Non solo musica al “Gezziamoci” di Matera

di Serafino Paternoster –

Non sempre un festival di musica per essere interessante deve osservare una certa coerenza stilistica rispetto a un tema o a un genere. Lo sa bene l’Onyx Jazz club di Matera con il suo ormai larghissimo campo di azione che non si ferma alla musica, ma si muove in lungo e in largo anche intorno alla scoperta del territorio lucano, dei suoi angoli più suggestivi, delle sue risorse naturali ed enogastronomiche.

Sono ormai 35 anni che l’associazione materana si propone al pubblico locale e nazionale attraverso una rassegna, denominata “Gezziamoci” che si caratterizza proprio per la sua capacità di non fermarsi a un solo linguaggio artistico, a un solo ambito stilistico, ma di andare oltre i generi, di andare oltre lo stesso Jazz.

Basta un esempio, il confronto fra il concerto di Rita Marcotulli e del suo trio, e quello del trio di Tullio De Piscopo. Due proposte artistiche molto diverse fra loro, quasi contrapposte, eppure entrambe dentro lo stesso cartellone allestito dall’instancabile Luigi Esposito, presidente dell’associazione materana, e del suo team.

Nella suggestiva cornice della terrazza di Palazzo Lanfranchi, affacciata sui Sassi, Rita Marcotulli si è esibita con il suo trio Kàla presentando il suo ultimo disco ‘Indaco Hanami’. Sul palco, oltre alla pianista, Ares Tavolazzi al basso, e Alfredo Golino alla batteria. In repertorio brani eterogenei hanno creato atmosfere molto diverse fra loro, da “Indaco”, una vera e propria sinfonia di colori e di ritmi influenzata da caratteri nordeuropei, fino a una rivisitazione geometrica di “Napul’è” di Pino Daniele.

Tre grandi musicisti insieme non potevano non determinare un forte impatto emotivo grazie alla loro profondità di pensiero musicale, e alla loro capacità di mantenere, anche nelle composizioni più complesse, una grande compattezza sonora. Performance complessivamente all’altezza delle aspettative, anche se, forse proprio per la forte personalità di ciascuno, il brano meno riuscito è sembrato essere “Dialogues” interamente improvvisato sul momento. Solo in questa circostanza la compattezza sonora e stilistica espressa negli altri brani si è quasi sgretolata su tre canali distinti. Solo una parentesi di un concerto straordinario e dalle ulteriori potenzialità di crescita e che ha davvero tante “Cose da dire”, come si intitola il brano più intenso della serata.

L’anima di Pino Daniele ha trovato un posto più ampio nel concerto proposto nella stessa location la sera successiva dal noto batterista Tullio De Piscopo insieme al pianista Dado Moroni e al contrabbassista Aldo Zunino. Tutt’altra atmosfera com’era logico aspettarsi. De Piscopo ha fatto scintille prendendo per mano il pubblico e accompagnandolo nel blues partenopeo, a partire dal famoso brano “Je so pazzo” di Pino Daniele con il quale ha fatto cantare tutti i presenti. Un’altra cosa dalla spiritualità multiforme di Rita Marcotulli, ma non per questo meno piacevole. Almeno per le persone che hanno trovato esattamente quello che cercavano, allegria e musica con cui battere i piedi.

Due concerti molto diversi fra loro che danno la cifra della capacità di Gezziamoci di tenere dentro la rassegna progetti molto diversi fra loro, ma senza voler esprimere giudizi di merito e di valore.

Questa edizione della rassegna materana ha conosciuto tantissimi altri momenti emozionanti, come la performance per piano solo all’alba, sempre di Rita Marcotulli, o i concerti proposti nel giardino dell’Hotel del Campo: un omaggio a Battiato con la voce di Saverio Pepe e la programmazione elettronica di Pier Domenico Niglio, il duo chitarra e voce con Emanuele Schiavone e Angelo Cicchetti, il quintetto di Giovanni Amato. Nell’articolato programma hanno trovato spazio anche una degustazione di vini lucani . Chiuderà la rassegna il 9 settembre Alfio Antico, a Montescaglioso. Un evento per celebrare i 21 anni dal disco “Anima ‘Ngignusa” prodotto dall’Onyx. In scena Alfio Antico, voce, tamburi a cornice, Raffaele Brancati, sassofoni, Amedeo Ronga, contrabbasso, Paolo Sorge, chitarra.

Un’altra testimonianza del carattere eclettico di Gezziamoci e della sua estraneità agli algoritmi stilistici ormai di moda nel panorama nazionale ed internazionale.

Serafino Paternoster

Il Jazz in Friuli Venezia Giulia passa da GradoJazz: un piacevole contagio in musica che oltrepassa le mascherine!

di Alessandro Fadalti –

Dopo tutte le paure, il senso di impotenza e sfiducia che il lungo periodo di quarantena ha imposto a tutti noi, finalmente una boccata d’aria fresca portata dalla musica! Una reazione necessaria, dopo mesi di esibizioni solitarie nelle stantie cantine domestiche o le alternative esibizioni in live streaming sulla rete le quali, seppur innovative, sono state soluzioni raffazzonate per un settore in crisi ancor prima della pandemia globale. L’assenza di calore umano, una mancanza di fisicità, emotività e annullamento dell’esperienza sociale che il palco offre a tutti gli amanti della musica: queste sono le ferite aperte che hanno a malapena cominciato a cicatrizzarsi.

Con l’estate, però, vien dal mare un’allietante brezza che dissolve l’aria stagnante, sicché il festival di cui vi parleremo, con la sua grande affluenza e i tre sold-out, è la concreta dimostrazione della voglia di ripartire, pur nel pieno rispetto delle regole e norme contro il Covid-19. In effetti, gli usi e le modalità di fruizione degli spettacoli che si adattano ai tempi sono l’elemento vincente per combattere quella che in  primavera si prospettava come una stagione di immobilismo culturale.

La seconda edizione di GradoJazz 2020, la trentesima per lo storico festival Udin&Jazz, organizzata dall’associazione culturale Euritmica di Udine, è un simbolo in tal senso. Come ogni anno il festival presenta un cartellone con artisti jazz di grande caratura, di livello nazionale e internazionale, e anche questa edizione, con i suoi otto concerti, dal 28 luglio al 1 agosto nello spazioso e rinnovato Parco delle Rose di Grado, ha rispettato i pronostici. Quasi ironicamente il tema forte ma sottinteso  di quest’anno è stata la contaminazione, che poi è sinonimo di contagio! Tuttavia, mettendo da parte l’ironia, in arte essa assurge a un altro significato e il Friuli è una terra dove la contaminazione culturale fa da padrona e si dirama in ogni dove.

L’apertura non poteva che essere affidata a un gruppo le cui contaminazioni musicali costituiscono il manifesto artistico: i Quintorigo, band romagnola dalle sonorità rock-barocco con incursioni jazzistiche grazie a un organico inusuale (Alessio Velliscig, voce; Andrea Costa, violino; Gionata Costa, violoncello; Stefano Ricci contrabbasso; Valentino Bianchi, sassofoni e Simone Cavia, batteria) uniscono molteplici mondi della musica, reinterpretandoli nel loro stile. Parlando della formazione: Alessio Velliscig, cantante friulano, ha una voce in grado di sopraffare l’orecchio dell’ascoltatore grazie a un registro canoro ampio e a un mirato controllo dinamico. Alessio, dimostra grande tecnica e teatralità, senza scadere in eccessi di poco gusto. Tra i brani più apprezzati ci sono stati alcuni arrangiamenti tra cui “Alabama Song” di Kurt Weill e Bertolt Brecht, che fu anche un successo dei Doors, un duplice tributo a Charles Mingus con “Moanin’” e “Fables of Faubus” infine “Space Oddity” di David Bowie. In essi, la caratteristica che colpisce è quella di saper sorprendere con rimaneggiamenti invasivi, senza che le canzoni perdano la loro unicità. Infatti, a seguito della più classica struttura strofa-ritornello, seguono dei terzi temi aggiunti al brano e delle improvvisazioni al sax dal suono aggressivo rhythm’n’blues o gli archi con il distorsore, districando il gomitolo dei variopinti generi della musica popular. È in conclusione dell’esibizione che il gruppo riserva due pezzi da novanta che sono la matrice di un’idea di fare musica che si avvicina all’estetica del gruppo, ovvero Frank Zappa. Con gli arrangiamenti di “Cosmik Debris” e “Zomby Woof”, tutte le caratteristiche singolari del gruppo sono evidenziate e la sobrietà teatrale del frontman diventa un’esplosione di gesti e movimenti più dinamici e coinvolgenti, accompagnati da svariati salti di registro, spingendosi in acuti lontani dalle corde di un tenore, che vengono sottolineati da espedienti rumoristici degli strumentisti. Quintorigo è la dimostrazione di come “jazz” sia da anni non solo un genere, ma un multiforme modo di concepire l’approccio alla musica.

Il set successivo è stato quello del duo Bill Laurance (pianoforte) e Michael League (basso). Il progetto è una riproposizione di vari loro brani scritti ed eseguiti per altre formazioni, tra cui gli stessi Snarky Puppy. Stiamo parlando di due amici che nella musica ritrovano un’alchimia, che è sensibile dal primo ascolto. Non è un progetto artistico preciso e definito: il repertorio è costituito da brani con continui incastri ritmici tematizzati a cui seguono degli stacchi omofonici e omoritmici in stile funk, che prosegue in improvvisazioni prima dell’uno, poi dell’altro e si conclude riprendendo il tema. A questo, si aggiunge il tocco risolutivo di Laurance che, quasi scherzando, finge una cadenza finale che lascia il pubblico con l’applauso mozzato, un approccio sicuramente non convenzionale. Il duo respira in un ciclo di opposizioni: se il bassista è molto selvaggio, intuitivo ed espansivo con il suo strumento, Laurance è intellettuale, introverso e colto… una sintesi tra il nietzschiano spirito Apollineo e Dionisiaco. Se i vari brani in stile più classico, tra cui “December in New York” e “Denmark Hill” di Laurance, sono quelli in cui l’anima e il flusso del pianista vengono meglio espressi, in contrapposizione vi è l’estro di League, che scaturisce in brani dal sapore funk come “Semente” degli Snarky Puppy o “Spanish Joint” di D’Angelo. La sintesi è comunque altrove, s’insinua in brani come “Two Birds in A Stone”, un inedito scritto da League dove il bassista prende in mano l’Oud, strumento di cui è promettente novizio.
Nonostante l’esibizione sia stata prossima alla perfezione, nel destreggiarsi acrobatico dei brani c’era una schematicità ripetitiva. Laurance si adagiava spesso sulle ottave medie del pianoforte mentre League non sembrava ascoltare sempre il compagno, nei decrescendo dinamici o nei rallentando pareva inseguirlo più che accompagnarlo, asincronia che non è tuttavia pesata su tutto il concerto. Va detto, in conclusione, che la chiave di lettura dello spettacolo è forse quella di due amici che essenzialmente non ne potevano più di starsene chiusi in casa e lontani dai palchi. Si sono ritrovati e hanno mostrato il loro spirito giocoso, fatto di sguardi e sorrisi di complicità. Una gioia per gli occhi e per le orecchie.

Il giorno seguente è Alex Britti ad occupare un palco già molto caldo dal giorno precedente. Sullo schermo sul fondo sovrasta la scritta “jazz” a caratteri cubitali, ma solo alcuni brani hanno forti influssi blues e jazz. “Mi Piaci”, “Bene Così”, “Buona Fortuna” e “Immaturi” sono canzoni fortemente pop con alcune contaminazioni funk, blues e southern rock, mantenendo però uno stile rigoroso alla canzone italiana tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. Britti sfrutta intelligentemente la sua vena profondamente blues, ma quei brevi call and response, sotto forma di stacchi con la chitarra, tra i versi e i soli pentatonici corti e in struttura sono abbastanza per parlare di blues e influenze? A mio parere no! Ma ecco il colpo di scena. La similitudine più forte per spiegare la sensazione è attraverso una partita di calcio. Un primo tempo stanco con poche palle gol e molte azioni a centro campo a cui segue un secondo tempo dove la squadra si trasforma. Dopo i primi 45′ di gioco scende in campo il trombettista Flavio Boltro. Entra nel vivo del brano, sul concludersi di “Le cose che ci uniscono”, esibendo un solo che mostra le sue indubbie qualità. Il trombettista torinese è rapido nei fraseggi, il linguaggio è molto modale, è un invito a dialogare rivolto al chitarrista, mettendo in mostra la sua anima più virtuosistica. Cambia profondamente anche lo schema dei brani: dopo un’esposizione della canzone in stile pop seguono delle lunghe sessioni di improvvisazione tra i due, tornando al ritornello come finale. Il brano “Jazz” è un fast che fa da modello a quanto illustrato, un vero e proprio rilascio delle qualità artistiche e tecniche di Britti. Il resto della band (Davide Savarese, batteria; Matteo Pezzolet, basso; Benjamin Ventura, tastiere; Cassandra De Rosa e Oumy N’Diaye, cori) è impeccabile, riescono a salire d’intensità con un accompagnamento perfetto durante i solo. Purtroppo ci sono delle note dolenti; nessuno di loro ha avuto un momento per splendere (eccezion fatta per il solo di batteria di Savarese) e, complice un pessimo mastering, le tastiere e il basso erano poco udibili. Infine, lo spazio quasi nullo dato alle coriste. La seconda parte è stata la più interessante, il picco massimo di spettacolarità è un medley acrobatico tra “Oggi Sono Io” e “7.000 Caffè”; dove tra le due canzoni possiamo sentire una versione completa del tema di “Round Midnight” e “Gasoline Blues” che fungono da ponte. La distensione musicale a chiusura si compone di tre hit per far cantare il pubblico. “La Vasca”, “Solo una volta” e “Baciami” hanno fatto alzare il pubblico dalle sedie, personalmente sarebbe stato molto più di classe concludere con il medley, ma è il pubblico a smentirmi.

La terza giornata è stata una pennellata di voci rosa. Doppio set per due cantanti molto interessanti, l’una all’opposto dell’altra per certi versi. Il primo è il duo Musica Nuda di Ferruccio Spinetti (contrabbasso) e Petra Magoni (voce). Il concerto si apre con un arrangiamento di “Eleanor Rigby” dei Beatles. La loro musica funziona molto bene, la cantante si cimenta in acrobazie vocali, salti di registro importanti, cambi di stile, dal bel canto agli espedienti rumoristici che ricordano Cathy Berberian e molto altro. Il contrabbassista ha una sensibilità compositiva raffinatissima, i brani hanno una struttura solida con tocchi fantasiosi che permettono alla Magoni di trovare spazio in slanci vocali. L’impressione generale è che insieme funzionino in maniera assoluta. La diversità di background musicale tra loro è palpabile e crea ricchezza. Spinetti, nei suoi arrangiamenti, fa percepire un’osmosi tra contaminazioni di musica classica, jazz e contemporanea. Petra, d’altro canto, ha un’esperienza come cantante e interprete vicina agli ambienti alternative pop. La qualità attoriale è quel quid che rende i loro brani diversi, unici.
Ne è un esempio “Paint it Black” dei Rolling Stones, su cui incidono un tono oscuro, amplificando i tratti del dolore intrinseco che permea tutta la canzone; oppure il finale con “Somewhere Over The Rainbow” in cui la sensazione di malinconia e speranza viene accentuata con lunghi sospiri e respiri. Nei brani originali come “Qui tra poco pioverà” e “Come si Canta una Domanda” emerge quanto l’uno debba all’altro, Spinetti offre composizioni e arrangiamenti artistici interessanti, mentre Magoni dona la sua imponente abilità ed estro.
La seconda grande voce femminile, nel set successivo, è molto composta e senza sospiri in coda alle note, con una prorompente carica di emotività. Chiara Civello a Grado è accompagnata da Marco Decimo al violoncello e dall’eclettica Rita Marcotulli al pianoforte. Il trio è inedito e fa percepire la sua estetica dal primo brano con un arrangiamento di “Lucy In The Sky With Diamond” dei Beatles. Ricchezza di riverberi e delay, accompagnati da alcuni solerti colpi di Pandero della cantante, violoncello percosso sulla cassa armonica, alternato a lunghi glissando dal registro medio all’acuto con l’archetto. Il risultato è un’atmosfera onirica e trascendentale, superiore all’originale. Si tratta tuttavia di un unicum, in quanto nei brani successivi lo stile vocale della Civello resta fedele a un’ispirazione brasiliana, in una sorta di “Saudade nostrano”; la voce è dolce e malinconica, risaltata da una scaletta fatta di ballad eleganti come “Estate” di Bruno Martino, “Travessia” di Milton Nascimento e “Anima” di Pino Daniele. Il pianismo della Marcotulli è l’altro grande protagonista del concerto: sfrutta tutte le ottave del piano in una libertà assoluta, ondeggia tra i registri in maniera ipnotica, passa dal pizzicare le corde, all’inserire oggetti metallici nella cordiera (pianoforte preparato), per poi toglierli e percuotere le corde bloccandone la risonanza con le dita. Non sta ferma sul seggiolino e a livello espressivo suscita una sensazione di moto perpetuo; oltretutto inserisce note dissonanti a commento della voce e dell’atmosfera dei brani. In sintesi, ricopre all’interno di questo trio un ruolo timbrico, ritmico, melodico, dinamico, rumoristico ed espressivo. Quello che personalmente definisco “pianismo totale”. Ciò che meglio emerge da questo trio è una forte capacità di espressione attraverso una scaletta fatta da brani lenti, eseguiti con un trasporto e sentimento unico. Punctum dolens di questo concerto, per me, la versione poco gradevole di “Bocca di Rosa” di De André, dai toni molto dark e tragici che cozza con il testo del cantautore genovese, nonostante abbia trovato coraggioso l’arrangiamento. Nel finale, tutti gli artisti dei due set sul palco, per un’esplosione di bellezza!

 

Una delle poche giornate di vaga frescura nella bella isola di Grado ci ha regalato l’esibizione del trombettista Paolo Fresu e del suo quintetto (Tino Tracanna, Sax; Roberto Cipelli, Piano; Attilio Zanchi, Contrabbasso; Ettore Fioravanti, Batteria). Ad arricchire l’ensemble, il trombone di Filippo Vignato. Il progetto riprende lo storico album del 1985, rinominato Re-Wanderlust in occasione della performance dal vivo: un fiore all’occhiello per la rassegna! Un jazz dai tratti un po’ desueti, che non sa di aceto, ma è un vino pregiato. Dal primo brano “Geremeas” si capisce la cifra stilistica, il repertorio è in continuo equilibrio tra fast e slow, come “Touch Her Soft Lips and Part” di William Walton. La sonorità è un riferimento che va dal Bebop al Modal, con accenni di Free. Le strutture sono quelle classiche del jazz ma risalta un’instancabile energia dei musicisti, che con grande vigoria aggrediscono ogni solo, esprimendo libertà. Il sestetto può essere diviso in due sezioni per ruolo, quella del trio: piano, basso, batteria e quello dei tre fiati. Questo scisma emerge soprattutto durante le improvvisazioni collettive, dove ogni fiato emette una voce ostinata e sovrappone frasi sopra altre frasi, per nulla scontate e non omoritmiche, concedendosi di oscillare sul tempo. Il risultato è piacevolmente caotico e non ti permette di concentrarti su un’unica fonte sonora, tutti gli strumenti raggiungono una loro vocalità estemporanea, a tratti indipendente a tratti contagiandosi, divenendo isole in un arcipelago, distanti ma interconnesse. La sezione trio fornisce magistralmente un tappeto solido ai fiati, impedendogli di prendere il volo e di perdersi nel loro stesso processo creativo. Molte sono le eccezionalità e finezze da mettere in luce. In “Trunca e Peltunta” il tema ricalca l’estetica melodica monkiana dell’album “Underground”. In brani soffusi come “Ballade”, si riesce a sentire la colonna d’aria uscire dai fiati e in “Favole” si percepisce molto bene come mai Fresu ami il calore del suono del flicorno, unendolo al suono del Rhodes. Con il finale,“Only Women Bleed”, queste caratteristiche del sestetto raggiungono la loro summa, la contaminazione è anche nell’approccio, specie in quei solo collettivi.

Ultima giornata con il concerto del sassofonista Francesco Cafiso e il suo quintetto “Confirmation”, (Alessandro Presti, Tromba; Andrea Pozza, Piano; Aldo Zunino, Basso; Luca Caruso, Batteria), una dedica al Bebop in tributo ai 100 anni dalla nascita del suo massimo esponente: Charlie Parker. Il primo brano è “Tricotism” di Oscar Pettiford, un inizio differente da quello che ci si poteva aspettare. Quelli che dovrebbero essere dei fast sono più lenti del previsto e gran parte del repertorio, fatta eccezione per “Repetition” e “Little Willie Leaps” di Bird, sono brani di artisti coevi dell’era bebop come “Budo” di Miles Davis e alcuni post bebop come “Little Niles” di Randy Weston. La qualità del lirismo e del fraseggio di Cafiso, assieme alla tromba con sordina di Presti, sono i due elementi più significativi. Il duo, sul fronte del palco, trasmetteva le stesse sensazioni della coppia della 52esima strada: Parker e Gillespie. Non è manierismo bebop come potrebbe sembrare, ed infatti nei solo cercano di far dialogare il linguaggio del passato con alcuni espedienti tecnici del jazz non esclusivamente bebop, come il linguaggio modale, i poliritmi e la rinuncia all’approccio armonico in favore di molteplici variazioni sul tema.
Colpisce la qualità espressa da Cafiso, le frasi dove la punteggiatura si avvicina al parlato, con idee fraseologiche articolate anche in otto battute, trovando respiro soltanto a posteriori.
Dal lato ottoni, i solo di Presti erano ricchi di ritmo e staccato a cui contrapponeva una grande ariosità del suono. Quello che è venuto a mancare da parte di tutto l’organico è l’enfasi scoppiettante tipica dei quintetti di inizio anni ’50. La risultante sonora è rattenuta, dando il sentore di una jam session in concerto, dove il classico rhythm change senza alcuna variazione è lo stilema. Fattore che emerge soprattutto da un batterismo che nell’accompagnamento e nei solo dimostra tecnica e tocco pulito, a cui si oppone una non perfetta connessione con il gruppo e un linguaggio accademico da manuale. La conclusione è una buona ma contenuta esibizione, dove a risplendere sono Cafiso e Presti.

Nel gran finale di GradoJazz by Udin&Jazz sale sul palcoscenico Stefano Bollani, che porta un progetto unico, il musical di Lloyd Webber e Rice: Jesus Christ Superstar del 1971, in variazioni per piano solo. Il primo pensiero che ho avuto è stato quello della paura del flop. Il musical è ricco di tanti stili e generi che trovo complessi da racchiudere in un piano solo annullando la varietà timbrica. Non avevo fatto i conti con l’oste, Bollani è riuscito, grazie alle sue spiccate qualità interpretative, a restituire tutti i sentimenti e le caratteristiche dei personaggi del dramma all’interno delle corde roventi dello Steinway. L’arduo compito è stato rispettato in toto. Udiamo delle variazioni sui temi di alcuni pezzi più importanti della rock opera come: “What’s the Buzz”, il trio tra il personaggio di Maria Maddalena, Gesù e Giuda, dove i pensieri di ogni protagonista hanno un’unità melodica che è stata rispettata, mentre la variazione sta nell’improvvisazione sopra di essi, che amplifica al meglio gli aspetti drammaturgici legati al personaggio. Stesso discorso vale per la romantica e triste aria di Maria Maddalena che si questiona su come manifestare il suo amore per il messia in “I don’t Know How To Love Him”. Così come il dissidio interiore di Giuda in “Damned For All Time”, quando vende Gesù ai Farisei, oppure la reazione sconcertata e confusa degli Apostoli in “The Last Supper”. Altrettanto forte, a livello immaginifico, è il turbinio di semicluster nel brano “The Temple”, che corrisponde alla scena in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio e il monologo di Ponzio Pilato in “Pilate’s Dream”. Sono molti gli espedienti musicali che ricalcano in maniera geniale le immagini del film del ’73. Oltre alle già note abilità pianistiche di Bollani è interessante notare come abbia caratterizzato al meglio i personaggi attraverso la musica. Finale da superstar tra ironia e musica, in un serrato dialogo tra il palco e la platea, chiamata a scegliere dieci brani che il pianista unisce a formare un medley.
Metaforicamente parlando, veder finire questa cinque giorni di concerti jazz è stato come entrare nel finale del film Jesus Christ Superstar: tutti gli spettatori salgono in macchina e abbandonano il Parco delle Rose di Grado, così come nel film i fedeli abbandonano l’ultimo grande spettacolo, ovvero la crocifissione, salendo sul pullman da cui sono arrivati!
Commento finale: un elogio ai fonici e al service in primis che per quanto abbiano potuto risentire del periodo di lockdown hanno tutti lavorato con serietà e professionalità, dimostrando quanto il loro compito sia il motore e l’ornamento che permette agli spettacoli dal vivo di essere “vivi”. L’esperienza globale è stata estremamente gratificante. I migliori auguri per l’edizione invernale di Udin&Jazz, annunciata sul palco dal presentatore Max De Tomassi di Radio 1 Rai (partner ufficiale del Festival) e dal direttore artistico Giancarlo Velliscig, che porterà, senz’ombra di dubbio, quel clima jazz che fa respirare a pieni polmoni nell’ecosistema della musica dal vivo.

Alessandro Fadalti

Si ringrazia l’ufficio stampa di GradoJazz by Udin&Jazz e i fotografi: Angelo Salvin, GC Peressotti e Dario Tronchin

 

CORINALDO JAZZ – 22°Edizione

Due eventi di qualità per gli appassionati di musica jazz: Corinaldo Jazz, il tradizionale festival estivo ospitato tra le mura di uno dei borghi più belli d’Italia, è alle porte. Le serate concerto saranno due, il 2 e il 5 agosto, nello splendido scenario di Piazza del Terreno, nel pieno centro di Corinaldo, alle ore 21.45. Il festival, organizzato dall’associazione culturale Round Jazz, è alla ventiduesima edizione e vanta come sempre nomi di spicco del panorama jazzistico italiano e internazionale.

Si parte domenica 2 agosto con Francesco Cafiso che celebrerà Charlie “Bird” Parker nel centenario dalla nascita: concerto, dal titolo “Confirmation”, ispirato al celebre brano di uno dei mostri sacri del sassofono, vedrà esibirsi un quintetto stellare con Francesco Cafiso al sassofono, Alessandro Presti alla tromba, Andrea Pozza al piano, Aldo Zunino al contrabbasso e Luca Caruso alla batteria. Poco da dire su Parker, il più influente jazzista di sempre insieme a Armstrong e Davis, inventore del bebop e maestro di stile e suono per generazioni di musicisti. Nonostante la pandemia, infatti, molti artisti nel mondo stanno celebrando il suo anniversario. Francesco Cafiso, al sax da quando ha 6 anni, ha lavorato ad altissimi livelli fin da piccolo: a 13 anni il trombettista americano Wynton Marsalis lo coinvolge nel suo tour europeo, a 14 è ospite d’onore al festival di Sanremo e questi sono solo gli esordi di un ottimo musicista, eletto “ambasciatore della musica jazz italiana nel mondo” nel 2009. Molto alto il livello anche per gli altri componenti del quintetto, noti all’estero e assai richiesti sulla scena internazionale.

Il secondo appuntamento è per mercoledì 5 agosto con Michele Samory e il suo “Jazz Mike Around the World”. Numerosa e ricca la band che accompagna il giovane trombettista, compositore e vocalist marchigiano (precisamente di Corinaldo, ndr) nel suo disco d’esordio, composta da Massimo Morganti al trombone, Riccardo Federici al sax alto e flauto, Filippo Sebastianelli al sax tenore, Marco Postacchini al sax baritono e clarinetto, Diego Donati a chitarra e banjo, Manuele Montanari al contrabbasso, Tommaso Sgammini al piano, Lorenzo Marinelli alla batteria, Marco Roveti alle percussioni e Sabrina Angelini come special guest vocale. Michele Samory, classe 1990, è ormai musicista di professione, collabora con varie big orchestra e gruppi swing negli Stati Uniti. Nel suo disco, che dà il titolo al concerto, si respira proprio il sapore swing dell’America degli anni ’40.

Come ogni anno, da non perdere i dopo concerto ai 9 Tarocchi dove si scatenano esplosive jam session per musicisti e amanti del jazz.

Posto unico per ogni concerto 10€ con prevendita disponibile sulla piattaforma Vivaticket. In caso di maltempo i concerti saranno annullati e i biglietti rimborsati.

I biglietti possono essere acquistati online www.corinaldojazz.com o in una delle rivendite live ticket https://shop.vivaticket.com/ita/ricercapv

Per informazioni www.corinaldojazz.com; 071.7978636 (Ufficio Turismo comune di Corinaldo); 329 4295102; roundjazz@gmail.com e pagine social del festival.

Corinaldo jazz applica le norme contenute nei protocolli di sicurezza come da DPCM del 17 maggio 2020: consultare il sito www.corinaldojazz.com.

“Grado Jazz by Udin&Jazz”: un festival all’insegna dell’ottimismo!

Come preannunciato nelle scorse settimane “Grado Jazz by Udin&Jazz” sarà uno dei pochi festival jazz che avranno luogo nel corso di questa travagliata estate 2020. L’occasione è particolare in quanto si festeggia il trentennale di una manifestazione che ha saputo conquistarsi un posto di rilievo nel pur variegato panorama delle manifestazioni jazzistiche grazie alla costante ricerca di una precisa identità declinata attraverso due precise direttive: musica di alta qualità e grande spazio alle eccellenze locali.

Il festival si terrà dal 28 luglio al primo agosto, nel massimo rispetto delle norme anti-Covid, in compagnia di alcune stelle italiane e un’incursione internazionale d’avanguardia con Michael League & Bill Laurance (Snarky Puppy).

Con questa iniziativa “Euritmica”, che organizza il Festival, vuole rispondere alla necessità, da più parti sollecitata, di considerare la cultura per quello che realmente è, vale a dire un bene necessario e vitale. Già con l’iniziativa JazzAid, Euritmica ha voluto dare un importante segnale di vicinanza agli artisti, per rinnovare anche la consapevolezza che… #JazzWillSaveUs. “Grado Jazz” si inserisce in questa logica fornendo una tangibile speranza dato che i concerti si faranno dal vivo in presenza e in sicurezza. E non ci vogliono certo molte parole per spiegare quanto tutto ciò sia costato agli organizzatori anche in termini economici (distanze, sanificazioni, provvedimenti anti assembramento).
I concerti si svolgeranno nel Parco delle Rose, allestito con uno spazioso palco e centinaia di poltroncine distanziate, con un angolo food&drinks ove si potranno gustare i prodotti enogastronomici del territorio.

Ed ora un rapido sguardo al programma.

Martedì 28 luglio apertura con due concerti. Alle 20 saranno di scena i Quintorigo, con il progetto “Between the Lines”. La serata continua alle 22 con lo straordinario duo di Michael League & Bill Laurance (contrabbasso e pianoforte), anime degli Snarky Puppy (già ascoltati a Grado nella passata edizione).

Mercoledì 29 luglio tocca ad Alex Britti in quartetto, protagonista della scena musicale italiana da molti anni con successi quali “Solo una volta”, “Settemila caffè”, “Mi piaci”.

Alex Britti

Giovedì 30 luglio il duo Musica Nuda, vale a dire Petra Magoni (voce) e Ferruccio Spinetti (contrabbasso); dopo diciassette anni di attività, 1500 concerti in tutta Europa, 11 cd, i due continuano a incantare le platee più diversificate.
Alle 22 una prima assoluta: due grandi donne del jazz italiano per la prima volta insieme, la pianista Rita Marcotulli e Chiara Civello (voce e chitarra), supportate dal violoncello di Marco Decimo.

Venerdì 31 luglio l’immagine più rappresentativa del jazz italiano e grande amico di Udin&Jazz, Paolo Fresu; il trombettista sardo porta a Grado “Re-wanderlust”, progetto composto da vecchie e nuove composizioni dello storico Quintetto, nato nel 1984 (Paolo Fresu, tromba e flicorno; Tino Tracanna, sax tenore e soprano; Roberto Cipelli, pianoforte e Fender Rhodes electric piano; Attilio Zanchi, contrabbasso; Ettore Fioravanti, batteria) cui nell’occasione si aggiunge il giovane trombonista Filippo Vignato.

Paolo Fresu 5et feat Filippo Vignato

Finale in grande stile, sabato 1 agosto con un doppio concerto: alle 20 il quintetto di Francesco Cafiso (sassofonista tra i più rappresentativi del jazz europeo) rende omaggio al genio di Charlie Parker nel centenario dalla nascita, con il progetto “Confirmation” (Francesco Cafiso, sax; Stefano Bagnoli, batteria; Alessandro Presti, tromba; Andrea Pozza, pianoforte; Aldo Zunino, contrabbasso).
A chiudere GradoJazz è il piano solo di Stefano Bollani (ore 22) con il suo nuovo progetto “Piano Variations on Jesus Christ Superstar”: una versione totalmente inedita e interamente strumentale dell’opera rock di Andrew Lloyd Webber che custodisce, come un tesoro, l’originale e che è stata registrata per ECM.

 

Gerlando Gatto

Storie di jazz e d’amore con il Jim Rotondi 5et e la cantina Villa Russiz, nel secondo appuntamento di Jazz&Wine Experience Trieste

Sorprendente per diversi aspetti il secondo concerto della rassegna Jazz&Wine Experience, con il quintetto del trombettista statunitense Jim Rotondi, svoltosi domenica 16 febbraio all’Hotel Double Tree by Hilton di Trieste, città che figura sempre ai primi posti nel mondo tra le tendenze e le preferenze di viaggio, e questa location da sogno sta diventando in brevissimo tempo un punto di riferimento dell’hôtellerie stellata tergestina, con tutte le potenzialità per candidarsi ad essere anche un rilevante hub culturale, grazie all’offerta di proposte, specialmente musicali.

In questo luogo, dall’appeal indiscutibile, Michela Parolin, direttore artistico di Jazz&Wine Experience, ha scelto di portare il trittico di concerti itineranti (le altre location sono l’Hotel Bauer di Venezia e il Camera Jazz Club di Bologna). L’idea vincente sta nell’accostamento di eccellenze, ovvero concerti di musica jazz di alta qualità e  rinomate aziende vinicole, facendo uscire queste ultime dalle rispettive cantine ed innestando il tutto in ambienti di grande pregio, con una visione sistemica di marketing valoriale del territorio.

Non vi nascondo che ho provato una forte emozione, in apertura di concerto, ascoltando le parole di Giulio Gregoretti, direttore generale della fondazione Villa Russiz. Il mio viaggio in un inconsueto cosmo noetico inizia degustando un Sauvignon Cru De La Tour, frutto della vendemmia manuale di vigneti selezionati che dimorano nella parte più alta e rivolta a nord-est di una collina, dove le piante ricevono e assorbono il primo lucore dell’alba; poi, assecondando la rotazione del sole, rimangono a meditare nell’ombra per il resto della giornata. Lo sorseggio piano, reincontrando sul palato ciò che il mio olfatto aveva percepito.

Tuttavia, lo stupore più profondo si manifesta quando Giulio inizia la sua narrazione sull’origine della cantina, generata dalla storia d’amore tra Elvine Ritter de Zahony e il conte Theodor Karl Leopold Anton de la Tour Voivrè, che proviene da un’antica e nobile famiglia francese. Gli sposi ricevono in dote dal padre di Elvine le terre di Russiz, 100 ettari nel Collio Goriziano, un terroir prezioso per la coltivazione dei vigneti.

Siamo nel 1868 e qualche anno dopo il conte, esperto viticoltore, importa in modo rocambolesco le barbatelle dalla Francia. Come? Accuratamente nascoste in grandi bouquet floreali da regalare alla sua amata sposa. I due coniugi riescono a fondere mirabilmente le rispettive competenze e inclinazioni a Villa Russiz: l’uno rivoluzionando le tecniche di coltivazione e contribuendo a fare del Collio la zona di alta eccellenza vinicola che è attualmente e l’altra seguendo la sua vocazione filantropica avviando, a partire dal 1872, un ente assistenziale per l’infanzia abbandonata a Gorizia, un progetto di accoglienza a Trieste e una struttura di assistenza per bambini bisognosi e per anziani alcolizzati a Treffen, In Austria. Un modello d’impresa etica ante litteram.

Purtroppo, la Grande Guerra blocca le encomiabili attività della Contessa e Villa Russiz diviene, per volere del Generale Cadorna, un ospedale militare nel quale presta la sua opera la crocerossina (poi decorata al valore militare) e nobildonna piemontese Adele Cerruti. Nel 1919 Adele, figlia di un Ministro del Regno d’Italia, sfrutta a fin di bene la sua posizione per riportare alla destinazione originale la struttura creata da Elvine, che diventa quindi un istituto per orfane di guerra. Attualmente, l’anima etica di Villa Russiz esprime la sua vocazione all’accoglienza per i minori in difficoltà (in questo momento 12) nella Casa Elvine, spirito guida di questo importante e caritatevole percorso umanitario.

Ma… “Now’s the Time” (cfr Charlie Parker) di parlare di jazz! Jim Rotondi, trombettista americano di fama mondiale, fa dichiaratamente parte della schiera di musicisti “folgorati sulla via del jazz” ascoltando Clifford Brown, gran maestro dell’Hard bop, nonostante sia morto in giovane età.

Il suo percorso artistico l’ha portato ad esibirsi con il gotha del jazz, finanche con il mitico Ray Charles e con Lionel Hampton. E scusate se è poco… Nel mini tour italiano è accompagnato da Andy Watson, batterista newyorchese, componente stabile del Jim Hall Trio, che figura spesso tra i top 10 di varie riviste specializzate di tutto il mondo, e dagli italiani ma dal respiro internazionale Renato Chicco al pianoforte, Aldo Zunino al contrabbasso e Piero Odorici al sax.

Si parte con una composizione originale di Rotondi: “Blues For BC”. Il titolo è una dedica alla provincia canadese della British Columbia. Tromba e sax dialogano a colpi di riff e il raffinato pianismo di Chicco si palesa immediatamente con un bellissimo assolo elegantemente stilizzato da un tocco cristallino e da una notevole varietà nelle coloriture e nella dinamica.

L’esecuzione di “Martha’sPrize”, un classico di Cedar Walton che, ricordiamolo, faceva parte della line-up dei mitici Jazz Messengers, si contraddistingue per gli ottimi svolazzi bebop del sax di Odorici e per un’idea di groove geniale nella sua essenzialità. Il flicorno di Jim ha movenze morbide e un timbro pastoso. Durante l’assolo di sax, colgo un’espressione estatica di Rotondi, appoggiato vicino ad una finestra della sala, mentre si lascia trasportare dalla musica sorridendo…

I cromatismi di Thelonius Monk irrompono come un arcobaleno dopo una pioggia scrosciante: è la romantica “Reflections”, in un arrangiamento che presenta linee aperte nelle quali trovano un giusto bilanciamento le dimensioni improvvisative e di scrittura. Un Monk riletto in chiave light post-bop. Fantasioso e incisivo l’assolo di Chicco, ricco di fraseggi serrati, ritmicamente incalzanti e aperture melodiche; stretto il giuoco delle parti tra sax e tromba. La sezione ritmica Watson-Zunino? Grandissima classe, elasticità e squisito drive.

Parte “You Taught My Heart to Sing” classicone di McCoy Tyner: “hai insegnato al mio cuore a cantare…”, seguo l’esecuzione canticchiando sottovoce… molto sottovoce… non essendo (purtroppo) Diane Reeves, che ricordo inarrivabile nella sua interpretazione di questo brano, accompagnata al piano da Mulgrew Miller. È Piero Odorici, qui, a dettare la linea melodica principale cogliendone ogni sfumatura e riempiendo ogni spazio con delicatezza rara.

Il cuore batte sempre più forte nel riconoscere le “immagini sonore” di George Gershwin, tra i più geniali compositori dell’ “età del jazz”. Il musical “Pardon my English”, che non ebbe certo una vita fortunata, né il successo sperato, continua tuttavia a regalarci diverse perle musicali… tra le quali “Isn’t a Pity”, dove il suono carezzevole e viscerale del flicorno di Rotondi è intriso di lirismo e dove il pianoforte di Renato Chicco sprigiona note che paiono gocce di cristallo lucente.

Un intenso botta e risposta tra la tromba con sordina di Jim e il sax  di Piero e un assolo di batteria al fulmicotone di Andy Watson, sono gli ingredienti principali di “My Shining Hour”, note di pure joy.

Ci si avvia alla conclusione con una dedica al pianista Harold Mabern, figura iconica del bebop recentemente scomparso. La sua “I Remember Britt” (Mabern la scrisse per il trombettista Lee Morgan, ammazzato con un colpo di pistola dalla moglie, a 33 anni soltanto, in un jazz club di New York) inizia in modo spiazzante, con quello che interpreto come un divertissement, ossia con le inconfondibili note della canzoncina “Fra’ Martino Campanaro”, suonate al piano. Non capisco ma mi adeguo. Il resto è uno splendido saggio di jazz, energia cinetica che muove la storia.

Il brillante set si chiude con un richiestissimo bis, la swingheggiante “On a Misty Night” di Tadd Dameron. Ve la ricordate suonata dal pianista di Cleveland con John Coltrane? Si, quella di “Mating Call”, anno 1956. Un richiamo d’amore.

E cos’è, in fondo, il jazz se non un irresistibile e ammaliatore canto, dal quale siamo inesorabilmente sedotti? Chissà se Duke Ellington pensò a questo quando compose “Circe” (una registrazione del 1946 che rimase inedita fino al 1994), dedicandola alla maga che mise in guardia Odisseo sulle insidie del canto delle sirene.

Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose…

Grazie alla musica jazz, al Jim Rotondi 5et, al buon vino, alle storie d’amore e di solidarietà, a Trieste e al suo mare per aver evocato tutto questo…

Marina Tuni

Immagini: courtesy Jazz&Wine Experience / Giorgio Bulgarelli / Fondazione Villa Russiz / M. Tuni

Prosegue la rassegna Jazz & Wine Experience all’Hotel DoubleTree by Hilton Trieste, con il Jim Rotondi quintet e il Bob Sheppard trio

Altri due concerti strepitosi per la rassegna che combina live internazionali, degustazioni, cene a tema e incontri con i produttori in uno dei luoghi più esclusivi e storici della città di Trieste. Il Berlam Coffee Tea & Cocktail dell’Hotel DoubleTree by Hilton Trieste si trasforma in un vero e proprio jazz club per una serie di eventi che valorizzano il connubio tra musica, vino e territorio.

Dopo la straordinaria esibizione del quartetto della newyorkese pianista e cantante Dena DeRose, definita dai critici e dal pubblico una delle più grandi voci e interpreti del jazz internazionale, prosegue con altri due strepitosi concerti la rassegna JAZZ & WINE TRIESTE, ospitata negli esclusivi interni del nuovo Hotel.

La rassegna, nata con lo scopo di valorizzare il connubio tra musica live internazionale di alto profilo, eccellenze enologiche locali e ambienti storici e di charme, trasforma il Berlam Coffee Tea & Cocktail in un vero e proprio jazz club e si svolge parallelamente a Trieste, Venezia e Bologna.

E’ già sold out il concerto del Jim Rotondi quintet, in programma domenica 16 febbraio alle 19.30. Jim Rotondi, trombettista newyorkese di fama mondiale, sarà accompagnato da Andy Watson alla batteria e dagli italiani Renato Chicco al pianoforte, Aldo Zunino al contrabbasso e Piero Odorici al Sax. Nato in Montana nel 1962, Jim Rotondi ha vissuto per vent’anni a New York, dove ha collaborato con Lionel Hampton, Ray Charles, Lou Donaldson, Curtis Fuller e George Coleman. Ha registrato quattordici dischi a proprio nome per varie etichette indipendenti di jazz, con diverse formazioni che spaziano dall’hard bop al jazz elettrico. La sua è una sonorità molto particolare e personale che unisce la forza di Freddie Hubbard con il timbro di Chet Baker. Il suono, l’anima, il senso dello swing di Rotondi saranno gli ingredienti di un concerto che racconta la storia del jazz, dall’immenso songbox americano fino all’hard bop, di cui Rotondi è uno dei massimi esponenti viventi. Protagonista, oltre alla musica, sarà la Fondazione Villa Russiz di Capriva del Friuli, altra realtà rappresentativa della storia e delle eccellenze del Collio Friulano, di cui si potranno degustare i vini eleganti, minerali e di grande piacevolezza. Per la serata proporrà il grande CRU bianco Sauvignon De La Tour dedicato al conte Theodor De la Tour, fondatore della cantina. Dopo il concerto sarà possibile cenare al Novecento Restaurant Trieste, con un menù a tema in perfetto stile Jazz & Wine.

Ci sono invece ancora posti disponibili per il concerto di chiusura dell’edizione invernale di JAZZ & WINE TRIESTE, che domenica 8 marzo alle 19.30 avrà come protagonista il trio newyorkese del grande sassofonista Bob Sheppard, accompagnato da Josh Ginsburg al contrabbasso e Anthony Pinciotti alla batteria. Il repertorio comprende standard jazz della tradizione e brani originali, eseguiti in una perfetta comunicazione tra artisti e pubblico, caratteristica preponderante dello stile del trio. Bob Sheppard è uno tra i più richiesti sassofonisti della scena jazzistica internazionale e vanta collaborazioni di massimo livello, sia nell’ambiente jazz che pop, come Freddie Hubbard, Mike Stern, Randy Brecker, Horace Silver, Manhattan Transfer, Burt Bacharach, Kurt Elling, Diane Reeves, solo per citarne alcuni.
Il concerto sarà accompagnato dai vini della cantina Serafini e Vidotto di Nervesa della Battaglia, realtà produttiva di grande tradizione e prestigio. Sono vini che denotano passione e serio lavoro, entusiasmo, impegno e costanza: non è un caso che Serafini & Vidotto abbia dato vita al Rosso dell’Abazia, un vino che ha segnato la storia enologica d’Italia. Si potrà degustare insieme a Phigaia, Incrocio Manzoni e Recantina.

Per informazioni e prenotazioni contattare l’organizzatrice e direttrice artistica Michela Parolin (T: +39 393 0318595, info@jazz-wine.com).

PROGRAMMA

Domenica 16 febbraio 2020 h. 19:30: JIM ROTONDI QUINTET “FEATURING ANDY WATSON”

(Jim Rotondi: tromba e flicorno, Andy Watson: batteria, Piero Odorici: sax tenore, Renato Chicco: piano, Aldo Zunino: contrabbasso)

Wine tasting: VILLA RUSSIZ

Domenica 08 marzo 2020 h. 19:30: BOB SHEPPARD TRIO

(Bob Sheppard: sax, Josh Ginsburg: contrabbasso, Anthony Pinciotti: batteria)

Wine tasting: SERAFINI & VIDOTTO

Costi:

Concerto € 15,00 compreso calice di benvenuto.

Al termine del concerto gli ospiti potranno cenare presso il Novecento Restaurant Trieste con proposta “Menù Jazz & Wine” e sconto 20% sul menù à la carte.