La potenza sonora della Banda dell’Arma dei Carabinieri… racchiusa in una “Nuvola”

Novantadue professori d’orchestra (ma l’organico completo ne conterebbe 102), di cui sei alle percussioni e il resto ai fiati, una potenza di suono di grande impatto, anche emotivo, ricco di colori e sfumature, un repertorio vasto e un curriculum di assoluta eccellenza, impreziosito da numerose tournée in ogni parte del mondo a partire dalla prima, nel 1916 a Parigi. Stiamo parlando, l’avrete già capito, di una banda… ma non di una qualsiasi banda quanto di una delle migliori formazioni del genere che il mondo musicale possa vantare: la Banda dell’Arma dei Carabinieri, ottimamente diretta, da ben 18 anni, dal Colonnello Massimo Martinelli.

Il 28 maggio scorso l’imponente formazione ha tenuto un concerto all’Auditorium della “Nuvola” di Fuksas, nel quartiere Eur a Roma, nell’ambito delle celebrazioni per il 204° annuale di fondazione del Corpo.

A questo punto alcuni dei nostri lettori si staranno chiedendo cosa c’entri la Banda dei Carabinieri in un blog dedicato al jazz. Ebbene le risposte sono molteplici. In generale, parlare semplicemente di jazz, oggi come oggi, è decisamente limitativo, si può – e si deve – invece ampliarne la visione immaginando la musica come un’arte dei suoni, senza dover necessariamente erigere steccati, con inutili distinguo di rango, tra generi. Infatti, come abbiamo più volte detto, è vero che “A proposito di Jazz” è una pubblicazione dedicata al jazz, ma non lo è però in maniera esclusiva. In secondo luogo, sempre in queste stesse pagine, abbiamo più volte dedicato spazio alle bande, nella giusta considerazione che si tratta di formazioni di estrema importanza per la crescita musicale dell’intero Paese. Ma non basta: proprio con riferimento al jazz, molti musicisti – soprattutto statunitensi – si sono formati suonando nelle bande militari che, ancora oggi, introducono nei loro repertori brani di estrazione jazzistica.

La stessa cosa ha fatto anche la Banda dei Carabinieri, inserendo nel proprio repertorio alcuni brani riconducibili al jazz.

Il concerto, presentato da Veronica Maya,  inizia con una delle partiture meno “battute” di Claude Debussy, “Il Martirio di San Sebastiano”, scritta dal compositore francese come musica di scena per l’omonimo melodramma dannunziano. Segue una marcia dei Carabinieri Reali, composta da Luigi Cajoli, che fu il primo Maestro della Fanfara della Legione Allievi Carabinieri di Roma, nel 1887, l’embrione dell’attuale Banda dell’Arma, che egli stesso diresse dal 1910 al 1925. Piccola curiosità per i jazzofili: Cajoli è citato anche nel volume “Il jazz in Italia: dalle origini alle grandi orchestre”, del critico e storico Adriano Mazzoletti, pietra miliare, assieme ad Arrigo Polillo, del giornalismo dedicato a questo genere musicale.

Le prime pennellate jazzistiche della serata ci portano nelle strade di una New York anni ’50,  in balia delle bande giovanili. Da West Side Story, di Leonard Bernstein, ascoltiamo “Mambo” e “America”, due brani di cui l’orchestra ci restituisce intatta la grande forza comunicativa e “Ragtime” composto dal Maestro Direttore della Banda, Massimo Martinelli, forse ispirato da colui che venne definito il re del genere, Scott Joplin.

Nella “Rapsodia Americana”, della prolifica compositrice pugliese Teresa Procaccini (presente in sala), prima donna ad essere nominata direttore di un conservatorio di musica, e in “Bugle Call Rag” e “Sing, Sing, Sing”, brani portati al successo da un maestro della swing era, Benny Goodman, abbiamo avuto il piacere di ascoltare una straordinaria pianista che risponde al nome di Gilda Buttà.

Siciliana di Patti, Gilda frequenta la musica classica sin da giovanissima, tanto da diplomarsi con lode, a soli sedici anni, sotto la guida di Carlo Vidusso. Successivamente si costruisce una solidissima reputazione sia attraverso una fitta serie di concerti in tutto il mondo sia collaborando con il Maestro Ennio Morricone, con il quale ha inciso varie colonne sonore (su tutte “La leggenda del pianista sull’oceano”). Ed è stato davvero un bel sentire, dal momento che la Buttà è una concertista di assoluto livello: le sue dita volano letteralmente sulla tastiera ed esprimono al meglio le concezioni dei compositori, padroneggiando gli aspetti ritmici, armonici e melodici delle esecuzioni nonché il gioco delle dinamiche, così importante quando si suona avendo alle spalle una formazione granitica come quella della Banda dei Carabinieri.

Ma la Buttà non è stata la sola presenza femminile importante; in effetti, come ha sottolineato il Comandante Generale dell’Arma, Giovanni Nistri, sono oltre quattromila, ad oggi, le donne che portano la divisa da carabiniere, ed anche nella Banda ci sono varie esponenti del gentil sesso. Va infatti ricordato che la serata era altresì dedicata all’universo femminile; di qui l’invito ad altre due soliste: la violinista Anna Tifu e l’arpista Micol Picchioni.

Di origini rumene ma nata a Cagliari nel 1986, la Tifu è considerata in senso assoluto una delle migliori violiniste apparse sulla scena negli ultimissimi anni. Attualmente ha l’onore di suonare uno Stradivari del 1716, già posseduto da Napoleone e a lei affidato dall’Associazione Canale di Milano. La Tifu si è esibita, evidenziando una perfetta commistione di tecnica (straordinaria) e sentimento, nel “Concerto per Violino op. 26 n. 1” di Max Bruch, compositore romantico a mio avviso molto sottovalutato. Quest’opera è un capolavoro di simmetria tra elementi stilistici e formali: un incantesimo melodico commovente.

La vibrazione dell’ancia dell’oboe di Francesco Loppi, che ha duettato con la Tifu nel celeberrimo “Oblivion” di Astor Piazzolla, ha fatto vibrare tutta la platea, riuscendo a ricreare, in tutta la sua valenza, il pathos insito nelle note del musicista argentino. Del resto, come non essere piacevolmente vittime di un estatico coinvolgimento verso uno strumento, il violino, che proprio Bruch così descriveva: “può cantare una melodia, e la melodia è l’anima della musica…”

Il gineceo strumentistico si completa con la giovane arpista genovese Micol Picchioni. Diplomatasi col massimo dei voti nel 2004 al Conservatorio F. Morlacchi di Perugia, Micol è stata allieva di Catherine Michel (prima arpa dell’Opera di Parigi), Paloma Tironi, Susanna Bertuccioli e Patrizia Bini (prima e seconda arpa del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino).

L’altra sera si è fatta ammirare in un particolare arrangiamento per arpa e orchestra di “Stairway to Heaven”, dei Led Zeppelin, stratificato brano, sicuramente tra i più conosciuti della musica rock, pubblicato nel 1971. La “scala” che ci ha portato al paradiso (letteralmente!), così come gli altri brani proposti, è suonata da Micol con una straordinaria arpa celtica elettroacustica, dotata di un supporto che le consente di suonare in piedi.

Questo meraviglioso strumento polivoco rivela tutta la sua bellezza nel barocco “Canone” di Johann Pachelbel, brano sulla cui datazione, tuttavia, non si hanno ancora certezze; l’unica che si possiede in merito a questa composizione è che quella manciata di note, originariamente scritta per tre violini e basso continuo, è tra le più copiate della storia della musica, con centinaia di canzoni realizzate sulla sua celebre melodia. Una su tutte? Rain and Tears degli Aphrodite’s Child.

Come spesso accade in ambienti di grandi dimensioni, e come accaduto all’Auditorium della Nuvola, l’eccessiva riverberazione ha inficiato talora un ascolto ottimale, nonostante il suo progettista, l’architetto Fuksas, abbia dichiarato di aver studiato luce e acustica in modo maniacale. Per quanto riguarda la luce dell’intera struttura, non vi sono dubbi: è spettacolare! Nondimeno, ci attende una piacevole sorpresa. Verso il finale, la Banda si scompone: metà rimane sul palco e l’altra metà si posiziona nella parte più alta della platea. Questo effetto surround ci permette di ascoltare perfettamente e nella pienezza dei suoni il poema sinfonico di Respighi “I Pini di Roma”.

Dopo i saluti delle varie autorità presenti, la chiusura rituale di ogni concerto di questa Banda, vera eccellenza della musica italiana, prevede l’esecuzione della “Fedelissima”, composta dal Maestro Luigi Cirenei, marcia d’ordinanza dell’Arma dei Carabinieri e del “Canto degli Italiani”, ovvero l’inno nazionale, in un’interpretazione corale da parte di tutti gli spettatori che hanno gremito l’auditorio. Il concerto verrà trasmesso da Rai 5, in uno speciale realizzato da Rai Cultura, il 5 giugno, data in cui ricorre la giornata nazionale di questa prestigiosa istituzione.

Marina Tuni

A Proposito di Jazz ringrazia il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d’Armata Giovanni Nistri, il Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione, Generale di Brigata Maurizio Stefanizzi, il Maestro Direttore della Banda, Colonnello Massimo Martinelli e l’Ufficio Cerimoniale.

Photo courtesy: Arma dei Carabinieri

 

Presentazione speciale per Gente di Jazz, con l’autore Gerlando Gatto, a Napoli il 24 ottobre. L’eleganza della musica jazz sposa la magnificenza architettonica di Palazzo San Teodoro

La lettura rende un uomo completo, la conversazione lo rende agile di spirito e la scrittura lo rende esatto.

Francis Bacon, uno dei padri del pensiero moderno, scrisse queste parole nel 1625 e sono certa che se avesse conosciuto il giornalista Gerlando Gatto avrebbe sicuramente pensato che la descrizione s’attagliasse perfettamente al personaggio!

Catanese, classe 1946, romano d’adozione, Gatto mastica jazz sin da bambino, al punto che, come ha ricordato nel corso della presentazione del suo libro “Gente di Jazz” (ed. KappaVu / Euritmica) a Napoli, lo scorso 24 ottobre, non ricorda di aver ascoltato altri generi musicali, sin da quando era poco più di un marmocchio… tant’è che già nei primi anni ’60, a soli 14 anni, scriveva già di musica su “Il Corriere di Sicilia”!

Nel suo sangue corrono rotaie di note, sulle quali sfrecciano gli “Honky Tonky Trains” del jazz, che partono dai club di New York per arrivare al blues dei Juke Joint della Louisiana, rincorrendo i freddi venti musicali del Nord-Europa, fino a raggiungere le calde sonorità del sud del mondo… con frequenti passaggi nelle stazioni del latin-jazz, brasiliano e afro-cubano.

Ho provato a riassumere la sua lunga carriera usando questa metafora perché sarebbe impossibile – e finanche riduttivo – limitarsi a citare tutto quello che Gerlando ha fatto per il jazz in questi ultimi quarant’anni; basti ricordare i cicli di guide all’ascolto alla Casa del Jazz di Roma, con la quale collabora dal 2007 o la conduzione di programmi radiofonici e televisivi per la Rai, assieme al grande Adriano Mazzoletti, o ancora l’essere uno degli estensori della “Enciclopedia del Jazz” edita da Curci.

Il tassello che mancava all’opera musiva che è il suo imponente curricolo professionale era la pubblicazione di un libro che raccogliesse in qualche modo il suo importante lavoro.

Nasce così l’idea di “Gente di Jazz”, un volume che racchiude preziose interviste a protagonisti indiscussi della storia del jazz mondiale, che sono uniti da un elemento comune: l’aver partecipato ad una o più delle ventisette edizioni del Festival Internazionale Udin&Jazz.

Ed ecco allora scorrere sotto i nostri occhi i nomi di alcuni dei musicisti che hanno influenzato fortemente il linguaggio musicale della nostra epoca: McCoy Tyner, Cedar Walton, Michel Petrucciani, Enrico Pieranunzi… ma solo per citarne alcuni, perché nel libro le interviste sono ben 25, introdotte dalla prefazione del trombettista Paolo Fresu e chiuse dalla postfazione del filosofo e intellettuale friulano Fabio Turchini.

Le immagini a corredo dell’opera sono quasi tutte del fotografo storico di Udin&Jazz, Luca d’Agostino, tranne un paio firmate da Elia Falaschi e da Luciano Rossetti.

E dopo la presentazione in anteprima, a maggio, al Salone Internazionale del Libro di Torino, quella a Udine, in occasione di Udin&Jazz 2017, e quella più recente alla Feltrinelli di Roma, “Gente di Jazz” ha fatto scalo a Napoli, avvolto nella bellezza di uno scenario prestigioso quali sono le splendide sale affrescate, in stile neoclassico, di Palazzo San Teodoro.

A condurre la serata, con grande competenza e passione, il filosofo napoletano Marco Restucci, che è anche critico musicale, giornalista e scrittore (suo il libro “Dioniso a New Orleans. Nietzsche e il tragico nel jazz”, da poco pubblicato da Albo Versorio). Restucci ha introdotto l’opera definendola come un libro “a cornice” al cui interno trovano posto diversi frammenti, storie e personaggi tutti coinvolti nello stesso, affascinante gioco dialogico i cui fili sono tirati dall’autore.

Oltre a Gerlando Gatto, erano presenti tra i relatori: Giancarlo Velliscig, direttore artistico di Udin&Jazz e Antonio Onorato, chitarrista e compositore napoletano di livello internazionale, un vero e proprio rainbow warrior (dal modo in cui i nativi americani, alla cui cultura e pensiero Antonio è molto vicino, definiscono i loro spiriti che si reincarnano nei bianchi).

I contributi al dibattito, che si è generato grazie anche alle molte domande da parte del numeroso e preparato pubblico, sono stati parecchi e interessanti. Si è venuto così a delineare un vero e proprio “stato dell’arte” della musica jazz contemporanea, con uno sguardo su diversi aspetti tra i quali – forse il più interessante – una riflessione sul ruolo attuale della tradizione orchestrale, che in passato ebbe come protagonisti jazzisti eccezionali. Si è parlato anche dei nuovi linguaggi della scena jazzistica americana dei nostri giorni, chiedendosi come gli artisti possano sfuggire ai canoni imposti dal conformismo culturale odierno riportando nella loro musica quei valori sociali e politici, un tempo legati ai movimenti di protesta, di  quando gli Stati Uniti erano esportatori di contro-cultura.

Ph Massimo Cuomo

Ricco di suggestioni mnemoniche l’intervento di Antonio Onorato, incentrato sul rilevante apporto dato dai musicisti italiani allo sviluppo della musica jazz in America, facendo riferimento ai tanti emigranti che dal meridione sbarcarono negli Stati Uniti e ricordando che questi uomini erano quasi tutti capaci di suonare uno strumento musicale, grazie alla grande tradizione bandistica delle regioni del sud Italia e alle sue svariate contaminazioni.

Nel corso della presentazione, Antonio Onorato, fresco di rilascio di un nuovo lavoro discografico dal titolo “Vesuvio Blues (Blu Music International), e il suo allievo chitarrista Luca Farias (figlio d’arte… il padre, Angelo Farias, è il bassista della band di Antonio Onorato) hanno imbracciato le rispettive chitarre, improvvisando sulle note della sinuosa Footprints di Wayne Shorter, giocando sulla colorata tavolozza armonica del classico della tradizione napoletana Munasterio ‘e Santa Chiara e chiudendo la serata fondendo la bossa nova al neapolitan power con la splendida Manhã de Carnaval, main theme della colonna sonora del celebre film Orfeo Negro, trasposizione cinematografica del mito di Orfeo ed Euridice.

Ph Massimo Cuomo

Una serata perfetta in una location da favola per un libro davvero ben riuscito, che veleggia verso la terza ristampa. Il patron di Udin&Jazz, Velliscig, si è lasciato strappare la promessa di pubblicare nel 2018, sotto l’ala dell’associazione culturale Euritmica, per i tipi della KappaVu di Udine, il secondo volume di Gente di Jazz, che pare sarà interamente dedicato “all’altra metà del jazz…”.

Per finire, permettemi una piccola digressione, essendo una friulana che ama profondamente la sua terra: al termine della presentazione, ospiti del gentiluomo partenopeo Pietro Micillo nella sua Taverna La Riggiola, elegante ristorantino attiguo al Palazzo San Teodoro, con una cucina tendente alla rivisitazione moderna di gusti e sapori della tradizione campana, è avvenuto un simbolico e perfettamente riuscito gemellaggio enogastronomico tra il Friuli Venezia Giulia e la regione ospite dell’evento, con l’abbinamento degli eccellenti vini della casa vinicola Livio Felluga di Brazzano di Cormòns alle varie e squisite portate proposte dallo chef Francesco Pucci. Praticamente… l’optimum delle tipicità!

Marina Tuni

Special thanks per la preziosa collaborazione e per l’ospitalità a Palazzo San Teodoro a: Pietro Micillo, Giovanni Lombardi, Giobby Greco, ing. Camerlingo, Tecno srl

Un sincero ringraziamento alla Taverna La Riggiola, Napoli e a Elda Felluga dell’Azienda Vinicola Livio Felluga, Brazzano di Cormòns (Gorizia)

Grazie al fotografo Massimo Cuomo per la gentile concessione di alcune delle immagini che corredano l’articolo.

 

Con Lucien Malson scompare un altro pezzo della storia del jazz.

Se non fosse stato per Adriano Mazzoletti che mi ha avvisato con una mail, probabilmente avrei saputo della morte di Lucien Malson ancora con maggior ritardo.
Scusandoci per questo con i nostri lettori, pubblichiamo una corrispondenza da Parigi del nostro Didier Pennequin.

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Critico di jazz mondialmente riconosciuto e apprezzato, professore, scrittore, filosofo e sociologo, Lucien Malson è deceduto il 27 gennaio a Parigi.
Nato Lucien Patte il 14 maggio 1926 a Bordeaux, professore universitario di lettere e aggregato di filosofia, è diventato dopo la guerra una delle “penne” del mondo del jazz in Francia. Dapprima attraverso una collaborazione, nel1946, alla rivista “Jazz Hot” allora diretta da uno dei suoi fondatori Charles Delaunay. Poi lavorando una dozzina d’anni più tardi con il mensile "Jazz Magazine", fondato da Nicole e Eddie Barclay nel 1954, poi ripreso dal tandem Frank Ténot/Daniel Filipacchi. E questo mentre contemporaneamente animava alla Radio di Stato una serie di programmi dedicati al jazz come “Visages du jazz” e “Tribunes des critiques de jazz”. Successivamente tra il 1959 e il 1971, prende la direzione di “Cahiers du jazz”, una rivista musicale trimestrale che è stata un luogo di dibattito e di riflessione per critici, musicisti e appassionati di jazz. Membro dell’Académie Charles-Cros, una istituzione che difende la diversità musicale dopo il 1947, Lucien comincia a lavorare per il quotidiano della sera “Le Monde”.
Parallelamente a queste collaborazioni giornalistiche, redige parecchie opere di sicuro livello come “Les Maîtres du Jazz” (1952), “Le jazz moderne”(1961) o ancora “Histoire du jazz” (1967) e “Histoire du jazz et de la musique afro-américaine” (1976). Insomma tanti libri che hanno apportato uno sguardo intelligente e illuminante su questa musica tanto da divenire opere di culto presso parecchie generazioni di fans e critici di jazz.
Nel 1961 ha creato a Radio France il “Bureau du jazz”, e animato tra il 1956 e il 1996 su France Culture e France Musique, numerose emissioni.Come scrittore lo si ricorda soprattutto per “Les Enfants sauvages”(apparso nel 1964), che è stato portato sul grande schermo dal regista François Truffaut nel 1970. Agli inizi degli anni 2000, aveva pubblicato dei libri dedicati a Charles Delaunay e al critico, pedagogo e musicologo André Hodeir.
Insomma con Lucien Malson scompare un altro pezzo importante della storia del jazz non solo francese, non solo europea…

 

Se n’è andato André Clergeat

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Adriano Mazzoletti ed André Clergeat

Il dolore è grande. Con la scomparsa di André scompare anche un pezzo importante della mia vita.
Se ne è andato alle tre del mattino di sabato scorso 23 luglio. Aveva 89 anni compiuti  da sei ,mesi e diciassette giorni. Era nato il 5 gennaio 1927.
Ci eravamo conosciuti sessanta anni fa. Era il 15 luglio del 1956. Ero arrivato per la prima volta a Parigi due giorni prima, grazie ad un regalo di mio padre che aveva voluto farmi passare qualche giorno in quella che all’epoca era la capitale del jazz in Europa. Dopo essermi ambientato mi precipitai a Rue Chaptal a Montmartre dove aveva sede la redazione della rivista “Jazz Hot” a cui ero abbonato e che ogni mese leggevo avidamente. Non appena entrato, vidi un signore in piedi dietro al banco di ricevimento. Lo salutai e dissi: “Vous etes monsieur Clergeat!” Lui abbastanza sorpreso mi rispose in italiano. Aveva capito dal mio accento che non ero francese. Lo avevo riconosciuto per via di una sua foto pubblicata su “Jazz Hot” di cui era redattore capo, qualche mese prima.
Da quel momento nacque una amicizia durata senza interruzione per sessanta anni. Amicizia che divenne fraterna. I miei genitori gli volevano bene come ad un figlio, mia moglie Anna Maria da quando lo conobbe nel 1971, come ad un fratello. Era difficile se non impossibile non volergli bene.
Era una persona straordinariamente generosa e disponibile. Sempre pronta ad aiutarti a rintracciare persone, notizie. E’ stato André a  presentarmi Charles Delaunay, André Hodeir, Boris Vian. E vedevo come tutti lo tenessero in alta considerazione. La sua competenza in ambito jazz era immensa. I suoi Dizionari lo dimostrano. Ma non solo. La sua cultura umanistica era altrettanto straordinaria. Era in grado di scrivere in latino e non solo. Parlava perfettamente tre lingue, inglese, italiano e spagnolo. Con lui ho girato il mondo, quando ambedue facevamo parte dell’Unione Europea di Radiodiffusione ed era una gioia viaggiare con lui.
I ricordi dei sessant’anni  passati con lui mi si affollano alla mente. Sono tanti, tantissimi. Non solo abbiamo viaggiato insieme, ma abbiamo lavorato assieme alla Radio, per la Grande Enciclopedia del Jazz e molto altro ancora. Abbiamo passato insieme con sua moglie Françoise, suo figlio Romain e mia moglie molte vacanze, in Italia e in Francia. L’ultima volta che ho avuto occasione di vederlo è stato nella settimana 6-12 luglio dello scorso anno a Rapallo, per una vacanza passata insieme aiutandomi anche a correggere il libro che sto faticosamente scrivendo. L’ultima volta che l’ho sentito, tre giorni prima del suo ricovero. Si informava sulla mia salute.

Ci manchi André, ci manchi tantissimo.

Paolo Fresu. Quando la musica è vita

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Foto di Maurizio Zorzi

Foto di Maurizio Zorzi

 

Conosco Paolo Fresu oramai da una trentina d’anni e, anche se non ci incontriamo spesso, ogni volta che lo rivedo ritrovo il Fresu di sempre vale a dire un artista straordinario, che con la sua tromba ha toccato i cuori di tantissimi amanti della musica, ma soprattutto un uomo integro, mite, dolce, disponibile al colloquio…un uomo che è rimasto sempre fedele a sé stesso nonostante il successo planetario. Il tutto impreziosito da una lucida capacità di analisi che avrete modo di apprezzare anche in questa intervista raccolta nel dicembre del 2015.

Partendo da un paesino della Sardegna, tu hai saputo conquistare – non solo metaforicamente – tutto il mondo musicale. La tua vicenda è in qualche modo paradigmatica nel senso che quando si ha talento prima o poi si arriva anche se si parte da situazioni molto difficili, o è la classica eccezione che conferma la regola?
Penso un po’ tutte e due perché da un lato il talento sicuramente c’era – anche se non penso di avere un talento straordinario – dall’altro, come tu dici, la situazione da cui mi sono evoluto non era certo tra le più facili. In quegli anni, parliamo di trentacinque anni fa, la Sardegna era molto più isolata di oggi e Berchidda, il mio paese natale, era una sorta di isola nell’isola per cui la situazione in cui vivevo è stata anche uno sprone a fare, a fare meglio , uno sprone a diventare quello che sono adesso. Insomma è difficile rispondere a questa domanda nel senso che puoi arrivare anche se non hai molto talento e viceversa puoi restare al palo anche se sei eccezionalmente talentuoso. Entrano in gioco molti altri fattori, ci vuole anche una buona dose di fortuna; ad esempio, quando io mi sono affacciato nel mondo del jazz, e parliamo dei primissimi anni Ottanta (ricordo che la mia prima uscita ufficiale la feci nell’82 con un’orchestra di giovani diretta da Bruno Tommaso), in quel periodo, dicevo, non c’erano trombettisti. C’erano i trombettisti della vecchia generazione, Valdambrini, Fanni… quelli delle orchestre della Rai e poi c’era Enrico (Rava n.d.r.) che si muoveva in direzioni più moderne, ma non c’erano giovani . Un altro trombettista della mia età (classe 1961 come me) era a Torino, Flavio Boltro, ma nessuno conosceva lui come nessuno conosceva me, ci siamo incontrati a Roma nell’84 quando io vinsi un premio come miglior giovane jazzista italiano – manifestazione allora organizzata da Adriano Mazzoletti – ci siamo stretti la mano come colleghi che venivano da lontano. Ma eravamo gli unici… oggi come ben sappiamo, la situazione è completamente cambiata: ci sono moltissimi trombettisti bravi. Allora, ripeto, essendo gli unici trombettisti era molto più facile: mi chiamavano dalla Sardegna per venire a fare dei concerti in Continente … come ti dicevo il primo concerto lo feci con Bruno Tommaso il quale credette immediatamente in me, poi nell’83 mi chiamò Paolo Damiani per ROCCELLANEA ( assieme a Fresu e Damiani in quell’album c’erano Gianluig Trovesi sax alto e clarinetto basso, Giancarlo Schiaffini trombone e Ettore Fioravanti batteria n.d.r.) e poi Giovanni Tommaso, il cugino di Bruno, con il quale negli anni successivi ho suonato diverse volte facendo parte anche del quintetto con Massimo Urbani. Come vedi tre bassisti che da leader ti chiamavano per suonare con loro perché non c’erano trombettisti. E io mi chiedevo: ma perché chiamano proprio me? Ci saranno bravi trombettisti a Roma e a Milano… E probabilmente c’erano, solo che forse il fatto che non avessi studiato in modo canonico, il fatto di venire dalla Sardegna mi davano quel pizzico di originalità di fondo che veniva apprezzato. Per cui penso che nel mio caso specifico tutto sia stato da una parte fortuito dall’altra una convergenza di vari elementi. Sicuramente capacità, sicuramente talento… ma anche voglia , caparbietà, ostinazione e, come si diceva, una certa dose di fortuna altrimenti in quegli anni dalla Sardegna si usciva con molta, molta difficoltà.

In questo preciso momento ti senti più realizzato come uomo, come artista o in ambedue le vesti?
Per la mia scala di valori spero di essere realizzato in primis come uomo, senza ombra di dubbio, perché se non mi sento realizzato come persona, in questo preciso momento come padre, non riuscirei a fare la musica che voglio. Se quando salgo sul palco non mi riconosco con me stesso quello che faccio non ha molto senso… la musica è vita, è emozione, è trasmettere un’emozione e se quando suono non mi sento realizzato come uomo capisci bene che non posso raccontare alcunché…tutto suonerebbe artificioso. Poi naturalmente mi sento realizzato anche come musicista, ma se mi sentissi realizzato solo come artista e non come uomo, per me sarebbe una disfatta, terribile, tanto più che in questi ultimi venti anni ho cercato di legare alla musica tutto ciò che le sta attorno… o se preferisci il contrario . SE oggi sono quello che sono lo devo in massima parte alla musica, la musica è al centro di una serie di problematiche che vanno al di là e che sono di drammatica attualità proprio in questi giorni. E questo l’ho appreso con il tempo. Ad esempio, quando ho iniziato ad organizzare il Festival di Berchidda avevo ben chiari gli obiettivi da raggiungere ma non ne conoscevo le potenzialità, così, man mano, facendo musica ho scoperto quanto la musica stessa potesse diventare un fattore importante di crescita, di arricchimento, di aggregazione… insomma ho scoperto come le arti – nel mio caso la musica – possano divenire dei linguaggi incredibili che rivestono un ruolo sociale, politico, nell’accezione migliore del termine. Tutto questo ci riporta alla prima affermazione e cioè il linguaggio artistico inteso come linguaggio sociale e politico postula che prima ci sia una coscienza politica e sociale che appartiene all’uomo per cui, se non c’è questo , la musica non ha senso. Insomma le due cose devono coincidere, devono camminare assieme, autoalimentarsi altrimenti il discorso cade.

Una domanda un po’ strana, ma siccome a me capita, te la faccio senza pudore: ti capita di piangere ascoltando musica?
Certo che sì, mi capita spesso. Mi capita di piangere mentre suono e non mi vergogno a dirlo. Certo, si può piangere ma si può anche ridere… l’importante è che si faccia musica avendo qualcosa dentro, soprattutto per uno come me che ha passato i cinquanta. In uno scritto che mi venne chiesto dalla « Nuova Sardegna »in prossimità dei miei cinquant’anni, nel febbraio del 2011, quando mi apprestavo a fare un giro di concerti lunghissimo in Sardegna, ebbi modo di affermare che non è sufficiente soffiare dentro una tromba, ci vuole qualcosa di più profondo. L’abbiamo detto prima: per me la musica è sostanzialmente emozione… se non c’è emozione è come se l’intera impalcatura crollasse, priva di fondamento.

Quanto ha influito sulla tua musica l’essere sardo?
Francamente non ho una risposta certa al riguardo. Credo che abbia influito molto; sono contento di essere sardo e non potrebbe essere altrimenti; quando ho qualche progetto – in realtà sempre meno – in qualche modo legato alla mia terra vuoi per il repertorio , vuoi per le varie commistioni che sono state fatte con i cantanti , con la musica polifonica vocale che è un po’ la musica caratteristica della Sardegna, questo elemento può venir fuori. Ma quando suono la mia musica ‘quotidiana’ , quando suono ad esempio con Ralph Towner non c’è alcun riferimento voluto alla musica sarda.. eppure, alla fine del concerto, c’è sempre qualcuno che viene a dirmi ‘in quel pezzo ho sentito le sue origini sarde’. Evidentemente qualcosa vien sempre fuori indipendentemente dalla mia volontà: io sono sardo, sono profondamente legato a questa cultura, parlo benissimo la lingua per cui alla fine, qualche tratto della mia personalità molto sardo, si trasmette in quello che suono e il pubblico lo percepisce.

Questo evidente attaccamento alla tua terra, mi spinge a farti un’altra domanda: tu passi molto del tuo tempo lontano dalla Sardegna; ti pesa questa lontananza?
Direi proprio di no, così come non mi pesa la lontananza dall’Italia. E ciò per due motivi. Il primo è che sono sempre abbastanza presente, seppure non fisicamente, con la Sardegna: in quello che faccio, nei rapporti che tengo con la famiglia, con gli amici, con agli amici pittori, scultori, poeti tutta gente che in Sardegna fanno qualcosa di notevole con il linguaggio dell’arte… e poi c’è il Festival di Berchidda. In secondo luogo perché sono oramai trent’anni che giro il mondo per cui mi sono abituato. Se dovessi soffrire di nostalgia sarebbe davvero un bel guaio. L’obiettivo, per me, non è quello di tornare a casa ma di essere sempre a casa mia anche quando ne sono fisicamente molto lontano . D’altronde in ogni posto ci sono molte cose belle e altre che non ci piacciono ma bisogna accettarlo. Quando vado fuori vivo quello che devo vivere.

Attualmente le due maggiori isole italiane, Sardegna e Sicilia, continuano a sfornare talenti jazzistici in quantità industriale nonostante le oggettive situazioni di difficoltà in cui entrambi i territori si trovano. Come te lo spieghi? E’ solo un insieme di casualità o c’è qualcosa di più profondo?
No, non credo ci sia casualità. Non riesco a individuare un fattore specifico. Una qualche spiegazione potrebbe forse essere trovata nel fatto che l’Italia è un Paese lungo in cui i centri di irradiazione della cultura sono sparsi per tutto il territorio. Se facciamo un paragone con la Francia, vediamo che lì la vita culturale è accentrata su Parigi, Lione e forse qualche altra città. Da noi no; anche i lembi estremi del territorio come per l’appunto la Sicilia e sotto molti aspetti la Sardegna, hanno una storia, un portato culturale che ancora oggi è in grado di dire qualcosa di nuovo, di interessante. Certo, per lungo tempo queste periferie sono state trascurate, bistrattate, e la risposta è stata una grande energia creativa: la gente ha voglia di mettersi in gioco… il fatto che, ad esempio, faccio un Festival a Berchidda è perché quel festival , con quel tipo di obiettivi, con quel tipo di impostazione, si può fare solo lì…organizzarlo che so a Roma o a Firenze non avrebbe senso: un concerto a Berchidda diventa un avvenimento, e quindi si creano un’energia, un’attenzione che non si creerebbero in altre città dove di eventi ce ne sono diversi. Come dicevo, da questo punto di vista l’Italia è un Paese molto frastagliato e però la risposta è poi questa: pochi Paesi possono vantare un ventaglio di proposte culturali come quelle che può mettere in campo il nostro Paese, ciò vale per il jazz ma penso valga bene o male per tutte le forme artistiche. Voglio precisare, per quanto riguarda più specificatamente il jazz, che non sto entrando nel merito cioè non voglio dire che la proposta jazzistica italiana sia meglio di quella francese o tedesca ma sfido chiunque a dire che l’Italia non è il Paese dove si fa più jazz, dove le proposte sono più diversificate in termini di repertori , di generazioni etc..etc…Poi, tornando alla tua domanda, non bisogna dimenticare che la Sardegna e la Sicilia sono due isole immerse nel Mediterraneo per cui hanno ancora forte una grande tradizione popolare: esiste una musica ancora viva, esiste una musica più radicata che in altre regioni italiane, esiste una musica che comunque si sta muovendo, si sta evolvendo . Se trent’anni fa poteva sembrare difficile trovare una qualche relazione tra il jazz e la musica tradizionale, oggi è facile trovarla: se ci pensiamo bene il jazz nasce proprio come musica popolare, agli inizi aveva una funzione che era fortemente popolare … poi è cambiato, è diventato una musica di ricerca, una musica dura perché doveva dare delle risposte anche a dei dubbi, a delle problematiche forti che c’erano negli Stati Uniti. Oggi, che ci siano in Sardegna tanti musicisti, che in Sicilia ci sia comunque un pubblico piuttosto vasto per questo genere musicale, nonostante la crisi imperante, ecco, tutto ciò deriva dal fatto che il pubblico trova nel jazz questa relazione tra quella che è la genesi di questa musica, la sua originaria funzione e quello che oggi è diventata. Mi chiedo solo se questa relazione tra il jazz e la musica popolare sia ciò che spinge molti giovani verso questa musica…francamente non lo so. Però, per quanto riguarda la Sicilia, non è un fatto di oggi: ci sono stati nel passato, e ci sono oggi, un sacco di musicisti eccellenti provenienti dalla Sicilia che hanno fatto fortuna altrove. Per la Sardegna il discorso è un po’ diverso in quanto prima dalla mia terra si emigrava meno. Quindi probabilmente in questa cultura mediterranea c’è una sorta di forza, di spinta che per una serie di motivi fa emergere tutta una serie di nuovi talenti. Ci sono molti giovani che suonano bene e che non si sa da dove siano usciti….voglio dire che in queste terre c’è un humus, una forza interiore che forse viene dalla ‘perifericità’ … probabilmente questi stessi giovani vissuti a Roma o a Milano non avrebbero avuto la stessa energia. (altro…)

Rosalba Bentivoglio Incanto di pietra lavica

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Artista di grande spessore, vocalist che si è fatta apprezzare anche al di fuori dei confini azionali, Rosalba Bentivoglio è rimasta fortemente legata alla sua terra. Di qui una scelta tanto impegnativa quanto, dal punto di vista artistico, non del tutto gratificante: restare nella propria terra, continuare a vivere nella natia Catania. Qui, ovviamente, ha proseguito la sua attività di jazzista a tutto tondo, affiancando una intensa attività didattica.
L’abbiamo intervistata di recente affrontando tutta una serie di tematiche molto delicate e abbiamo trovato una donna, un’artista intelligente, coraggiosa, ben consapevole delle proprie motivazioni, che n on ha alcun timore ad esprimere in modo chiaro, inequivocabile, le proprie idee.

-Come pensi sarebbe stata la tua carriera se avessi lasciato Catania, la Sicilia?
Intanto ti dico che qui in “provincia” risulta essere un plus valore il fatto di vivere o di rientrare dopo aver vissuto all’estero (o anche solo in nord Italia); ciò che viene da “fuori” dà più lustro, e forse non abbiamo ancora dismesso la famosa valigia con cui i nostri genitori partivano cercando riconoscimenti e fortuna fuori dal proprio Paese e magari rientrare poi con accento “estero” per essere ricollocati in modo più consono. Infatti se noti le varie presentazioni di musicisti siciliani, guarda caso, hanno tutti residenza all’estero. Comunque io ho vissuto un periodo a Parigi e in Germania a Monaco e devo dirti che si lavora bene e tutto procede in base alle tue capacità artistiche, cioè l’opposto di quello che avviene da noi. Il Jazz in Italia soprattutto in Sicilia è ancora lontano dalle nuove prospettive musicali a cui da tempo si accenna o più timidamente si cerca di parlare, forse più per un atto dovuto che per convinzione vera e propria. Della parola “difficoltà” ultimamente ho fatto il mio punto di forza; cercando di evitare l’autocommiserazione. In un Paese come il nostro in cui l’unica forma d’arte è l’apparire e dove certezza è la mancanza di strutture, di professionalità e competenze; l’indifferenza poi, completa il quadro, soprattutto per chi ha fatto delle scelte diverse. Io ho bisogno del mio luogo, dell’energia che sprigiona l’Etna e a cui spesso attingo come forma d’ispirazione. Io ho scelto di continuare a vivere a Catania, in Sicilia, per affermare me stessa nel luogo d’origine e perché sono legata alla mia terra, al mio mare, e al mio vulcano. Certo oggi questa scelta fatta anni fa mi sta stretta, penso che il vivere all’estero mi avrebbe dato di più e sarebbe stato più utile alla mia carriera; Catania, la mia città è risultata essere avara con me, con chi si è sacrificata per essa per rappresentarla al meglio.

-Come si è evoluto il Jazz nell’isola?
Come sai sono stata presidente per la Sicilia orientale dell’organizzazione ASMJ (Associazione Siciliana Musicisti Jazz) associazione nata dalla scissione dall’AMJ a livello nazionale perché non ci sentivamo ben rappresentati, comunque dopo poco tempo e dopo aver prodotto 2 cd , il progetto è naufragato; ma in quel periodo ho toccato con mano le reali necessità e disagi dei musicisti isolani, e primo tra tutti la latitanza delle istituzioni, mentre un secondo e non sottovalutato problema è quello degli organizzatori, che a volte coincidono con la figura di musicisti e che purtroppo tengono un’egemonia di potere forte e formano quadrato verso quelli che vengono visti come outsider. Da un punto squisitamente stilistico invece, credo che si cominci ad avere (oserei dire timidamente) l’esigenza di rinnovarsi (nel rispetto di alcuni parametri culturali che oggi si attenzionano più di ieri). Francesco Cafiso ad esempio ha dato una particolare valenza al jazz in Sicilia e pur essendo molto giovane ha bruciato molte tappe, maturando esperienze con gli artisti giusti e nei luoghi idonei. Forse non dovrebbe restare in Sicilia, la Sicilia orientale è bella ma forse lo lega troppo, io lo vedrei più a New York, Parigi o ad Oslo, luoghi più giusti per un artista come lui, tra l’altro ancora giovane, ed affiancarsi ad artisti e collaboratori interessanti e soprattutto innovativi nei suoni . Per le onorificenze, le targhe e le direzioni artistiche c’è ancora tempo. Con Francesco ci siamo sempre ben rappresentati sul palco, abbiamo avuto una lunga collaborazione con l’Orchestra jazz del Mediterraneo di Catania. Certo che oggi nell’era dell’informatica e con le nuove tecnologie a nostra disposizione è stato possibile uno scambio e una informazione a cui prima non eravamo abituati. E’ vero anche che la facilità di approdare e usufruire di tecnologia ha creato uno spazio antitetico al reale sviluppo creativo in cui il mezzo, la macchina, prende il sopravvento sull’intelletto umano. Quindi si dice che in Sicilia un’evoluzione o crescita nell’ambito jazzistico è avvenuta, anche se credo sia sempre sotto le briglie delle esigenze commerciali, dove i nomi o i cartelloni contano più del reale sviluppo di un intelletto artistico. Chi come me da anni si occupa di ricerca e contaminazioni non trova un mercato o interesse capace di sostenerli.

-In Sicilia esistono realtà diversificate che fanno capo a molte realtà locali; secondo te esiste una buona collaborazione o, come sostiene qualche tuo collega, ognuno va per i fatti suoi?
Rispondo subito con un no, non credo che in Sicilia esista una buona collaborazione tra le varie realtà dell’isola, ognuno ha il proprio giro di artisti e, come dicevo prima un piccolo gruppo di musicisti-organizzatori creano egemonie; ma credo che un problema simile esista anche fuori dal nostro territorio come ad esempio Roma che risulta essere una città chiusa, non ci si esibisce se non sei nel giro giusto, ad esempio sai che in tanti anni di attività io non sono mai stata invitata ad esibirmi alla Casa del Jazz ? La mia esibizione a Roma ( a parte la partecipazione a trasmissioni musicali radiofoniche in Rai, con Tony Scott e la conduzione di Adriano Mazzoletti) io ho cantato al Music Inn.

-Il mondo del jazz è stato, tradizionalmente maschilista…cosa puoi dirci al riguardo con specifico riferimento alla realtà siciliana?
Che i pregiudizi nel rapporto tra musicisti sono tutt’oggi presenti; esiste di fatto una discriminazione tra musicisti maschi e musiciste femmine, le femmine vengono viste più come vocalist che devono stare li sul palco in bella mostra a cantare e fare soffrire (musicalmente) i musicisti che le accompagnano. Diciamo che le donne non vengono viste come musiciste e compositrici complete al pari degli uomini, ma sono, anche se spesso più brave dei maschi, un orpello, un abbellimento al gruppo composto da maschi.

-Tu sei una eccellente vocalist … ma anche una compositrice di vaglia; qual è tra i due il vestito che ti senti meglio addosso?
Ambedue, perché quando compongo penso già al canto, mi esprimo con il canto, ma la composizione è la mia espressione interiore; l’intelletto, il sogno, che poi il fuoco del canto concretizza. La voce è l’unico legame tra silenzio e parola e come nei suoni invisibili di Italo Calvino voglio avere sufficiente simbolicità per andare a ricostruire quelle relazioni sommerse; interessante perciò mettere in scena tanto la sperimentazione che avviene nell’ambito colto, come ricerca sul linguaggio, anche visivo, quanto liberi passi che vengono presi nel territorio delle spericolate improvvisazioni vocali. Un bagliore rende limpido e visibile colore e forme, ed è in quest’attimo, intensa ed ispirata che libero me stessa nel non tempo.

-Come si svolge il tuo percorso compositivo?
Così come lo scrivere un libro per un filosofo è un atto del tutto personale, allo stesso modo per me è la realizzazione della mia musica nella quale la mia visione e l’utilizzo del linguaggio non viene inficiato da speculazioni commerciali, ma rappresenta sempre ciò che sono e penso in “questo momento”, fondamentalmente su un’ispirazione, una traccia sulla quale lavoro e inserisco l’armonia, mentre in altre seguo un determinato passaggio armonico che può fare scaturire una melodia evocativa. Altre volte è l’evocazione stessa, anche visiva o una emozione vissuta ad ispirarmi e da li scattare la scintilla compositiva. A volte le composizioni le completo con un testo, altre le lascio libere di vagare. Se dovessi descrivere con un’immagine il pensiero delle mie composizioni mi ritrovo trascinata in un vortice di suoni e colori che in modo forte e diretto mi fanno rivivere i colori e le composizioni di W.Kandinsky. Equilibri dinamici quelli che traccio in musica, così come Kandinsky traccia in pittura. La ricerca è un atteggiamento verso un qualche cosa, una tradizione, un linguaggio, un luogo, delle convenzioni. I suoni, come macchie di colori contrastanti ma in perfetto equilibrio fra loro , è così che nelle mie composizioni musicali inserisco un intelletto compositivo. Percio’ la maggior parte delle mie composizioni sono senza parole, con atmosfere minimaliste, e la voce e’ utilizzata come strumento che prende spunto per le proprie sonorita’, dalla natura e da suggerimenti ritmico-musicali da radici fonetico-linguistiche della mia cultura. Sono alla ricerca di una sinestesia in musica. Utilizzo la voce come un sintetizzatore vocale umano per reinventare la tecnica e l’arte del cantare ad ogni mia nuova composizione. Sviluppo elaborazioni di nuove vocalità che rievocano immagini da sogno e si snodano in susseguirsi d’invenzioni creative, di spazi sonori, di tempi, colori, citazioni letterarie. La mia è una musica estremamente evocativa. Equilibri dinamici sono quelli che cerco in musica ed utilizzo il linguaggio musicale per esprimere me stessa. Una “musica nuova” tipizzata da sperimentazione vocale proveniente da dimensioni oniriche e surreali che esprima la metafora della vita.
I Luoghi di Eolo, In the Wind he comes e Cieli di marzo si muovono con moods cangianti come gli stati d’animo ed il vento ne è il collante.
Il vento nell’essere come rinnovamento, “soffio” come corrente di vita, afflato di energia, filo conduttore che unisce il corpo umano all’universo, e il linguaggio canto implica una visione del mondo in cui non esiste più alcuna differenza tra microcosmo e macrocosmo.

– Tutti ti riconoscono una grande sensibilità interpretativa non disgiunta da una tecnica molto solida. Come sei giunta a questi risultati? Quali le tappe fondamentali della tua formazione?
Sin da bambina ho provato grande attrazione per il canto. Col passare del tempo è diventata una necessità esprimermi con la voce. E’ soprattutto attraverso questo mezzo che oggi cerco di realizzarmi. Nel jazz si ritrova quella libertà di espressione. L’ascolto di Someone to watch over me di George Gershwin col testo di Ira Gershwin, cantato da Sarah Vaughan ha fatto scattare in me la molla che è diventata una vera passione per il canto jazz. Giovanissima ho avuto esperienze rock e pop (westCost con Joni Mitchell) per poi indirizzare la mia passione verso il jazz, passando per il canto lirico in conservatorio. Poi quello che conta ( e che gli allievi oggi comprendono poco) è cantare, quindi tanta ma tanta esperienza sul palco, dove avvengono incontri, scontri e collaborazioni. L’arte è un percorso paritetico alla vita, non si sa quando comincia ma si sa che non finisce mai.

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