Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?
Una recensione del free jazz hardcore dei Kossiga che funge da violenta lama per tagliare una questione che non invecchia mai riguardo la forma e l’improvvisazione, permettendoci di fare una breve biopsia sullo stato di salute dell’improvvisazione libera contemporanea.

Se esistesse nel mondo un cannocchiale talmente lungo da poter ammirare il passato e guardare alla storia del nostra pianeta, dall’antropocene ad oggi, potremmo scorgere un lungo filo conduttore che ha intessuto l’umanità da quando ha iniziato a creare e manipolare gli oggetti. Il concetto di forma è il filo d’Arianna citato, qualcosa di così potente da aggrovigliarsi con gli altri milioni che compongono la nostra realtà. Questa permette alla grafite delle nostre matite di tracciare dei solchi su un foglio che possono circonvolgersi in uno spazio reale come nei ritratti, o in uno immaginario creato dalla nostra fantasia. Possiamo notare una ricorrenza quasi archetipica di alcuni modi attraverso cui si manifesta la forma, parlo di giustapposizioni, accostamenti armonici, contrasti, simmetrie e lascio al lettore completare la lista per non scrivere un fastidioso ecc… Pensiamo a quanto le figure ci condizionino anche nel nostro piccolo quotidiano: una nuvola informe e passeggera può diventare nella nostra mente un cane o una gazzella. Questa esperienza è chiaramente qualcosa di soggettivo, ma teniamo a mente come la ricerca della forma sia invece qualcosa di puramente oggettivo. Nella musica il discorso non fa eccezione, sotto la doccia canticchiamo motivetti di un ritornello di otto battute e in un momento di noia percuotiamo le ginocchia imitando un groove di batteria costruito su due battute, non importa quanto veloce lo facciamo, tanto l’autobus che stiamo aspettando non arriverà prima! L’idea di ciclicità e ripetizione in musica sono due approcci primordiali che sintetizziamo schematicamente all’interno di una battuta, generando quindi una forma.
Questa pomposa riflessione dai toni di uno psicologo gestaltista che parla d’arte è necessaria per parlare di quelle musiche in cui la forma viene messa in discussione. Il disco Antropocene dei Kossiga, uscito nel novembre 2022 per l’etichetta Superpang è un album che a mio parere restituisce un possibile spaccato del rapporto tra improvvisazione libera nel jazz odierno e le sue forme. Dal primo ascolto si percepisce una forte impronta free jazz, tuttavia è possibile scovare un elenco di influenze, scomodando il punk, il prog, la noise, l’hardcore e altre etichette in una tiritera di generi affibbiati. Sottolineo come sia importante parlare di influenze siccome lo spirito del jazz è sempre stato quello di arricchirsi sia di stimoli sonori esterni, che provengono dal contesto in cui l’artista vive, sia di quelle pulsioni interne derivate dalle proprie esperienze: un mix che ha reso questa musica sempre al passo coi tempi e affascinante. Possiamo leggere questo atteggiamento musicale nel duo di Alessandro Cartolari (sax baritono) e Andrea Biondello (batteria), infatti provengono da un retroterra jazz, dove l’improvvisazione libera simboleggia soltanto la cuspide di una lunga amicizia che trova base solida già in Tesa Musica Marginale (2004) del gruppo Anatrofobia. La formazione sax e batteria non è una novità nel free jazz, il rimando più old school che mi viene in mente è sicuramente l’album Interstellar Space (registrato nel 1967 ma pubblicato nel 1974) di John Coltrane e Rashied Ali dove la flessibilità ritmica del batterista di Philadelphia si concilia con il bisogno espressivo dell’ultimo Coltrane, un Apollo 11 che ci porta oltre la luna, esplorando il resto del sistema solare. Se Interstellar Space ci lancia in un viaggio nello spazio, l’album dei Kossiga ci riporta al nostro pianeta. Infatti, l’Antropocene è il periodo geologico attuale della Terra e il videoclip di lancio dell’album, a cura di Cinzia Bertodatto, parla apertamente dello stato in cui riversa. La tracklist si compone di sette brani registrati in presa diretta presso il Rubedo Recordings di Torino per mano di Manuel Volpe. Ogni pezzo si chiama Modulo, una parola che lega indissolubilmente il mondo musicale a quello architettonico, un’armoniosa congiunzione che da forma a un pianeta d’improvvisazioni.
Seguendo la scia della metafora geometrica possiamo immaginare una piattaforma triangolare in cui troviamo tre modi di guardare a come i due improvvisatori costruiscono la loro forma. Un palco inusuale per struttura, dove al primo angolo ci sono brani come Modulo 11, Modulo 5 e Modulo 7. Questi ci offrono un breve assaggio del significato di Modulo, ovvero una figura, in questo caso musicale, che viene contornata e fa da base ossessiva e ripetitiva. In questi tre brani si percepisce questo eterno ritorno della figura iniziale, ma la particolarità sta nel modo in cui essa muta, evolvendosi in maniera inaspettata. Se Modulo 11 è una linea molto dritta in tal senso, già in Modulo 5 si nota una sorta di gaussiana in cui minuto dopo minuto il suono degenera arrivando a un climax del sax con un timbro granulare e rumoristico che implode su se stesso, lasciando infine spazio a un silenzio dipinto dai colpi delle bacchette sui piatti che rallentano fino a sparire. Modulo 7 è una spirale dalla potenza centrifuga, veniamo spinti tramite un tempo vorticoso fuori dal centro, verso i margini con un intermezzo rallentato scandito da colpi secchi, simili ai drop nel metal in cui il pubblico sarebbe legittimato a fare headbanging. Come ogni vortice il tutto ripiomba nel caos. Modulo 1 invece ci guida in un’altra espressione di forma, quella che si plasma nel dialogo tra due strumenti: la voce dell’interplay. I due personaggi in scena si muovono in un chiacchierare che crea un movimento tensivo di allontanamento e avvicinamento tra due linee che nel loro separarsi creano delle distanze acusticamente percettibili, simili a un contrappunto distinto, mentre nel loro avvicinarsi creano delle frenetiche masse sonore. Non dissimile dal modo in cui Modulo 3 ci presenta il rapporto dialogico nelle improvvisazioni libera, ma qui la batteria si riserva il ruolo di un pittore che crea uno sfondo puntillistico su cui si muovono le figure del sax rispetto alla collisione di pennellate di Modulo 1.

In questi due casi risalta all’udito la ferocia con cui si crea una tensione che spinge i corpi dei musicisti quasi al limite, volando su un tempo un tempo schizofrenico. Da un lato abbiamo il suono del sax baritono con le note che vengono aggredite, riverberate, saturate e distorte, un urlo grave che sembra provenire da uno strumento fatto di ruggine, un effetto timbrico che viene sostenuto dalla batteria con le continue e ossessive rullate, gli accenni di blast beat, i groove spezzati e quei colpi violenti sui piatti dal bordo fino alla campana. Le atmosfere piene di momenti sospesi e silenzi in cui la mente può deviare verso la contemplazione non sono assenti in quest’album. In Modulo 9 e Modulo 15 lo spazio si riempie di suoni onirici che crescono e svaniscono nel nulla grazie al sax che si alterna ai rumori feltrati della batteria che sfiora con delicatezza i piatti e piega le pelli su cui vibrano degli ululati lontani. In Modulo 9 il tempo si annulla in un pulviscolo di suoni rendendo impercettibile qualsiasi forma in quasi tutto il pezzo, ma costruendo un climax tensivo che porta a un finale denso, ma in Modulo 15 è l’opposto. In quest’ultimo possiamo udire dei vaghi echi di swing che scompaiono con la stessa velocità con cui appaiono, in un percorso di lenta ma continua dissoluzione sia delle figure che della dinamica. Il suono scivola verso un luogo lontano e nebbioso dove ogni figura che prima ci appariva definita diventa sfumata e dei contorni ormai non resta che una vaga sagoma.
In ognuno dei tre approcci con cui i Kossiga parlano il linguaggio dell’improvvisazione rimane lampante come la forma emerge sempre nel momento in cui esiste uno spazio e un tempo in cui ci muoviamo, non importa se sia stabile o meno. Ci piace raccontare come Il free jazz sia uno di quei capisaldi di espressione di massima libertà, la fuoriuscita anarchica da ogni schema e regola, nonostante non sia vero; il che non toglie magia alla musica, anzi! I Kossiga sono l’esempio di come la free form non è veramente free nel risultato, ma in quanto frutto di un modo di pensare che è libero. Cartolari e Biondello con Antropocene riescono a rimandare a una loro prospettiva personale di forma libera modulo dopo modulo. Io stesso scrivendo queste parole sono vittima della ricerca di una forma, ho provato a capire perché i moduli fossero tutti dispari e mancasse il numero 13. Mi piace tuttavia lasciare alla recensione dei margini definiti, ma privandola di alcuni tasselli piuttosto che darne una spiegazione. In sintesi, questa maledetta forma è ovunque e non c’è via di fuga, nemmeno “facendo le cose a caso” come alcuni sostengono… o almeno nel nostro pianeta, dall’antropocene ad oggi, semplicemente non ci siamo ancora riusciti.

Alessandro Fadalti ©

I nostri cd: il jazz, musica d’insiemi

Il jazz, musica d’insiemi, ma forse è meglio dire insieme per non creare ambigue assonanze con … l’insiemistica. Insieme di creatività, talento, “possesso” dello strumento, istantaneità interpretativa, capacità relazionale, qualità che sono a loro volta un “insieme” di altri elementi. Nelle note seguenti la musica d’insieme presa ad oggetto è quella di una rosa dei nuovi album incisi da organici più o meno infoltiti. Sono progetti diversi fra di loro, inoltre le formazioni cambiano a seconda di strumentisti e strumenti. Altra differenza, di tipo lessicale, è fra collettivi ed ensemble, i  primi più “paritari” nella relazione che avviene collettiva/mente, le seconde con una netta prevalenza della figura di bandleader, non il conductor autoritario della felliniana “Prova d’orchestra” ma un coach che “organizza” il suono indirizzandone le componenti verso un dato obiettivo. Nel jazz i maggiori spazi concessi all’improvvisazione rispetto ad altri generi musicali fanno si che chi “coordina” debba tenere sempre stretto il timone e sott’occhio la bussola. Come il capitano di una nave che riesce a domare in ogni frangente i flutti marini.

Gerardo Pepe – “Orchestrando piano” – Caligola Records.
Le composizioni di grandi pianisti jazz hanno dell’ineffabile negli iter creativi. Su quelli compositivi, non afferenti al solo inconscio, ci si può peraltro esprimere anche in rapporto, più o meno stretto, con lo stile pianistico. Gerardo Pepe, in Orchestrando piano (Caligola Records), testando l’orchestrabilità di sei brani scritti da altrettanti maestri del piano, ne ha perscrutato l’attitudine ad essere eseguite da un organico di piccola orchestra di dodici musicisti sulla base di suoi riarrangiamenti. “Nigerian Marketplace” di Oscar Peterson è il primo pezzo ad esser stato selezionato per la band comprendente Andrea Salvato (fl.), Daniele D’Alessandro (cl.), Federico Califano (alto s.), Giacomo Casadio (t. sax), Francesco Milone (b.sax), Antonello Del Sordo e Matteo Pontegavelli (tr.), Roberto Solimando (tr.ne), Saverio Zura (guit.), Filippo Galbiati (p.), Filippo Cassanelli (cb.) e Dario Rossi (dr.). A seguire “ We See” di Monk autore replicato in “Ask Me Now”. Va detto che finalità dichiarata di questo lavoro d’esordio del jazzista gravinese è il rendere omaggio ad alcuni grandi pianisti afroamericani proponendone una personale rilettura con sul leggio gli spartiti di  ”Song For My Father” di Horace Silver e “Passion Dance” di Alfred McCoy Tyner. Nello schieramento orchestrale da lui assemblato il pianoforte comprime il proprio protagonismo pur rimanendone perno essenziale secondo cooordinate rispettate anche in “Remembering Charles”, a sua firma, che chiude la tracklist a ridosso di “Three Bags Full” di Hancock. Non solo dunque una sinopsi tratta dal Real Book pianistico per organici allargati; e non un mero make up e neanche uno stravolgente trattamento chirurgico bensì una reinterpretazione coerente con i modelli, a dimostrazione di quanta potenzialità possiedano tuttora alcune gemme  di capiscuola del piano jazz moderno e contemporaneo.

Pietro Pancella Collective, “Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1” Abeat Records
Pietro Pancella Collective licenzia per Abeat Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1. Un progetto ambizioso questo del contrabbassista abruzzese,  figlio d’arte del pianista Tony Pancella,  se si pensa che il primo brano in tracklist, “Black Narcissus”,  venne inciso dal sassofonista Joe Henderson nel ‘77 con figure iconiche come Kuhn al piano, Jenny-Clark al basso, DeJohnette ed Humair alla batteria! Ma il ricercare nuove skyline musicali fa parte del bagaglio di un jazzista che si rispetti.  E poi se i partners si chiamano Giulio Gentile (pf), Christian Mascetta (guit.), Manuel Caliumi (alto) e Michele Santoleri (dr.) allora il salto non sarà mai più lungo della gamba. Il 5et si è prima impadronito, a seguito di lungo rodaggio, delle partiture  hendersoniane. Quindi ha ricongiunto i moduli del prefabbricato sulle stesse fondamenta sagomandoli per mezzo di arrangiamenti, assegnati secondo l’abbinamento Pancella-Henderson, Gentile-Shorter, Mascetta-Coltrane.  Tale procedere per assimilazione-architettura si ripete anche nei due brani di Shorter, “Witch Hunt” e “Nefertiti”, quest’ultima  registrata per il quintetto di Miles Davis, composizione fra le più eseguite fra quelle esposte nel cd.  Analogamente dicasi per le coltraniane “Lonnie’s Lament” e “Resolution-Pursuance” (da A Love Supreme).  Il gran lavorio sulle punte di chitarra e sax ha prodotto risultati interessanti, vedansi assoli e “strappi” che gli stessi intessono con piano e ritmica in “Afro Centric”, tratto da “Power To The People” di Henderson. La triarchia nera ha dettato stilemi jazzistici che il Collective ha fatto propri senza l’assillo di semplificare il complesso né di complicare il semplice.  Con lo scopo dichiarato di rendere un omaggio che non fosse solo richiamo, citazione o mero strizzare l’occhio agli originali bensì riformulazione aggiornata di un linguaggio musicale che ” trascende le parole” (Coltrane).

Marco Luparia, Masnä, L’autre collectif.
Il batterista Marco Luparia presenta in Masnä (L’autre collectif) un lavoro discografico in sestetto  con  Clement Merienne al pianoforte, piano preparato (e Bontempi), Sol Lèna-Schroll all’alto sax, Hector Lèna-Schroll alla tromba, Federico Calcagno ai clarinetti e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso.  La radice etimologica dal dialetto piemontese di Masnä è il termine bimbo. Si spiegano così le foto infantili sulla cover di questo album grondante nostalgia ideato nel quieto borgo di San Martino di Rosignano, ai piedi delle Alpi, al di qua dalla Savoia francese. Un habitat bucolico che ha ingenerato la ricerca del tempo perduto attraverso brusii fruscii rumeurs dimenticati. Essi tornano a rivivere rielaborati nell’incontro con altri musicisti con cui esplorare i canoni, da un punto di vista radicale, di antiche tradizioni quali il gagaku giapponese, il gamelan indonesiano, la musica carnatica indiana e quella sacra europea. Per una musica a/formale, di forme/non-forme, in cui la ricerca affida all’improvvisazione il ruolo-guida di riconnessione dei frammenti di un passato che gli anni hanno decostruito con il loro trascorrere. Le cinque composizioni su sette (Flock, Knup, Rapid Eye Movement, Teaper, Harm) dello stesso Luparia oltre “Etude  Campanaire” di Lèna-Schroll e “Wuh” di Calcagno, sono il frutto di un “fucina” musicale che, sotto il segno della temporalità  divisa da un ritmo spesso “concreto”, diventa  narreme di vissuto, placenta in cui nuotano i sogni che il soggetto narrante  interpreta.

Massimo Pinca – “Singing Rhythms, Pulsin Voices” – Dodicilune Records.

E’ un grand ensemble di nove elementi quello che il contrabbassista Massimo Pinca ha riunito per l’album Singing Rhythms, Pulsing Voices, prodotto da Dodicilune Records, label leccese come lui. Il lavoro, concepito nel mezzo della pandemia, è stato registrato tramite sovraincisioni tranne che per il Geneva Brass,  quintetto di ottoni che ha inciso direttamente in studio. Alle note del gruppo vanno assommate quelle del  4et  con Nicola Masson ai sax tenore e soprano, Gregor Fticar al rhodes, Paolo Orlandi alla batteria oltre a Pinca che si è alternato a basso elettrico contrabbasso e rhodes. Il collante principale delle due formazioni è dato dalla “voce pulsante”  di una scrittura che ha intessuto trame sonore “tono su tono”, non nel senso di tonalità, ma di coerenza timbrica e cromatica degli strati compositivi con gli spazi di libertà espressiva. Pinca, giunto a quest’esperienza overdubbing dopo il “solo” di Fragments (NBB Records 2021), è riuscito, in nove brani per un totale di un quarto d’ora di musica, nell’opera di incarnare un sound  naturale  anche ad un ascolto  pan  pot,  grazie anche all’apporto di musicisti che ne hanno condiviso l’approccio classico-jazz “ ed hanno inserito le loro meravigliose  tessere in un mosaico ad essi invisibile”. Il disco è stato realizzato con il contributo del dipartimento di cultura di Ginevra, città adottiva di Pinca.  Del Geneva Brass fanno parte  Baptiste Berlaud e Lionel Walter (tr. fl.), Cristophe Sturzenegger (horn), David Rey (tr.ne), Eric Rey (tuba).

Bertazzo/Francesconi  New Project Orchestra – “Playing  With Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen” – Caligola Records.                   
Non hanno più “l’acre odore di sigaretta” le canzoni di Jimmy van Heusen, “latecomer”, secondo Alec Wilder, affermatosi cioè più avanti rispetto ai primi grandi songwriter del 900, anche per ragioni anagrafiche.  All’autore della musica di “Here’s That Rainy Day”, “All The Way”,  “Darn That Dream” sono  state nel tempo dedicate diverse compilation fra cui quella del Reader’s Digest, in cui è partner di scrittura Johnny Burke (Timeless Favorites: Sunday Monday or Always. The Songs of Burke & Van Heusen), “blocco” che si affianca all’altro relativo alla collaborazione con il lyricist Sammy Cahn, a proposito del quale va segnalato almeno lo storico l.p. Emi di Frank Sinatra del ’91 (Sinatra Sings the Songs of Van Heusen & Cahn).   La sua discografia si arricchisce oggi di un titolo italiano,  Playing with Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen, di Francesca Bertazzo  Hart e Michele Francesconi  New Project Orchestra, edito da Caligola Records. Un lavoro dal giusto groove in cui ci si sposta a piacimento dall’atmosfera metropolitana alla traditional, dal soffuso al ritmicamente portante. Gli arrangiamenti, firmati dal pianista-direttore Michele Francesconi e dalla chitarrista-vocalist  Francesca  Bertazzo Hart, vengono dipanati con duttilità dai musicisti:  Trettel, tr./ Grata, tr.ne. /Menato, a.sax-cl. / Zeni, t.sax. / Beberi, t.sax b. cl. / Pilotto cb.b. / oltre al batterista Mauro Beggio in qualità di ospite. Focus dunque puntato su una categoria non certo sopravvalutata quale quella degli autori di song, nello specifico su un autore che brilla in melodiosità specie sui tempi pari, eccelle per sofisticate misure armoniche, spicca in ritmicità.  Caratteristiche che il disco “illustra” in undici brani, individuati fra le varie centinaia a firma di siffatto “Grande Artigiano” oltre a un paio scritti dalla leader, eseguiti esaltandone al meglio la “jazzabilità”.

Mario Rosini / Duni Jazz Choir- “Wavin’ Time” –  Abeat Records.
Wavin’ Time è l’album che Abeat pubblica con Mario Rosini  e il Duni Jazz Choir.  Dove il DJC, nato nel 2015 nelle classi del conservatorio Duni di Matera, con sezione soprani (Ceo/Rotunni/Lombardi), contralto  (Colangelo/ Razem/ Carrieri) e tenori (Schiavone/Giammarelli) non canta a cappella. Sottostanno infatti ai cori chitarra (Ruggiero), basso (Laviero), batteria (Parente), percussioni (Lampugnari, Ciaravella), sax (Menzella), trombe (Santoruvo, Todisco), trombone (Fallacara), flauto (Di Caterino) assortiti a seconda delle situazioni, spazianti dal cool fino al pop internazionale, per come delineate dal pianista nonché direttore ed arrangiatore Rosini.  Varia la tracklist di cover ed original.  Oltre a “A New Sunrise” in cui appare la firma di Rosini così come in “Ti sento così (per Sofia)” e “Wavin’ Time”, vi si ritrova una convincente versione corale di “Giant Steps” (un Coltrane vocalizzato è rintracciabile già in Lambert Hendrix & Bavan).  C’è poi “Four Brothers” di Giuffre, e si è in pieno vocalese stile Manhattan Transfer; ed ancora “Quando quando quando”, hit straincisa da vocalist che vanno da Humperdick  alla  Furtado. A  seguire un tuffo nel Motown con un paio di brani di Stevie Wonder – “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” e “Love Collision” –  ed il gustoso paragrafo italiano.  Quest’ultimo comprende,  oltre al citato successo di Tony Renis, “E la chiamano estate” di Bruno Martino e Franco Califano ed “I cieli in una stanza” dove si celebra il “matrimonio” fra l’evergreen di Gino Paoli e il soundtrack di  “Metti, una sera a cena” di Morricone con un arrangiamento che interseca sottilmente i due temi.  Da rimarcare in positivo “Black or White” di Michael Jackson (con B. Bottrell) di cui Mario Crescenzo dei Neri per Caso, nelle note di copertina, sottolinea l’iniziale “sentore progressive” che richiama verso il finale “la “salsa brava” della storica Fania All-Stars (la Motown latino-americana della musica Salsa)”.  Il disco reca il logo del Premio 2022 di “La Musica di Sofia”, assegnato da Guido Di Leone per conto della famiglia Bratta.

Amedeo Furfaro

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero

Dopo le numerose escursioni di Amedeo Furfaro intorno al jazz italiano, questa volta soffermiamo la nostra attenzione sulle novità che arrivano dall’estero.

Arild Andersen Group – “Affirmation” – ECM
Arild Andersen, contrabbassista norvegese, è uno di quei rari musicisti che non sbaglia un colpo. Ogni suo album è frutto di lunga meditazione quindi di sicura riuscita…almeno dal punto di vista artistico, ché come sappiamo il gradimento del pubblico è altra cosa. Ad accompagnarlo in questa nuova impresa musicisti quasi tutti molto più giovani: il pianista quarantasettenne Helge Lien, l’altro quarantasettenne Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. Il repertorio è suddiviso in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II; a chiudere l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, “Short Story”. A questo punto avrete già capito che l’album si basa su una lunga improvvisazione di gruppo che, però, nulla ha a che vedere con le infocate sedute del free storico. Qui l’atmosfera è completamente diversa, intimista, meditativa con i quattro musicisti che dimostrano di conoscersi assai bene, districandosi come meglio non potrebbero nelle pieghe di una tessitura tanto lieve quanto complessa, in cui le pause, il silenzio hanno un loro perché. L’ultimo brano, “Short Story”, si basa su una melodia splendidamente scritta dal leader e altrettanto splendidamente eseguita dai quattro, con sassofonista e pianista in primissimo piano.

Onur Aymergen Quintet – “Lunar” – Losen
E’ con vero piacere che vi presentiamo questo gruppo proveniente dalla Turchia e composto da Onur Aymergen leader alla chitarra, Can Çankaya piano, Tolga Bilgin tromba, Apostolos Sideris contrabbasso, Turgut Alp Bekoğlu batteria. Anche se ancora poco noto nel nostro Paese, Onur Aymergen può già vantare una solida preparazione: ha cominciato a studiare chitarra classica con Özhan Gölebatmaz approfondendo anche il flamenco classico con Suat Demirkıran, fino a quando ha deciso di convogliare i suoi interessi verso il rock, il funk e il jazz. In questo suo album d’esordio, Onur dimostra di avere le carte in regola per un futuro luminoso: intendiamoci, nulla di trascendentale, ma un musicista che conosce assai bene lo strumento, il linguaggio che adopera, il patrimonio musicale del suo Paese che ogni tanto fa capolino dalle linee esposte dal gruppo. E non a caso si è citato il gruppo in quanto, nei suoi sapidi arrangiamenti, il leader ha lasciato ad ogni compagno d’avventura lo spazio per porsi in evidenza. E quanto sin qui detto appare evidente sin dal primo brano in programma, “Yeditepe”, scritto, così come gli altri sette pezzi in repertorio, dal leader che evidenzia, in tal modo, una notevolissima capacità di scrittura.

Jakob Bro, Joe Lovano –“Once Around The Room” – A Tribute to Paul Motian” – ECM

Il chitarrista Jakob Bro e il tenorsassofonista Joe Lovano sono i cofirmatari di questo album esplicitamente dedicato a Paul Motian, già loro compagno in tante avventure. Ad assecondare i due, i contrabbassisti Larry Grenadier e Thomas Morgan, Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Un organico anomalo, quindi, per una musica che di anomalo nulla propone data la maestria dei singoli e quindi dell’intera formazione. Lovano e Motian hanno collaborato per una decina d’anni e personalmente ricordiamo di averli ascoltati, tra l’altro, a Stavanger in Norvegia nei primissimi anni ’80. E ciò potrebbe spiegare assai bene il perché di questo album. Quanto poi all’immediata ricerca del drumming di Motian nella musica dell’album, si tratta di operazione, come al solito, assai difficile anche perché soprattutto Lovano non ha alcuna intenzione di scrivere una pagina calligrafica. Anzi! Ed è lo stesso sassofonista a spiegare cosa per lui significhi questo album: “Con Motian suonavamo degli standard ma cercavamo in ogni modo di farli nostri. Ecco noi suonavamo con fiducia con attitudine, con un approccio che potesse rendere al massimo le nostre intenzioni. Ecco è proprio questo stesso feeling che ho tenuto durante la registrazione dell’album”. Diverso l’atteggiamento di Jakob Bro che ha scritto due brani di sapore quasi opposto in cui si avverte chiaramente una profonda malinconia, una tristezza di fondo per la scomparsa di Motian. Qui il gruppo abbandona lo spirito improvvisativo che ha caratterizzato i primi tre pezzi, per immergersi nella scrittura di Bro che trova sia in “Song To An Old Friend” sia in “Pause” una dolce melodia. Chitarra e sassofono dialogano soavemente ben sostenuti da bassi e batterie. Nel brano conclusivo particolarmente apprezzabile il lavoro del chitarrista che disegna con delicatezza una splendida e toccante linea melodica. Ad intervallare i due brani, l’unica composizione di Paul Motian, “Drum Music”, caratterizzata da una lunga intro disegnata dai due batteristi che lasciano il posto a sax e chitarra, quest’ultima con una sonorità assi vicina a quella del sax per effetto dell’elettronica.

Eik Trio – “Eik Trio” – Losen
Sempre prodotto dalla norvegese “Losen” ecco questo nuovo trio composto dal pianista Ole Fredrik Norbye, dalla vocalist Elisabeth Karsten e dal contrabbassista John Børge Askeland, cui si aggiungono alcuni dei migliori jazzisti norvegesi ed europei quali il sassofonista Bendik Hofseth al sax tenore in tre brani, il trombettista Nils Petter Molvaer nel celeberrimo “I Love Paris” e il fisarmonicista Heine Bugge in “For Once in My Life”, mentre quasi tutti gli arrangiamenti sono curati da Fredrik Norbye. Dai titoli citati avrete forse già capito che tutto l’album è incentrato sulla riproposizione di standard, dieci pezzi che davvero hanno fatto la storia della musica che ci piace, interpretati senza alcuna voglia di sperimentalismo ma con il massimo del rispetto che meritano. Ferma restando la capacità della cantante di rendere al massimo ogni linea melodica, ogni più piccolo risvolto di queste immortali melodie, tra i brani siamo rimasti particolarmente colpito dal già citato “I Love Paris” per il fraseggio del pianista Ole Fredrik Norbye e il maiuscolo apporto di Nils Petter Molvaer

Mette Henriette – “Drifting” – ECM
Trio di grande spessore quello che si ascolta in “Drifting”: a guidarlo è la sassofonista Mette Henriette coadiuvata da Johan Lindvall al pianoforte e Judith Hamann al violoncello. In repertorio quindici brani tutti scritti dalla sassofonista (l’ultimo in collaborazione con Lindvall). Dopo l’album d’esordio, registrato sempre per ECM nel 2013 ma pubblicato due anni dopo, la sassofonista norvegese torna sempre in compagnia del pianista ma con l’aggiunta della validissima violoncellista Judith Hamman. L’atmosfera è quanto mai rarefatta con i tre che letteralmente distillano ogni singola nota che acquista così un peso specifico. I brani si susseguono legati da un filo ben preciso che si snoda attraverso le sapienti mani dei tre musicisti. Così se l’impianto melodico è spesso affidato alla leader, il pianoforte si incarica di sottolinearne le parti salienti con il violoncello impegnato in una non facile operazione di ricucitura. Il tutto a disegnare un quadro difficilmente classificabile: certo non si tratta di jazz nell’accezione più usata del termine, né di musica classica tout court…piuttosto di una sorta di esplorazione sonora che induce anche l’ascoltare a guardarsi dentro, a lasciarsi andare alle sensazioni che la musica gli propone. Senza preoccuparsi di capire dove la pagina scritta lascia il posto all’improvvisazione. E se anche chi ci legge seguirà questa metodologia, siamo sicuri che l’album risulterà di notevole interesse.

Anders Jormin, Lena Willemark – “Pasado en claro” – ECM
Album molto impegnativo questo “Pasado en claro” in cui il contrabbassista svedese Anders Jormin, in collaborazione con la vocalist, violinista e violista Lena Willemark guida un quartetto completato da Karin Nakagawa al koto e Jon Fält alla batteria, già con il leader nel trio di Bobo Stenson. La complessità di cui in apertura è determinata dal fatto che il leader ha voluto trarre ispirazione da una serie di poeti tra i più diversi della letteratura mondiale: ecco quindi testi da antiche fonti cinesi e giapponesi, accanto a poeti scandinavi contemporanei, senza per questo trascurare lo scrittore messicano Octavio Paz (dalla cui opera è tratto il titolo dell’album) e il “nostro” Francesco Petrarca. Insomma un panorama di riferimento da far apparire impossibile una qualsivoglia unità dell’album E invece il quartetto ci riesce grazie soprattutto all’interpretazione della vocalist. Su un tappeto costituito da una valida struttura sonora ben scritta e altrettanto ben arrangiata, ricca di nuances, Lena Willemark si produce in una prova di grande maturità alternando l’uso della voce all’altro strumento a sua disposizione (il violino); esemplare al riguardo “Tho Woman of the Long Ice” musica e testo della stessa Willemark . Insomma è come se nella voce di Lena si ritrovasse allo stesso tempo, il passato, il presente e il futuro di una musica il cui flusso mai si interrompe.

Edi Köhldorfer – “The Riddance” – Ats Records
Personaggio sicuramente interessante questo chitarrista austriaco Edi Köhldorfer il quale, dopo aver studiato chitarra classica, ha intrapreso la strada del musicista professionista suonando nei contesti più vari, dalle orchestre classiche al folk, dal funk al pop…fino al jazz collaborando con alcuni artisti di fama mondiale come Biréli  Lagrène, Dee Dee Bridgewater, Stephane Grappelli. Di qui una personalità compiuta non solo a livello musicale, esplicitata appieno in questo album che risponde ad una grande esigenza di fondo: evidenziare quanto può accadere quando musicisti di provenienza diversa si riuniscono per un comune progetto, e soprattutto liberarsi dalla schiavitù di una pandemia che ha costretto all’immobilismo moltissimi artisti. Per raggiungere questo obbiettivo, Edi ha contattato 26 musicisti di 4 continenti e nessuno si è tirato indietro dando vita ad una produzione assai particolare. Ascoltando l’album, in effetti, non si può non rilevare la gioia, la forza, l’entusiasmo il dinamismo che promana da questi brani cosicché è davvero arduo sceglierne qualcuno in particolare. Tuttavia dobbiamo ammettere che ci hanno particolarmente colpiio “Goodbye Armando” un sentito omaggio a Chick Corea con un fantastico assolo del pianista Ui Datler richiamante “La Fiesta” e  “Midwest” impreziosito da un lungo e centrato assolo del bassista colombiano Juan Garcia-Herreros meglio noto come “The Snow Owl”, che suona un basso elettrico personalizzato a sei corde; all’età di  37 anni, Juan ha ottenuto una nomination, per il Latin Grammy Award nella categoria Best Latin Jazz Album, per il suo terzo CD intitolato “Normas”.

Benjamin Lackner – “Last decade” – ECM
Probabilmente il pianista tedesco Benjamin Lackner non è molto noto al pubblico italiano anche se può già vantare un’invidiabile carriera che lo porta ad esordire oggi in casa ECM. Lackner è tornato da poco a Berlino, dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti dove ha avuto modo di studiare con “maestri” quali Charlie Haden e Brad Mehldau. Per questo album il pianista è affiancato da tre grandi artisti: il trombettista Mathias Eick, il batterista Manu Katché e il contrabbassista Jérôme Regard, già con Lackner dal 2006. Il risultato c’è ed è a tutto tondo. In effetti appare chiaro sin dalla primissime note come l’intendimento principale del trio sia quello di proporre una musica caratterizzata dalla ricerca della linea melodica. Una linea che risulti dolce, fors’anche accattivante, ma non per questo banale o scontata. Di qui un repertorio di nove brani (tutti composti dal leader ad eccezione di “Emile” scritta da Jérôme Regard) in cui la musica scorre in perenne equilibrio fra i quattro, con nessuna voglia particolare del leader di mettersi in luce ché anzi molto spesso ascoltiamo in primo piano la bella voce della tromba di Eick sempre sorretta da una sezione ritmica assolutamente funzionale all’intento del leader. Tra i brani particolarmente suggestivo e sofisticato è “Hang Up on That Ghost” tutto giocato su un fitto dialogo tra pianoforte, batteria e contrabbasso mentre Mathias alterna la sua voce a quella della tromba con effetti di estrema delicatezza.

Ieremy Lirola – “Mock the Borders” –
Dopo “Uptown Desire” il contrabbassista francese si ripresenta al pubblico con questo “Mock the Borders” in cui è possibile ascoltare anche il piano di Maxime Sanchez, il sax di Denis Guivarc’h e la batteria di Nicolas Larmignat, questi ultimi due già presenti nel citato lavoro “Uptown Desire”.
Il titolo è quanto mai esplicativo: “Ridicolizza il confine” appare come una sorta di manifesto programmatico che dovrebbe informare il senso dell’album. Ma è davvero così? Francamente non ci sembra che l’artista abbia voluto andare oltre la lezione di Coleman; piuttosto la sua idea, conclamata in musica, è quella di una libertà che prescinda dalle etichette, dalle mode, per dare pieno diritto di cittadinanza ad ogni forma espressiva. Insomma per Lirola la musica tonale può coesistere con escursioni nel mondo del free. Di qui un album dai colori cangianti, dalle atmosfere variegate in cui si avverte l’urgenza di nulla trascurare delle passate esperienze: guadare avanti non significa necessariamente trascurare ciò che c’è stato e che continua ad esserci. Insomma una visione oserei dire filosofica e non solo musicale che informa questo interessante lavoro. Tra i vari brani eccellente l’apertura con “Mock the lines” impreziosito dal lavoro del sassofonista. Ma nello svolgimento dell’album il leader lascia ampio spazio ai compagni d’avventura che hanno così modo di esprimere appieno le proprie potenzialità.
                                                                 
Stephan Micus – “Thunder” – ECM
Nessuna sorpresa per questo ennesimo ottimo album di Stephan Micus, un vero ricercatore di note che abbiamo imparato ad ammirare oramai nel corso di lunghi anni. Questa volta il suo interesse si focalizza, come da lui stesso sottolineato, sulla musica dei monasteri tibetani, meta di molte visite da parte del musicista. Stephan rimane particolarmente colpito dal particolare strumento che si usa in queste cerimonie, il dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri, cui affianca il ki kun ki, uno strumento a fiato – ci spiega lo stesso Micus – molto semplice, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in alcune foreste siberiane del lontano Oriente e il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Mescolate questi straordinari elementi e la ricetta è pronta: una musica ancora una volta affascinante, dai suoni allo stesso tempo primordiali e di attualità che ci trasportano in un mondo virtuale apparentemente alla nostra portata ma che mai riusciamo ad abbracciare davvero. E credo sia questo il segreto di Micus: sintetizzare gli universi musicali più disparati per ricondurli ad una unità senza spazio, senza tempo ove solo il suo credo ha diritto di cittadinanza. Per tornare al contenuto dell’album è comunque lo stesso Micus a fornirci una chiave di lettura ove afferma che l’album è dedicato alla grande famiglia delle divinità dei tuoni cui hanno creduto intere popolazioni con la speranza che il loro distruttivo potere possa in qualche modo essere placato dalla musica.

Arvo Pärt – “Tintinnabuli” – Billant Corners
Con il termine “Tintinnabuli” ci si intende riferire allo stile compositivo creato dal compositore estone Arvo Pärt, introdotto nella sua “Für Alina” (1976) e riutilizzato in “Spiegel im Spiegel” (1978).  Caratteristiche che ritroviamo appieno in questo splendido album che vede come protagonisti Jeroen van Veen al piano, Joachim Eijlander al violoncello e in un brano la moglie di Jeroen, Sandra van Veen, anch’essa pianista. L’album è una sorta di summa delle caratteristiche che hanno sempre connotato la musica di Arvo Pärt, vale a dire la quiete estatica e il saper racchiudere lo spirito dei tempi grazie anche alle   esperienze mistiche con la musica dei canti religiosi. Risultato: composizioni senza tempo che appaiono in egual misura antiche e contemporanee, religiose e profane, non immuni da una marcata influenza da parte del movimento minimalista. L’album si apre con “Fratres” cui fa immediatamente seguito uno dei brani più importanti di Arvo, quel “Für Alina” cui si è già fatto cenno. “Ukuaru Valss” ci fa conoscere un lato più “leggero” della personalità di Pärt mentre il conclusivo lungo “Partomania” è preceduto da “Spiegel im Spiegel” anch’esso citato in precedenza quale pietra miliare nel percorso compositivo dell’artista estone: ascoltandolo ancora oggi, dopo tanto tempo, impressiona il modo in cui le note sono letteralmente distillate una dopo l’altra a conferma di una maestria compositiva difficilmente eguagliabile.

Sebastian Rochford, Kit Downes – “A Short Diary” – ECM

Ecco un album non facile da recensire in quanto gli usuali strumenti che si adoperano per illustrare una produzione discografica, in questo caso non sono sufficienti. In ballo ci sono, infatti, motivazioni che vanno ben al di là del fatto musicale e che coinvolgono direttamente i sentimenti più profondi di Rochford, non a caso compositore di tutti i brani in programma. In effetti l’album è una appassionata e sentita dedica che il cinquantenne batterista scozzese rivolge al padre, Gerard Rochford, grande poeta morto nel 2019.  Alla luce di questa realtà, la musica assume una valenza tutta particolare. E’ facile immaginare come l’autore, nello scrivere, si sia lasciato andare ai ricordi della sua infanzia, degli anni trascorsi con il padre e di ciò che questo ha voluto dire per la sua crescita. Di qui l’originalità di un discorso che ha una sua compiutezza dall’inizio alla fine, ben sorretto dal partner di Rochford, ovvero Kit Downes che in precedenti occasioni aveva evidenziato tutto il suo talento. Talento che qui si manifesta nell’aver saputo mirabilmente arrangiare il tutto costruendo un coinvolgente percorso melodico-armonico in cui non esageriamo affermando che sotto alcuni aspetti ascoltare questo album è come sfogliare un album le cui pagine sono costituite dai ricordi dolcemente custodite da Sebastian. Quanto ai brani particolarmente significativo “Our Time Is Still”: un pezzo essenziale, scarnificato fino al limite massimo, tutto giocato sulla sottrazione ma con una carica di tristezza, di emozionalità, di sentimento davvero toccante.

Rubber Soul Quartet – “Something” – Losen

E’ ancora possibile eseguire in chiave jazzistica un repertorio ‘beatlesiano’ senza scadere nel già sentito, nello scontato? Certo che sì, ma si tratta sicuramente di un’impresa estremamente complessa dato che i brani dei Beatles oramai da molti anni sono entrati nel repertorio di grandi jazzisti. A provarci, adesso, sono quattro musicisti norvegesi, Bård Helgerud chitarra e vocale, Håvard Fossum sax, flauto, clarinetto, Andreas Dreier contrabbasso e e vocale, Torstein Ellingsen batteria e percussioni. In cartellone, come già accenato, undici composizioni dei Beatles per un viaggio all’indietro che si preannuncia tanto entusiasmante quanto colmo di insidie. Il quartetto cerca di evitare gli scogli proponendo una chiave di lettura originale: combinare le melodie ben note con arrangiamenti che si rifanno espressamente alla lezione dei grandi jazzisti made in USA, il tutto condito da una forte carica di swing e una buona dose di improvvisazione. Obiettivo raggiunto? Francamente non del tutto in quanto, indipendentemente dall’arrangiamento, la carica melodica dei brani è troppo forte cosicché resta lì, a farla da padrona e quindi a spedire in secondo piano esecuzione e arrangiamento, a meno che non si tratti davvero di grandi musicisti quali, tanto per fare due soli nomi, Brad Mehldau e Sarah Vaughan

Salon Odjilà – “TangoRomaBalkanJazz” – ATS Records

Un’elegante mistura di oriente e occidente, di jazz e folk, di euforia e malinconia definisce il clima di questo album interpretato da un quartetto di assoluto livello: Wolfgang e Werner Weissengruber sono multistrumentisti che oramai da anni si dedicano con passione al jazz, Manuela Kloibmüller è fisarmonicista che frequenta con assiduità sia i terreni classici sia quelli jazz nonché vocalist di riconosciuto spessore, Matthias Eglseer  è batterista fantasioso e preciso (lo si ascolti, ad esempio, in “Cetvorno Sopsko Horo”). In repertorio tre classici di Piazzolla, un originale di Wolfgang Weissengruber e sei ‘traditional’. Ciò premesso la musica rispetta perfettamente le premesse contenute nel titolo vale a dire un tango ma con quel forte imprinting che caratterizza la musica balcanica. Ciò grazie ad arrangiamenti particolarmente indovinati che riescono a valorizzare appieno l’originalità del gruppo anche quando si avventura su pezzi non sempre consigliabili. E’ il caso dei tre brani di Piazzolla e in particolare di “Libertango” il brano forse più celebre del compositore argentino: introdotto dal contrabbasso, il brano prende man mano spessore con la Kloibmüller che si produce in un vibrante assolo ben sostenuta da tutto il gruppo per una interpretazione convincente.

Solis String Quartet & Sarah Jane Morris – “All You Need Is Love” – Irma
E dopo il cd del Rubber Soul Quartet ecco un altro album interamente dedicato ai Beatles. Ad interpretare le melodie di John Lennon e Paul McCartney è però questa volta una delle voci, a nostro avviso, più belle e convincenti dell’intero panorama vocale internazionale. Oramai sulla cresta dell’onda da molti anni, la Morris mai delude; chi scrive l’ha sentita in concerto svariate volte e ha sempre trovato un’artista straordinariamente generosa, capace di interpretare ogni brano alla sua maniera andando a visitare anche le più intime pieghe delle melodie senza trascurarne la valenza ritmica. E la stessa cosa accade anche questa volta: la vocalist affronta ogni tema con gande rispetto ma allo stesso tempo con la sicurezza che le deriva da tanti anni di carriera. Di qui interpretazioni che senza alcunché togliere all’originale fascino, rivestono i brani di una veste originale. Il che, non sarebbe stato possibile, se la vocalist non fosse stata adeguatamente supportata da uno straordinario Solis String Quartet, al secolo Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio, violini, Gerardo Morrone viola e Antonio Di Francia cello e chitarra, con quest’ultimo impegnato in una preziosa opera di ri-arrangiamento che non ha fatto sentire la mancanza di quella sezione ritmica, viceversa tanto importante nella produzione originale. Tra i brani particolarmente riuscita la versione di “The Fool on The Hill” che resta una delle più belle composizioni dei Beatles.

Gerlando Gatto

LE BAND DEI QUATTRO

Il 4et, nel jazz, è una formazione intermedia fra solisti/ combo e gruppi più nutriti nonché ensembles ed orchestre. Una “centralità” che garantisce sia snellezza che ricchezza di suoni oltre comunque ad una completezza che dipende dalla gamma strumentale e dalle caratteristiche dei musicisti.  A seguire segnaliamo una sestina di nuovi dischi di “band dei quattro” dai quali emerge varietà di proposte e combinazioni. Il 4 non sarà un numero perfetto ma a guardare la storia del jazz verrebbe da pensare che certi postulati sulla presunta imperfezione sono … imperfetti. Oltretutto il quattro in numerologia simboleggia realtà concretezza solidità nonché la precisione del quadrato e il senso del moto che dà il quadrilatero; ed ancora i quattro punti cardinali est ovest nord sud i quali orientano tanto jazz in circolazione.

Del Piano/Olivieri/Mazza/Marini, Double 3, Caligola Records

L’album Double 3 (Caligola) è a nome di quattro musicisti in quanto trattasi per così dire di un disco-matrioska. Dalla quaterna di jazzisti che vi concorrono infatti vengon fuori due trii avant-garde dalla stessa asse (più che sezione) ritmica, con Roberto Del Piano al basso elettrico e Alberto Olivieri alla batteria nonché  all’ alto e voce Cristina Mazza nei brani “Cane di sabbia”, “Forgotten Names”, “Beauty is A Rare Thingdi Ornette Coleman e “Double Moon”nonché il baritono/flauto/piano di Bruno Marini in “Endemic”, “Yogi”, “Brazz!”, “Flute and Cats”, “Sunset  Enigma”. Nelle esecuzioni non si avverte più di tanto l’alternanza dei cambi che non vanno a mutare l’ossatura dell’insieme. C’è poi che le composizioni sono firmate da chi vi partecipa. Verrebbe quasi da pensare che tre più tre potrebbe fare quattro se non ci fosse la matematica ad ostacolarne l’addizione e l’opinione. O più semplicemente che non c’è 3 senza 4et in questo lavoro di frammischi fra volute (in)esattezze infiorate dagli sminuzzamenti metrici della batteria e dai voli di calabrone del baritono, dalle acrobazie del  basso e dai volteggi vocali della sassofonista.

Canova Trio feat. Fulvio Sigurtà, Agata, Filibusta Records
Agata, pietra della famiglia dei quarzi, è l’azzeccato nome di battesimo scelto per l’album del Canova Trio. Secondo la pianista e vocalist Elisa Marangon tale minerale ha qualità vicine alla musica grazie a geometrie e tonalità che spaziano dal bianco al verde, dal muschiato al pizzo blu.  E’ così pensando che lei leviga un iridato e irradiato intaglio jazzistico assieme alla bassista Roberta Brighi ed al batterista Massimiliano Salina. Al trio si aggiunge talora il trombettista Fulvio Sigurtà in qualità di ospite, apprezzato da chi scrive in “Circles in the Sand” di Svensson e Castle. Altri pezzi – “Very Early” di Bill Evans e “Footprints” di Shorter – sono eseguiti utilizzando, della tavolozza timbrica, le marcature più calde e brillanti. Due composizioni di Jobim – “Chovendo na roseira” eFalando de Amor” –  valorizzano la trasparenza della voce della Marangon che dà il massimo, a livello di scrittura, in “Les Trois Soeurs à la plage”, uno degli originals (su undici complessivi) di cui quattro da lei firmati e due cofirmati con i colleghi del trio (plus guest). La folgorazione deriva dal dipinto “Las Tres Hermanas en la playa” del pittore spagnolo Joachim Sorolla, impressionista dal tratto luminista. Per una musica che, nel riprodurne i lineamenti,  si insinua, nei contrasti ombra-luce, en plein air.

Giovanni Benvenuti , An Hour Of Existence, AMP Music & Records
Il tenorista senese Giovanni Benvenuti nell’album An Hour Of Existence (AMP) coinvolge la propria band composta di altri tre musicisti: il pianista tedesco Christian Pabst, il contrabbassista Francesco Pierotti e il batterista Dario Rossi. Il lavoro discografico si rifà ad un racconto di fantascienza in cui uno dei protagonisti, non più in vita, si materializza per un’ora all’anno. In quel breve lasso di tempo deve scegliere come muoversi, se viverlo semplicemente o imprimervi in qualche modo una svolta.  Un po’ come nel film “Momenti di trascurabile felicità” di Daniele Luchetti in cui Pif torna sulla terra, dal paradiso, per poco più di un’ora, per risolvere le pendenze sospese ovvero riassaporare  momenti  felici. Dal canto suo Benvenuti, in un’ora circa di musica, si gioca bene le carte a disposizione. I sette brani originati da questa visione fra new age e science fiction, per quanto immaginifici siano – come “King’s Mustache” o “General Krottendorf” – e per quanto risentano di influssi extrajazzistici – le scale arabeggianti del n.5, quello che dà titolo al cd – si muovono in un contemporary che malassa materiali vari dallo svolgimento ritmico mosso e plurilineare nella modulazione melodica del sax. Il disco avvicina storia e fantascienza sul terreno jazzistico per come già emerso nel precedente album Paolina and The Android, accolto favorevolmente dalla critica. Lì due androidi avveravano il mancato incontro di un paio di secoli prima fra il poeta Keats e la Bonaparte. Nel nuovo album i personaggi sono vari come la narrazione. Così come la musica del 4et.

ABQuartet, Do Ut Des, Red & Blue.
Guido D’Arezzo, dopo aver inventato attorno al Mille la moderna notazione musicale, nell’assegnare i nomi alle note, non avrebbe immaginato che nel 1972 un gruppo di rock progressivo come i New Trolls avrebbe chiamato un proprio l.p. Ut, termine che, oltre all’avverbio affinché, indica il Do nell’ars musica.  Ancor meno il teorico avrebbe pensato che, nel terzo millennio, un quartetto jazz come l’ABQuartet avrebbe approntato un album con sostrato latino (non latin, si badi bene) intitolandolo Do Ut Des per indicare non tanto il significato comune di interscambio bensì il Do Do Re bemolle (traduzione del detto in gradi della scala temperata in base alla denominazione latino-germanica). La frase, volendo, potrebbe riferirsi al rapporto fra i musicisti che “donano” invenzioni allo spettatore che li ricambia con il proprio (ap)plauso. Od anche potrebbe simboleggiare il “contratto” che i musicisti stipulano nel formare un gruppo o addirittura rimandare ad un’idea di interplay come “obbligazione” e cioè musica praticata in forma pattizia in cui ogni strumento “dà il la” ad un altro aspettando una risposta per generare nell’insieme un’armonia complessiva.  Il pianista Antonio Bonazzo, il clarinettista Francesco Chiapperini, il contrabbassista Cristiano Da Ros e il batterista/percussionista Fabrizio Carriero hanno realizzato sette brani circondati da tale aura medievale già a partire da titoli come “Ut Queant Laxis” dove la prima sillaba Ut è la prima delle note di un metà verso (emistichio, non metaverso) seguita da Resonare Fibris/Mira gestorum/Famili tuorum/Solve polluti/ Labii reatum/Sancte/Iohannes (Ut/Re/Mi/Fa/Sol/La/S/I). Da altri brani come “Lux Originise “Dies Irae” si percepiscono i frequenti cambi di registro acustico e di gamma modale che i “trovieri” adattano,  girellando fra l’alleluiatico ed il melismatico, compenetrando, in tal guisa, la storia della musica  all’attuale vita artistica “mondana”.

Zhu Quartet, GINKGO, Workin’ Label.
Il ricordo di una pianta di ginkgo biloba che Alberto Zuanon, contrabbassista, osserva oramai cresciuta, nella stagione dell’autunno, fa da stimolo iniziale all’album Ginkgo, inciso per Workin’ Label con lo Zhu Quartet: Michele Polga, saxtenorista, Paolo Vianello, pianista, Stefano Cosi, batterista e ovviamente il leader contrabbassista.  Piant’antica, la ginkgo biloba, che ha infuso di sé il title-track del cd, brano dalla forma-canzone che sa espandere un’idea di serenità. In “Creative Process” la mente dell’Autore (e quella degli Interpreti) procede, nel ristrutturare dati e impulsi di partenza, a trasformarli in flusso sonoro. “Sabato pomeriggio con Tommaso” è composizione delicata dedicata ad un allievo che nel confronto col maestro rivela tutta la propria curiosità e devozione. “Agitato” guarda al navigante che affronta il mare tempestoso, il che in musica è rappresentato dagli strumenti che alzano il livello e l’altezza delle proprie onde sonore, amplificando certi contrasti ritmica-piano/sax già ascoltati in “Costante”. Il più placido “2022” è un personalissimo “Le Quattro Stagioni” in sunto jazz impresse nell’anno che è appena tramontato. Chiudono la decade di titoli il nostalgico “Altri tempi”, l’atrabile “ Prima del sonno” e “Laguna”, ispirato dalla visione di quella veneta.   Un lavoro, insomma, che si annuncia invitante già a partire dall’”Intro”, meritevole di essere diffuso anche in circùiti, ove attivati, di “disc/crossing”.

Marco Vavassori feat. Lincetto/Smiderle/Uliana,  Walking with Bob, Caligola Records.
Buone nuove dal North East jazzistico italiano. Ed è ancora Caligola Records a consegnarci novità discografiche che denotano l’ indubbia vitalità musicale in quell’area. E’ la volta del contrabbassista-compositore jesolano Marco Vavassori, con alle spalle brillanti studi al Conservatorio di Rovigo, che pubblica Walking with Bob, il suo primo album da leader.
Accanto a lui ben figurano tre musicisti legati da solido legame di amicizia e cioè il clarinettista Michele Uliana, il pianista Alberto Lincetto e il batterista Enrico Smiderle. Un quartetto, dunque, che fa già le dovute presentazioni con il primo degli otto brani in tracklist, il lirico “Hocking”, mettendo in scena un sound  che impasta idee permeate di solare cantabilità. Il successivo “Sognando” ma ancor più l’alveo mediterraneo di “Shukran” e quello balcanico in “Kurkuma”, lasciano trasparire una certa sensibilità verso le arie folk.  “Hare” si caratterizza perché a un certo punto contrabbasso e piano si dispongono a sezione “ritmica” nel supportare batteria e clarinetto mentre “InContra” ha  tema ed impro insistenti su un giro di accordi iterante e crescente in intensità graduale nei circa otto e passa minuti di musica fiondante. In “J. Be Blues” il gruppo pare indossare un visore virtuale che guarda al passato, al tempo di Jimmy Blanton, antesignano di tanti contrabbassisti. Il conclusivo “Francesco’s Smile” ha risvolti nordeste, per rimanere al termine geografico già nominato.  Insomma un walking, quello del contrabbasso, verso gli itinerari sonori più svariati ed imprevedibili.

Amedeo Furfaro

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero e due note di classica

UNO SGUARDO ALL’ESTERO

Wolfert Brederode – “Ruins and Remains” – ECM
Questa suite per pianoforte, quartetto d’archi e percussioni, ha un preciso significato storico in quanto è stata composta da Wolfert Brederode nel 2018, in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Da quell’anno al 2021 quando la suite è stata registrata dal pianista Wolfert Brederode coadiuvato dal percussionista Joost Lijbart e dal gruppo d’archi olandese Matangi Quartet la composizione ha visto alcuni cambiamenti grazie alla stretta collaborazioni fra i musicisti. In effetti Brederode aveva avuto in passato occasione di collaborare sia con il Matangi Quartet sia con il percussionista presente nei suoi gruppi sin dal 2004. Lijbart è un esponente del “nuovo” jazz caratterizzato da una profonda e radicale improvvisazione ed è riuscito a portare questa cifra stilistica all’interno di composizioni che, pur privilegiando una certa ricerca melodica, non disdegnano di riservare spazi significativi all’improvvisazione. E, ad avviso di chi scrive, il pregio maggiore dell’album – e probabilmente del leader – è quello di aver saputo dare alla musica un’anima che riesce assai bene a coniugare l’espressività del pianoforte con il sound del quartetto e le capacità improvvisative di Lijbart. Ancora una volta, come fa rilevare Maria-Paula Majoor, componente del Matangi Quartet, fondamentale è risultato in sala di incisione il ruolo di Manfred Eicher, produttore nonché fondatore nel 1969 della ECM, il quale ha spinto sempre i musicisti a rimodellare la musica di modo che la transizione tra le parti improvvisate e quelle scritte fosse quasi impercettibile.

Ali Gaggl – “A Piece of Art” – ATS
Nonostante l’Austria abbia dato i natali a due grandissimi musicisti quali Joe Zawinul e Friedrich Gulda, negli ultimi anni poco conosciamo di quel che accade in quel Paese. Ben venga, quindi, l’ATS che ci presenta alcuni musicisti austriaci. Questo “A Piece Of Art” è l’ultimo album della vocalist e compositrice Ali Gaggl, vero nome Alberta Gaggl, nata il 15 Ottobre 1959 a Klagenfurt. Musicista a 360 gradi (ha studiato jazz e musica popolare al Conservatorio della città natale, specializzandosi in canto e in pianoforte oltre ad aver avviato una rilevante carriera didattica insegnando canto al Conservatorio di Trieste, alla Bruckner University di Linz e alla Summer Academy del Castello di Viktring) la Gaggl si è fatta ascoltare sia in Europa sia in Canada collaborando spesso con Kenny Wheeler e la Upper Austrian Jazz Orchestra. In quest’ultimo album, la Gaggl ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra i quali il sassofonista Wolfgang Puschnig, la Upper Austrian Jazz Orchestra – UAJO e il quartetto d’archi Koehne; in programma un repertorio assai variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano standard come “In a Sentimental Mood” (accompagnata dal quartetto d’archi) e “God Bless The Child” con l’UAJO, forse il brano meno riuscito. Il clima che si respira ascoltando per intero l’album è quello di un solido mainstream sostenuto dall’abilità di tutti i protagonisti e specialmente della vocalist che appare perfettamente in linea sia quando è accompagnata dal solo trio di pianoforte (“Stund Up”), sia che canti con l’orchestra, sia che interpreti brani più leggeri (“C’est ci bon”), sia che si trovi immersa in un contesto ritmico più marcato come nei casi della title track e di “African Child” uno dei brani più originali dell’intero album.

Sverre Gjørvad – “Here Comes the Sun” – Losen
È con vero piacere che presentiamo al pubblico italiano questo batterista norvegese in Italia sostanzialmente ancora sconosciuto, nonostante non sia più giovanissimo (classe 1966). Il musicista di Stathelle, cittadina nel comune di Bamble nella contea di Vestfold og Telemark, viceversa è ben noto in patria avendo collaborato con alcuni musicisti di rilievo come Live Maria Roggen, Ståle Storløkken, Mats Eilertsen e Nils-Olav Johansen. In questa nuova registrazione si ripresenta alla testa del suo gruppo storico completato da Herborg Rundberg piano, Dag Okstad basso, Kristian Svalestad Olstad chitarra cui si aggiunge Eirik Hegdal ai sax nel brano che conclude l’album, “Voi River”. Questo “Here Comes the Sun” chiude un ciclo di quattro CD dedicati alle quattro stagioni, registrati sempre con i medesimi musicisti. La stagione cui si riferisce questa volta è la primavera ed in effetti la musica rispecchia abbastanza bene il clima che si respira da quelle parti a partire da marzo, aprile. E questo è un discorso difficile da capire per chi non sia mai vissuto nel Nord Europa e non sia stato testimone di quello straordinario risveglio della natura che si registra in quel periodo. Così la musica del gruppo è vivace, sostenuta da un buon ritmo, con pianista e chitarrista in primo piano a supportare le concezioni del leader che si rispecchia appieno, anche come compositore, in tutte e trenta le composizioni attraverso cui sono declinati i quattro album di cui in precedenza.

Rolf Kristensen – “Invitation” – Losen
Eccellente chitarrista norvegese, nato a Kristiansand, nel 1961, ha già ottenuto in patria numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica soprattutto come solista del gruppo Secret Garden. In questa nuova fatica discografica, Rolf ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra cui alcuni vocalist da lui ritenuti tra i migliori del momento in Norvegia (Torun Eriksen, Hilde Hefte , Kari Iveland e Hilde Norbakken) e un altro celebre chitarrista Allen Hinds (The Crusaders, Roberta Flack, Randy Crawford, Natalie Cole)il quale, trovandosi in città durante la registrazione dell’album, accettò volentieri l’invito del leader ad unirsi al gruppo per incidere il classico di Corea “Crystal Silence” Per il resto il repertorio è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi dal momento che si tratta di brani tutti tratti dal “Great American Songbook”. Ecco quindi uno dopo l’altro alcuni classici come “Blue in Green”, la title track…per chiudere con il già citato “Crystal Silence”. Si tratta, in buona sostanza, di una sfida che Rolf ha espressamente dichiarato di voler affrontare proprio per evidenziare in che modo la sua preparazione soprattutto la sua personalità gli consentono di affrontare questi brani apportando qualcosa di personale. Obiettivo raggiunto? Difficile dirlo…nel senso che sicuramente Kristensen interpreta assai bene tutti i brani, un po’ più difficile affermare che vi apporti qualcosa di veramente nuovo.

Maja Jaku – “Soul Searching” – ATS
Maja Jaku giunta al suo quarto album da leader, ha tutte le carte in regola per affermarsi nel pur vasto panorama del jazz europeo. Può innanzitutto vantare una solida preparazione di base avendo studiato, tra gli altri, con
Sheila Jordan, Mark Murphy, Jay Clayton e Andy Bey e nel suo curriculum figura la prestigiosa collaborazione con la band fusion di Gerd Schuller “Attack”. Questo nuovo album, creato tra San Diego e Vienna, si intitola significativamente “Soul Searching” ad indicare la precisa volontà della vocalist di rifarsi alle atmosfere tipiche della Blue Note anni ’70 declinando un repertorio abbastanza variegato. Principale responsabile il compositore e trombonista Dave Scott che ha scritto 3 composizioni mentre il trombettista americano Jim Rotondi ha contribuito agli arrangiamenti degli ottoni e due composizioni sono state co-scritte dalla stessa Maja Jaku. Il gruppo è completato da Sasa Mutic piano, Dusan Simovic basso e Joris Dudli batteria.
Per chi ama questo tipo di jazz l’album risulterà sicuramente interessante; per tutti gli altri detto che la Jaku ha molte carte da giocare, in alcuni passaggi si nota una qualche incertezza, una non perfetta padronanza della materia musicale che si può spiegare con la giovane età nella consapevolezza che in un futuro non lontano le cose non potranno che migliorare. Tra gli otto brani in programma particolarmente interessante “Be Real” mentre in “God Bless The Child” si apprezza una bella intro del trombettista Jim Rotondi. Un’ultima notazione: vi abbiamo presentato due vocalist austriache e ambedue hanno messo in repertorio quest’ultimo brano, scelta che non comprendiamo appieno data la difficoltà di interpretare al meglio una partitura entrata oramai nell’immaginario collettivo.

Keith Jarrett – “Bordeaux Concert” – ECM
Ascoltando album come questo si riaccende il rammarico per l’impossibilità di ascoltare nuove imprese di colui che a ben ragione può essere considerato uno dei massimi pianisti del secolo scorso. Questa volta Jarrett viene ripreso durante un concerto svoltosi all’Auditorium dell’Opera National di Bordeaux il 6 luglio del 2016, nell’ambito di quel tour europeo che aveva portato l’artista ad esibirsi, tra l’altro, a Budapest, Vienna e Monaco. Venendo a quest’ultimo album, dobbiamo confessare che recensirlo è impresa davvero ardua in quanto su Jarrett molto, moltissimo è stato scritto e “Bordeaux Concert” non fa altro che ribadire tutto ciò che già si conosceva. Vale a dire un artista straordinario sotto le cui dita il pianoforte assurge a vertici difficilmente raggiungibili. Jarrett suona con straordinaria lucidità e quindi con pieno controllo della materia sonora che si sviluppa seguendo una logica ben precisa, non ardua da individuare specialmente per chi ben conosce Jarrett. Ecco quindi la sua capacità di suonare frasi già conosciute ma in modo totalmente nuovo grazie soprattutto alla costante ricerca di nuove cellule melodiche. Quindi non è certo un caso che la stampa internazionale abbia accolto l’album con grande rilievo sottolineando a più riprese sia il carattere intimistico della musica sia la bellezza delle parti estese che si collocano in una dimensione altra lontana dallo spazio e dal tempo. Da sottolineare come l’album è declinato attraverso tredici parti senza titolo ma numerate con cifre romane, parti che si allacciano perfettamente l’una all’altra pur nella diversità d’ispirazione sì da costituire un lungo straordinario, entusiasmante e commovente discorso sonoro.

Jean-Charles Richard – “L’ètoffe des reves” – La Buissonne
Come l’album “Canto” più sopra recensito, anche questa nuova produzione del sopranista e baritonista Jean-Charles Richard può definirsi ‘jazz da camera’, ove con tale definizione si intenda riferirsi ad una musica organicamente costruita con pochi mezzi e soprattutto scritta con sobrietà ed eleganza. Oltre al sassofonista nell’album è possibile ascoltare il pianista Marc Copland, la vocalist Claudia Solal e il violoncellista Vincent Segal. E a nostro avviso è proprio Copland, unitamente al leader, a conferire una precisa cifra stilistica all’intero album declinato attraverso undici composizioni. I due dialogano sempre con empatia disegnando atmosfere che sembrano collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio, una dimensione in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono; si ascolti, ad esempio “Giverny” o “Desquartes”… anche se in realtà queste caratteristiche si evidenziano in tutte le esecuzioni. Eccellente anche la prestazione della vocalist Claudia Solal moglie del sassofonista e figlia del celebre Martial; Claudia interpreta con pertinenza “Ophélie Death” (in cui si mette in musica i versi dell’Amleto) e la “Title track” (con testo tratto dalla Tempesta shakespeariana) ambedue porte in inglese e “Ophélie” (con versi di Rimbaud) cantata viceversa in francese.
Ma questi rimandi alla letteratura attraversano un po’ tutto l’album così come i richiami a musicisti di altre epoche quali Olivier Messiaen, Igor Stravinsky, Claude Debussy. L’album si chiude con “Weeping Brook” un pezzo di bravura del leader al sax baritono.

Steve Tibbets – “Hellbound Train: An Anthology” – ECM 2CD
Le antologie non figurano in cima alle nostre preferenze…a meno che non si tratti di qualcosa di particolare. Ed è proprio questo il caso dal momento che si tratta di un tributo riservato ad un artista tanto originale quanto riservato. Molti anni sono passati da quel lontano 1977 quando Steve pubblicò il suo primo album ma l’artista ha sempre tenuto fede a quelle che sin dall’inizio sono state le direttrici su cui ha impostato la propria ricerca: i continui riferimenti etnici, impiego di una strumentazione del tutto particolare ivi compresi i nastri magnetici, l’alternarsi di momenti estatici ad altri molto più terreni. In repertorio 28 brani tratti dagli album che l’artista ha realizzato per l’ECM in un lungo lasso di tempo. Ovviamente molti i musicisti che si ascoltano accanto al polistrumentista leader, ma la musica ruota sostanzialmente intorno a Steve che suona la chitarra, il dobro (o chitarra resofonica), la kalimba e le percussioni. Due le notazioni che si possono fare per rendere più agevole l’ascolto: la sequenza dei brani non è cronologica e i brani scelti rispecchiano assai bene la multiforme personalità del leader. Molti sarebbero i brani da segnalare all’attenzione del lettore, ma andremmo ben oltre i limiti che riserviamo ad ogni recensione per cui basti sottolineare come i curatori sono riusciti a tracciare un ritratto esaustivo dell’artista.

DUE NOTE DI CLASSICA

Margherita Porfido – “Da Gesualdo a Piccinni – Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700) DiG 2 CD
Margherita Porfido – “Margherita’s Miniatures” – DiG
In questi due album, editi da DiG (Digressione) abbiamo l’opportunità di ascoltare e ammirare una delle più complete clavicembaliste italiane. Nata ad Altamura, Margherita Porfido comincia a studiare musica sin da giovanissima diplomandosi in pianoforte e clavicembalo. A partire dal 1983 si dedica completamente allo studio del clavicembalo soprattutto con riferimento alla musica Rinascimentale-Barocca ed a quella contemporanea, prediligendo il repertorio solistico e di solista con orchestra.
Nel primo album, “Da Gesualdo a Piccinni”, impreziosito da un esauriente libretto vergato da Alessandro Zignani, scrittore, musicologo e germanista di grande spessore, possiamo ascoltare una serie di brani che risultano assolutamente indispensabili per capire a fondo la musica tra ‘500 e ‘700 del meridione d’Italia. Il repertorio, infatti, comprende tra l’altro la “Canzon francese del principe” di Gesualdo Da Venosa, la “Salve Regina” di Rodio, composizioni di Giovanni Salvatore, Giovanni Maria Trabaci, i balli e le danze di Antonio Valente e Bernardo Storace, fino alle “Tre Sonate e Una Toccata” di Niccolò Piccinni. In buona sostanza si tratta di uno straordinario viaggio attraverso le note che ci conduce alla scoperta, o forse sarebbe meglio dire alla riscoperta, di autori purtroppo non particolarmente eseguiti ma che risultano fondamentali per lo sviluppo della musica colta nel nostro Paese.
Diverso il secondo CD, “Margherita’s Miniatures”, in cui la clavicembalista affronta un repertorio variegato, molto diverso dal precedente, con autori non accademici, e con l’ausilio di un artista proveniente da altri ambiti quali Pino Minafra alla tromba e al didgeridoo. Ad onta di queste discrepanze, l’album mantiene una sua ben precisa unità di fondo data dal clavicembalo della Porfido che riesce ad interpretare tutte le partiture con maestria dimostrando come anche uno strumento oggettivamente “antico” possa misurarsi con linguaggi moderni. Ecco quindi che si parte con le “Danze popolari romene di Béla Bartok per approdare a “Les fastes de la grande et ancienne MXNXSTRXNDXSX” di François Couperin, in cui si ascolta il jazzista Pino Minafra al didgeridoo. In mezzo ancora un autore classico come Erik Satie ma soprattutto esponenti della musica moderna quali Eugenio Colombo, Fred Van Hopve, Keith Tippett, Livio Minafra, Michel Godard, Daniel Pinkham, Nino Rota e Gianluigi Trovesi. Ed è proprio al confronto con questi ultimi che si manifesta in tutta la sua bravura la Porfido che riesce ad adattare il suo strumento alle necessità espressive dei vari brani senza che gli stessi perdano un’oncia dell’originario fascino. Particolarmente suggestivo “Romeo e Giulietta” di Nino Rota anche per la presenza di Pino Minafra alla tromba, musicista che, come sottolinea Ugo Sbisà nelle note che accompagnano l’album, proprio in veste di trombettista si fa desiderare oramai da lunga, troppo lunga, pezza

Valentin Silvestrov – Maidan – ECM
Il significato di questo album va ben al di là del fatto squisitamente musicale in quanto si inserisce a pieno titolo nella più drammatica vicenda che il mondo sta vivendo dopo la Seconda guerra mondiale. Valentin Silvestrov, nato nel 1937 a Kyiv, è considerato il compositore più significativo in Ucraina e queste registrazioni, effettuate nel 2016 dal Kyiv Chamber Choir diretto da Mykola Hobodych, durante un concerto tenuto presso la cattedrale di San Michele, nella capitale ucraina, ne sono la palese testimonianza. La sua è una musica sobria, riflessiva, che rispecchia perfettamente l’anima di un popolo nel tentativo perfettamente riuscito di coniugare le cose semplici della vita con il senso più profondo della bellezza del mondo e degli umani sentimenti. In tal senso Silvestrov è sempre rimasto una sorta di cronista in musica della storia della sua terra. Ed è proprio in questo senso che l’album assume quella valenza di cui in apertura. In effetti il compositore, dopo i moti ucraini del 2004 (noti come la Rivoluzione arancione) e le proteste di Maidan (Majdan Nezaležnosti – Piazza Indipendenza, la piazza centrale di Kiev capitale dell’Ucraina) contro l’influenza russa nel 2014, si è rivolto più apertamente a temi politici e religiosi. Di qui una serie di pezzi raccolti sotto l’insegna “Maidan-2014”, per coro a cappella. (Il suo tredicesimo movimento è la “Preghiera per l’Ucraina”). Adesso la situazione per Silvestrov si è fatta davvero pesante: poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha dovuto lasciare la sua città natale e vive a Berlino da allora. Parallelamente dopo l’inizio della guerra, la musica di Silvestrov viene eseguita spesso al di fuori dell’Ucraina ottenendo sempre grandi successi di pubblico e di critica e portando la fama dell’autore a vertici mai raggiunti in precedenza. Dal punto di vista squisitamente artistico, la musica si fa apprezzare particolarmente per come riesce ad esprimere atmosfere assai diverse transitando da momenti corali maestosi ad altri in cui sembra prevalere una sensazione di dolorosa partecipazione, ad altri ancora in cui si avverte una grande dolcezza. Di qui anche le diverse strutture del coro che ora si avvale solo di alcune sezioni, ora interviene per intero nella sua maestosità, altre volte ancora si affida ad alcune voci soliste. Insomma, un piccolo capolavoro che va ascoltato con il massimo rispetto.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: IL JAZZ DI CASA NOSTRA

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Giulia Barba – “Sonoro” – BNC
Non amiamo vantare primogeniture ma siamo stati tra i primi in assoluto a presentare al pubblico italiano questa brava clarinettista dopo il suo ritorno dall’Olanda. In questo suo secondo album possiamo ascoltare 6 sue composizioni, tra cui due brani con testo di W.B. Yeats (“The Everlasting Voices” e “To an isle in the water”), e 8 pezzi di improvvisazione totalmente libera. Il testo di “Bassorilievo” e “Game Over” è stato scritto dalla stessa compositrice. Accanto alla Barba troviamo Marta Raviglia, voce, Daniele D’Alessandro, clarinetto e Andrea Rellini, violoncello. Probabilmente sono sufficienti queste poche indicazioni per capire il contesto in cui si muove Giulia: un terreno irto di difficoltà in cui la maggiore preoccupazione della leader è quella di raggiungere una raffinata qualità sonora grazie ad una accurata ricerca timbrica supportata da un’altrettanto accurata ricerca dei collaboratori. Di qui la scelta della vocalist Marta Raviglia il cui apporto risulta molto importante essendo la sua voce adoperata alle volte in modo consueto altre volte in funzione meramente strumentale e di Daniele D’Alessandro, ottimo nel ruolo di seconda voce. Parimenti determinante il ruolo di Andrea Rellini al violoncello che nella difficile opera di cucire il tutto riesce a non far sentire la mancanza di uno strumento percussivo. Comunque il merito principale della buona riuscita dell’album è senza dubbio alcuno di Giulia Barba di cui attendiamo altre prove ancora più significative.

Francesco Branciamore – “Skies of Sea” – Caligola
Musicista a 360 gradi, Francesco Branciamore si è costruita una solida reputazione come batterista avendo avuto l’opportunità di lavorare con alcuni grandi del jazz come Enrico Rava, Michel Godard, Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Wim Mertens… e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Francesco mai si è adagiato sugli allori: così ha dedicato questi ultimi anni ad approfondire da un lato la tecnica pianista, dall’altro le sue capacità compositive e di arrangiatore. Non a caso nel 2018 uscì “Aspiciens Pulchritudinem” suo primo album in piano solo ottenendo unanimi consensi, preceduto nel 2013 da “Remembering B. E. – A Tribute to Bill Evans” in cui Branciamore non suona alcuno strumento ma omaggia Bill Evans dirigendo un sestetto cameristico in cui l’improvvisazione non ha diritto di cittadinanza mentre la pianista Marina Gallo esegue le trascrizioni integrali degli assoli di Evans fatta da Branciamore, autore anche di tutti gli arrangiamenti. In questo “Skies of Sea” Francesco presenta una sorte di suite in quattordici bozzetti di breve durata, tutti di sua composizione, a disegnare atmosfere le più variegate, dall’ipnotica title track al trascinante “The Remaining Time” passando attraverso brani tutti gradevoli tra cui degno di particolare attenzione ci è parso il riuscito omaggio a Chick Corea, “A Prayer for Chick”.

Maniscalco, Bigoni, Solborg – “Canto” – ILK Music
Album di spessore questo proposto dal trio italo-danese composto da Emanuele Maniscalco pianoforte, piano elettrico e tastiere, Francesco Bigoni sax tenore e clarinetto e Mark Solborg chitarra elettrica. La cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto che il combo ha già all’attivo altri due album e che la collaborazione fra i tre risale al 2015. Quali le caratteristiche della formazione? Innanzitutto una scrittura che consente di coniugare perfettamente parti scritte e improvvisazione; in secondo luogo una costante attenzione alle dinamiche e quindi al suono; in terzo luogo la capacità di frequentare con assoluta disinvoltura un territorio di confine tra il jazz e le musiche “altre” che rende quanto mai difficile una precisa classificazione della performance…ammesso che ciò sia necessario, cosa di cui personalmente dubitiamo e non poco. Il tutto sorretto da altri due elementi assolutamente necessari: la bravura tecnica ed espressiva di tutti e tre i musicisti e una profonda empatia che consente loro di suonare in assoluta scioltezza sicuri che il compagno di strada saprà cogliere ogni minimo riferimento. Di qui una musica rarefatta, di chiara impronta cameristica che sicuramente soddisferà gli ascoltatori dal palato più raffinato.

Mauro Mussoni – “Follow The Flow” –WOW
Mauro Mussoni (contrabbasso, composizione e arrangiamenti), Simone La Maida (sax/flauto), Massimo Morganti (trombone), Massimo Morganti (trombone), Andrea Grillini (batteria), Davide Di Iorio (flauto solo nella traccia Levante) sono i responsabili di questo album registrato a Riccione nel 2020. Si tratta del secondo CD a firma di Mauro Mussoni (dopo “Lunea”) il quale si ripresenta anche come compositore dal momento che i nove bani in programma sono sue composizioni. Il titolo è significativo delle intenzioni di Mussoni il quale vuole “seguire il flusso”, un flusso che – secondo le espresse volontà del contrabbassista – è quello dell’ispirazione. Di qui una musica che trova nella gioia dell’esecuzione la sua principale ragion d’essere declinata attraverso una significativa empatia di volta in volta tra i fiati e fra i componenti del trio piano-contrabbasso-batteria senza trascurare, ovviamente, l’intesa che intercorre tra tutti i componenti del gruppo, intesa cementata da precedenti collaborazioni. E’ infatti lo stesso leader a dichiarare come la musica sia arrivata in maniera spontanea seguendo l’ispirazione del momento piuttosto che idee preesistenti. Tra i vari brani particolarmente interessanti la title track impreziosita da sontuosi assolo di Simone La Maida e Massimiliano Rocchetta, il dolcemente ballabile “Freeda” e “Latina” con un convincente assolo del leader.

Ivano Nardi – “Excursions” –
Ivano Nardi è sicuramente uno dei musicisti più rappresentativi della scena jazzistica romana. Artista tra i più coerenti, profondamente ancorato alla sua terra, profondamente attaccato al valore dell’amicizia –in primo luogo quella con Massimo Urbani – mai si è discostato dal solco di un free senza se e senza ma, un free in cui dare sfogo alla propria immaginazione, al proprio modo di vedere e sentire la musica. Ovviamente, per scelte di questo tipo, risulta fondamentare circondarsi di compagni d’avventura con cui si abbia un idem sentire. E il ‘batterista’ Nardi è stato, anche in questo senso, del tutto coerente avendo condiviso le sue esperienze con artisti del calibro del già citato Urbani, Don Cherry, Lester Bowie… Adesso ritorna a farsi sentire con un altro album dedicato a Massimo Urbani, “Excursions”, in cui a coadiuvarlo sono Giancarlo Schiaffini al trombone, Marco Colonna ai fiati, Igor Legari alla batteria, un quartetto molto affiatato che si muove con estrema disinvoltura all’interno dell’unico brano in programma, lungo 32:50. Ovviamente cercare di descrivere questa performance è impresa quanto mai ardua e forse inutile; basti sottolineare come le atmosfere sono mutevoli proponendo degli improvvisi slarghi (come al minuto 12,30 circa) quasi a voler in certo senso smorzare l’andamento tumultuoso e incalzante del quartetto, o avventurandosi in atmosfere indiane e arabeggianti (come al minuto 24 all’incirca).

NewStrikers – “The Songs Album” – Alfa Music Vinile 180 gr. Tiratura limitata

Questo album esce ad ampliamento dell’album “Musiche Insane”, ottimo esempio di come anche il free riesca a trovare nel nostro Paese interpreti degni di rilievo. Il gruppo guidato dal multistrumentista Antonio Apuzzo (compositore e arrangiatore anche di quasi tutti i brani) e completato da Marta Colombo (vocale, percussioni), Valerio Apuzzo (tromba, cornetta, flicorno), Luca Bloise (marimba, percussioni), Sandro Lalla (contrabbasso) e Michele Villetti (batteria, duduk), ripresenta un repertorio in buona parte già conosciuto in cui la musica si staglia come unica e vera protagonista, una musica ben lontana da stilemi formali e da un qualsivoglia mainstream consolatorio. Quindi un jazz graffiante, originale, fluido in cui si stagliano alcune individualità come quelle di Antonio Apuzzo e della vocalist Marta Colombo. Tra i brani non presenti nel precedente “Musiche Insane”, What Reason Could I Give” e “All My Life “ di Ornette Coleman interpretate con bella sicurezza mentre il conclusivo “Four Women” è un sentito omaggio a Nina Simone che scrisse questo brano in segno di protesta contro l’ennesimo atto di sopraffazione consumato dai bianchi nei confronti della popolazione di colore. Un consiglio non richiesto: se avete tempo andate a cercare i testi della canzone e leggeteli con attenzione.

Helga Plankensteiner – “Barionda” – JW
Baritonista di spessore, la Plankensteiner si è oramai imposta all’attenzione generale non solo come strumentista ma anche come vocalist, compositrice, arrangiatrice e leader di gruppi non proprio banali. E’ questo il caso di “Barionda” un ensemble formato da quattro baritonisti (la leader, Rossano Emili, Massimiliano Milesi e Giorgio Beberi) più un batterista che nella maggiorparte dei casi è Mauro Beggio sostituito in tre brani da Zeno De Rossi. In repertorio una serie di brani che ricordano i grandi baritonisti del jazz; ecco quindi “Hora Decubitus” di Mingus (legato alla memoria di Pepper Adams), “Sophisticated Lady” (di Ellington, nelle esecuzioni della cui orchestra spiccava Harry Carney) o “Bernie’s Tune”, cavallo di battaglia di Mulligan. Il gruppo si muove con padronanza all’interno di arrangiamenti tutt’altro che semplici in cui i quattro sassofonisti evidenziano le loro abilità ben sostenuti dai due batteristi che a turno sorreggono il tutto con un timing preciso seppur fantasioso, sicché non si avverte la carenza del contrabasso. E’ interessante sottolineare come, nonostante i quattro strumenti di base siano gli stessi, si riesce egualmente ad ottenere significative variazioni di sound a seconda di chi esegue l’assolo e di chi tali assolo accompagna. Ferma restando la valenza di tutti i musicisti coinvolti, è innegabile che il peso maggiore dell’impresa grava sulle spalle della leader che nelle brevi parole che accompagnano l’album dichiara esplicitamente il proprio amore verso il suo strumento, il sax baritono..

Ferruccio Spinetti – “Arie” – Via Veneto, Indo Jazz
Ferruccio Spinetti è contrabbassista che si è guadagnato una solida reputazione lavorando per lungo tempo con Musica Nuda, Avion Travel e  InventaRio. Adesso si presenta con il primo progetto a suo nome che lo vede alla testa di un gruppo all stars comprendente la cantante Elena Romano, il pianista Giovanni Ceccarelli, il batterista Jeff Ballard e, come unica guest, la sempre straordinaria pianista       Rita Marcotulli in due brani. L’album è in buona sostanza una sorta di omaggio al jazz italiano in quanto il repertorio è composto in massima parte da brani scritti da alcuni dei migliori jazzisti italiani tra cui Enrico Rava , Bruno  Tommaso , Rita   Marcotulli, Paolo   Fresu , Enrico   Pieranunzi       , Luca   Flores , Paolino   Dalla Porta …, con l’aggiunta di brani originali di Spinetti e Ceccarelli. E di questi autori sono stati scelti brani in cui è di tutta evidenza la ricerca della linea melodica, rinvigorita sia dalle centrate interpretazioni di Elena Romano sia dai testi, scritti appositamente dalla Romano, da Peppe Servillo e dallo stesso Spinetti, sia dagli arrangiamenti che hanno messo in evidenza le caratteristiche di tutti i musicisti tra cui una menzione particolare la merita senza dubbio alcuno Jeff Ballard, sicuramente uno dei batteristi migliori oggi in esercizio. Ovviamente un merito particolare va a Ferruccio Spinetti che ha saputo guidare il gruppo con mano sicura e piena consapevolezza.

Ivan Vicari – “Afrojazz project – Il ritorno”
Entusiasmante, trascinante, coinvolgente: queste le parole che ci sorgono spontanee dopo aver ascoltato un paio di volte questo album. Conosciamo e apprezziamo Ivan Vicari oramai da molti anni; tra i pochissimi specialisti dell’organo Hammond nel nostro Paese, è uno dei pochi artisti in Italia capaci di raccogliere e divulgare l’eredità di Jimmy Smith, vera e propria leggenda dell’Hammond. Nel suo stile si ritrovano echi provenienti dai più grandi esponenti dell’organo jazz, dal già citato Jimmy Smith, a Larry Young, da Rhoda Scott fino Joey De Francesco purtroppo recentemente scomparso. E quanto sopra detto si ritrova in questa sua recente fatica discografica. Ivan guida, con mano sicura e con tecnica superlativa, un quartetto completato da Fabrizio Aiello alle percussioni, Mauro Salvatore alla batteria, Alberto D’Alfonso sax e flauto, Luca Tozzi chitarra. Il titolo recita “Afrojazz project – Il ritorno” e fotografa bene la musica che Vicari ci propone. Una musica che si ispira all’afro ma non solo dal momento che Vicari dimostra ancora una volta di conoscere assai bene sia il jazz nell’accezione più completa del termine, sia il blues. Da sottolineare ancora che Vicari si mette in gioco anche come compositore dal momento che nel CD figurano alcuni suoi original. Un tocco di umanità che mai guasta: per esplicita dichiarazione dello stesso Vicari l’album è dedicato a due “amici musicisti” scomparsi, Karl Potter e Nunzio Barraco.

Gerlando Gatto