Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto

Grande jazz al Festival di Palermo: il SJF in programma dal 23 giugno al 2 luglio

Cari amici, il team di “A Proposito di Jazz” è lieto di comunicarvi una nuova iniziativa che speriamo possa risultare di vostro interesse, la nostra inchiesta su: il Jazz in Sicilia.
L’Isola presenta, in effetti, molti aspetti paradossali ma ce n’è uno che riguarda da vicino il nostro microcosmo. Non c’è dubbio alcuno che la Sicilia sia una delle più belle terre da visitare: un clima splendido, una cucina tradizionale di grande spessore, bellezze storiche, artistiche e naturalistiche su cui non è necessario spendere ulteriori parole. A fronte di tutto ciò, la situazione lavorativa è drammatica… e non da oggi. Il nostro direttore appartiene a quella categoria di chi, alla fine degli anni ’60, fu costretto a stabilirsi a Roma per trovare soddisfacenti condizioni di lavoro.
Dal punto di vista jazzistico, oggi come ieri, la Sicilia è terra fertile di talenti: sono davvero tantissimi i jazzisti siciliani che si sono fatti onore anche al di là delle Alpi. Eppure, nonostante le difficili condizioni lavorative cui prima si faceva riferimento, molti artisti, anche dopo esperienze vissute altrove, hanno preferito ritornare alla terra d’origine per stabilirvisi definitivamente.
Ecco questa inchiesta tende a scoprire quali sono “i segreti” che hanno così fortemente condizionato moltissimi musicisti… ma anche a darvi conto di ciò che di importante accade nell’Isola. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività.
Ci pare quindi opportuno iniziare questa avventura presentando la terza edizione del Sicilia Jazz Festival che si terrà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio.
Seguirà una vasta serie di ritratti, recensioni discografiche, interviste che abbiamo condotto su larga scala avvicinando molti musicisti che abitano in Sicilia senza però trascurare quanti, e sono una minoranza, hanno fatto una scelta diversa.
Buona lettura! (Marina Tuni, redazione APdJ)
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Si svolgerà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio la terza edizione del Sicilia Jazz Festival, promosso ed organizzato dalla Regione Siciliana – Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo, frutto della collaborazione con il Comune e l’Università degli Studi di Palermo, la Fondazione the Brass Group e i Conservatori di Musica siciliani
La manifestazione sembra avere tutte le carte in regola per bissare il successo degli anni scorsi; in effetti, come abbiamo spesso sottolineato specie in questi ultimi tempi, un Festival Jazz a nostro avviso si giustifica solo se in strettissima relazione con il territorio nel cui ambito insiste. Insomma non solo musica ma anche valorizzazione di tutto ciò che il territorio stesso rappresenta, quindi spazio ai talenti locali, forti richiami alle tradizioni culturali, alle testimonianze archeologiche, ai prodotti della terra e via discorrendo.
Ecco, il festival siciliano risponde appieno a questo tipo di peculiarità: per quanto concerne i talenti locali saranno presenti anche quest’anno con numerose esibizioni i dipartimenti jazz dei conservatori “Vincenzo Bellini” di Catania, “Arcangelo Corelli” di Messina, “Alessandro Scarlatti” di Palermo, “Antonio Scontrino” di Trapani, e “Arturo Toscanini” di Ribera al cui interno spiccano come special guest i nomi di Paolo Damiani e Nicky Nicolai.

Per quanto riguarda le location, anche questa terza edizione del Sicilia Jazz Festival vuole rivolgersi alla valorizzazione di luoghi particolarmente significativi per riscoprirli nella loro pienezza storica e culturale in quanto la musica è un linguaggio universale, da tutti compreso senza limiti di età e di genere, senza limiti di appartenenza e di razza. Prova ne sia l’altra importante novità di quest’anno costituita dal fatto che verranno realizzati alcuni spettacoli a Palazzo Butera, per valorizzare ancora di più le bellezze storiche e monumentali della Sicilia.
Ma tutto ciò non avrebbe senso compiuto se non fosse accompagnato da un programma musicale di sicuro livello.
Anche da questo punto di vista, il Festival non ha alcunché da invidiare ad altre situazioni grazie alla scelta oculata degli organizzatori che hanno previsto per il capoluogo siciliano un cast davvero eccellente. Ma la bontà del Festival non si gioca solo sui grandi nomi, dal momento che saranno proposti più di 100 concerti, di cui 10 produzioni orchestrali originali in scena in alcuni siti del centro storico di Palermo quali Palazzo Butera, Palazzo Chiaramonte Steri, il Complesso Monumentale Santa Maria dello Spasimo, il Real Teatro Santa Cecilia e il Teatro di Verdura di Villa Castelnuovo. Sono previste altresì 4 prime assolute di produzioni inedite appositamente commissionate.
Ma vediamo, seppure a grandi linee, cosa ci propone il SJF con specifico riferimento alle “stelle” di primaria grandezza: apertura venerdì 23 giugno allo Steri con Marcus Miller, fuori abbonamento; seguiranno, tutti al Teatro di Verdura, i concerti di Diane Schurr il 24 giugno; Bob Mintzer il 25 giugno; Gregory Porter il 26 giugno; Anastacia il 27 giugno; Al McKay – Earth Wind & Fire Experience il 28 giugno; Judith Hill il 29 giugno; Dave Holland il 30 giugno; Manuel Agnelli il 1 luglio; The Manhattan Transfer il 2 luglio.
Tutti questi concerti saranno accompagnati dall’Orchestra Jazz Siciliana diretta, volta per volta, da Carolina Bubbico, Giuseppe Vasapolli, Dave Holland, Bob Mintzer, Domenico Riina, Antonino Pedone, Gianna Fratta e Vito Giordano.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione, sono stati presentati anche alcuni dati a significare l’importanza della manifestazione. In particolare da segnalare un incremento del 104% per gli abbonamenti realizzati con ben 955 del 2023 al 3 maggio ; ed ancora le entrate di botteghino (dati SIAE) di € 88.802,00 il primo anno, € 147.643,22 con un incremento del 66,26% il secondo anno e € 129.741,00 al 3 maggio scorso per il terzo anno; il numero complessivo degli eventi è stato di 56 nel 2021, 100 nel 2022 con un incremento del 78.57% e 107 nel 2023 con un incremento del +7 % rispetto all’anno precedente; il numero di giornate lavorative dei musicisti residenti è di 693 nel 2021, 1.118 nel 2022 con un incremento del 61.33 % e 1.365 nel 2023 con un incremento del 22.09 %; non si deve trascurare anche il numero di prime esecuzioni assolute con un incremento nel 2023 del 33,33%.
Insomma ci sono tutte le premesse affinché anche l’edizione di quest’anno sia un grande successo.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Gerlando Gatto al Conservatorio di Teramo e al CASC BI di Bankitalia

Il nostro direttore Gerlando Gatto sarà impegnato nei prossimi giorni in due importanti appuntamenti rispettivamente al Conservatorio di Teramo e al Casc Bi di Bankitalia.

Ma procediamo con ordine. Nell’ambito della tre giorni dedicata all’Accordion Spring Fest, la seconda edizione del Festival della Fisarmonica, promosso dal Conservatorio Statale di Musica ‘G. Braga’ di Teramo, sabato 13 maggio Gatto terrà una conferenza sul tema dei rapporti tra jazz e tango.

Ma, al di là di questo evento, l’Accordion Spring Festival (che inizia giovedì 11 maggio) riveste una particolare importanza in quanto testimonia l’attenzione che il Conservatorio di Teramo sta dedicando alla fisarmonica grazie anche all’impegno di Renzo Ruggieri, fisarmonicista jazz tra i più attivi e validi a livello internazionale.

La manifestazione proporrà concerti, masterclass e conferenze dibattito dedicate alla scoperta della storia e della poliedricità dello strumento musicale, iniziativa che vede come coordinatori artistici il docente di Fisarmonica Classica Massimiliano Pitocco e il docente di Fisarmonica Jazz Renzo Ruggieri.

“Il Conservatorio Braga – ha sottolineato il Direttore Vratonjic – è tra i più virtuosi in Italia grazie all’ampia offerta formativa e al crescente numero di iscritti, elementi che rappresentano un incentivo all’organizzazione di un’attività extradidattica importante che permetta agli studenti di sperimentare subito il proprio talento oltre che le abilità acquisite in classe nelle ore di didattica. La classe di Fisarmonica classica è attiva già da cinque anni ed è stata affidata al docente abruzzese Massimiliano Pitocco, noto per la sua produzione concertistica a livello internazionale, e che è anche titolare della cattedra presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. La classe di Fisarmonica Jazz, prima cattedra istituita in Italia, è invece affidata al Maestro Renzo Ruggieri, anch’egli noto in campo internazionale quale concertista e docente. Il Festival ci consentirà di valorizzare l’importanza della Fisarmonica che da sempre ha fatto parte della tradizione musicale abruzzese e che ha visto protagonisti alcuni dei ‘padri’ maggiori della musica italiana”.

Ma ecco il programma dettagliato

Si parte giovedì 11 maggio, con le Masterclass che si terranno dalle 9 alle 13 e dalle 14.30 alle 18 con Massimiliano Pitocco alla fisarmonica classica, il maestro serbo Zoran Rakic per la fisarmonica classica e Renzo Ruggieri per la fisarmonica jazz-moderna; alle 18 Concerto del maestro Riccardo Pugliese per la fisarmonica classica.

Venerdì 12 maggio dalle ore 9 alle ore 12 Masterclass dei Maestri Pitocco, Rakic e Ruggieri; alle 12 Concerto degli studenti; dalle 14.30 alle 18 di nuovo Masterclass con i Maestri Pitocco, Rakic e Ruggieri; e a chiudere alle 18 il concerto con Gianni Fassetta alla Fisarmonica classica-virtuoso.

L’evento si chiuderà sabato 13 maggio: alle 9 Masterclass dei Maestri Pitocco, Rakic, Ruggieri e Max De Aloe, per gli strumenti ad ancia libera e jazz; dalle 14.30 alle 16.30 Conferenza di Gerlando Gatto su ‘I rapporti tra tango e musica jazz”; alle 17.30 Consegna dei Diplomi e Concerto di Max De Aloe per la musica jazz.

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Il secondo appuntamento vedrà Gerlando Gatto impegnato giovedì 25 maggio alle ore 18.00, presso l’Auditorium CASC-BI (Centro per l’Aggregazione Sociale e Culturale tra il personale della Banca d’Italia) di Via del Mandrione 190, Roma. Oggetto dell’incontro la presentazione dell’ultimo libro di Gerlando Gatto, “Il Jazz Italiano in epoca Covid”. Il libro, che attraverso una serie di oltre quaranta interviste, fotografa perfettamente la situazione dei musicisti jazz italiani durante il periodo del Covid, risulta particolarmente interessante oggi alla luce di una ripresa che, per quanto concerne il jazz, tarda ad arrivare date le numerose difficoltà del mercato e la situazione non proprio felice in cui questa musica si dibatte nel nostro Paese.

A coadiuvare Gatto ci sarà Daniele Mele giovane pianista e compositore. Laureato con lode al Conservatorio “O. Respighi” di Latina, Daniele affianca all’attività performativa quella di docente di pianoforte e teoria musicale. Inoltre da più di un anno collabora con “A proposito di jazz” scrivendo interviste a musicisti italiani ed esteri.

AHMAD JAMAL: il pianismo di un anticonformista visionario

“Ahmadiyya” era chiamata la comunità islamica a cui, nel 1951,  il giovane Frederick Russell Jones affida la sua vita spirituale. Mirza Ghulam Ahmad, suo fondatore nell’India di fine ‘800, venne allontanato dall’Islam ufficiale e divenne quindi un eretico. Fino ad oggi, Ahmadiyya non appartiene alla stragrande percentuale dell’Islam sunnita. Jones si affida al profeta Ahmad e dalla sua conversione diviene Ahmad Jamal.
Parto da qui, per delineare i tratti più evidenti del profilo di uno dei più grandi pianisti della storia del jazz, scomparso il 16 aprile scorso ad Ashley Falls, Massachusetts.
La storia con la quale ho principiato vi racconta subito di un anticonformista per vocazione, una mina vagante in un periodo nel quale la musica jazz seguiva percorsi quasi obbligati: gli anni del bop, quelli del cool, l’hard-bop. Ahmad Jamal era però tutto e niente. Era un’altra storia.

Il pianista solista di jazz si accompagnava, nell’era post-bop, con la classica ritmica contrabbasso/batteria. La prima formazione di un Jamal poco più che ventenne si avvale invece di contrabbasso e chitarra – Ray Crawford e Eddie Calhoun – come i trio di Nat King Cole e Art Tatum. I pianisti di allora inseguivano le funambolerie bop di Bud Powell e Wynton Kelly. Jamal crea spazi, usa l’armonia come fraseggio, cambia le carte in tavola.
Miles Davis lo ascoltò a Chicago nei primi ’50, ne rimase estasiato e ne divenne amico e supporter, tanto da affermare che Jamal fosse un vero e proprio riferimento per la sua musica. Viene naturale chiedersi allora come mai preferisce nelle sue formazioni pianisti come Horace Silver prima, Red Garland e Bill Evans poi.
Nel 1958 la carriera di Jamal esplose letteralmente, dopo la registrazione per la Argo dell’album live “At the Pershing / But not for me” in trio con Israel Crosby e Vernel Fournier. Il disco vendette quasi 50 mila copie in pochi mesi, rimase in classifica Billboard per 107 settimane e, negli anni ’90, venne calcolato che l’album arrivò a superare il milione di copie vendute. Si ricorda in particolare la sua celebre versione dello standard “Poinciana” di Nat Simon; tanto divenne nota, che molti ancora oggi pensano che sia una composizione dello stesso Jamal.
Curioso, aperto alle contaminazioni ma sempre a servizio dell’arte (la sua e specialmente il suo pianismo sono riconoscibilissimi sin dalle prime note); nei successivi decenni Jamal si avvicina anche al funky, alla musica latina e incide anche alcune perle in piano solo. Il mood però è sempre quello: devozione all’ascolto dell’intero gruppo, grandi dinamiche, gusto infinito per le scelte armoniche, timbriche e ritmiche.
Pensando agli anni ’80 e soprattutto ai gloriosi anni ’90 (decennio in cui la musica di Jamal subì una nuova ondata di successo), voglio consigliarvi due album che hanno stregato la mia adolescenza: “Live at Midem 1981” con il vibrafonista Gary Burton e lo stupendo “I remember Duke, Hoagy and Strayhorn” del 1994 con Ephriam Wolfolk al contrabbasso e Arti Dixson alla batteria.

Danilo Blaiotta

Con questo articolo, “A proposito di Jazz” saluta l’ingresso tra i suoi collaboratori di un grande pianista: Danilo Blaiotta. Di lui ci eravamo già occupati recensendo i suoi due album “Departures” e  “The White Nights Suite”; da poco è uscito il terzo eccellente CD, “Platenariat”, su ci soffermeremo quanto prima con una approfondita intervista allo stesso Blaiotta. Per il momento siamo lietissimi di salutarlo come collaboratore con questo interessante ricordo di Ahmad Jamal, accompagnato anche da un raro spezzone video, girato nel 1998 durante il concerto che l’artista tenne a Udin&Jazz, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con una speciale testimonianza…

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“Jamal venne a Udin&Jazz nel 1998, in un nuovissimo Teatro Nuovo, e ci regalò eleganza, carisma, interculturalità nella sua massima espressione. Pochi come lui hanno saputo legare armonie e suoni delle origini africane con le più contemporanee letture occidentali. Non era certo un personaggio semplice con cui interloquire; il suo linguaggio espressivo era quasi esclusivamente la sua straordinaria musica”. (Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz)

Ahmad Jamal, piano / Othello Molineaux, steel drums / James Cammack, double bass / Idris Muhammad, drums
Udin&Jazz– VIII edizione
Udine, 2 giugno 1998 / Teatro Nuovo Giovanni da Udine (Riprese d’archivio/Archive footage)

Buone Feste da A Proposito di Jazz!

Cari amici e amiche, nell’augurarvi di trascorrere le festività natalizie in serenità, magari ascoltando del buon jazz, vi ringraziamo per seguirci sempre con tanto affetto… ricambiatissimo, naturalmente!

Cogliamo questa occasione per comunicarvi che dopo un periodo di manutenzione e aggiornamento, ora il sito è di nuovo fruibile in tutte le sue funzionalità. Potete quindi aggiungere, se vi va, i vostri like, cliccando sull’iconcina di FB e condividere gli articoli su tutti i social. Grazie per la pazienza!

Auguri! da Gerlando Gatto, Marina Tuni e da tutta la redazione e gli autori di A Proposito di Jazz!