale, Mino Cinelu, (storico percussionista dei Weather Report e Miles Davis) accompagnato dal trombettista Luca Aquino. Assistere a un concerto in streaming lascia aperti molti spunti di discussione per i musicofili, ai quali rilancio alcune considerazioni a conclusione della recensione.

SulaMadiana” è il progetto che ha unito l’anima francofona di Mino Cinelu con quella norvegese del, purtroppo assente in questa data, Nils Petter Molvær, che qui a Roma è stata reinterpretata dalla tromba di Luca Aquino. Osservando il puro contenuto musicale vanno premesse alcune considerazioni vista la sua trasmissione in diretta sul web. In primis, i musicisti hanno comunque saputo dimostrare la loro energia e indubbia qualità artistica. Altresì il maggior plauso va ai tecnici che si sono adoperati per offrire la miglior resa audio e video possibile.

Sin dal primo brano “O Xingu” emerge l’importanza del suono acustico ed elettronico con le sue componenti rumoristiche, nell’insieme sono il motore percussivo dei brani. L’estetica di Cinelu si compone in un piano verticale fatto di intricate sovrapposizioni ritmiche e poliritmie, intessute con scioltezza e forte espressività, facendo oscillare il tempo dal frenetico a quello di una nenia; dal solenne al quieto meditativo. L’atmosfera frenetica di alcuni brani come “Indinala” e “Take The A# Train” richiama alle radici caraibiche del musicista, attraverso le multietnicità sonore senza barriere tipiche dell’isola di Martinica. “SulaMadiana”, nella sua rappresentazione dal vivo, cerca di non perdere la resa sonora e lo spirito sensibile che dal disco traspare come un uragano. Non è scontato riportare sul palco alcuni degli artefici elettronici che si innestano di solito tramite la registrazione in studio. Il percussionista si dimostra un’artista al passo coi tempi, l’utilizzo di loop station si articola alla perfezione con la costruzione ritmica, dondolandosi cineticamente tra una pelle del timpano con i Trigger, a un tasto del Launch Pad, per poi passare al Ride e al tasto Play di un Sample su una VST. Cinelu arricchisce questa matassa percussiva con parti canore in ogni brano dal carattere a tratti narrato a tratti simili a un canto mantra. Infine, verso la metà del concerto, si è cimentato prima alla tastiera Nord e poi, in due occasioni, alla chitarra: in un suo arrangiamento molto articolato e particolare della celebre “Summertime” e in “Cold is The Night” tratta dall’album Quest Journey del 2018.

A metà del secondo brano si innalza sullo sfondo un video della vista aerea di Langevåg, luogo d’origine di Nils Petter Molvær, nella zona principale del comune di Sula. Su questa immagine entra in scena il trombettista italiano Luca Aquino. Il suo stile si avvicina molto allo spirito di Petter Molvær e ne è degno interprete. Un potente lirismo alla tromba e flicorno, fatto di frasi in legato ma frammentate da brevi silenzi, dove il protagonista assoluto è il timbro. L’effetto aulico si amplifica e arricchisce il materiale sonoro con la componente elettronica fatta di riverberi, delay e armonizzatori; di grande effetto specialmente nel brano “Kanno Mwen”. I due artisti vanno in simbiosi e respirano in osmosi: al palazzo ritmico di Cinelu si somma il piano orizzontale, uno sviluppo di trama melodica che ben si collega, in un’atmosfera dalle forti tendenze nu-jazz. Anche per Aquino la parte rumoristica la fa da padrona, facendoci udire il rumore del fiato che esce dalla campana, i pistoni premuti e l’attacco della nota sul bocchino.

In generale, una coppia vincente, ma non senza macchia. Aquino con i suoi fraseggi risultava spesso enigmatico e il perpetuo effetto aulico faceva perdere frequentemente la bussola, forse volontariamente, annullando l’efficace periodicità di alcune sublimi frasi. Inoltre, specie nel suo flicorno solo, l’equalizzazione nelle dinamiche forti faceva scaturire una saturazione troppo squillante. Cinelu, invece, in alcuni momenti era un pelo calante di voce e il tocco con le dita sulle corde della chitarra era a volte poco pulito e chiaro; sono state delle cosiddette stecche che ho in verità apprezzato.

La stecca è diventata paradossalmente un pregio, rendendo esplicito come l’esibizione fosse in diretta. In conclusione, cosa rende dal vivo un evento Live? Verrebbe da dire l’hic et nunc, essere in un determinato spazio in un determinato momento. Il parere personale è che finché c’è vitalità si può considerare dal vivo. Lo spazio virtuale è una nuova dimensione da esplorare per tutti noi. Le cuffie durante quel concerto sono diventate un teatro casalingo grazie ad attente scelte di riverberi ed equalizzazione per mano dei tecnici. L’approssimazione alla fedeltà rende affascinante l’impegno, citando testualmente Mino Cinelu a fine concerto: “un’organizzazione della madonna”. Ciò che distoglieva da quella magia “dal vivo” erano i primi piani e campo-contro campo, forse una ripresa statica dalla poltrona avrebbe aumentato l’immersività. Le novità hanno bisogno di nuovi mezzi e nuovi linguaggi per esprimersi. Concerti come questi fanno pensare a una strada chiara nella mente, ma in corso d’opera; al pubblico non resta che pazientare. Il tema scelto dal Roma Jazz Festival 2020 “Jazz for Change”, in tal senso pare azzeccato, visto il cambiamento sociale di usi e costumi che gli artisti promulgano con coraggio, senza volersi fermare nemmeno di fronte all’epidemia.

Alessandro Fadalti

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.