A Roma applausi per Branciamore Blaiotta e Canale-Spinello

Tanto buon jazz a Roma: tra domenica 7 aprile e sabato 14 aprile abbiamo assistito ad alcune performance di eccellente livello presentate alla Casa del Jazz e al Teatro Studio dell’Auditorium.
Ma procediamo con ordine.

Domenica pomeriggio alla Casa del Jazz, in programma il piano-solo del siracusano Francesco Branciamore. L’artista si è affermato nel panorama internazionale come batterista di straordinario talento, collaborando con alcuni dei più bei nomi del jazz italiano e internazionale quali Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Pier Favre, Paul Rutherford, Michel Godard, Enrico Rava, Gianluigi Trovesi, Enrico Intra, Eugenio Colombo, Paolo Fresu. Negli ultimissimi anni ha deciso di cambiare strada e misurarsi con il pianoforte, strumento certo non facile da affrontare. Dopo un periodo di studi ecco i risultati: due album, in ordine cronologico «Aspiciens Pulchritudinem» del 2018 e «Skies of Sea» del 2021. Ed è proprio da queste due produzioni che Branciamore ha tratto la maggior parte dei brani presentati a Roma.
Il pianismo di Branciamore è abbastanza particolare: intendiamoci, nessuno sforzo di stupire l’ascoltatore né tanto meno di evidenziare una tecnica prodigiosa. Dinnanzi allo strumento, il pianista è come se mettesse a nudo la sua natura. Di qui una musica che magari dapprima ti lascia indifferente ma che poi, con il trascorrere dei minuti, ti entra dentro proprio perché hai la sensazione di ascoltare un moto dell’animo. Francesco non ha timore di evidenziare il suo essere tendente alla malinconia, ma lo fa con gusto con misura, senza esagerare. Anche la natura dei brani è funzionale a questo disegno. Brevi bozzetti di circa tre minuti con Branciamore impegnato a mai perdere il filo del discorso che si svolge con straordinaria continuità senza che l’ascoltatore percepisca un attimo di stanca, peggio ancora di dejà vu.
Molti i momenti particolari anche se ci ha particolarmente colpiti il sentito omaggio al leader del gruppo EST, il compianto Esbjörn Svensson, “Thinking to EST”.

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Ed eccoci lunedì sera all’Auditorium Parco della Musica, Teatro Studio, per il doppio concerto del quintetto di Danilo Blaiotta e del gruppo Moonari.
Danilo Blaiotta è di sicuro uno dei personaggi più interessanti affermatosi in questi ultimi tempi. Pianista, compositore, arrangiatore, scrittore ha da poco pubblicato un interessante album dal titolo suggestivo e altamente simbolico “Planetariat”. Due sono le fonti che hanno ispirato questo album: il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa e conosciuto personalmente dal pianista; l’esigenza di denunciare le innumerevoli storture che Blaiotta percepisce nella società di oggi. La sua, in effetti, è musica “sociale” nel senso che, come sottolinea lo stesso artista, non si limita ad osservare ma va ben oltre denunciando “un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”. Di qui undici brani che ci parlano di problemi tanto attuali quanto drammatici: la situazione a Gaza, lo sfruttamento continuo e costante dell’Africa, la follia dei computer della Borsa di New York, i numerosi attacchi in Medio Oriente da parte dell’organizzazione militare del patto atlantico, una dedica alla Madre Terra, l’assurdità di chi è pagato per uccidere un altro uomo, altra dedica questa volta a Gino Strada, un breve Requiem per le morti nel Mediterraneo, un omaggio alla resistenza del popolo greco nei confronti dell’ingerenza economica da parte di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, a chiudere, un grido di dolore e di pietà della parte sfortunata del mondo nei confronti dell’oppressione militare, economica e bancaria del capitalismo moderno. Come si nota un vero e proprio cahier de doléance delle gravi storture che attanagliano il mondo. Ovviamente si può essere più o meno d’accordo con le tesi sostenute da Blaiotta ma in questa sede ci interessa molto di più la sua musica.
Bene, partendo da queste premesse, anche ciò che abbiamo ascoltato all’Auditorium conferma le ottime impressioni che l’album ci aveva suscitato: a nostro avviso non c’è alcun dubbio circa l’onestà intellettuale del compositore. La sua musica non ha – e non può avere – alcunché di consolatorio ma si svolge dura, spigolosa, quasi senza un attimo di tregua con i cinque perfettamente in linea, pronti ad assecondare le intenzioni del leader, pronti ad unirsi a quella sorta di grido di dolore che la musica, a volte lancinante, evoca. Tutto bene, dunque?
Non proprio. Come si accennava, parte integrante del progetto sono le liriche di Jack Hirschman che si possono ascoltare in ben sette degli undici pezzi e che contribuiscono non poco alla valenza del progetto. Bene, abbiamo usato il termine “ascoltare” ma del tutto impropriamente in quanto, per una non felice presa di suono, le poesie recitate con passione dalla vocalist Valentina Ramunno, sono state praticamente inascoltabili, con ciò orbando il set di un elemento davvero importante. E questo dimostra ancora una volta come un concerto sia la risultante di più fattori tra cui i tecnici del suono che non sono certo all’ultimo posto.

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Domenica 13 eccoci nuovamente alla Casa del Jazz per ascoltare la vocalist Sonia Spinello in trio con Eugenia Canale al pianoforte e Achille Succi al sax alto, clarinetto e clarinetto basso.
In programma la presentazione dell’album “Flow” cofirmato da Sonia Spinello e Eugenia Canale, ed uscito recentemente per l’abeat.
Due i presupposti su cui si fonda l’intero progetto: da un lato un’accurata ricerca timbrica, dall’altro la possibilità di un’improvvisazione estemporanea considerata come il filo conduttore dell’intero impianto narrativo.
Per quanto concerne il primo elemento, Spinello e Canale collaborano oramai da parecchio tempo e il loro connubio artistico è in grado di produrre frutti copiosi. Le abilità pianistiche della Canale (grande tecnica, speciale senso estetico, gusto per il non usuale) si fonda perfettamente con il canto della Spinello che già in passato aveva dimostrato di intendere la voce come una sorta di sussurro dell’animo, una forma dolce, gentile, di comunicare stati d’animo, emozioni. Di qui una musica delicata, introversa, che poco concede allo spettacolo ma molto alla riflessione, una musica che ti induce a riflettere, a meditare, a cercare un rapporto più stretto con la propria spiritualità… ove se ne sentisse il bisogno, cosa tutt’altro che scontata.
Così è facile avvertire la musica come un flusso che si sviluppa costantemente senza una precisa scrittura: come accenna la stesa Spinello, nell’album si lascia che la musica prenda forma dall’ascolto reciproco e fluisca trasformandosi continuamente. Come conseguenza tra l’ascolto del disco in cui figurano molti ospiti e il live non si avverte molta differenza anche perché Achille Succi, con i suoi centrati interventi – anche in questo caso senza alcuno sfoggio di tecnica fine a sé stessa – riesce a dare il giusto colore a situazioni non banali.
Insomma un gran bel concerto che conferma appieno quanto di buono abbiamo già scritto sul conto della Spinello la cui collaborazione con Eugenia Canale siamo sicuri darà ancora risultati apprezzabili.

Gerlando Gatto

Graffi neri con la poesia di Hirschman e la musica di Blaiotta

Sabato 4 novembre il nostro collaboratore Danilo Blaiotta ha presentato alla Casa del Jazz di Roma il suo ultimo lavoro discografico “Planetariat”. La cronaca della serata nelle parole di Maria Elena Danelli

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Graffi neri, violenti, l’urlo della Poesia di Jack Hirschman fluisce nella piena contemporaneità in quel magma in cui siamo contenuti e ci muoviamo nello spazio.
Qualcosa è accaduto per chi, la sera del 4 novembre 2023 alla Casa del Jazz a Roma, ha assistito alla Prima di “Planetariat” il monumentale Progetto di Danilo Blaiotta, ispirato ai testi del poeta Jack Hirschman e dal personale senso umano, ovvero il coinvolgimento fisico, emozionale che ha privilegiato i presenti all’ascolto di qualcosa che prima non c’era, o meglio, c’è e aspettava di essere catturato dal limbo e venir partorito per esporci alla consapevolezza del qui e ora, in continuo fluire.
Le lettere di Jack diventano immagini struggenti, strazianti, stratificazioni coinvolgenti culminanti in suono di sirena, in un vocìo di soliloquio in cui ciascuno di noi si può ritrovare, la voce della disperazione.
Stratificazioni e intersezioni, l’Artista deve essere contemporaneo, la sua è una missione di denuncia nella società e Blaiotta c’è e ci prende con lui per questo viaggio, che non ci lascia indenni, ci coinvolge e oltrepassare quella soglia è una presa di consapevolezza.
Il Progetto “Planetariat” vede Eleonora Tosto quale sublime vocalist, con altezze graffianti e dolcissime, a volte soffio a volte schiaffo. Un reading, il suo, da cui emergono le parole di Jack, e per chi ha avuto il privilegio di conoscerlo è stato come se lui fosse presente in mezzo a noi.
Il quintetto vede Achille Succi ai sax, fluido professionista della poesia dell’aria, magnetico gentile Signore della Musica, Stefano Carbonelli alla chitarra, silenzioso e riservato magma che scorre e Cesare Mangiocavallo alla batteria, con un timing esatto.
Questo è il terzo album a nome del pianista Danilo Blaiotta, il cui titolo cita un neologismo contenuto nel linguaggio poetico di Hirschman – personaggio della controcultura americana, recentemente scomparso – ovvero il “Planetariato”, l’insieme degli abitanti del Pianeta Terra con chiaro riferimento al proletariato, definizione di quella parte di esseri umani che vivono nelle più estreme difficoltà.
Una delle particolarità del Progetto di Blaiotta è l’acronimo che nasce dalle iniziali degli undici brani in esso contenuti e che danno origine a “Human Rights”, due parole la cui valenza insieme prende corpo e vita, determinazione, canto universale che non vuole cedere alla sopraffazione del diritto alla vita e alla dignità dell’esistenza.
Questo Viaggio-Progetto, mai quanto ora è contemporaneo, attuale, nel qui e ora. In una società che si stringe sempre più come una morsa sui più fragili, in cui si sta smarrendo la rotta della civile coesistenza, in cui l’incitamento all’odio e al divario tra culture e ciò che non viene ricondotto ad una identificazione sbrigativa, si impegna, con la voce della Poesia alla resistenza. La Poesia ha voce di tuono anche in un filo d’erba che – più di un albero ben radicato – è in grado di sfidare le tempeste, è sconcertante e sbalorditivo mezzo di comunicazione, la cui esistenza ci sostiene ed è dovunque, sotto gli occhi di tutti, basta solo guardare.
Undici i brani contenuti nel Progetto (la cui copertina rossa è un’opera di Aurora Parrella), il cui ascolto è sorvolare la complessità della visione dell’Essere Umano, sembra quasi di ascoltarne il dialogo tra l’attività cerebrale, il sangue scorrere nelle vene, il battito del cuore, sfaccettature di sguardi nell’attualità e spazi altri, apparentemente caotici ma riconducibili con empatia ad una possibilità di riscatto (“Human Being”, l’ouverture di Planetariat). Il cuore prosegue il suo battito, coraggioso, osteggiato dal deflagrare delle bombe, il fragore delle armi, le urla della disperazione, uno scontro a due in cui nessuno vuole retrocedere, tutte voci accompagnate e trasformate dagli strumenti, i cui fili sono legati nella loro complessità dalla voce di Eleonora Tosto. (“Under Attack. Gaza”). Tuonante si sente anche la voce di Hirschman dando vita a brividi di emozione, come fosse presente, come non ci avesse mai lasciato.
Tutto assume il non-colore del bombardamento sulle città, l’odore delle macerie, la musica del caos in cui nulla è più riconoscibile, tutto è coinvolto in una prospettiva dove il cielo è dovunque e nella sua espressione ci è indifferente, ostile.
“Why don’t eyes come around anymore?” ci dice Hirschman con estrema triste dolcezza (“Real Earth”). Tutto è intorno a noi, il possibile è accanto a noi. Tutto potrebbe essere.
Insomma, essere coerenti, essere Umani e Danilo ci ha ricordato chi siamo con la determinazione della sua illuminazione.

Maria Elena Danelli

Danilo Blaiotta: c’è bisogno di un jazz “politico”

Tra i tanti dischi che mi arrivano, ce n’è stato uno che mi ha particolarmente colpito per la materia trattata e per come la musica fosse assolutamente pertinente con le enunciazioni dell’artista. Sto parlando di “Planetariat” inciso dal pianista e compositore Danilo Blaiotta che i lettori di “A proposito di jazz” conoscono già come raffinato commentatore avendo egli stesso scritto alcuni articoli che hanno trovato unanimi consensi.
L’album è stato registrato per Filibusta Records da un gruppo comprendente Eleonora Tosto voce recitante e voci, Achille Succi sax alto e clarinetto basso, Stefano Carbonelli chitarra e voci ed Evita Polidoro alla batteria.
Spinto dalla curiosità di capire meglio le motivazioni di Blaiotta, gli ho chiesto un’intervista e ciò che leggerete qui di seguito ne è il risultato.

– Innanzitutto un complimento nel senso che veramente di rado la musica che si ascolta nel disco corrisponde alle reali intenzioni del musicista. Nel suo caso invece la coerenza tra musica e titoli è perfetta: ascoltando il disco si immagina immediatamente ciò che voleva esprimere. Una musica “politica” nell’accezione più alta del termine.
“Sì, ha ragione. Si tratta di un disco “politico” anche se io amerei definirlo meglio un disco “sociale”. Ho avuto una frequentazione molto gratificante con il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa, il quale ha avuto un forte impatto non solo emotivo, estetico ma anche di carattere politico e sociale sul mio modo di vedere la realtà. In effetti l’ho conosciuto da piccolo, grazie alle frequentazioni della mia famiglia, mio padre in particolare, poeta e pittore. Alla sua scomparsa ho messo insieme due cose: il dolore per la sua perdita e le mie impressioni sull’attualità”.

– A suo avviso è riproponibile una sorta di “jazz politico” come quello che abbiamo registrato negli anni ’70 con i molteplici equivoci che si è portato appresso?
“A mio avviso è molto più importante oggi piuttosto che negli anni Settanta. In quegli anni si era appena usciti dal boom economico e nel mondo si registrava un certo tasso di eguaglianza che oggi ce lo sogniamo. Quindi, ripeto, oggi è molto più importante la presenza di un jazz politico o comunque di forme d’arte che vanno verso il sociale; il problema è che oggi queste denunce si fanno sempre meno. Forse si ha paura, intendiamoci più che lecitamente, di farle. Non a caso, ascoltando questo mio disco, in molti hanno sottolineato il coraggio di aver voluto parlare di certi argomenti. Probabilmente se ne sente il bisogno ma non si trova lo spazio”.

– Lei lo spazio l’ha trovato; allora perché non lo trovano anche gli altri?
“Intendiamoci: certo che si può fare; il problema è che magari non ci si vuole esporre a certi giudizi che potrebbero nuocere alla diffusione delle idee, in questo caso trasmesse attraverso la musica. A ciò si aggiunga un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”.

– Ma lei non pensa che una denuncia del genere proveniente dall’ambiente del jazz italiano , non proprio esemplare, possa risultare poco credibile?
“In che senso?”

– Io credo che una denuncia di tal fatta debba provenire da chi ha tutte le carte in regola per poterla fare; ecco a mio avviso il mondo del jazz italiano tutte queste carte in regola non le ha…
“Lei cerca di farmi dire delle cose che forse è meglio che io non dica. Il jazz italiano, come tutto ciò che accade nella nostra società negli ultimi anni, si è un po’ arreso dinnanzi allo spirito critico, si è forse imborghesito…se possiamo utilizzare questa espressione. Adesso faccio un parallelismo con la musica classica: sia in questa sia nel jazz il pubblico va lentamente scomparendo come effetto di una certa auto-ghettizzazione. Nella classica il pubblico ha di media 70-80, nel jazz magari ne ha 60 ma proseguendo di questo passo le conseguenze sono facilmente immaginabili. C’è poi un altro fattore: tutto sta diventando molto accademico; anche i jazzisti della mia generazione devono quasi difendere un fortino piuttosto che trasmettere una denuncia. La difesa del fortino produce l’implosione delle idee mentre bisognerebbe capire come entrare nella società contemporanea, certo non solo con le denunce.”

– Tutto giusto; ma una domandina semplice semplice: come se ne esce?
“Ovviamente non è una risposta facile; innanzitutto bisogna uscirne vivi fisicamente e intellettualmente. E poi bisogna uscirne politicamente, ma se non c’è cultura non c’è politica. I momenti di massima proliferazione culturale coincidevano con i periodi in cui anche l’economia andava molto bene; le due cose sono collegate. Molto spesso si associa la proliferazione culturale al denaro ma perché non provare a fare l’inverso, cioè servirsi della cultura come volano per migliorare la situazione economica di tutti. Ecco, questa è la sfida che ci attende anche perché altrimenti non credo ne usciamo, tanto per tornare alla domanda”.

– Dopo che ci siamo sfogati sul piano sociale, parliamo di musica tornando al disco. A me pare che ogni brano abbia una sua ben individuabile specificità. E’ così?
“Assolutamente sì. Intanto sono molto felice di aver suonato con questo quintetto nuovo di zecca, dopo aver prodotto in piano trio – con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria– due dischi di stampo acustico. Questo è un disco che trascende dalle precedenti esperienze anzitutto dal punto di vista timbrico: ho composto i brani partendo dall’elettronica, affidandomi totalmente all’espressività di tale strumentazione per la scrittura, cosa mai avvenuta prima per quanto mi riguarda. E poi sono lietissimo di aver collaborato con musicisti straordinari: anzitutto la grandissima attrice e cantante Eleonora Tosto, mia partner in tante produzioni sia musicali che teatrali, e poi Stefano Carbonelli (chitarra e voci) e Achille Succi (sax alto e clarinetto basso) quest’ultimo al mio fianco in svariati progetti già dal 2011. Infine c’è Evita Polidoro che è una scoperta incredibile, una batterista straordinaria non a caso molto richiesta anche da stelle di primaria grandezza come D.D. Bridgewater e Enrico Rava. Tornando alla domanda, inizio con il far notare l’acrostico che fuoriesce dalle prime lettere degli undici brani – “Human Rights” – palese omaggio ai diritti umani. Quasi tutti i brani contengono i versi del poeta Jack Hirschman citato prima. Il mio è dunque anche un omaggio, oltre che alla sua arte, alle sue battaglie contro il capitalismo sfrenato e senza regole”.

– E per quanto concerne i singoli brani?
Il disco si apre con “Human Being” che è una sorta di ouverture; successivamente la voce di Hirschman introduce “Under Attack. Gaza” evidentemente inerente ai bombardamenti nella striscia di Gaza, seguito da “Mama Africa. Multinationals’ Hands of Blood” un omaggio all’Africa da sempre depredata dalle multinazionali. Con “A Street of Walls” ho voluto rivolgere una critica al sistema capitalistico mentre con “Nasty Angry Tyrannical Order” ho rinominato la NATO con riferimento a quel ventennio di aggressioni in Iraq e Afganistan che ha prodotto i guasti che tutti conosciamo, più di un milione di morti.  Il sesto brano è una bellissima poesia di Jack, “The Homeland Arcane” da cui ho tratto “Real Earth” , dedicato all’inquinamento ambientale, probabilmente il problema più grave e urgente del nostro pianeta; a seguire una critica all’imperialismo, “Imperialism. Unequal Feelings” (feeling diseguali). “Gino’s Eyes” è un omaggio a Gino Strada, agli occhi di questo straordinario uomo che negli ultimi tempi vedevo particolarmente stanco e sfiduciato, forse perché provato da ennesime guerre. Di certo erano anche occhi dolci: tutti gli uomini buoni hanno uno sguardo che esprime tenerezza e ciò spiega perché il brano è composto in forma di ballad. “Hiddens. A Mediterranean Requiem” vuole invece ricordare i troppi morti annegati nelle acque del Mediterraneo; poi con “Troika’s Madness. For Hellas” c’è una violenta critica a ciò che è successo nel 2015 quando la famigerata Troika sostanzialmente rovinò la Grecia e portò alla disperazione migliaia di persone…la Grecia è fondamentale per l’Europa, per l’Italia, senza di essa non ci saremmo stati tutti noi e non a caso per scrivere questo pezzo ho utilizzato la scala misolidia antica, inventata – a quanto si tramanda – dalla poetessa Saffo, che corrisponde alla moderna scala frigia nel jazz. C’è da sottolineare che ad ogni brano si accompagna una poesia di Hirschman dedicata all’argomento in oggetto. L’album chiude con “Stop!” che vuole essere un appello a far sì che non accada più tutto questo”.

– Qual è il brano cui è più affezionato?
“Cerco di capirlo io stesso ma non è facile. Non so decidermi. Quando scrivo i miei album li strutturo come fossero parte di una suite, anche se questa volta ciò non appare così chiaramente come ad esempio nel precedente. E’ comunque difficile scegliere un brano specifico all’interno di un contenitore in cui si susseguono diverse situazioni”.

– La produzione è…
“Di Filibusta Records, che mi segue fin dal primo album a mio nome. Spesso oggi si parla piuttosto male delle case discografiche. C’è da dire, però, che nella melma ci sono sì i musicisti ma anche le case discografiche in quanto sui diritti d’autore non è che si guadagni chissà quanto. Siamo tutti nella stessa barca: basti pensare che i produttori nel jazz fanno tutti un altro mestiere. Comunque qualcosa da migliorare ci sarebbe, ad esempio in SIAE: non capisco perché il diritto di autore debba essere ricompensato sulla base degli ascolti e non su un auspicabile livellamento. Secondo me l’apice di questa rovina è stato il principio dell’uno uguale uno perché se tutto è generato dal mercato siamo davvero alla fine”.

– Ancora con riferimento al disco, anche la copertina è particolarmente indovinata, del tutto pertinente con la musica.
“Sì, la copertina è molto bella: è di Aurora Parrella, una giovane pittrice e restauratrice molto brava, un olio su tela che le ho commissionato io stesso. Poi ci sono le foto di Laura Barba e voglio ringraziare molto Enrico Furzi del Recording Studio La Strada e il suo assistente Francesco Bennati, perché abbiamo fatto un lavoro egregio: questo disco non è stato semplice da registrare”.

Gerlando Gatto

I nostri CD

ACT – Compilation in primo piano Predisporre delle compilation è impresa allo stesso tempo facile ma estremamente rischiosa. Facile perché quando si ha a disposizione un catalogo piuttosto ampio e variegato come quello della ACT risulta agevole scegliere fior da fiore e produrre un album. Il rischio, o meglio la difficoltà consiste nel trovare un filo rosso che leghi in maniera plausibile i vari artisti presentati. E crediamo che sotto questo profilo le scelte della casa tedesca risultano appropriate. Ecco quindi le tre ultime compilation che vi presentiamo in questa sede.
In “Romantic Freedom – Blue in Green” la ACT risponde a quella che è sempre stata una sua antica mission, valorizzare i giovani pianisti talentuosi che man mano si affacciavano sulla scena europea. Ecco quindi raccolti alcuni artisti – in solo, in duo o in trio – che nel corso degli anni sono diventati elementi di primissimo piano nel panorama internazionale e non solo europeo. Qualche nome: Esbjörn Svensson, Joachim Kühn, Michael Wollny, Iiro Rantala, David Helbock, Leszek Mozdzer, Johanna Summer, Bugge Wesseltoft, Carsten Dahl, Yaron Herman, Jacob Karlzon…Insomma una fotografia quanto mai esaustiva della scena pianistica europea a tutto vantaggio, sia di giovani appassionati che ancora poco conoscono, sia di “vecchi” appassionati che magari hanno voglia di sentire uno dopo l’altro alcuni dei loro pianisti preferiti.

“Magic Moments 14 – In the Spirit of jazz” è una compilation fortemente voluta dal boss dell’etichetta Siggi Loch, il quale – informa l’ufficio stampa della stessa ACT – ha personalmente selezionato con cura i migliori titoli recenti dal suo catalogo. Una accanto all’altra possiamo così ascoltare le star dell’etichetta: Nils Landgren, Emile Parisien, Nesrine, Lars Danielsson, Joachim Kühn, etc. In repertorio sedici brani che illustrano al meglio da un canto ciò che il jazz ha rappresentato nel mondo, dall’altro quale sia ancora oggi la sua capacità di unire, di creare un ponte tra gli uomini indipendentemente da qualsivoglia barriera di etnia o di religione.

“Fahrt ins Blaue III – dreamin’ in the spirit of jazz” in oltre un’ora di musica offre un momento di sincero relax pur restando a tutti gli effetti in territorio jazzistico. D’altro canto gli artisti scelti non ammettono obiezioni al riguardo. Si parte con due piccole ma luccicanti perle di Esbjorn Svensson registrato sia in piano solo sia alla testa del suo gruppo E.S.T. e si prosegue con una sfilza di nomi che hanno dato lustro al jazz europeo come, tanto per fare qualche esempio, il quartetto di Nils Landgren, il trio composto dal nostro Paolo Fresu con Richard Galliano e Jan Lundgren, le vocalist Viktoria Tolstoy e Norah Jones, Ulf Wakenius. L’album trova la sua omogeneità nella gradevolezza di tutti i brani all’insegna di una cantabilità ben lontana da qualsivoglia sperimentazione.

Harald Bergersen – “Baritone” – Losen Cantabilità che caratterizza anche questo nuovissimo album del baritonista Harald Bergersen che alla verde età di 84 continua a calcare validamente le scene e ad essere giustamente considerato una icona del jazz norvegese. In questa sua ultima fatica discografica è alla testa di un quartetto completato da Bård Helgerud (guitar), Fredrik Eide Nilsen (double bass), Torstein Ellingsen (drums & percussion). Il repertorio consta di 12 brani con cui Harald intende omaggiare alcuni grandi quali Tommy Flanagan, Billy Strayhorn, Thad Jones e Gerry Mulligan tra gli altri. Insomma una sorta di viaggio in un passato non tanto prossimo ma reinterpretato con coerenza, sincerità d’ispirazione e tanta, tanta bravura strumentale. Il quartetto si muove con leggerezza affrontando anche partiture non particolarmente semplici com’è il caso, ad esempio, di “Chelsea Bridge” un brano all’apparenza semplice ma come tutte le composizioni di Stratyhorn in realtà assai complesso da rendere efficacemente. All’ottima riuscita dell’album hanno contribuito in maniera sostanziale tutti i componenti del gruppo, dal chitarrista Bård Helgerud (lo si ascolti ad esempio in “Three and One” di Thad Jones in “Blues in the Closet” di Oscar Pettiford o in “Observing” di Helgerud con uno straniante richiamo alle musiche di Django) alla sezione ritmica quanto mai precisa e propulsiva (ammirevole Nilsen soprattutto nel già citato “Blues in the Closet”). Ma su tutti spicca sempre il sax baritono del leader, dal suono morbido, dall’eloquio forbito che richiama alla mente il post-bop non scevro da alcune sfumature ‘bossanovistiche’ se non a tratti addirittura funk.

Danilo Blaiotta – “The White Nights Suite” – Filibusta Solo due anni fa, nel 2020, Danilo Blaiotta veniva salutato come un talento emergente grazie alla buona riuscita dell’album “Departures” (Filibusta Records). Il secondo capitolo discografico del Danilo Blaiotta Trio (con Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria) è questo “The White Nights Suite”. Si tratta di una composizione originale suddivisa in 11 movimenti, tutti a firma del leader, ispirata al romanzo “Le notti bianche “di Fedor Dostoevsky. L’organico che si ascolta nel disco presenta, accanto al già citato trio, Stefano Carbonelli alla chitarra elettrica, Fabrizio Bosso alla tromba e Achille Succi al sax alto e clarinetto basso. Il titolo dell’album richiama esplicitamente l’opera del grande scrittore e filosofo russo così come nel primo brano – “Fisrt Night / St. Petersburg” – è chiaro il riferimento alla passeggiata del protagonista per le strade di Pietroburgo. Di qui l’album prende man mano consistenza raggiungendo picchi di grande intensità espressiva come nel brano “The Meeting” che evidenzia da un lato Bosso il quale, abbandonato il suo virtuosismo spesso muscolare, si esprime con dolce misura, dall’altro il leader che disegna un assolo tra i più notevoli dell’intero album. Ma non è la sola perla del CD; si ascolti, ad esempio, con quale pertinenza il trio – senza ospiti – esegue “Second Night – The Dreamer” a rappresentare il dialogo tra i due protagonisti attraverso l’empatia del trio; e ancora superlativo il clarinetto basso di Achille Succi in “Nasten’ka” un pezzo dal sapore vagamente balcanico mentre in “Third Night” il linguaggio del gruppo assume colorature più prettamente jazzistiche.

Anais Drago – “Solitudo” – Cam Anais Drago è violinista di sicuro spessore, capace di inglobare nel proprio repertorio input provenienti dalle più disparate angolature. Ecco quindi dieci sue composizioni – affiancate dalla “Gnossienne” di Erik Satie da lei stessa arrangiata – in cui non è difficile scoprire le fonti da cui l’artista ha attinto per forgiare la “Sua” musica, una musica che si colloca in un contesto del tutto personale: il linguaggio non è jazzistico in senso stretto in quanto  si allontana egualmente sia dagli stilemi afroamericani,  sia dalla musica classica propriamente detta sia dalla musica contemporanea: siamo, insomma, in un contesto sonoro in cui la Drago ha modo di esprimere tutte le proprie potenzialità senza lasciarsi condizionare da alcunché ma seguendo semplicemente la propria ispirazione, cosa facile a dirsi ma non altrettanto a farsi. E così tutto l’album gode di grande coesione tanto che per gustarne la valenza occorre ascoltarlo con la medesima curiosità dalla prima all’ultima take. Tra queste sceglierne qualcuna in particolare non è impresa facile anche se ci sentiamo di segnalare il già citato brano di Satie, in apertura di album, che sviluppato su un tappeto elettronico, rivela una certa malinconia di fondo, mentre in tutte le composizioni originali appare evidente uno dei suoi principali motivi ispiratori, da lei stessa rilevato nel corso di una recente intervista: “L’improvvisazione e la sperimentazione sono elementi che ricerco in qualità di musicista, tanto quanto rifuggo in qualità di persona”.

Claudio Fasoli – “Next” – Abeat Claudio Fasoli è uno di quei rari musicisti che non sbaglia un colpo. Quando trovate un suo nuovo album state pur certi che si tratta di musica di indubbia qualità. In tanti anni di onorata carriera, il sassofonista si è guadagnato una reputazione ed un rispetto che lo collocano in cima ai migliori sassofonisti e non solo a livello nazionale. E questa sua ultima fatica discografica non fa eccezione. Registrato in quartetto nello scorso maggio, l’album presenta il sassofonista alla testa di una nuova formazione ma perfettamente in linea con quanto è stato proposto in precedenza. Insomma il Fasoli è quello che abbiamo imparato a conoscere nel corso di tutti questi anni, vale a dire non solo un esecutore di assoluto livello ma anche un compositore che conosce perfettamente l’arte di fare musica. In effetti tutti e sette i brani contenuti nel CD sono sue composizioni e alternano momenti di grande intensità ritmica sì da richiamare abbastanza esplicitamente il mondo rock ad atmosfere in cui si sfiora atmosfere più vicine al nuovo jazz europeo, il tutto senza trascurare una certa cantabilità. Da sottolineare il sottile gioco sulle dinamiche, l’uso dei silenzi, il ricorso ad una variegata palette di colori. Ma quel che rende questo album degno della massima attenzione è sempre lui, Claudio Fasoli, che come si accennava in apertura, non ha certo perso questa ulteriore occasione per evidenziare il suo talento. Eccolo, quindi, fraseggiare con eloquio elegante, raffinato, solo all’apparenza semplice ma in realtà frutto di anni di studio, di assiduo lavoro. Fresu, Di Bonaventura, Vacca –

“Tango Macondo” – TUK Music Paolo Fresu – popOFF- Tuk Music Ecco due album di ispirazione completamente diversa ma che hanno il pregio di essere eseguiti in modo magistrale. Il CD dedicato al tango – “Tango Macondo” – vede il musicista sardo affiancato da Daniele di Bonaventura al bandoneon, Pierpaolo Vacca all’organetto e Elisa, Malika Ayane, e Tosca alla voce in tre brani. Il repertorio si sostanzia nella colonna sonora dello spettacolo che sta girando in varie città italiane ottenendo ovunque unanimi consensi. E il perché è facilmente spiegabile: Fresu e compagni riescono a creare un clima quasi onirico in cui l’ascoltatore è portato inevitabilmente a riallacciarsi a qual luogo – Macondo – creato dalla fervida fantasia di Gabriel Garcia Marquez nel suo “Cent’anni di solitudine” e quindi a intraprendere una sorta di viaggio accompagnato dalla musica certo di ispirazione tanguera ma che non disdegna di coniugare il moderno degli effetti elettronici con l’arcaico di bandoneon e organetto. Il tutto, ovviamente, cucito dalla tromba e dal flicorno del leader che non perde occasione per evidenziarsi artista maturo, perfettamente consapevole delle proprie possibilità e quindi in grado di esprimersi sempre con squisita sensibilità. Doti che ritroviamo anche nel secondo album “popOFF” in cui il trombettista sardo ha voluto rendere omaggio alla sua città d’elezione, Bologna, attraverso la rilettura delle canzoni dello “Zecchino d’oro”. Il CD, che si avvale anche di una veste grafica particolarmente curata e accattivante, vede impegnato un organico piuttosto rilevante in cui, accanto al leader, ritroviamo Cristiano Arcelli al sax soprano, clarinetto basso, flauto e melodica, Dino Rubino al piano, Marco Bardoscia al basso, il Quartetto Alborada e la vocalist Cristina Zavalloni cui si aggiunge in un brano il flauto di Luca Devito. Certo suscita una certa curiosità ascoltare le canzoni scritte appositamente per bambini ma sulla base del vecchio ma giusto detto per cui “jazz non è ciò che si suona ma come lo si suona” ecco che melodie in origine destinate ad esecutori in tenera età, si trasformano in pezzi jazzisticamente validi grazie all’interpretazione degli artisti su citati. Ed il disco risulta davvero gradevole senza che per un solo momento si abbia la sensazione di ascoltare qualcosa di banale.

Carmine Ioanna – “Ioanna Music Company” – abeat Delizioso album firmato dal fisarmonicista Carmine Ioanna alla testa di un gruppo con Gianpiero Franco (batteria), Eric Capone (pianoforte e tastiere), Giovanni Montesano (basso e contrabbasso) cui si sono aggiunti in qualità di ospiti Francesco Bearzatti (sax tenore e clarinetto), Gerardo Pizza (alto sax), Daniele Castellano (chitarra), Sophie Martel (sax soprano). L’album ha una storia particolare essendo stato concepito nei mesi scorsi, vale a dire in uno dei periodi più difficili che l’Italia del dopoguerra abbia attraversato, e registrato al teatro “Adele Solimene” di Montella (Avellino) nei primissimi giorni di maggio del 2021 dopo tanti mesi di isolamento, necessariamente lontani dai palcoscenici. Di qui l’idea, esplicitata dallo stesso Carmine nelle brevi note che accompagnano il CD, di pensare “Ioanna Music Company” come non “solo un album bensì un progetto di condivisione umana e artistica”. Logica, perciò,   la scelta di coinvolgere alcuni musicisti e tecnici di grande profilo e soprattutto di grande affinità. Il risultato, come si accennava in apertura, è più che positivo; la musica scorre come una sorta di racconto in cui ognuno può ritrovare le proprie emozioni mantenendo sempre una propria omogeneità. Tutti i brani meritano di essere ascoltati anche se le nostre preferenze vanno alla title track, sette minuti di rara intensità, sottolineati da brevi assolo dei fiati e da un andamento ritmico particolarmente serrato e al successivo “Postcard From Dreamland” un breve bozzetto (inferiore ai due minuti) di toccante dolcezza. Quasi inutile sottolineare come ancora una volta Ioanna si conferma tra i migliori fisarmonicisti oggi in esercizio e non solo nel nostro Paese. Hermon Mehari, Alessandro Lanzoni –

“Arc Fiction” – MIRR Duo senza rete questo che vede protagonisti il trombettista statunitense ma parigino d’adozione Hermon Mehari (classe 1987) e il nostro pianista Alessandro Lanzoni (nato nel 1992) impegnati nel loro primo album in duo registrato nel marzo 2021 e pubblicato il 10 ottobre scorso. Il combo funziona bene: i due si intendono alla perfezione e così la musica scorre fluida, interessante senza che in un solo momento si noti la carenza di altri strumenti. I due amano scambiarsi il ruolo di prim’attore così quando è il pianoforte a dettare la linea, la tromba è pronta a ricevere il testimone e viceversa in un alternarsi di intrecci mai scontati. In repertorio undici brani di cui ben dieci originali (scritti o a due mani o singolarmente dal trombettista e dal pianista) e il celebre “Donna Lee” di Charlie Parker. In particolare “End of the Conqueror”, “B/Bb”, “Reprise in Catharsis”, “Volver”, “Peyote”, “Boston Kreme” e “Penombra” sono stati composti da Mehari e Lanzoni, mentre “Savannah” e “Fabric” sono opera del solo pianista, così come “Dance Cathartic” è da attribuire al solo trombettista. La caratteristica principale dell’album è la godibilità della musica che pur non essendo scontata o banale riesce comunque a farsi ascoltare dal primo all’ultimo minuto. In tale contesto individuare le parti scritte e quelle improvvisate è tutt’altro che facile (si ascolti al riguardo sia “Savannah” sia “Fabric”) dato che i due artisti possono fare affidamento su una squisita sensibilità e su una indubbia preparazione tecnica. Di qui la difficoltà di segnalare qualche brano in particolare anche se personalmente troviamo “Dance Cathartic” particolarmente elegante e ben strutturato.

Angela Milanese – “Racconto italiano” – Caligola Partiamo da un presupposto: le canzoni non sono qualcosa di sciocco, senza importanza ma rappresentano la colonna sonora della nostra vita quotidiana. Basti confrontare i testi degli anni’30 con le composizioni di oggi per rendersi conto di quanto questa affermazione sia veritiera. Se non si ha, quindi, la puzza sotto il naso dei “veri intenditori di jazz” questo è un album che può essere ascoltato con interesse e, perché no, con piacevolezza. Lei è una vocalist-compositrice di squisita sensibilità e ad accompagnarla sono musicisti di rilievo come Paolo Vianello nella duplice veste di pianista-tastierista e arrangiatore, Alvise Seggi al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria. In cartellone dieci brani che accompagnano l’ascoltatore in una sorta di viaggio immaginario dagli anni ’30 fino ai giorni d’oggi. La Milanese rilegge questi pezzi secondo la propria cifra stilistica ben coadiuvata da Vianello e compagni. Così canzoni famose come “Ma le gambe” (1938), “Bellezze in bicicletta”, “Un’estate fa”, “Domani è un altro giorno”, “Rosalina” (1984)…tanto per citare qualche titolo, rinascono a nuova vita pronte per essere apprezzate anche dai più giovani che forse mai le hanno ascoltate nella versione originale. Un’ultima non secondaria notazione: l’album è stato registrato durante un concerto svoltosi il 23 maggio del 2019 all’Auditorium Candiani di Mestre, e la dimensione live riflette ancor meglio la bravura dei musicisti che danno vita ad una performance a tratti trascinante.

Bernt Moen Trio – “The Storm” – Losen Il pianista norvegese Bernt Morten è artista poliedrico capace di transitare con estrema disinvoltura da un linguaggio prettamente jazzistico a forme espressive molto prossime al funk e alla fusion. In questa sua ultima realizzazione, registrata nel febbraio del 2021, l’artista torna sul terreno che forse gli è più congeniale vale a dire quello del classico piano trio. Ad accompagnarlo il batterista Jan Jnge Nilsen e il bassista Fredrik Sahlander. In repertorio dodici brani tutti composti dal leader e tutti caratterizzati da una solida struttura e quindi da un profondo senso dello spazio. I tre si muovono con empatia tanto che risulta assai difficile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Nonostante il linguaggio sia jazzistico nell’accezione più comune del termine, tuttavia in alcuni frangenti si avverte, prepotente, l’eco della tradizione compositiva europea. E’ il caso, ad esempio, del secondo brano in programma “Majestic”, e di altri tre brani, “Ode”, “Floating” e “Sakral” tutti presentati in piano solo in cui, come si accennava, è ben presente una certa atmosfera Romantica. Assai ben costruita la title track che si apre con una intro per piano solo dopo di che i tre improvvisano ben sostenuti dalla batteria. Convincente anche “Passing By, Not Too Fast, Not Too Slow”, il brano più lungo dell’album con i suoi 6’21, in cui Moen e compagni mescolano sapientemente elementi tratti dal jazz così come dal folk, con Fredrik Sahlander in grande spolvero.

Jorge Rossy – “Puerta” – ECM Debutto come leader in casa ECM per Jorge Rossy che si presenta nella duplice veste di compositore (nove dei dieci brani dell’album sono dovuti alla sua penna) ed esecutore. Impegnato al vibrafono e alla marimba dirige un trio completato da Jeff Ballard batteria e percussioni e Robert Landfermann basso. Jorge è quel che si definisce un musicista a 360 gradi: nasce nel 1964 a Barcellona in una famiglia di musicisti, il padre Mario suona piano, chitarra e fisarmonica, ed ha accanto a sé un fratello e una sorella anch’essi musicisti. Inizia così a suonare la batteria all’età di undici anni e nel 1978 comincia a studiare percussioni classiche. Nel 1980 studia armonia jazz e improvvisazione, suonando piano e vibrafono; l’anno successivo inizia a suonare anche la tromba ma lo strumento principale, con cui comincia ad esibirsi professionalmente, è la batteria. Ed è con questo strumento che si fa conoscere collaborando per una decina d’anni con Brad Mehldau. Come si accennava in quest’ultimo lavoro discografico si cimenta al vibrafono e alla marimba con risultati assolutamente eccellenti. Contrariamente a quanto forse ci si potrebbe aspettare da un batterista, in questo album Jorge suona quasi per sottrazione, le note che intona sui suoi strumenti sono poche, sillabate, distillate si potrebbe dire come a voler far respirare la musica. In ciò ben coadiuvato dai due partners che assecondano questo gioco di sottili rimandi, senza eccedere in alcun momento. Dopo aver attraversato varie atmosfere, garantendo anche un pizzico di swing (cfr “Post-Catholic Waltz”) il CD si chiude con un brano dal sapore tanguero, dal significativo titolo “Adios”.

Daniela Spalletta – “Per Aspera ad Astra” – TRP Music La Sicilia continua a proporsi come terra di talenti: proprio dall’Isola arriva infatti questo album della vocalist Daniela Spalletta che definire eccellente forse è poco. Ben coadiuvata da Jani Moder alla chitarra, Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone al contrabbasso e basso elettrico e Giuseppe Tringali alla batteria cui si aggiunge la TRP Studio Orchestra, ci propone una sorta di viaggio introspettivo al cui termine c’è comunque una luce vitale. Ora, mettere in musica tali concetti, è impresa piuttosto ardua eppure la vocalist siciliana ha in certo qual senso centrato l’obiettivo dal momento che ascoltando l’album si ha come la sensazione di estraniarsi dal presente per immergersi in un flusso sonoro che ci conduce in un altrove non meglio identificato. Sacerdotessa del tutto è lei, la Spalletta, che usa la voce come uno strumento e che non disdegna di sdoppiarsi con la tecnica della sovraincisione pur di restare fedele al suo complesso disegno compositivo. Disegno che si svela man mano con il procedere dell’album declinato attraverso dodici brani tutti scritti ed arrangiati dalla stessa leader la quale si assume per intera la responsabilità dell’album: è lei che l’ha concepito, è lei che ne ha scritto ed arrangiato i pezzi, è lei che ha immaginato e conseguentemente scelto l’organico, è lei che ha saputo sapientemente dosare sia gli interventi dei compagni di viaggio sia le parti improvvisate ivi compreso lo scat che si ascolta in “Samsara”…insomma un’opera davvero complessa che denota il ritratto di un’artista completa, in grado di ricoprire tutte le parti in commedia.

Pasquale Stafano – Sparks – enja Quella del piano trio è una formula ancora oggi molto frequentata dai musicisti e, anche se ovviamente non è possibile raggiungere i fasti del passato (si pensi solo al celeberrimo trio Evans Motian LaFaro) tuttavia ci sono jazzisti che riescono ancora a dire qualcosa di originale. Tra questi è il pianista Pasquale Stafano che si ripresenta con un nuovo trio completato da Giorgio Vendola al basso e Saverio Gerardi alla batteria. L’album, registrato il 25 gennaio del 2021, si articola su otto brani tutti composti dal leader che conferma così la sua statura di musicista a 360 gradi. E le composizioni appaiono tutt’altro che banali: in effetti, oltre a presentare una solida struttura di base, si fanno apprezzare per la varietà di atmosfere che propongono, dal jazz canonico alla musica classica, dal funk fino a certi frammenti riconducibili al progressive-rock. In questo mutare di situazioni il ruolo di contrabbasso e batteria è importante: si ascolti ad esempio Vendola in “Mirror of Soul” e Gerardi in “Clocks” per avere un’idea di quale contributo i due abbiano dato alla riuscita dell’incisione. Comunque il filo conduttore è rappresentato dallo stile di Stafano che riesce a transitare da un terreno all’altro con estrema disinvoltura grazie ad una tecnica sopraffina e ad un linguaggio fluido e preciso. Tra i vari brani particolarmente riusciti “Three Days Snow” e “Remembrance” ambedue velati da una leggera malinconia che richiama atmosfere nordiche. L’album si conclude con “The Roller Coaster” introdotto dal contrabbasso suonato con l’archetto che a circa 40 secondi dall’inizio registra l’intervento di pianoforte e batteria per un’esecuzione su tempo veloce con il leader sempre in pieno controllo del materiale sonoro. Virginia Sutera,  Ermanno Novali –

“Duo Sutera Novali” – Aut records Ecco un altro duo che si muove su direttrici completamente diverse da quelle che vedevano protagonisti i su citati Hermon Mehari e Alessandro Lanzoni. Qui siamo su un terreno molto complesso e quindi per sua natura scivoloso: quella ”striscia di terra feconda” (per usare il titolo di una felice rassegna) che si pone tra musica classica e jazz. In effetti i due musicisti – la violinista Virginia Sutera e il pianista Ermanno Novelli – pur essendosi affacciati da poco sulla scena musicale, possono vantare una buona conoscenza di ambedue i generi musicali. E così l’album, registrato alla Sala Piatti di Bergamo il 12 aprile del 2019, in occasione dell’International Jazz Day, presenta una suite in cinque movimenti composti a quattro mani. Ad un primo ascolto sembra che le parti siano scritte dalla prima all’ultima nota ma in realtà si tratta di una improvvisazione che si sviluppa momento dopo momento collocandosi apertamente nell’area della musica contemporanea. Ciò detto, preso atto dell’abilità strumentale dei due, resta il fatto che, almeno a nostro avviso, si avverte come la sensazione di un lavoro non perfettamente compiuto, come se ci fosse ancora qualcos’altro che i due non hanno avuto la possibilità…o il coraggio di esplorare. Insomma un duo di livello ma da cui ci aspettiamo qualcos’altro di più convincente, anche perché il tutto scaturisce da quello straordinario laboratorio di ricerca musicale condotto a Siena da Stefano Battaglia.

Ayumi Tanaka – “Subaqueous Silence” – ECM Titolo molto pertinente per questo nuovo lavoro discografico della pianista nipponica Aymi Tanaka che come Jorge Rossy è al debutto da leader per la ECM. Per l’occasione si presenta in trio con Christian Meaas Svendsen al contrabbasso e Per Oddvar Johansen alla batteria. Si tratta di due musicisti norvegesi e la cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto di due fattori: innanzitutto che la pianista, attratta dalla musica improvvisata norvegese, nel 2011 decise di trasferirsi a Oslo e, in secondo luogo, che proprio nella capitale norvegese ebbe modo di incontrare i due artisti su citati con i quali collabora quindi da oltre dieci anni. Così nel 2016 è stato pubblicato “Memento” per AMP Records. E i frutti di questa lunga collaborazione sono nuovamente a disposizione di tutti ben evidenti: l’intesa fra i tre è praticamente perfetta pur nell’esecuzione di un repertorio tutt’altro che banale. La musica proposta dal trio è lontana da come siamo abituati ad immaginare la musica jazz: nei brani della Tanaka non c’è ombra di swing, ma un   rigore quasi ascetico nell’interpretare partiture che potremmo definire ‘cameristiche’ pur nella consapevolezza che una musica del genere va ascoltata rifiutando qualsivoglia etichettatura. I tre si muovono lungo direttrici che privilegiano atmosfere rarefatte, in cui anche il silenzio gioca un ruolo importante nella ricerca di spaziature così presenti nella musica classica giapponese. Tra i sette brani del CD spicca “Ruins II” in cui la pianista sembra quasi lasciarsi andare ad una sorta di quella dolce malinconia che caratterizza la musica ‘nordica’ e norvegese in particolare.

Eberhard Weber – “Once Upon a Time” – ECM L’altra volta ci eravamo soffermati sulle realizzazioni discografiche per solo basso. Adesso è la volta di un altro grande specialista dello strumento, Eberhard Weber, che ci presenta una registrazione live effettuata al Teatro des Halles di Avignone nell’agosto del 1994, nell’ambito del Barre Phillips’ Festival International De Contrebasse.  L’album acquista un rilievo particolare ove si tenga conto che il jazzista nel 2007 è stato colpito da un ictus che lo ha praticamente estromesso dalle scene, anche se non si tratta del primo album registrato in solitudine dal tedesco. Ricordiamo, al riguardo, “Pendulum” (1993) interamente composto da brani in cui l’unico strumento che li esegue è il contrabbasso, mixato in maniera stratificata per creare diversi effetti sonori e “Résumé” che raccoglie pezzi di varie esibizioni registrate tra il 1990 e il 2007. C’è da sottolineare come proprio dopo questi due album Weber abbia iniziato ad incidere piuttosto copiosamente anche da leader dal momento che in precedenza si era fatto apprezzare soprattutto nel gruppo guidato dal sassofonista norvegese Jan Garbarek. In questo “Once Upon…” Weber offre un ulteriore saggio delle sue grandi qualità. Tutti i brani (di cui alcuni sono tratti dai precedenti album dello stesso Weber, “Orchestra” ECM 1988 e il già citato “Pendulum” ECM 1993) sono degni della massima attenzione anche se, personalmente, preferiamo il sempre verde “My Favorite Things” interpretato con originalità e “Trio for Bassoon and Bass” in cui il contrabbassista evidenzia la sua versatilità nell’improvvisare per parecchi minuti senza soluzione di continuità.

Paul Wertico – “Letter from Rome” – Alfa Music Quando in un combo c’è Paul Wertico si ha la quasi certezza che si tratti di musica eccellente. E anche questa volta la situazione è proprio questa: alla testa di un trio completato da Fabrizio Mocata al piano e Gianmarco Scaglia al contrabbasso, il batterista statunitense non si smentisce e propone un album interessante. In programma nove brani scritti in vari incroci dai tre musicisti con l’aggiunta di un classico della musica leggera italiana, “Vecchio Frak” di Domenico Modugno, un brano che ha già attirato l’attenzione di parecchi jazzisti tra cui Fabrizio Bosso e Marco Tamburini; il trio ne dà un’interpretazione personale e convincente: dopo un’introduzione del basso che disegna la linea melodica, è la volta di Fabrizio Mocata a concepire un assolo che gira attorno alla melodia per approdare, quando entra in campo anche la batteria, su un terreno completamente improvvisato, oramai ben lontano dalla partitura originale. Ed è un po’ questo il canovaccio su cui si sviluppa la musica per tutto il CD, vale a dire l’accenno ad una linea cantabile (introdotta dal piano o dal contrabbasso) e poi i tre che si lasciano andare ad improvvisazioni spesso trascinanti che denotano, oltre ad un’ovvia intesa (Wertico e Scaglia avevano già inciso un altro album, “Dynamics in Meditation”, Challenge Records 2020) la gioia di fare musica, di suonare assieme. Il tutto impreziosito dagli assolo di Paul che si conferma uno dei migliori batteristi oggi in esercizio: ascoltate attentamente il modo in cui tratta i piatti, suo vero e proprio marchio di fabbrica.

Gerlando Gatto

Uno splendido weekend al TrentinoInJazz 2017

TRENTINOINJAZZ 2017
Ars Modi
e
TrentinoIn Jazz Club
presentano:

Sabato 25 novembre 2017
ore 17.30,
Sala Sosat
Via Malpaga 17
Trento

DUO ZAMUNER

Domenica 26 novembre 2017
ore 19.30
Circolo Operaio Santa Maria
Via S. Maria, 18
Rovereto (TN)

THREE BRANCHES

ingresso gratuito

Un imperdibile weekend al TrentinoInJazz con due splendidi appuntamenti per la parte finale della lunga rassegna inaugurata lo scorso giugno.
Sabato 25 nuovo concerto di Katharsis, organizzato dall’associazione Ars Modi (dir. artistica Edoardo Bruni), in collaborazione con Sonata Islands, Trentino Jazz, Associazione Bonporti, SOSAT e con il contributo di Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Caritro, Regione Autonoma Trentino Alto Adige, BIM Adige, Comune di Trento, Cassa Rurale di Trento. Quello del 25 è uno dei concerti sotto l’egida del TrentinoInJazz, mirati alla promozione della musica contemporanea “buona”, quella che coniuga complessità e comprensibilità: il duo Zamuner.
Domenica 26 novembre nuovo appuntamento con TrentinoIn Jazz Club, la sezione del TrentinoInJazz 2017 che si svolge in vari club di Trento, Rovereto, Riva del Garda e Mori. Al Circolo Operaio Santa Maria di Rovereto arriva il trio Three Branches.

Emilia Zamuner (voce) e Paolo Zamuner (pianoforte) presentano a Trento un concerto jazz, modulo da sempre presente in Katharsis in quanto compiuta espressione di musica contemporanea complessa e comprensibile al tempo stesso, in linea dunque con lo spirito del progetto. La sensuale voce di Emilia Zamuner accompagnata dal brillante pianismo di Paolo Zamuner offriranno un programma con i più celebri standard del jazz americano novecentesco.

Diversa la proposta di Rovereto, con Achille Succi (clarinetto basso), Francesco Saiu (chitarra elettrica) e Giacomo Papetti (contrabbasso): Three Branches è un no-leader trio dall’organico inusuale, formato da tre affermati musicisti del nuovo jazz italiano. “Three branches” (tre rami) è un gioco di parole che richiama i rami d’albero (tree branches) e al contempo suona come “free branches”, ovvero rami liberi di muoversi, rami sciolti. Anche la musica di questa formazione è una sorta di jeux-de-mots, tra contenuti e forme diverse, fondato su un repertorio di brani originali di tutti i componenti.

Tre personalità molto diverse tra loro ma legate da radici comuni, qui in un continuo dialogo contrappuntistico, disegnano situazioni sonore imprevedibili e variegate. Come ramificazioni di un albero in lenta ma continua trasformazione, reminiscenze folk, improvvisazioni free jazz e insolite sonorità cameristiche si susseguono nel creare una musica che gioca con leggerezza colori diversi, dal pathos impressionista, all’ironia onirica, sino a divertenti ritmi tropicali.

Prossimo appuntamento: sabato 2 dicembre (Trento), Quintetto Orobie.

Trentino Jazz:
http://www.trentinojazz.com/

I NOSTRI CD

Rosario Di Rosa – “Composition And Reactions” – Deep Voice Records.

L’ album Composition e Reactions (Deep Voice Records) di Rosario Di Rosa, in solo pianistico, presenta essenzialmente un’unica opera che si “sfasa”in 12 cosidette Reactions.
Nasce nel solco del precedente già maturo Pop Corn Reflection (NAU) in un percorso artistico i cui riferimenti stilistici arrivavano a Steve Reich e Schoenberg.
Stavolta il jazzista offre una versione ulteriormente aggiornata della propria musica.
Nella struttura d’insieme affiora una certa affinità con le arti visive, le tecniche grafiche nell’uso di forme e colori per il gusto di “rappresentare” spazi e figure, nel definirne i passaggi.
E c’è poi una dichiarata apertura agli effetti elettronici e un recupero del datato MIDI. In dettaglio le Reactions sono 12 frammenti liberi della Composition n.26, questa, si, scritta, non improvvisata.
Ognuna di esse ha una propria specifica caratterizzazione. Si comincia con Variation e Morphing ovvero trasformazione dei lineamenti iniziali in quelli del tutto nuovi del punto d’arrivo. La successiva, e suggestiva Phasing e’ l’attuazione per gradi della cellula sonora selezionata attraverso sequenze di tipo minimalista laddove Density, giocando su “l’interdipendenza dei vari parametri musicali” (Harrington), percorre in lungo e largo una tastiera che pare non pesata.
La Reaction n. 4, Spaces, è la più onirica, gravida di silenzi astrali. Seguono, appesi/sospesi nel pentagramma, Intervals, in due takes, il primo dei quali a momenti si adagia melodicamente liberandosi dal senso di tensione che li contrassegna.
La n. 6, Tuning, e’ il ritorno alla culla tonale dopo varie scorribande fuori dal seminato. E se nella n. 7, Sampling And Loops, sopravviene la techné di una voce metallica che comprime le note del pianoforte, in Strings lo strumento ritorna percussione pura. Di Rosa espone poi in Clusters grappoli di note grumose del ricorrente sapore monkiano reso contemporaneo che in Textures rivela trame di puro tessuto non tappezzeria musicale.
Lo (s)compositore insomma assembla e sfaccetta, anatomizza e ricuce, spostandosi dal concreto all’astratto mosso da un impulso espressivo forte. Verificando dinamicamente come alla azione (compositiva) possa corrispondere una reazione (improvvisativa).

Federica Gennai, Filippo Cosentino – “Come Hell Or High Water” – Naked Tapes 01
C’e’ modo e modo di combinare e disporre corde e corde vocali, nel jazz.
Petra Magoni si fa accompagnare da Ferruccio Spinetti al contrabbasso. Claudio Lodati non disdegna loop ed elettronica creativa nel seguire la voce di Rossella Cangini. Il melodizzare di Patty è armonizzato dalla chitarra di Tuck così come il bel canto, fra etno e classica, di Noa trova nella chitarra di Gil Dor una piattaformasonora che è un riferimento più che costante. E c’è chi, come Filippo Cosentino, nel seguire volute ed evoluzioni canore, alterna diverse soluzioni di strumento, orientando così ovviamente la prospettiva musicale.
Assieme alla vocalist Federica Gennai annovera nel proprio armamentario sonoro sia chitarra acustica sia elettrica sia, spesso con funzione di “basso armonico”, la chitarra baritona. La cantante, come del resto lui stesso, si serve spesso di effettistica, ma il dato saliente della loro ricerca sonora sono i colori variopinti della timbrica da una parte, dall’altra un ondeggiare fra atmosfere mediterranee e climi musicali tipici del jazz contemporaneo europeo in un comporre del tutto originale.
Nel cd Naked Tapers 01 intitolato Come Hell Or High Water la proposta dei due musicisti evidenzia in modo abbastanza nitido la propria dimensione ispirativa. Beninteso, fra i brani eseguiti si ritrovano Avalanche di Leonard Cohen e Footprints di Wayne Shorter quasi come due fari del folk-blues e dei ’60s jazzistici a cui guardare e riprendere con rispetto e partecipazione. Ma ecco la musica popolare, la propria, in senso strettamente culturale, affiorare in Tramuntanedda (il chitarrista piemontese ha origini siculo-calabre) brano che, ne siamo sicuri, sarà stato fra i più apprezzati nei suoi tour estivi fra Centroeuropa ed Asia per l’abile coniugare linee melodiche southern con improvvisazioni su base spanish. Peraltro ogni brano in scaletta ha una propria connotazione ben definita. Loneliness per il tema trattato della solitudine “nel cuore della terra” affrontato consuadente poesia dalla Gennai. E se No Solution Re Solution è ancora un meditare, essenziale e spoglio, che si adagia su reverberi di arpeggi come stesi sotto la luce solare e Lullaby in Blue è viaggiointrospettivo… bifronte insomma dai due poli, a Baritona e Crescendo, un nome un programma, segue Every Moment Is A Gift (SongFor Paola) con quello strano sapore di istantaneo come il momento in cui il pezzo è nato. Resalio ha un attacco che ricorda Non dire No diBattisti ma è solo un’impressione; lo sviluppo prende una piega bluesy che si trasforma strada facendo, strato per strato di accordi.
Infine il brano che da il titolo all’album è un rientro in quella confidenziale intimità che costituisce la principale cifra stilistica del progetto discografico del duo. Meglio dire della Coppia, per sinergia, musicale e interpersonale.
Umberto Tricca – “Moksha Pulse” – Workin’ Label

Curioso il titolo del disco di esordio del chitarrista Umberto Tricca, Moksha Pulse, edito da Workin’ Label e distribuito da I.R.D.   Moksha, in sanscrito, significa liberazione, emancipazione, affrancamento dalle limitazioni. E la cosa ci può stare, col jazz, visto che anche l’Asia, oltre l’afroamericanità, può rivendicare vicinanze con questo tipo di musica. Pensiamo all’improvvisazione della musica indiana tradizionale. E già nell’intro dell’album, Slow Passacaglia, il chitarrista appare slegato da contorni e margini canonici occidentali.
Non si pensi a influssi etnici spinti alla Remember Shakti per intenderci. Gli strumentisti che lo accompagnano, Achille Succi (sax, clarinetto basso), Giacomo Petrucci (sax baritono), Nazareno Caputo (vibrafono), Gabriele Rampi Ungar (contrabbasso) e Bernardo Guerra (batteria) producono con lui un magma sonoro che afferisce a modalità più di jazz contemporaneo che parajazz o metafolk che dir si voglia.
Pulse, l’altro termine del titolo, non c’entra con i Pink Floyd ne’ con Roger Waters. Nessuna parentela rock (semmai la 6 corde pare richiamare a volte certa sgorgante limpidezza accordale di Larry Coryell). Pulse è il polso, il battito, semplicemente. Seguendolo il sestetto si prodiga in una ricerca di gruppo consistente nell’interfacciare linguaggi musicali anche eterogenei nelle 6 composizioni del chitarrista (la settima, Lude, e’ dell’indiano Vijay Iyer). E se Jhumara Tal pare riecheggiare Sue’s Changes di Mingus, contrattempi ostinati e complesse sincopi contrassegnano in stile Metrics di Steve Coleman il brano che da titolo all’album. Che poi, nell’incedere inventivo si allarga, scopre spazi nuovi, si diversifica. Empty Sky, ballad legata idealmente a Burning in Varanasi, ha un attacco scofieldiano che lascia insinuare, come un serpente dal cesto, l’alto sax di Succi, sorretto da vibrafono e double bass, musica allo statu nascenti dalle estreme radici est/ovest.
Chango Rebel ha per finire una lenta struttura ciclica con un crescendo che deborda in una caleidoscopica poliritmicità afrocubana, con relativa esplosione della sezione ritmica.
L’opera prima di Tricca, sia come compositore che leader, si presenta insomma come un buon viatico verso i prossimi lavori, si spera sempre a 360 gradi di latitudine geomusicale.