Odio l’Estate – Storia segreta di un’intossicazione da Real Book

di Alessandro Fadalti –

Il caldo ha mollato la presa solo negli ultimi giorni ed è così che ci siamo accorti che l’estate è effettivamente finita. Questo preambolo può sembrare una chiacchiera spiccia e situazionale sul meteo, se non fosse che settembre sia un mese che porta con sé una forte carica emotiva. Potremmo considerarlo il Capodanno mai festeggiato, anche se non ci sono bottiglie da stappare come durante il cenone a cui segue il più classico dei countdown. Tuttavia, proprio come quando si chiude dicembre, percepiamo il finire di qualcosa e l’inizio di un nuovo ciclo. Finisce il periodo vacanziero, le persone tornano ad affrontare la quotidianità, le giornate si accorciano, le cicale smettono di intontirci con i loro cori e l’idea di un tuffo in mare ci annoia. Per quanto nell’immaginario collettivo sia rilassante come periodo dovremmo ammettere che sotto sotto l’estate fa un po’ schifo. Bruno Martino la odiava veramente? Non potrò mai saperlo ma è spesso a lui che rivolgo i miei pensieri quando ho finito di digerire il pranzo di Ferragosto. Tutto ciò mi diede, mesi fa, lo spunto per pormi nuovamente una di quelle domande a cui nessuno è interessato. Sfogliavo alcuni indici dei Real Book per cercare qualche brano jazz da suonare e mi apparve come un anatema “Estate”; era inizio giugno e già leggere il titolo mi faceva salire la tristezza della fine di qualcosa che non era nemmeno incominciata, una sensazione perversa. A livello più lucido ho cercato risposta al quesito: «come è accaduto che una canzone italiana sia diventata uno standard jazz/latin a livello internazionale?» solo negli ultimi giorni. La storia è complessa e incompleta, vi si intrecciano molti nomi ed eventi, inoltre parliamo di un brano che ha avuto eterogenei adattamenti a livello testuale; proverò dunque ad usare un approccio cronologico per arrivare a un punto della situazione di carattere più speculativo che analitico.
La prima tappa di questo viaggio è a Napoli nel 1960, la storia che si racconta è che all’Hotel Royal Bruno Brighetti scrive il testo in seguito a un’intossicazione alimentare da frutti di mare. Il brano doveva chiamarsi “Odio l’Estate”, una dedica sentimentale a una stagione dove gli amori sono intensi ma fugaci, che causano dolore e che si spera finisca presto. La prima strofa e il ritornello infatti recitano:
Strofa 1 e 2:
Estate
Sei calda come i baci che ho perduto
Sei piena di un amore che è passato
Che il cuore mio vorrebbe cancellar

Odio l’Estate
Il sole che ogni giorno ci donava
Gli splendidi tramonti che creava
Adesso brucia solo con furor


Ritornello:

Tornerà un altro inverno
Cadranno mille petali di rose
La neve coprirà tutte le cose
E il cuore un po’ di pace troverà

Strofa 3:
Odio l’Estate
Che ha dato il suo profumo ad ogni fiore
L’ estate che ha creato il nostro amore
Per farmi poi morire di dolor

Dopo quel “morire di dolor” segue l’intervento orchestrale degli archi, e poi dei fiati, in solo, a commentare questo dolore. Successivamente, il brano si conclude con la ripetizione del ritornello e la terza strofa, per chiudere con quell’anatema fino a sparire nel silenzio: “Odio l’estate”. Rispetto alle atmosfere della canzone leggera della bella vita notturna italiana, durante gli anni del boom, tutto ciò era sicuramente in forte controtendenza, infatti Lelio Luttazzi nello stesso anno, in una trasmissione televisiva, ne fa una parodia “Odio le Statue”. Si dice che Bruno Martino, risentito della parodia, fece togliere dalle riedizioni successive la parola “Odio” dal titolo. Luttazzi non poteva sapere che da lì in poi molti artisti al di fuori dell’Italia si sarebbero cimentati a cambiarne il testo. La canzone, non la parodia ovviamente, riscuote un successo tiepido in patria, si ricordano alcune esecuzioni, tra cui quella di Milva nello stesso anno.

La tappa successiva è la meno citata e forse la più interessante. Helen Merill (nome d’arte di Jelena Ana Milčetić) è una cantante statunitense nota, ha collaborato con nomi del jazz come Clifford Brown, Oscar Pettiford e a incidere alcuni dei suoi successi c’era il tocco magico di Gil Evans, che scrisse degli arrangiamenti appositamente per lei nel ’56 (esperienza che diede i frutti a Evans per il successivo lavoro con Miles Davis). Tuttavia, negli anni ’60, la Merill si trovava in Europa, nello specifico a Roma, e lavorava con Pietro Umiliani, ma l’incontro con Morricone l’ha portata nel ‘62 a cantare “Estate” in una versione arrangiata e diretta dal maestro.
Che sia questo il ponte che ci porta alla terza tappa del brano? Perché misteriosamente nel ’65 compare “Maybe This Summer”, un adattamento inglese scritto da Al Stillman (Albert Irving Silverman) e Arthur Altman, due parolieri e musicisti che restituiranno la canzone grazie alla voce della cantante Peggy Lee. Questo è l’esatto momento in cui, per la prima volta, il testo verrà cambiato.
Strofa 1 e 2:
This summer,
Perhaps I’ll meet the one who’ll be my true love,
The one who won’t be just another new love,
Who’ll still be mine when leaves begin to fall,
Maybe this summer,
I’ll feel the glow of someone’s warm caresses,
And I will know at last what happiness is,
This summer if my lover comes to call.

Ritornello:
Will she whisper she loves me,
And tell me life was empty ‘till she found me,
And say how much she wants her arms around me,
Each day of every winter, spring and fall.
Maybe this summer…

Alla terza strofa, in questo caso, viene sostituita una breve sezione strumentale che fa una variazione sulla melodia del ritornello, raddoppiandone la durata. A livello testuale, scompare la malinconia e tutto il malessere, la canzone parla di un amore che si spera possa perdurare anche durante l’autunno e l’inverno, tutt’altro rispetto a Brighetti che non vedeva l’ora che arrivasse l’inverno e cancellasse i dolori estivi d’amore. Il fatto che il testo sia stato tradotto in inglese è un passo altrettanto inusuale, un brano italiano di musica leggera era arrivato alle orecchie e alla mano di compositori USA.
Da lì in poi il brano resta in un dimenticatoio per una decina d’anni, fino a quando João Gilberto la sente durante un tour in Italia negli anni ‘60, almeno questa è la storia che si racconta. La suona e la canta in lingua originale ma toglie la parola “Odio” addirittura dal testo oltre che dal titolo, come già Brighetti e Martino fecero. Il motivo della scelta può essere molteplice, ma quello più accreditato è di carattere stilistico, a Gilberto non piaceva e in generale, a ben pensarci, forse quella parola, associata all’estate non si adatta all’atmosfera Saudade tanto cara ai bossanovari brasiliani. Nel 1977 la canzone ritorna in auge e Gilberto la porta alla fama inserendola inaspettatamente nel suo album “Amoroso”, ed è forse questo il nodo più importante, perché da lì in poi la melodia viene ripresa senza il canto da alcuni jazzisti statunitensi, tra cui ad esempio Chet Baker, Joe Pass, e Michel Petrucciani da poco trasferitosi nel nuovo continente, ma anche Toots Thielemans in Europa.

La quinta tappa è quella che vede protagonista Joel Edward Siegel, professore d’inglese, critico musicale e cinematografico, produttore musicale e paroliere. Un personaggio polivalente che si avventura a scrivere un altro adattamento con testo in inglese, che l’abbia scoperta tramite Gilberto? Potrebbe essere, infatti l’atmosfera del brano è stravolta definitivamente nel suo senso di quell’estate tanto odiata che tutti conosciamo. Il testo è solo leggermente malinconico:
Strofa:
Estate
You bath me in the glow of your caresses
You’ve turned my eager no to tender yeses
You sweep away my sorrow with your sigh
Estate
Oh how the golden sunlight bends the willow
Your blossoms send the perfume to my pillow
Oh who could know you half as well as I

Ritornello:
I always feel you near me
In every song the morning breeze composes
All the tender wonder of the roses
Each time the setting sun shines on the sea

Qui il ritornello, invece, ha un accompagnamento molto ricco a livello armonico e con alcune risposte del piano tra una frase e l’altra, che anche in questo caso allungano la durata a livello strutturale. Il testo in questo adattamento racconta un amore attraverso metafore legate a questa stagione, non rappresenta soltanto una speranza come in Stillman e Altman, in questa versione l’amore è vissuto a pieno senza paure e dubbi e questo si riflette attraverso immagini estive ricche di sensualità. Siegel ha lavorato come produttore musicale anche per alcuni album della cantante Shirley Horn. Lei, nell’album “Softly” del 1987, ha reso celebre questo adattamento con una interpretazione che dona alla mente la visione di un’estate magica, dalla consistenza del fine velluto e passionale.
La sesta tappa ci porta qualche anno dopo ad ascoltare una delle versioni più uniche, a mio parere. Nel 1990 esce l’album “Sabìa” che porterà al successo la cantante statunitense Susannah McCorkle. La sua voce restituisce una “Estate” dallo spirito molto simile a quella di Brighetti e Martino

Strofa 1 e 2:
Summer,
I met you in the blazing heat of summer
The days were long and nights were sweet at summer
I fell in love with summer in my heart
Summer,
When we drank wine at sunset on a beach
When happiness seems almost at our reach
You held me tight and swore we never part

Ritornello:
Now I dread every summer
When all the world around me is in bloom
Instead of feeling hope I’m filled with gloom
I pray for early autumn every year

Strofa 3:
Summer,
The night you left I laid awake in cry
And in those hours something in me died
As summer turn to winter in my heart

L’estate si trasforma letteralmente in un inverno nel suo cuore, un amore finito nella tristezza assoluta dove sembra che l’unico appoggio confortevole siano i bei ricordi di pace e serenità che collegava due amanti in un sentimento… caldo come un’estate. La nota più particolare di questa versione è che dopo la terza strofa e un solo di Sax, la cantante riprende intonando il ritornello in italiano con il testo originale. Le analogie, inoltre, ci portano alla chiusura, dove con la ripetizione del ritornello in inglese la canzone si spegne con la parola Summer che incede lentamente fino a dissolversi. Il richiamo alla versione originale è forte, non solo perché canta in italiano ma perché la struttura del brano e l’atmosfera che crea è simile al dolore di cui parla Brighetti, a tratti, a mio parere, accentuata dal fatto che la cantante soffriva di depressione; sicuramente la sua interpretazione trasmette la ricchezza dei suoi sentimenti più profondi. Questa vicinanza con la versione originale è inoltre supportata dal fatto che McCorkle ha studiato lettere e si è cimentata nella sua carriera nella traduzione di canzoni brasiliane ed europee, tra cui francesi e italiane. L’adattamento della McCorkle è l’ultima tappa cronologicamente interessante prima di arrivare al punto da cui sono partito, per dare un senso finale a questo viaggio e una risposta a una domanda curiosa ma inutile, sto parlando di quel maledetto Real Book!
Settima tappa: non è un segreto la storia dei Real Book, gli studenti della Berklee College of Music si sono cimentati a trascrivere il più possibile il patrimonio dei cosiddetti standard jazz al fine di renderli accessibili e trasmetterli alle generazioni future per motivi di studio. In questa raccolta di spartiti troviamo nel terzo libro, quello dedicato alle nuove aggiunte, nella sua quinta edizione del ’91: “Estatè”. Una versione che sembra trascritta male a mio dire, oppure, ipotesi più probabile, trascritta da una versione a cui è difficile risalire, siccome tra il ritmo della melodia e gli accordi non ho trovato alcuna corrispondenza con i vari arrangiamenti e interpretazioni. A guidarci in una possibile identificazione è la scritta in alto: “Musica di Bruno Martino, Testo di Joel E. Siegel”. Sicuramente chi l’ha trascritta si sarà basato sulla versione di Shirley Horn a cui poi altri interpreti si sono ispirati, ma il cerchio non si restringe abbastanza per due motivi, il primo è che il brano viene etichettato come “bossanova” nonostante la versione della Horn non abbia per niente questo feeling bossa e in secondo luogo non ho trovato nuovamente corrispondenze. Evitando conclusioni forzate, direi che quella versione sia più una guida all’interprete che una versione pari-pari, così come altri standard presenti in quel libro. Tuttavia, nella sesta edizione del Real Book a cura della Hal Leonard, appare la canzone nell’edizione Real Book Vol II del 2005 (pag.120), nel Latin Book e nel The Real Vocal Book nella Low Voice Edition, queste ultime sono filologicamente affidabili, il ritmo e gli accordi rispecchiano la versione italiana, mentre il Latin Book quella di João Gilberto, ma in entrambe in alto troviamo scritto questa volta: “Musica di Bruno Martino – Testo di Bruno Brighetti. Il passaggio del Real Book è forse la definitiva chiave di volta della fama del brano; infatti, dal ’91 in poi diventa difficile o quasi impossibile tener conto di quante versioni siano state realmente arrangiate, eseguite o registrate.
Real Book o meno, ad oggi “Estate” resta una di quelle canzoni che il jazzista medio, nella sua formazione, probabilmente affronterà, ma di cui pochi hanno conoscenza della sua storia ironica, di come sia arrivata da un Hotel di Napoli ai palchi e studi di registrazione di tutto il mondo. Sull’onda dell’ironia, mi concedo comicamente di ringraziare i frutti di mare andati a male per il loro splendido lavoro con l’intestino di Brighetti, davvero un bel testo.
Ci sarebbero altre interpretazioni da citare ma la carta non ha abbastanza spazio; quindi, in conclusione cito le due più originali che meritano quantomeno una menzione. La prima ci porta in Francia con “Un été” di Claude Nougaro, una traduzione in francese del testo suonata in stile Chanson. L’ultima versione è contenuta in una compilation di brani estivi in stile Italo-disco uscita nell’1988 dal titolo: “Estate…(Odio l’Estate)” di Riviera, nome d’arte della pianista e cantante Elga Paoli, cui particolarità è il titolo: “This Summer” con il testo di Altman e Silverman, un mix bizzarro ma che ho trovato piacevole proprio per questa fusione assurda.

Alessandro Fadalti

La poetica straniante di Chet Baker

Ho conosciuto Chet Baker molti anni fa e ne ho sempre ammirato l’enorme statura artistica. Ciò detto però, mi ha colpito l’ammirazione, direi quasi la dedizione che nei suoi confronti dimostrano quanti hanno avuto l’opportunità di suonarci assieme. E non si tratta tanto della stima verso l’artista o della comprensione verso un uomo che ha attraversato periodi non facili, ma di un vero e proprio ‘amore’ – non ci si scandalizzi se uso questo termine – verso un artista che aveva il dono unico di trasportarti altrove, di farti trascendere la realtà del momento. E la cosa più straordinaria è che Chet ha mantenuto e anzi rafforzato queste caratteristiche anche dopo che, per le note vicissitudini inutili da richiamare in questa sede, non era più in grado di suonare la tromba come prima e la sua voce si era fatta più flebile… il tutto coniugato con un carattere non dei più facili che spesso lo faceva platealmente litigare anche con chi lo accompagnava sul palco (in special modo i batteristi).

Proprio a Chet Baker è dedicata la nuova uscita della Hachette per la serie “I capolavori del jazz in vinile- Verve”.

L’album preso in considerazione si intitola “Chet Baker Quartet Vol.1” e, registrato l’11 e il 14 ottobre del 1955 a Parigi, vede il trombettista affiancato da Dick Twardzik al piano, Jimmy Bond al basso, Peter Littmann alla batteria; in repertorio nove brani tutti firmati da Bob Zieff, un allora giovane compositore di Boston, ad eccezione di “The Girl From Greeland” composto da Dick Twardzik   qui colto in una delle sue migliori performance (il pianista sarebbe morto per overdose pochi giorni dopo queste registrazioni il 21 ottobre nella stessa Parigi).

Ma il merito della riuscita dell’album va ripartito tra tutti i membri del quartetto che avevano raggiunto un’alchimia incredibile tanto da far dire al critico Marco Giorgi (curatore delle parti scritte che accompagnano l’LP) che le registrazioni effettuate da Baker “in Francia rappresentano la vetta artistica della sua intera carriera”.

In effetti Chet attraversava un momento artisticamente positivo: ammirato e rispettato in quel di Francia, cosa che non accadeva in patria, il trombettista si rendeva perfettamente conto dell’affetto che riceveva e cerva di ricambiarlo alla sua maniera, suonando bene, benissimo. E ci riusciva. Si ascoltino con attenzione queste registrazioni e si scoprirà un Baker maiuscolo, un Baker perfettamente in grado di muoversi attraverso le complesse partiture di Zieff molto lontane dagli standard spesso da lui eseguiti.

Insomma un album straordinario cui farà seguito un secondo volume, registrato sempre nel 1955, ma con una formazione diversa in quanto al posto di Twardzik   ci sarà Gérard Gustin mentre alla batteria siederà Nils-Bertil Dahlander; il quartetto è completato dall’unico superstite del precedente quartetto, Jimmy Bond al basso.

Guida all’ascolto con Gerlando Gatto e Silvia Manco

Officine San Giovanni, martedì 20 giugno 2017

Silvia Manco, pianoforte e voce

La stagione delle Guide all’ascolto di Gerlando Gatto, prima della pausa estiva, si chiude in bellezza con la pianista e vocalist Silvia Manco, che sceglie di presentare un programma di standard classici, con una caratteristica: tutti i brani selezionati sono armonicamente complessi, o hanno costituito per il mondo del Jazz una novità, un passo in avanti rispetto al passato.
A Silvia Manco dunque piace il Jazz cosiddetto “mainstream” ma piace anche sottolinearne aspetti musicalmente non privi di (bellissime) asperità.
Nelle Guide all’Ascolto la particolarità e quella di poter godere di musica dal vivo intervallata da interventi competenti e anche divertenti ed accattivanti che quella musica non solo spiegano, ma anche contestualizzano.


Non è cosa di tutti i giorni poter ascoltare Old Devil Moon in versione live, cantata con voce profonda e pianoforte swingante, per poi conoscerne la storia, i motivi del raggiunto successo, e dopo poter godere anche magari della versione strumentale di Ahmad Jamal. O Lush Life di Billy Strayhorn nella versione intima, garbata e intensa che ha scelto di eseguire Silvia Manco per poi venire a scoprire che l’autore si arrabbiò moltissimo con Nat King Cole, reo a suo dire di aver stravolto il brano in una sua esecuzione, che a noi alle Officine San Giovanni non è sembrata così disdicevole: lo sappiamo perché Gerlando Gatto dopo averci raccontato l’aneddoto ce l’ha fatta anche ascoltare. Nothing like You, altro brano complesso e affascinante, o Midnight Sun, brano modernissimo di Lionel Hampton. o I’m Hip – “mamma mia questo brano ha mille parole!” – esclama Silvia Manco per poi snocciolarlo con ironia e disinvoltura – si susseguono tra aneddoti e chiacchiere che rendono il pomeriggio un’occasione preziosa per ascoltare, conoscere e divertirsi piacevolmente con il Jazz.


E poi con l’occasione Gerlando Gatto presenta anche il suo libro, edito da Kappavu – Euritmica, “Gente di Jazz – interviste e personaggi dentro un festival jazz“, da poco presentato con successo al Salone del Libro di Torino. Interviste a Jazzisti (con le bellissime foto di Luca D’Agostino) che l’autore ha incontrato negli anni durante il Festival Udin&Jazz. Ventitre jazzisti italiani e internazionali (Bollani, Fresu, D’Andrea, Rava, Battaglia, Bearzatti, Petrucciani, Rubalcaba, Solal, Tyner, tanto per citarne alcuni) che rappresentano un vero e proprio interessante ed istruttivo viaggio nel Jazz.
Le Guide all’Ascolto riprenderanno dopo l’estate e Gerlando Gatto ci sta già lavorando. Silvia Manco chiude questo primo ciclo con grazia, eleganza e bravura.
Ci rivediamo a settembre!

Donatella Luttazzi e Riccardo Biseo ricordano Lelio Luttazzi

Ricordare un personaggio poliedrico come Lelio Luttazzi, attraverso i racconti e i live in sala della figlia Donatella, ha fatto sì che la Guida all’ Ascolto di Gerlando Gatto prendesse una particolare piega di piacevolezza. Perché anche nell’ipotetico caso che qualcuno non conoscesse questo eclettico personaggio della musica italiana, e della radio e della televisione, il salto non è stato propriamente in un passato iconico, vetrificato, inattuale. Di certo ascoltare questi brani eseguiti in duo dal vivo rinascere dalla voce emozionata di Donatella Luttazzi ha creato un’atmosfera particolarmente vivida, non certo un malinconico revival. Per di più l’ironia, e l’intelligenza di Luttazzi (da Donatella ereditate in toto), e la sua musicalità, risultano assolutamente moderni: tanto che le versioni registrate scelte da Gatto per affiancarle ai live di Chiedimi Tutto, Souvenir d’Italie, Legata ad uno scoglio sono state quelle di interpreti a noi contemporanei, rispettivamente Fiorello, Karin Mensah e Fabio Concato.  E’ opportuno a questo punto che io vi riporti il testo di Legata ad uno scoglio, una delizia gioiosamente e volutamente surreale, resa mirabilmente dalla Luttazzi e anche ben sottolineata musicalmente da Biseo.

Legata ad uno scoglio
ti voglio baby
così quando mi sveglio
col sorgere del dì
ti trovo che aspetti
legata a quello scoglio lì
Oh sì, sì, sì, sì, sì.

Fidarmi dei tuoi baci
non posso credi,
perchè se c’è la nebbia
sparisci lì per lì,
per questo ti tengo
legata ad uno scoglio così,
oh sì, sì, sì.

Forse sarà un po’ scomodo,
ma l’amore è anche sacrificio.
Non ti ho portata al mare
per lasciarti sbaciucchiare
dal giovane leone
Bevilacqua Vinicio.

Legata ad uno scoglio
mi piaci baby
è già trascorso luglio
e siamo ancora qui.
Io serio che guardo,
tu forse un po’ seccata,
legata
legata a quello scoglio lì

Ascoltando i live e le versioni scelte da Gatto, sono emersi in maniera evidente il Jazz e dello swing sempre sottesi in questo artista attualissimo e mai abbastanza rimpianto: a questo proposito vi consiglio di ascoltare la versione della canzone qui sopra interpretata da Stefano Bollani. Una guida all’ascolto gioiosamente anomala, dunque, in cui si è spaziato dalla musica “leggera” (che così leggera non è – Luttazzi era un musicista eccellente sotto quella “crosta” di ottimo varietà televisivo) al Jazz, con la Luttazzi e Biseo impegnati anche a reinterpretare brani leggendari quali Samba de una nota di Jobim (autore adorato da Donatella, per sua stessa ammissione)  o ‘Round Midnight di Monk. Gerlando Gatto ha così, con le sue interviste ed i suoi brani scelti, ripercorso non solo un particolare periodo d’oro della tv e della musica italiana, sollecitando Donatella Luttazzi a raccontare pezzetti della vita privata con un padre così “importante” ed esplosivo”, ma anche, più tradizionalmente, quella storia del grande Jazz americano che tanto aveva influenzato Lelio Luttazzi.
La serata si chiude con il delizioso Orango Tango, brano ironico a firma Donatella Luttazzi, che ha una vena comica impareggiabile e che ha scatenato risate ed applausi del pubblico.
I pomeriggi alle Officine San Giovanni continuano, sempre a martedì alterni, viaggiando attraverso le mille possibilità del Jazz. Prossimo appuntamento martedì 4 aprile con il pianista Andrea Zanchi.

 

Una Guida all’ascolto – concerto con Mingo e Carucci

Officine San Giovanni, martedì 7 marzo, ore 19:15

Nicola Mingo, chitarra
Ettore Carucci pianoforte

Foto di Fabrizio Sodani (cliccare sulle foto per espanderle)

Guida anomala per vari problemi tecnici quella di martedì scorso, tra cui alcuni che hanno impedito purtroppo a Gerlando Gatto di proporre l’ascolto di brani della tradizione jazzistica alternati ai live sul palco delle Officine San Giovanni. Non ci si è persi d’animo e prontamente Nicola Mingo ed Ettore Carucci hanno trasformato in concerto live l’intera ora e mezza prevista dal programma.
Musiche di Wes Montgomery (era questo l’argomento della terza guida all’ascolto alle Officine) ma anche brani originali di Mingo, il duo ha mostrato di avere una coesione notevole, e con grande professionalità è riuscito a catalizzare l’attenzione del pubblico (anche stavolta la sala era sold out) nonostante i diversi guai dell’impianto tecnico. E’ per merito dell’energia, della musicalità e della disponibilità di questi due musicisti che i suddetti problemi sono passati in secondo piano:  fluidità e inventiva nel fraseggio bop per Mingo, grande creatività nell’improvvisazione di Carucci, sempre più bravo, non sono mai venuti meno lo swing, l’interplay, la capacità di proporre e di reinterpretare in maniera originale brani celeberrimi come Road Song o Gjingles, ma anche di presentare “nuove creature” in stile come My Bop  o Black Horse.
Gerlando Gatto è riuscito con pochi interventi a tenere saldo il filo conduttore della serata. Per i prossimi martedì l’impianto sarà a posto: molte le sorprese previste da qui a maggio!

La ripresa positiva delle Guide all’Ascolto di Gerlando Gatto

Riprendono a Roma le Guide all’Ascolto in uno spazio accogliente, le Officine San Giovanni di Largo Brindisi: una bella abitudine, quella dei tardi pomeriggi infrasettimanali, durante i quali si può ascoltare musica dal vivo, entrare nel linguaggio del Jazz, ed ascoltando musica selezionatissima da un esperto, Gerlando Gatto, che del Jazz sa spiegare le origini, le caratteristiche, l’evoluzione, le regole non scritte.
Ieri, martedì, alle 19,15 in punto hanno preso posto sul palco due ottimi musicisti, in una sala sold out: Antonella Vitale, vocalist e Andrea Beneventano, pianista, duo collaudatissimo, di grande esperienza e versatilità, che forti del loro interplay hanno interpretato gli standard scelti come oggetto di studio per l’occasione, e dei quali Gerlando Gatto ha poi fatto ascoltare altre esecuzioni . Versioni contrastanti, simili, irriconoscibili o dalle atmosfere inusuali: perché il Jazz è questo, è variazione, improvvisazione, composizione estemporanea. Quando spiegato, mostrato nella sua ricchezza di spunti e soluzioni, storicizzato, diventa tutt’altro che un genere di nicchia.
Un’ora e mezza passata ad ascoltare e a capire la musica, a Roma, è una occasione preziosa che è un peccato perdere. Sono in programma almeno altre tre incontri, per i prossimi martedì. Il consiglio, per chi vuole conoscere un po’ meglio il Jazz attraverso un contatto diretto con i musicisti e i racconti affascinanti di un vero esperto del genere, è quello di non perderne nemmeno uno.