IL GRANDE EQUIVOCO DEL POP ITALIANO

Un giorno Thelonius Monk arriva tutto trafelato a casa della baronessa Pannonica. I suoi occhi spiritati spaventano tutti. Cosa ti è successo? Chiede Nica preoccupata dal suo stato di agitazione. I miei figli, risponde lui, hanno portato a casa un disco dei Beatles. Capisci che follia? Io non riesco a trovarlo. Mi devi aiutare, lo hanno certamente nascosto, e anche bene. Nica annuì tranquillizzandolo. In effetti i suoi figli avevano realmente acquistato un disco dei Beatles e chiesto a lei di poterlo nascondere a casa sua perché altrimenti, se lo avesse trovato il padre, sarebbe stata la fine. Questo simpatico episodio, raccontato da Francis Paudras nel suo libro “La danza degli infedeli”, può sembrare una esagerazione, ma non lo è. A noi questo episodio fa sorridere perché si tratta dei Beatles – e forse Monk sapeva già che con loro, il Mondo non sarebbe stato più la stessa cosa -. Ma immaginatelo oggi, e ai Beatles sostituite i Maneskin. Anzi sostituite i quattro ragazzi di Liverpool con uno qualsiasi dei nomi costruiti a tavolino in un talent show. Non si sorriderebbe più o almeno, non più di tanto. E non solo perché siamo quelli cresciuti con la musica degli anni Sessanta e Settanta e con tutto quel jazz che è arrivato alle nostre orecchie da epoche glaciali come gli anni Quaranta e Cinquanta e ancora peggio, ascoltando gente come Bach, Mozart, Debussy, Beethoven, Chopin e Schumann. No, non è soltanto una quesitone di formazione o di gusti personali, è molto peggio: è il tentativo di conformare un mercato attraverso un prodotto che incontra una maggiore quantità di utenti, che con l’arte della musica niente ha a che fare e spazza via tutti quelli che invece non aderiscono a questa impostazione. Gente che pure ha studiato nei conservatori e provato, notte e giorno, in quelle famose umide cantine, con buona pace dei condomini.

Certo, anche negli anni Ottanta eravamo soliti sbeffeggiare la musica che dominava nelle classifiche. E forse quelli furono proprio gli anni in cui l’arte, soprattutto la musica, iniziò a essere trattata come brand. Musica figlia dell’edonismo, lo stesso denunciato anche dai Pink Floyd in “Money”: New car, caviar, four star daydream, Think I’ll buy me a Stootball team. Eppure in quelle classifiche c’era anche il seme di una musica altra che nel tempo è diventata alta. Gruppi musicali che hanno segnato un passo avanti nella storia del rock, della canzone d’autore. E anche se fuori dalle classifiche pop, i media riservavano sempre una significativa quota di interesse verso chi era “figli di un Dio minore”. E chi la passava al vaglio, non era gente così, ma critici musicali che in Italia e nel Mondo hanno scritto e raccontato la letteratura musicale del Novecento.

Ora non è che non siamo progressisti o incapaci di leggere il nuovo che avanza. Anzi. Però non ci va l’idea di essere dominati da un algoritmo che bombarda i nostri gusti. Non ci va di ascoltare voci perfezionate con l’auto-tune. Non se ne può più di rap, trap che non sono l’hip hop che stregò anche Miles Davis. E in tutta questa roba, non ci sembra nemmeno di ravvedere nemmeno i prodromi di qualcosa che cambierà la storia della musica. Anche per questo ci stupisce – ma nemmeno poi tanto – tutto il clamore e i premi e le partecipazioni di prestigio che hanno ottenuto, ad esempio, i Maneskin. La loro scrittura, il loro riusare gli strumenti musicali (si è osannato anche questo), come se usare chitarre, basso e batteria oggi fosse una bestemmia, non mi sembrano poi tanto distanti – per restare sul recente e in Italia – di gente come: Afterhours, Bluvertigo, Subsonica, Marlene Kuntz, 24 Grana, C.S.I., Verdena, Almamegretta, e chi più ne ha più ne metta, che pure avrebbero meritato premi e palcoscenici importanti. Ecco, ora qualcuno potrebbe dirci: voi siete tra quelli che ai miei tempi la musica era migliore. No! Ci piacerebbe solo che l’educazione alla musica passasse nelle mani di gente che la musica l’ha studiata – anche da un punto di vista storico sociale – e non in quelle di influencer bravi a trasformare tutto in prodotto di consumo. Gente che a una sequenza di accordi preferisce il look. Lo diciamo solo per proteggere il futuro. Altrimenti, ci ritroveremo come in un film di Bellavista e non capiremo, se sotto le macerie, avremo tra le mani un capolavoro e cesso scassato.

Carlo Pecoraro

I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto

Sempre in primo piano “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

Procedono le presentazioni dell’ultimo volume del nostro direttore, Gerlando Gatto, “Il Jazz italiano in epoca Covid”.
L’ultima, in ordine di tempo, il 20 agosto presso la terrazza del Kursaal di Giulianova gentilmente messa a disposizione dall’assessore Di Carlo.
Ed è stata una serata davvero magica, al di là di ogni più rosea aspettativa. Gatto si è presentato con al suo fianco il celebre musicista Renzo Ruggieri, uno dei migliori fisarmonicisti jazz a livello europeo. Il tutto impreziosito da un pubblico numeroso ma, quel che più conta attento ed entusiasta.
Gatto ha introdotto la serata con poche ma esaurienti parole sul volume in oggetto, lasciando quindi campo libero a Ruggieri il quale ha affascinato e commosso il pubblico con una sua splendida composizione “Terre”.
La serata è proseguita, quindi, con un serrato dialogo tra Gatto e Ruggieri con quest’ultimo che, oltre ad essere un grandissimo musicista, ha evidenziato una squisita sensibilità nell’illustrare le motivazioni e le valenze del volume. Ma, com’era logico attendersi, il pubblico ha particolarmente gradito le performances solitarie del fisarmonicista che ha presentato, in successione, altre due sue composizioni, “Carnevale” e “La lettera” per chiudere con il celeberrimo “Libertango”. Dal canto suo Gatto ha spiegato perché ha inteso il volume come una testimonianza giornalistica avendo preferito non esporre proprie idee ma lasciar parlare i musicisti.
Alla fine della serata Gatto mi ha confessato che la sua più grade soddisfazione era stata la dichiarazione di una gentile signora che, dopo averlo ringraziato per la presentazione stringata, senza fronzoli, aveva esplicitamente dichiarato che dopo aver sentito Ruggieri, aveva cambiato idea sul jazz: “Prima dicevo che non mi piaceva, ma se questo è jazz adesso lo adoro”. (Redazione)

In precedenza il 2 luglio, nell’ambito del Festival jazz di Palermo di cui vi abbiamo ampiamente riferito, nella splendida cornice del “Ridotto dello Spasimo” appuntamento con Gerlando Gatto per la presentazione del volume in oggetto. All’evento hanno partecipato anche Ignazio Garsia anima pulsante del Brass, Rosanna Minafò instancabile addetto stampa presso la fondazione Brass Group nonché Responsabile Ufficio Stampa presso Sicilia Jazz Festival, e la cantante Kate Worker. La serata è stata vivacizzata da polemiche sollevate da alcuni partecipanti: in effetti mentre Gatto, limitandosi a riportare le opinioni dei musicisti, sottolineava come gli stessi non fossero rimasti particolarmente soddisfatti del comportamento del governo durante quel terribile periodo del lockdown generalizzato, alcuni tra il pubblico hanno fortemente contestato queste affermazioni sostenendo che il governo si era mosso assai bene. E si è arrivati a sostenere che l’Italia era stata la nazione che meglio era riuscita a tutelare i musicisti rimasti senza lavoro, affermazione che francamente si può accettare solo presupponendo una precisa e ben individuata militanza politica. Comunque la serata è ben presto rientrata nei limiti di una piacevole dialettica grazie ad un canto alle pregevoli performance canore della Worker, dall’altro dal sempre puntuale intervento di Garsia che ha riprodotto la sua tesi (per cui ha lanciato una petizione) affinché la produzione delle 58 orchestre pubbliche sia estesa al Jazz, creando 1200 posti di lavoro per un’offerta più rispondente ai bisogni di musica del Paese .

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Parallelamente a queste presentazioni, si susseguono anche le recensioni sulla stampa. Questa volta ne segnaliamo due. La prima è uscita sul quotidiano La Sicilia di Catania di qualche giorno fa a firma di Leonardo Lodato e ve la riproponiamo integralmente:
MUSICA
Gerlando Gatto e il mondo del jazz ai tempi (duri) del Coronavirus (LEONARDO LODATO)
Il silenzio si fa musica. E viceversa. Può sembrare banale (o, forse, anacronistico) ma il libro “Il jazz italiano in epoca Covid” (pp. 217) è occasione e spunto di riflessione/i per chi fa musica e per chi la ascolta, perché il Covid, e soprattutto i consequenziali
lockdown, hanno modificato, se non radicalmente cambiato, certi modi di interpretare le “pause”, generando il silenzio come “sinonimo di attesa”.
Lo sa bene Gerlando Gatto che non vuole ergersi a saccente risolutore di problematiche esistenziali ma che, da ottimo conoscitore della scena jazzistica italiana, ha voluto raccogliere e mettere in ordine “sentimenti” e sensazioni, lo state of mind del mondo del jazz ai tempi del Coronavirus. Quarantuno gli artisti interpellati. Undici domande indirizzate ai protagonisti, per entrare nella loro vita privata o, per meglio dire, come accaduto a tutti noi, “derubata” della routine, del contatto diretto con gli altri. Ed è emblematico che a rispondere per primo alle domande di Gerlando Gatto, sia stato chiamato Claudio Angeleri, pianista e compositore nato proprio in quella Bergamo divenuta tristemente simbolo del disagio e del terrificante scontro con la prima ondata di Covid (e chissà per quanto tempo ci porteremo dentro agli occhi e al cuore, quella sfilata funebre di carri militari).
Racconta Angeleri: «Ho cercato subito di essere vicino ai giovani facendo quello che so fare meglio. Cioè insegnando e suonando… Cambieremo modo di essere e anche di fruire della musica per almeno i prossimi due/tre anni…». Forte delle sue frequentazioni, Gerlando Gatto coinvolge nel progetto artisti di caratura internazionale, pensiamo ad Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Franco D’Andrea. E tanti siciliani come lui (catanese di stanza a Roma), come Rosalba Bentivoglio, Francesco Branciamore, Cettina Donato, Pippo Guarnera e Stefano Maltese. Ma è con le parole della vocalist Enrica Bacchia che ci piace l’idea del ripartire da zero per ricostruire
il rapporto tra musica e musicisti, tra palco e spettatore. Da quelle «intuizioni ancora in fasce, campi positivi e negativi di energia con cui relazionarsi, filamenti di futuri astratti da condensare…».

La seconda è stata pubblicata su Alias (“Manifesto”) a firma di Luigi Onori già apprezzato collaboratore di “A Proposito di Jazz”.
UN LIBRO
Esce tre mesi dopo l’inizio del lockdown Il jazz italiano in epoca Covid. Parlano i jazzisti (pp. 218, GG edizioni), che il giornalista e critico musicale Gerlando Gatto pubblica nel giugno 2020. La sua è una delle «voci» jazzistiche più autorevoli: Gatto, attivo dagli anni Sessanta, esperienze dalla radio alla carta stampata, dalla tv al web, dal 2007 cura un blog-newsletter che nel ‘17 è diventato testata giornalistica:
A proposito di jazz. Ha realizzato, tra l’altro, due volumi di interviste nel 2017 e ’18 e
usa la forma-intervista nel nuovo testo per dialogare con 41 jazzisti di varie generazioni (E. Rava, L. Tucci), stili (S. Maltese, R. Ruggieri), strumenti (F. D’Andrea, F. Bosso), sesso (C. Donato, R. Bentivoglio).
Si serve di una griglia di undici domande modificandola quando possibile, a seconda
di come l’intervista sia stata raccolta, prevalentemente a distanza. I quesiti-base vanno dalla situazione economica alla mutazione delle relazioni umane e professionali, dai rapporti con istituzioni e organismi di rappresentanza al valore della musica e a cosa ascoltare durante l’isolamento.
Il pianista classico Massimo Giuseppe Bianchi, nella prefazione, specifica che l’autore «ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica (…). Gerlando capisce e ama la musica, rispetta i musicisti e da loro è rispettato nonché, come da qui traspare, riconosciuto quale interlocutore credibile (…). Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona (…). L’interesse del presente volume, ne sono convinto, non si esaurirà con l’estinzione del pericolo attuale».
Ha ragione il prefattore, perché se a una prima lettura si sente la mancanza di una
sintesi ragionata delle risposte, rileggendo Il jazz italiano in epoca Covid si apprezzano la varietà dei pareri e l’apertura delle idee. Ciò restituisce l’effetto traumatico, spiazzante del primo lockdown e fa capire, a distanza, come l’interpretazione del fenomeno e del suo impatto sia ancora «aperta». Ecco una breve antologia di risposte.
Francesco Cusa: «Ritengo che sarà molto difficile ripartire. Occorrerà approfittare di questo stallo per rivedere la politica dell’organizzazione musicale in Italia, liberarla dai gangli che la congestionano in clan e cordate, per una gestione e selezione più armoniche e meno elitarie. La parola d’ordine è comunque defiscalizzare».
Massimo De Mattia: «Credo che l’arte e la cultura siano il vero capitale, senza il quale oggi saremmo già tutti vittime della disperazione. Abbiamo bisogno
di assurgere a un nuovo stato emotivo di speranza e meraviglia, di folgorazione e
di sogno (…) Non vedo su quali altre forze contare. A parte l’amore».
Maria Pia De Vito: «Si stanno attivando moltissime catene di solidarietà, ed è una bella cosa. Per chi riesce a mettersi in ‘pausa’ nella pausa, è come un ritiro spirituale, una grande pulizia interna. Ma non ho molte illusioni sulle dinamiche dei ‘poteri’ che ritroveremo all’uscita da tutto questo».
Enzo Favata: «Ho deciso di riorganizzare il mio tempo, dando uno schema rigido alle mie lunghe giornate, suddivise con orari ed impegni precisi (…) 400 ore di registrazione, non voglio lasciarle in un cassetto e le cose più interessanti le sto rimasterizzando e mettendo online, sarà un lavoro che continuerò anche finiti i
tempi del coronavirus».
Paolo Fresu: «Seguo con attenzione le istanze del mondo dei lavoratori dello spettacolo che versano in condizioni di estremo disagio. Partecipo a una miriade di tavoli di discussione su questi temi e si sta tentando di mettere assieme tutti e di dialogare perché il nostro mondo è molto vasto ed altrettanto sfilacciato. Dirigo
anche le attività della Federazione Nazionale il Jazz Italiano, della quale sono il presidente».
Enrico Intra: «I rapporti tra persone si modificheranno per chi ha memoria del passato. Per chi non ha cura dei beni comuni che ci circondano e attenzione verso il prossimo non cambierà nulla. Lo dico per esperienza. Ho vissuto da bambino quel drammatico periodo della Seconda guerra mondiale, la povertà del dopoguerra
e certi avvenimenti tragici che hanno segnato la nostra Repubblica qualche decennio
dopo».
Nicola Mingo: «Cerco di reagire mantenendo un contatto diretto con il pubblico (…) attraverso i social. Organizzo dirette e video party con miei home concert, invitando i follower e gli appassionati per stare in compagnia e far ascoltare la mia musica. Il vantaggio dei social è che ti (…) consentono la comunicazione diretta con musicisti e appassionati da ogni parte del mondo».
Franco Piana: «Spero che (il Covid, ndr) ci faccia capire quanto è importante dare la
precedenza alle persone piuttosto che alle cose, siamo sempre troppo presi da noi stessi e abbiamo poco tempo da dedicare alle persone care o a quelle bisognose».

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita (parte 2)

Pubblichiamo la seconda parte della recensione di Flaviano Bosco sul Festival Internazionale Udin&Jazz, 32esima edizione, svoltosi a Udine dal 25 giugno al 16 luglio 2022 (clicca qui per leggere la prima parte)

Rosa Brunello è una delle certezze della giovane musica italiana. Figlia d’arte, di ottima formazione, è coinvolta in innumerevoli progetti musicali ed ha al proprio attivo molte collaborazioni anche con artisti internazionali. Il suo quintetto è composto da professionisti della sua stessa pasta che in qualche modo gravitano attorno al pianeta creativo dell’estroso trombonista Gianluca Petrella. La contrabbassista ha voluto mettere a frutto le sue innumerevoli esperienze musicali in un’incisione che interpreta le ultime tendenze del jazz che vedono come capofila i soliti giovani leoni della scena inglese con i loro mash-up di elettronica, nu-jazz, free form, Techno, Trance, World Music, tutte etichette giornalistiche che non dicono moltissimo ma che servono a delimitare un oggetto musicale, altrimenti non facilmente definibile. La musicista si è dimostrata coraggiosa e ardita a provarci, certo ha investito molto del suo talento in un progetto che ha buone prospettive ma che, almeno dal vivo, dimostra qualche reticenza o quanto meno il bisogno di essere maggiormente rodato. Comunque l’insieme è una perfetta espressione della forza gentile e del cuore cortese e generoso della giovane, affascinante contrabbassista che forse potrebbe osare di più.

Completamente fuori registro invece il celebre chitarrista Al Di Meola, la cui esibizione ispirata alle canzoni dei Beatles (Across the Universe) era tra le più attese dell’intera rassegna. Nessuno può mettere in dubbio le sue capacità tecniche e la sua meritata fama a livello mondiale ma a Udine ha dimostrato un’assoluta mancanza di rispetto per il suo pubblico e un’insospettabile irascibilità prendendosela con l’organizzazione e con il service fin dal sound check pomeridiano.
Irritato e risentito, per motivi probabilmente nemmeno chiari a lui stesso, si è fatto attendere per più di un’ora dal pubblico ignaro già in sala. Dopo mille esortazioni e preghiere dell’organizzazione si è deciso a salire sul palco accolto da una selva di fischi e di booo del pubblico che l’aveva tanto atteso. Non si è minimamente scusato rivolgendo parole decisamente insultanti ai tanti paganti accorsi per ascoltare la sua arte. Ne è seguita, naturalmente, un’esibizione nervosa, scostante, sbrigativa e autoreferenziale; il chitarrista ha suonato al peggio di sé con sommo rancore e nessuna empatia. Una serata sbagliata può capitare a tutti ma il chitarrista ha davvero passato il segno.
Molto meglio la serata successiva con la presentazione dell’ultimo lavoro del vulcanico collettivo italiano C’Mon Tigre e quello del Vjay Iyer Trio, incredibile protagonista della scena jazz mondiale.
I primi sono l’esempio perfetto di ciò che si può intendere per musica socialmente impegnata che però non abdica anche alla propria funzione d’intrattenimento. “Scenario”, l’ultimo album dell’ensemble ad organico variabile, vive letteralmente dei suoni della diaspora migrante dei nostri fratelli in cammino lungo le vie della speranza e della libertà. C’Mon Tigre collabora da anni con il fotografo di guerra della Magnum Photos, Paolo Pellegrini, che ha documentato, tra l’altro, il dramma dei profughi delle guerre africane e mediorientali sia sulla rotta balcanica, sia su quella Mediterranea. Con gran gusto estetico per il light design e le coreografie, l’ensemble sonorizza sul palcoscenico quella drammatica esperienza esistenziale, visivamente documentata dalle fotografie, facendo riferimento all’Afrobeat, al indie-rock, alla world music nelle loro declinazioni elettroniche e clubbing in un’atmosfera complessiva che forza le frontiere del jazz fino a dissolverle. Un’esibizione che davvero ha lasciato un segno nel cuore di tutti.

Indimenticabile anche il concerto di Vijay Iyer della contrabbassista Linda May Han Ho e del batterista Tyshawn Sorey. Un trio all star di musicisti straordinariamente dotati, al vertice del nuovo jazz a livello planetario. Nemmeno qui sono mancati i riferimenti all’impegno civile e politico della musica. Il pianista ha come modello d’ispirazione primaria l’opera poetica di Amiri Baraka con il quale ebbe una fruttuosa collaborazione. Sappiamo bene quanto fosse radicale la critica al regime capitalistico e schiavistico del poeta afroamericano che nel 2008 fu anch’egli ospite graditissimo di Udin&Jazz. Iyer a proprio modo se ne fa portavoce con una musica tellurica e carica di una bellezza abrasiva e indiavolata che non lascia indifferenti, esplosiva e perfino tribalistica nella sua essenza esplosiva e dirompente. In concerto, il trio s’impegna in lunghissime, compatte e travolgenti suite che sono un’esperienza immersiva e totale per musicisti e pubblico uniti in un percorso interiore di eccezionale valore.

Tra le conferme del festival anche quest’anno la “serata brasiliana” ispirata dal conduttore radiofonico Max De Tomassi, grande esperto della musica latinoamericana che durante tutta questa edizione di Udine&Jazz trasmetteva le cronache della rassegna in diretta su Radio Uno RAI nel suo programma estivo “Torcida”.
Il concerto del cantautore Ivan Lins, autentico monumento vivente della musica Popular brasileira, è stato il meraviglioso compimento di un breve interessante percorso tra interviste e approfondimenti che anche quest’anno ha avvicinato il pubblico di Udine all’universo creativo della musica tropicale.
Lins ha deliziato il pubblico con le sue melodie suadenti fatte di lontane nostalgie e dolcezze   di caramelle tra sofisticato jazz main stream e ritmi sudamericani del Samba e della Bossa Nova.

L’evento finale della rassegna udinese, il concerto degli Snarky Puppy è andato in scena in un gremitissimo Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Centinaia di fan aspettavano con ansia da mesi questo concerto che non ha deluso per nulla le aspettative. Il supergruppo di League e Lawrence ha una preparazione tecnica e una capacità esecutiva fuori dall’ordinario che lascia basiti e ipnotizzati gli ascoltatori. Grandissima e coinvolgente la verve compositiva del gruppo che sul palcoscenico rivela un’energia che fa sognare e ballare e che fin dalle prime note disegna un largo sorriso sul volto di tutti da una parte all’altra del palcoscenico. Generosissimi si sono impegnati in un acclamatissima esibizione, con trionfale, meritata ovazione finale di tutto il teatro giusta conclusione di un festival come sempre tutto maiuscolo.
Dulcis in fundo da non dimenticare due iniziative per nulla minori che rivelano la cifra della manifestazione e le sue prospettive.
Il festival ha attivato un’interessante collaborazione con il collettivo Muud, acronimo di Musica a Udine, che normalmente si occupa di promuovere giovani artisti locali attraverso un canale di podcasting finalizzato alla condivisione di contenuti culturali sui social. Il sodalizio già sperimentato nelle due edizioni Winter di Udin&Jazz, ha trasmesso in diretta streaming interviste e succulenti approfondimenti in deliziosi dopo-concerto in un accogliente pub della notte udinese.

Di grande significato il gioioso Workshop d’introduzione al Jazz dedicato ai bambini nel quale, attraverso suoni e giochi, i più piccoli hanno giocato con le note blu. La loro fresca, genuina creatività è la migliore garanzia per il futuro della musica; al loro cuore è dedicata ogni emozione, saranno loro a decidere direzione e prospettive, qualunque percorso sceglieranno sarà quello giusto perché apparterrà solo a loro, di tutto il resto avrà ragione il tempo.
In fondo a queste righe è utile ripetere una celebre frase di John Coltrane che come sempre ci esorta a meditare sull’Amore supremo:
“Il Jazz se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica per me è un’espressione degli ideali più alti: c’è dunque bisogno di Fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra… with brotherhood, there would be no war.”

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia Udin&Jazz Festival e il suo ufficio stampa per la collaborazione e i fotografi Luca A. d’Agostino, Angelo Salvin e Gianni Carlo Peressotti per le immagini.

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro

L’articolo su Charles Mingus e la Rotary Perception apre una interessante discussione tra musicisti e critici!

L’articolo del nostro giovane musicologo Alessandro Fadalti: “Charles MIngus e la Rotary Perception – Percepire il suono dentro un cerchio“, un’analisi controcorrente scaturita da una parola dimenticata nascosta tra le righe dell’autobiografia del leggendario contrabbassista “Beneath The Underdog” , ha aperto interessanti spunti di riflessione tra musicisti e critici musicali.
Per un problema tecnico al sito, che impedisce la libera immissione dei commenti in calce agli articoli, la redazione ha deciso di pubblicare i due più significativi, in attesa di potervi nuovamente leggere, numerosi e stimolanti come sempre, qui su a Proposito di Jazz.
Il primo è di Dino Betti van der Noot, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, uno dei massimi esponenti del jazz italiano:
«Interessantissima analisi di Alessandro Fadalti: una bella scoperta (almeno per me) e un corretto inserimento musicologico all’interno della testata.
Il problema della scansione quasi metronomica su cui inserire interventi ritmici contrastanti mi ha sempre affascinato.
Nel caso di Mingus, ma anche di molti musicisti post-bop c’è anche un’apparentemente casuale asincronia negli attacchi delle note. Ma ritengo molto più interessante la contemporanea esistenza di frasi che si snodino senza tener conto della ritmica di base (che comunque si deve percepire) e di accenti che cadano in punti differenti da quello in cui, teoricamente, dovrebbero cadere.
Purtroppo, Alessandro Fadalti ha perfettamente ragione anche a proposito di certe riprese, che mancano del senso di scoperta, di invenzione stupita, degli originali. Il jazz, contrariamente alla musica accademica, perde gran parte della sua forza dirompente quando è oggetto di riprese e ripetizioni.
Complimenti a Fadalti e alla testata! Dino Betti van der Noot»

Il secondo commento è di Amedeo Furfaro, giornalista, critico musicale e musicista:
«Interessante, oltre al contenuto, il procedimento per cui dal particolare di un’ intuizione si arriva ad una più generale analisi della musica di Mingus, aprendo nuovi scenari alla lettura del musicista».

Infine, giocando un po’ con una citazione del filosofo Diogene di Sinope, potremmo concludere dicendo che le fondamenta della  musica sono l’istruzione dei suoi giovani. E Alessandro, nostro giovane autore del quale stiamo coltivando il talento anche nella scrittura, è Dottore in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo (DAMS – Università di Udine) e sta studiando per conseguire la Laurea Magistrale in Musicologia all’Università di Pavia, sede di Cremona, oltre ad essere un batterista. Vi svelo un segreto, Faddo (la sua cerchia di amici lo chiama così)  l’ho scoperto nel 2018: ero la sua tutor per il tirocinio di ufficio stampa che portò a termine, me l’aveva inviato l’Università di Udine. Si sa, i tirocinanti vanno e vengono, ma Alessandro, da quel momento, non l’ho più perso di vista. Sono certa che sentiremo parlare di lui.

Marina Tuni