PROCLAMATI I VINCITORI DEL 15° ORPHEUS AWARD

La 15ª edizione degli ORPHEUS AWARD 2024 si è tenuta regolarmente, come consuetudine, dopo la pandemia, adottando la formula online. La cerimonia è stata presentata attraverso un video in !PREMIERE internazionale, accessibile tramite il seguente link: https://youtu.be/r5gTyQTjQzA
L’evento promosso dall’Associazione Promozione Arte, sotto la direzione artistica del nostro direttore Gerlando Gatto e la presidenza del M° Renzo Ruggieri, ha suscitato un grande interesse anche quest’anno, con ben 38 produzioni suddivise in tre grandi categorie: Classica, Jazz, World & altre musiche, oltre al premio speciale alla Carriera. Hanno risposto al premio 19 personalità, fra cui critici, giornalisti musicali ed esperti con almeno una rubrica musicale attiva nei magazine del settore: Gerlando Gatto (www.apropositodijazz.it), Giuseppe Attardi (Segnalisonori, Sicilianpost), Nicola Barin (Jazz Convention, Percorsi Musicali, Yastaradio), Francesca Bellino (Mattino, RadioRai), Flavio Caprera (Jazz Convention), Fabio Ciminiera (www.jazzconvention.net), Stefano Dentice (Strumenti & Musica Magazine), Luciano Di Giulio (TG Roseto), Stefano Duranti Poccetti (Il Giornale OFF, Il Corriere dello spettacolo), Maurizio Favot (Suono), Daniela Floris (JazzDaniels), Amedeo Furfaro (Musica News, A Proposito di Jazz), Adriano Ghirardo (Mellophonium, Jazz e World Music), Kimmo Mattila (Finlandia: Hanuri magazine), Alessandro Mugnoz (Strumenti & Musica Magazine), Carlo Pecoraro (Avanti), Paolo Picchio (Suonare News), Herbert Scheibenreif (Austria: Akkordeon mag., Accordions Worldwide, Harmonika-forum), Marina Tuni (A Proposito di Jazz, instArt).

Tra tutti, 13 hanno manifestato preferenza per la categoria Classica, 14 per il Jazz e 12 per la categoria World e altre Musiche.
Lo scopo fondamentale del premio è senz’altro quello di offrire una panoramica della scena fisarmonicistica dell’anno. L’associazione compila una lista “non esaustiva” basata sulle segnalazioni ricevute liberamente, che vengono successivamente inviate a testate giornalistiche, critici, giornalisti musicali e professionisti del settore. Questa lista è resa disponibile anche sul sito ufficiale dell’associazione per favorirne la diffusione. È importante sottolineare che i critici inviano le proprie preferenze senza essere vincolati da particolari modalità di ascolto, in linea con i premi della critica più prestigiosi. Le loro scelte sono guidate dalle loro specializzazioni e esperienze nel settore. L’Associazione Promozione Arte non esercita alcun controllo o pressione sui critici, garantendo loro massima libertà nelle loro preferenze. Inoltre, i critici possono scegliere liberamente tra le opzioni presenti nella lista o attingere dai propri archivi annuali. L’associazione con grande trasparenza rende pubblico il regolamento e tutte le singole preferenze.
La proclamazione dei vincitori è preceduta dalle NOMINATION (tre per categoria) una settimana prima della premiere, fra queste: C. Chiacchiaretta – F. Arlia – OFC “Piazzolla: Aconcagua, Oblivion, Adios Nonino, Tangazo”, Andrea Di Giacomo “Classical Lines”, Antonino De Luca “Respiri”, Renzo Ruggieri “Leaves”, D. Di Bonaventura – I. Pilar Patassini “Italia Folksongs”, Danilo Di Paolonicola “No Gender 2”.

Ecco i vincitori:
CLASSICA:
Claudio Jacomucci,
LE CITTÀ INVISIBILI (microtonal accordion),
Italian Accordion Academy Amsterdam

JAZZ
V. Abbracciante – A. Sabatino,
MELODICO,
Dodicilune

WORLD & altre musiche
Riccardo Tesi,
LA GIUSTA DISTANZA,
Visage Music

ALLA CARRIERA
Guy Klucevsek
Questo eccezionale virtuoso della fisarmonica, fra i più versatili e rispettati al mondo, ha contribuito in modo significativo alla rinascita della fisarmonica moderna negli ultimi 25 anni. La sua musica fonde elementi autoctoni con il jazz e la musica d’avanguardia.

Maggiori informazioni:
www.associazionepromozionearte.com/orpheusaward

I nostri cd: un anno di jazz

Tutto si può dire dell’anno che si chiude, a livello di dischi jazz, tranne che sia stato monocorde e monotono.  La varietà delle proposte ha infatti caratterizzato il 2023 in modo significativo grazie a lavori spesso di bradisistica vitalità. Le recensioni che seguono ne rappresentano una possibile campionatura fra le tante proposte meritevoli. Le affidiamo alla lettura per una riflessione su quanto espresso e sui destini possibili del jazz e della musica nell’anno che verrà.

Federica Michisanti Quartet, “Afternoons”, Parco della Musica Records.
Il quartetto di Federica Michisanti featuring il clarinettista Louis Sclavis, il violoncellista Vincent Courtois e il batterista Michele Rabbia si cimenta nell’album Afternoons edito da Parco della Musica Records. Si tratta di una formazione cameristica che “illustra” musicalmente dei pomeriggi qualunque, quelli in cui il “presto” ed il “sostenuto” del ritmo mattutino cedono il passo al “moderato” e al “lento” tardopomeridiano. La musica della Michisanti si snoda in sette composizioni che la compositrice-contrabbassista romana ha definito mostrando di aver ancor più affinato la scrittura ora arricchita dalle cromie percussive che accompagnano la sottile trama arco-fiato. Il brano introduttivo “Two” espone un groove d’avanguardia che in “Sufi Loft” si mitiga in atmosfere soffuse, armonizzanti, che paiono richiamare sfondi bergmaniani. Il successivo “Not” ha strutture più decise specie quelle ritmiche di caffeinici frattali jazz. Tenero è il “Nocturne” con la libertà ispirata dal fascino delle tenebre e dai sogni, altrettanto dicasi per “Spot” contenuto nella stessa traccia. “Be4 PM” alterna momenti melodici a surplaces dialogici, un doppio registro che si rileva nella stessa “Floating”, in  conclusione. L’approccio colto-europeo non deriva solo dalla anagrafe artistica della formazione ma è il portato di un vissuto musicale comune del 4et che conduce a superare moduli interpretativi fin troppo rodati per sondare nuovi orizzonti espressivi. In definitiva un album davvero degno d’attenzione come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti proprio n questo periodo.

Adriano Clemente, “The Coltrane Suite and Other Impressions”, Dodicilune Records
In piena era jazzistica d.C. (dopo Coltrane) esce un album destinato, c’è da giurarci, a rimanere nel tempo. Vi si rievoca, del grande sassofonista neroamericano, lo Spirito fattosi Suono, la Mistica divenuta Suite. E’ il multistrumentista leccese Adriano Clemente a presentarlo con The Coltrane Suite and Other Impressions, per i tipi di Dodicilune. Giganteggia, già nel primo dei due cd, la performance del saxtenorista David Murray assieme a The Akashmani Ensemble. E furoreggia alla batteria il galvanizzante Hamid Drake, in veste di riguardevole ospite di… riguardo. Personaggio complesso da affrontare, Trane. Ma Clemente è dotto ed edotto in materia per come già fatto con Mingus con la medesima label nel 2016. Già a partire da “Mother Africa” (inizio di una tracklist con 25 sue composizioni) ne compenetra  pathos e l’alfabeto sin nella prima parte del lavoro, tirando fuori, nella seconda, Impressioni nelle quali si confermano imprescindibili i membri della Akashmani, Guidolotti e Sorrentino (sax), Pirone (tr.ne), Carucci e Buccella(pf), Pierotti e Scandroglio(cb), Aiello (cong.), Lanzini (cello), Makarovic (tr.). E naturalmente svetta il direttore Clemente con i suoi dieci e passa strumenti da maneggiare a seconda della situazione musicale.

Christian Pabst, “The Palm Tree Line”, Jazz Sick Records.
Musica di dove crescono le palme. E’ il pianista tedesco Christian Pabst a compilare una sua personale playlist dedicata a suoni di quei sud da cui è da sempre affascinato nell’album The Palm Tree Line (Jazz Sick). L’attacco è “Mambo” di Bernstein, da “West Side Story”, in un’esecuzione nervosa ed al tempo stesso seducente, con il Rhodes ad accentuare un certo suo modo di sincopare e “contratemporeggiare”. Il seguente “Amarcord” nell’alternare swing a beguine schiarisce, e non di poco, la nebbia felliniana impressa sul brano restituendogli luce solare. Nel terzo pezzo, all’ottimo combo che vede Francesco Pierotti al basso e Lorenzo Brilli a batteria e percussioni, interviene al canto Ilaria Forciniti ad intonare “Amara terra mia”, di Modugno, e con lei l’altro ospite Federico Gili, con la fisarmonica a coprire gli interstizi lasciati aperti dalla voce e a ritagliarsi, così come il pianoforte, un chorus per una impro breve quanto vibrante. Proseguiamo nel raccontare, in pillole, il disco, dando conto di “Un’ora sola ti vorrei” resa con delicato lirismo condiviso nel solo del contrabbasso di verve classicheggiante. Strano accostamento subito dopo quello dell’ “Alhambra” di Lecuona e, a marca Bongusto-Trovajoli di “‘O cielo ce manna ste cose”, a riprova di quanto possano essere vicine Granada e Napoli, accomunabili dalla musica oltre che dalla macchia mediterranea che arriva dalla Campania all’Andalusia. Alla fine, appena eseguita una tenera “Dèjame Llorardi Oteo, Pabst offre un proprio acquerello sulla tastiera del “Tramonto”, per due minuti di tratteggio, andante per sensazioni sonore, del crepuscolo del sole che si addormenta.

Claudio Giambruno, “Overseas”, Via Veneto Jazz
Swing, bebop, modale, jazz samba e tutto quanto ne è seguito con i relativi adeguamenti di  grammatica, sintassi, vocabolario alle successive tendenze stilistiche. Claudio Giambruno è  sassofonista che li ha conformate coniugandole alla propria sensibilità latina in Overseas (Via Veneto Jazz-Millesuoni). Nell’album parte innescando una marcia neohardbop alquanto light – e non è un ossimoro – essendo ciò dovuto alle due fonti “over seas” che avvicinano Mediterraneo ad Atlantico e Pacifico per addolcirsi poi in ballad ed evergreen come “ ‘Na voce ‘na chitarra e ‘o poco e ‘luna”. Nella traversata gli sono accanto il pianista Andrea Rea, il contrabbassista Dario Rosciglione e il batterista Amedeo Ariano, band di cui Seamus Blake ha elogiato il repertorio dalla modalità “thrilling and soulfull”, emozionante e pieno d’anima, declinata in nove fra standards ed originals.   In questi ultimi si denota anche una netta autorialità di Giambruno, jazzista che non rinnega la tradizione semmai se ne serve come spioncino per scrutare nel futuro.

Two Things of Gold, A.Ma Records
Un duo, quello formato dalla vocalist Francesca Sortino e dal produttore dj romano nonché figlio della vocalist Diego Lombardo, che nell’album Two Things of Gold (A.Ma), perfeziona un originale confronto, su basi elettroniche, fra jazz e house – funk – soul in un lavoro inciso su ideale supporto di l. P. .  Ne scaturiscono 14 tracce delle quali tre squisitamente jazzistiche – “Con Alma” di Gillespie, “Malachi” di Hill e “Where Flamingos Fly” successo di Gil Evans – con decollo da una piattaforma di musica internazionale per planare su lidi sonori e canori dinamici spazianti da toni duri a timbriche calate su linee melodiche più morbide nei passaggi di climax.  Della Sortino è da rimarcare il desiderio di cimentarsi “atipicamente” rispetto a certe aspettative che vorrebbero le voci femminili jazz impegnarsi nella riproposizione dei capisaldi della materia o al massimo nell’esecuzione di originals che a quella tradizione si ispirano. L’affiancarsi a un giovane musicista come Lombardo dalle visioni innovative e rampanti risulta vincente. Da segnalare nella produzione gli ospiti Roberto Rossi, Alessandro Maiorino, Alberto Parmegiani, Mauro Beggio, Pierpaolo Bisogno.

Minimal Klezmer, “Öt Minusz Kettò”,  Caligola Records
Album n. 3 (campeggia la sottrazione 5-2 all’interno della cover) per i Minimal Klezmer, al secolo Francesco Socal (cl.sax), Roberto Durante (keys, pf, acc.), Enrico Milani (cello), Pietro Pontini (v. viola) con Matteo Minotto al basson e percussioni. Il collettivo nato a Londra nel 2011 presenta Öt Minusz Kettò. prodotto unitamente a Caligola Records e presentato da Martin Tesnone. La musica ivi contenuta si rifà alla tradizione ebraica e dei paesi dell’Est (Romania, Russia, Anatolia , Grecia) nonché gitana. Ed in effetti i tredici brani, di cui quattro traditional, hanno in comune uno spirito yiddish errante che li porta a di/vagare fino al jazz. E’ questo elemento di fusione (non diciamo contaminazione) che caratterizza alquanto il gruppo e ne arricchisce il sound di componenti, come l’improvvisazione, che ci impediscono di catalogare il lavoro come etnomusicale sic et simpliciter . Ciò anche se la loro è a  pieno titolo musica klezmer, genere musicale diffusosi anche grazie ad un duraturo revival, così pimpante di strumenti, scoppiettante di note che sprizzano melodia da tutti i pori, fra introversa meditazione e scena estroversa.

Remedio, “Semillas”, Gutenberg Music.
Un “Real book” ispanomericano non potrebbe che annoverare, ab initio, miti iconici come il pajador argentino Atahualpa Yupanqui e la cantatrice cilena Violeta Parra. Hanno provato a inciderne una versione aggiornata i Remedio – Laura Vigilante (v.), David Beltran Soto Chero (chit. cuatro charango), Alberto Zuanon (cb), ospite Sergio Marchesini alla fisa – includendovi  brani dello spagnolo Carlos Cano (Maria la portuguesa), della messicana Natalia Lafourcade (Hasta la raiz), di Manuel Raygada Ballesteros (Mechita), peruviano come Ramòn Ayala (El cosec hero), degli argentini Facundo Cabral (No soy de aqui ni soy de allà) e Natalia Doco (Respira), della statunitense Llhasa de Sela (El desierto), della band uruguagia Onda Vaga (Mambeado, Tataralì), del colombiano Gentil Montana (Porro). L’album Semillas che risulta dalla selezione, un lavoro “accalorato” anche dalla presa diretta della registrazione effettuata live al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova, offre, della terra dei nostri cugini d’America, un “canto para una semilla” anzi semillas lanciate a mano aperta su quel terreno fertile da cui i musicisti hanno raccolto straordinari frutti liric-musicali.  P.S. Di Yupanqui è eseguita “Luna tucumana”. Della Parra “La jardinera”.

Gloria Trapani / Alessandro Del Signore, “InControVoce”, Filibusta Records
Ci sono voci il cui canto abbisogna di un tappeto orchestrale su cui guizzare. E ci sono ugole che, al contrario, si esaltano quando l’ambiente sonoro che le circonda è essenziale, secco, minimale. E’ il caso di Gloria Trapani che, nell’album InControVoce edito da Filibusta, si lascia accompagnare da basso e contrabbasso da Alessandro Del Signore in “clusters” di brani latini  (“Vocè E Linda”, “Mais Clara Mais Crua”), standard di jazz classico e moderno (“Summertime”, “Nature Boy”, “In Walked Bud”),  hits pop e caraibici (“Humane Nature”, “Redemption Song”).  Fra un vocalizzo ed un altro emerge l’attitudine della voce ad elasticizzarsi smorzando, misurando altisonanza ed estensione e nel contempo lavorando di cesello su melismi e fioriture nonché sulla felpatura di timbro e smalto  vocale. Del Signore si rivela dal canto suo jazzista a proprio agio nel ruolo, attento a non infrangere il “muro” del suono nel senso di non spaccare mai con tocchi eccessivi o fuori posto la magia costruita dal duo sul preesistente silenzio.

Pietro Ciancaglini, “Consecutio”, GleAm Records
Si va bene ma la consecutio temporum? Eccolo lì il tallone d’Achille di tanti che scrivono usando male i verbi. In musica, a voler fare un parallelo, la mancata concordanza fra principali e subordinate ha mietuto diverse vittime. Meno male che anche nel jazz ci sono maestri del coordinare  secondo conseguenzialità logico-lineare un discorso musicale “corretto”. Sono, queste, delle considerazioni applicabili al nuovo album del bassista e contrabbassista Pietro Ciancaglini dal titolo Consecutio. Il lavoro, edito GleAM Records, con dieci sue composizioni, è un esempio di come il jazz debba saper coniugare le frasi che “pronuncia”. In tale operazione l’uso del basso elettrico da parte del musicista romano, al posto del contrabbasso, orienta l’approccio stilistico verso raffinate prospettive elettriche di fusion(e) fra hard bop e contemporary senza lasciarsi peraltro stregare da ammiccamenti mainstream. Il risultato più che apprezzabile è anche merito del pianista-tastierista  Pietro Lussu, del batterista Armando Sciommeri e della vocalist Chiara Orlando. Le improvvisazioni, peraltro ben presenti, sono coerenti al tutto, e così le linee melodiche sono installate su armonizzazioni ricche e raffinate. E soprattutto “conseguenti”.

Haiku, Sun Village Records
Haiku, la forma poetica giapponese adottata da Rilke, Eluard e da poeti ermetisti, è anche il gruppo di jazz-funk italiano che licenzia l’ album omonimo per Sun Village Records. Trattasi di un 5et ben assortito, che annovera Federico ‘Privi” Privitera a tromba e piano elettrico, Andrea Salvato a flauto e sinth, Costanza “Skalli” Bortolotti alla chitarra, Vyasa Basili al basso e Alessandro Della Lunga alla batteria, capace di invenzioni che vanno dirette all’ orecchio dunque  nient’affatto ermetiche. Il riferimento al format nipponico al riguardo andrebbe visto come tendenza alla sintesi, alla enunciazione breve non logorroica neanche nelle impro. Certo è che le otto tracce per una mezz’ora di musica del disco si sviluppano vischiosamente, col flauto che “inalbera” pindaricamente le note più alte, le tastiere lì a “strattonare” la sezione ritmica, la tromba pronta ad acute proiezioni liriche, la chitarra protesa ad imbellettare di riverberamenti il tutto.

Nicole Johänntgen, “Labirinth”, Selmabid Records.
Gran bell’album Labirinth della sassofonista Nicole Johänntgen edito da Selmabird Records (Suisa)! Peraltro adatto a più palati musicali compresi quelli che adorano il funky e comunque i generi che abbiano una propulsione perloquale. Affidata in questo caso alla tuba di Jon Hansen ed alle percussioni di David Stauffacher, caricati del compito di dare adeguato sostegno ritmico a dieci brani. Vi svettano, come fra le montagne, gli alto e soprano della leader dalla bella voce blues ascoltabile in “Canyon wind”, il tutto arricchito dall’ospite Victor Hege al sousaphone in “Simplicity Curiosity” e “Straight Blues Baby Straight”. Nel labirinto della jazzista non è difficile muoversi, basta tenere stretto il filo d’Arianna disteso dal sax per essere condotti nel suo mondo dorato, un inno alla gioia del fare musica da proporre Coram populo affinché altri possano a loro volta appropriarsene.

 

Gaetano Duca, “Bugiardi”, Abeat Records
Lounge? No! Semmai è uno smooth dai sapori funk-fusion il jazz che propone il chitarrista Gaetano Duca nell’album Bugiardi (Abeat Records).
Un tocco, il suo, che apparirebbe bensoniano se non fosse per il fraseggio personale della propria “longa manus” esecutiva.
Il jazz “musica bugiarda”, lo diceva un suo vecchio maestro. Ma qui il riferimento si allarga all’epoca in cui viviamo, in cui si coltivano disvalori e illusorietà.
Dunque il titolo del disco va visto come un incipit, un’introduzione a… Anche perché siamo sinceri, le sue 11 “bugie” musicali sono vero jazz, E i Bugiardi, gli altrettanti brani numerati scaletta, non mentono sullo stato di salute di tale genere musicale, che è florido, nonostante tutto, e ne rappresentano una possibile cartina di tornasole. Se si considera poi la componente “etnea” insieme alla napoletanità acquisita dal leader siculo il mix appare “vulcanico”. Il risultato è merito anche dei Friends di Duca: Dario Paolo Picone (k.), Gaetano Diodato (b.), Mario Nasello (cb), Vittorio Riva e Santino Montesano (v.), Nico Roccamo (dr), EnzoTamburello (sax), Filippo/Piscitello (t.), Tonino Piscitello (t.ne).

Amedeo Furfaro

Miles Davis: basta un istante per spogliarsi, in una nota di Blue in Green

Si può raccontare un artista in una sola nota? Un fantasioso viaggio nel sound di Miles Davis e la sua rivoluzione musicale, cercando la risposta attraverso la prima nota di tromba di Blue in Green del celebre album Kind of Blue del 1959. Un mix di interviste, aneddoti, storia, teoria musicale e arte per riflettere sul valore del tempo in musica nella nostra vita.

Premere il tasto pausa e poi rewind, riavvolgere un nastro o spostare la puntina di un vinile. Tutte azioni che sembrano scontate, ma sono quei gesti quotidiani più simili all’esperienza di un viaggio nel tempo. Possiamo ascoltare e riascoltare un brano o un singolo passaggio all’infinito fino a stufarci, consumando compulsivamente il tempo del disco, incidendo un solco nella nostra memoria percettiva. Vivere la musica in questo modo significa riconoscere l’eccezionalità di alcuni attimi, un impulso simile al voler scattare una fotografia che immortali un frammento di realtà da poter conservare o guardare sotto una nuova luce. Coloro che lo fanno sentono forse la necessità di tornare a quel singolo momento, per le vibrazioni che si trasformano in sensazioni corporee, per le sinestesie fantasiose che crea o per un ricordo intimo a cui lo leghiamo. Pierre Boulez nei Relevés d’Apprenti, pubblicati nel 1962, parla della concentrazione sull’istante sonoro che si manifesta nella musica di Debussy; uno tra i tanti è l’iconico ingresso dei fiati e dell’arpa nel Prélude à l’après-midi d’un faune, un momento di estasi meravigliata tale da paralizzare il tempo, con l’energia che si crea nel passaggio dal suono flebile e ammaliante del flauto del fauno all’ingresso degli altri strumenti, restituendo la sensazione di un pacifico mondo bucolico nascosto da una spessa tenda. Eppure la musica è l’arte del tempo irreversibile, sembra strano poter parlare di paralisi del tempo e ammirazione di un singolo istante di musica. Per gran parte del ‘900, il filosofeggiare sulla questione temporale ha permesso ai compositori di rimettere in discussione il concetto per cui un brano scorre e nulla può fermarla o riportarla indietro. Una marea di pensieri trasfigurati in opere che giocano viaggiando nel tempo, creando stasi, rallentamenti e dilatazioni; parallelismi di flussi che scorrono l’uno sopra l’altro, riavvolgendosi, conglomerandosi o disperdendosi in molteplici direzioni, un’idea tattile del tempo che ritroviamo ad esempio nel compositore Brian Ferneyhough. Come ascoltatori questo ci tocca nel profondo, perché siamo abituati a godere all’ascolto di una successione di eventi, la canzone è una narrazione che deve scorrere verso un punto preciso, la freccia è sempre rivolta da sinistra verso destro, guidandoci tortuosamente a un climax e a un finale. Un ragionamento sullo spazio e il tempo del suono è qualcosa che solo in apparenza si situa lontano dalla nostra vita di tutti i giorni. Tutto questo però cos’ha a che vedere con Miles Davis? Tengo in macchina un talismano, un disco dal titolo “1959 L’Anno che Cambiò il Jazz”. Un anno in cui sono usciti degli album che hanno effettivamente cambiato la storia del jazz. Davis fa parte del novero di questi musicisti rivoluzionari, tuttavia raccontarlo in modo alternativo è sempre difficile vista la mole di parole già profuse da molti. La provocazione sul tempo diventa quindi un aggancio spaziale dal sentore di fisica quantistica, l’obiettivo è racchiudere qualcosa di gigantesco in un oggetto minuscolo: una sola nota. Il Mi di Tromba tra 0:18 e 0:21 secondi nel brano Blue in Green, tratto dall’album Kind of Blue del 1959 è il contenitore su cui sperimentare, raccontando la vita e l’estro artistico del trombettista attraverso alcune tappe e stimoli creativi che confluiscono verso questo istante tridimensionale. Per capire cos’abbia di così particolare questa nota bisogna indossare varie lenti, scegliendo progressivamente quella più graduata in base a cosa si sta cercando e cosa si sceglie di osservare.

Se si parla di Miles si pensa ad un personaggio arrogante, burbero, cinico, assoggettatore, scortese, dal sorriso nascosto dietro labbra serrate o dal bocchino della tromba. Convive con una timidezza interiorizzata tale da creare delle insormontabili barriere difensive, un tratto che fa parte di quelle menti annoiate dall’ordinario, instancabilmente alla ricerca di una via d’uscita dai canoni convenzionali. Gli venne affibbiato addirittura il soprannome di Prince of Darkness per questo suo carattere, ironicamente proprio nel periodo in cui si distingueva per il look flamboyant e lo stile di vita un po’ posh. Un profilo psicologico che diventa curioso se si pensa alla sua provenienza. Cresce nell’Illinois a East St. Louis, secondo di tre fratelli in una famiglia in cui il padre lavora come dentista e la madre è violinista e insegnante di musica. Per gli anni ‘20 questo implicava un tenore di vita tipico della black bourgeoisie, ma in un’America dove il benessere economico rappresenta uno status sociale, l’afroamericano benestante non era esente dal razzismo e Miles ne è stato a lungo vittima. Vivere in questo paradossale contrasto socioeconomico potrebbe essere sufficiente per comprendere solo quale sia una delle tante scintille che portano a un propulsivo bisogno di cambiamento e ricerca creativa di nuove soluzioni espressive. Non a caso da adolescente negli anni ‘40 abbraccia la filosofia dei boppers e degli hipster, ripudiando quel mondo di modelli valoriali borghesi che ha assorbito dalla sua famiglia. Sorge spontaneo chiedersi in quale modo il suo vissuto abbia stimolato l’evoluzione del suo sound indistinguibile, quanti semi bisogna piantare perché cresca una pianta di Miles?

Indossando degli occhiali che ci danno il senso di profondità di campo possiamo andare oltre la cornice del quadro che è la sua vita. Allora guardiamo al ramificato inviluppo di interviste, pareri, aneddoti e racconti scritti da critici, giornalisti, biografi, storici, produttori e musicisti con cui Davis ha suonato. Timbro etereo e raffinato, grande lirismo, uso di sordine, come se dalla campana uscisse una nebbia: queste parole sono la sintesi di aggettivi provenienti da diverse penne usate per descrivere il suono della sua tromba dal ’58 in poi. L’idea della nebulosità è suggestiva e ben si sposa con la sua voce più iconica, quella irrimediabilmente divenuta rauca e arrugginita dopo un’operazione per rimuovere dei noduli alle corde vocali nel ‘57. In particolare, possiamo già sentire nelle ballad come My Funny Valentine e It Never Enter My Mind, registrati nel ’56 per gli album Cookin’ e Workin’, un’ombra sonora che sembra proiettarsi inesorabilmente verso quella foschia magica della nota di Blue in Green. Questo è un Miles molto sicuro e chiuso nelle sue idee siccome è arrivato al punto d’illuminazione tanto atteso che connette passato, presente e futuro del jazz. Si rinchiude nello studio di registrazione formando un sestetto eccezionale, composto da musicisti ormai punti cardinali della sua formazione, John Coltrane al sassofono e Paul Chambers al contrabbasso a cui si aggiungono il contraltista Cannonball Adderley, Bill Evans al piano e Jimmy Cobb alla batteria. Il gruppo si arma solo di qualche canovaccio e foglietto su cui erano abbozzate delle note su cui improvvisare, pronti a mettere in vinile, nero su nero, quella che era la nuova idea di sound davisiano, Kind Of Blue. Si legge spesso di come quest’album sia stata la prima opera in cui il trombettista sconquassa il jazz approcciandosi alla musica modale. Una visione un po’ miope nel momento in cui scopriamo come la musica modale in Davis sia solo un tassello nel macrocosmo di influenze e scoperte che ha fatto nella vita e soprattutto di come la bussola di questi cambiamenti punti sempre verso quel sound che tanto fa parlare di lui. Allontanando lentamente il fuoco del nostro sguardo verso il passato, troviamo un’intervista con Nat Hentoff del dicembre del ’58, in cui Davis disse: “Quando Gil [Evans] compose l’arrangiamento di “I Love You Porgy” mi scrisse solo una scala. Niente accordi, è questo dà molta più libertà e spazio per sentire le cose. Quando suoni in questo modo puoi andare avanti per sempre. Non devi preoccuparti dei changes e puoi fare molto di più con la linea melodica. Quando ti basi sugli accordi, sai che alla fine delle trentadue battute l’accordo è concluso e non puoi far altro che ripetere ciò che hai fatto con alcune variazioni”. Un altro esempio lo troviamo nelle parole del produttore discografico George Avakian, che nel ’56 ha portato Bernstein e Miles a collaborare per un arrangiamento stile cool jazz del brano Sweet Sue nell’album in uscita What is Jazz? “Quello che fece quando suonò Sweet Sue era una breve introduzione formale, prima di scivolare nell’improvvisazione totale, estremamente libera. È stata una svolta improvvisa in cui ha semplificato la struttura accordale della melodia, si è più o meno persa l’armonia della canzone. Quella potrebbe essere stata la scintilla da cui è scaturita la qualità fluida del fraseggio in Kind of Blue”.

Il punto di arrivo di questo decalogo lo troviamo invece nelle parole di George Russell quando racconta come “Ho percepito che Miles volesse trovare un nuovo modo di rapportarsi agli accordi, e il pensiero di come potesse arrivarci è qualcosa su cui rimuginava costantemente. Ho parlato con Miles delle scale modali sul finire degli anni ‘40 e mi domandavo come mai ci stesse mettendo così tanto, ma quando ho sentito So What ho capito che li stava usando”. Viene spontaneo pensare che Miles si sia lasciato ispirare dal famoso libro di Russell Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization, pubblicato nel’53, un testo che è stato consumato anche dai jazzisti dell’epoca. La corrispondenza nelle date darebbe senso a un brano come Swing Spring del ’54 in cui c’è una chiara costruzione modale negli accordi e nei solo. Tuttavia, le parole di Russell colpiscono se si pensa come Miles parlasse dei modi in un’epoca non sospetta come gli anni ’40. Una decade in cui è passato nel giro di poco da studiare alla Juilliard nel ‘44, quello che per lui era l’istituto adatto per diventare un professionista, ma trasformatosi presto in un momento di noia che interrompeva la sua divertente partita a nascondino per i locali della 52esima strada alla ricerca di Gillespie e Parker, alla vittoria di questa partita che gli è valsa la collaborazione assidua proprio con Bird l’anno dopo. Arrivando poi al ’48, quando iniziò a suonare con la cerchia di musicisti che gravitava attorno al compositore Gil Evans, tra cui Lee Konitz, Gerry Mulligan e John Lewis. Questo scambio tra i due avviene quindi nel periodo delle prime espressioni del cool jazz, in cui Davis comincia a levigare un suono più personale, in un lirismo assorto concedendosi qualche accenno di vibrato, una poetica che è anche riscoperta della sua adolescenza, precisamente in quell’ispirazione nata dal legame col trombettista Clark Terry. Questo riallacciarsi al passato non sorprende siccome la seduzione per il ritmo aggressivo e frenetico del Bebop è durato poco a conti fatti. Per molti jazzisti la via d’uscita da quello stagnante linguaggio incentrato sui changes si è costruita anche attraverso quei nodi tra passato e presente musicale nelle cui fibre si celano quei what if che aspettano l’attimo propizio per diventare compiuti. Altro motivo d’ispirazione verso la musica modale si riscontra quando riflettiamo sulla natura della grande mela: una troposfera culturale dove la musica fluttua tra cielo e terra e l’ossigeno che si respira è un composto di musica latino-americana, spagnola, egiziana, medio-orientale, indiana e d’ogni altro folklore immaginabile… una miscela di accenti sonori che contemplano sistemi scalari alternativi a quelli della musica occidentale. Per Miles ogni incontro con un musicista e ogni concerto del periodo newyorkese potrebbe esser stato lo spunto primigenio. Il trombettista si sofferma poco su questioni tecniche quando parla di Kind of Blue, invece nelle intenzioni risulta trasparente. Perché questo suo excursus storico ci mostra come la modalità sia un mero tramite per raggiungere la sua idea di spazio in musica, per cui il musicista, potendo andare oltre il rapporto armonia-melodia, è in grado di contemplare uno svuotamento di significato nella dimensione verticale e riempiendola di una melodia orizzontale che sgorga con maggior libertà, raffinando nel linguaggio l’intensità e soprattutto il timbro.

Miles parla nello specifico di “suonare lo spazio” con Gil Evans, riferendosi alla musica del nuovo trio del pianista Ahmad Jamal con Israel Crosby al contrabbasso e il batterista Vernel Fournier. Questa idea dello spazio ci spinge a ritornare dentro la cornice del quadro, indagando il tempo con degli occhialini chirurgici, fino a usare il microscopio di un biologo per indagare quella che il compositore Gérard Grisey chiamava la vita interna del suono. Blue in Green è solo in apparenza un brano semplice, se guardiamo alla sua struttura possiamo immaginare la sfida non indifferente per il sestetto a improvvisare così liberamente su una infrequente forma di dieci battuti. Improvvisazioni che diventano ancora più affascinanti se sentiamo con quanta frenesia il ritmo armonico muta in raddoppi o dimezzamenti all’alternarsi dei solisti. Sull’armonia di questo brano sussistono opinioni divisive, a ben guardare si possono sentire alcuni escamotage che non lo rendono modale in senso stretto, personalmente mi trovo in disaccordo con chi sostiene sia sufficiente a detrarne la natura modale. Per comprenderla bisogna spostare il punto focale dall’analisi armonica e concentrarsi su quanto la melodia della tromba di Miles si esprime in un fraseggio nei cui respiri non si trova mai quella nota che crea un appoggio o una chiusura coerente alle funzioni armoniche sottostanti. Si percepisce una gran tensione quando si scontra con il pianoforte di Evans, che dà l’impressione di dover inseguire le note di Miles dando una risoluzione armonica a un’idea melodica che è già passata, svanita nell’aria. Questo effetto crea una forma di dialogo infinito, precludendo alla narrazione una proiezione uditiva verso un finale. Esiste quindi quello che si chiama un pensiero di circolarità in Blue in Green, un termine usato da Herbie Hancock e riportato dai compositori e teorici musicali Henry Martin e Steve Larson per descrivere questa peculiarità strutturale del brano. L’idea circolare è coerente a questa interpretazione di una corsa sfuggente della melodia alla ricerca di un centro tonale di gravità permanente, isolato rispetto al basso e al pianoforte, due strumenti che circumnavigano attorno a progressioni armoniche in tonalità ora di Re minore ora di La minore. Ma quindi è modale o no? La prima nota è la dichiarazione d’intenti sufficiente a far cadere ogni indugio, un Mi naturale sopra un accordo di Sol minore undicesima, un colore limpidamente dorico. Uscendo dai binari della teoria, è indubbio quanto questa nota si presenti come un cardine percettivo topico, viene suonata con la stessa delicatezza della pennellata di un pittore impressionista che disegna un paesaggio in cui il tempo si è paralizzato, ma nelle sfumature e nelle ombre possiamo vedere una scena che scorre nella nostra immaginazione. Utilizzando il microscopio del sonogramma è possibile amplificare questa retorica coloristica, guardandola nella sua composizione cellulare.

In termini tecnici questo è uno spettro sonoro. Il suono nel suo vibrare genera frequenze, rappresentate come stringhe la cui lunghezza è data dalla nascita e morte della loro emissione. Quanta più energia hanno queste frequenze tanto più le stringhe brillano di una luce intensa, restituendoci l’idea visiva di quanto un singolo suono sia in realtà costellazione eterocromatica di una moltitudine di altre note, creando uno spazio acustico che alle nostre orecchie si trasforma in timbro strumentale, ma a un livello più profondo può addirittura restituirci la firma distintiva e personale di un’artista. Possiamo in soldoni vedere il Mi di Blue in Green in tutta la sua intima vita interna, in rosso è contrassegnata la nota reale che suona Miles, mentre in blu vediamo quanta energia ci sia fino alle prime cinque parziali armoniche, le cosiddette stringhe, fino al Mi due ottave sopra. Questa energia resta vivida anche nelle parziali superiori rappresentate nel rettangolo giallo dell’immagine, dove vediamo la brillantezza del suono di Miles nelle frequenze più acute, quelle evanescenti all’orecchio. Sempre nella parte in giallo è interessante vedere l’effetto che crea la sordina Wah Wah per tromba che apre a ventaglio il suono, strato dopo strato gli attacchi delle parziali si disvelano, come se venissero tolte una ad una delle lenzuola sottilissime sulla nudità di una nota a prostrarsi in tutta la sua fragilità proprio come l’animo stesso di Miles. Questo sonogramma restituisce un corrispettivo tra gli aggettivi usati per descrivere la percezione del sound di Miles attorno al ’59 e la sua reale composizione fisica, a dimostrazione dell’eccezionalità esecutiva di questa nota che può quindi segnare un sunto e punto d’arrivo nel lungo percorso dell’artista. Se questa corrispondenza tra scienza e immaginazione non fosse un setting ancora abbastanza suggestivo e mistico, allora pensiamo a cosa succede prima di questa nota. Possiamo sentire in introduzione un accompagnamento sofisticato, misterioso ma dalla grande serenità; il contrabbasso di Paul Chambers è avvolgente nell’inseguire il movimento armonico del pianoforte di Bill Evans. Una danza tra i due strumenti che creano un’ambiente dolce e rilassato, trovando una conclusione amara sull’ultimo accordo che ci lascia in sospeso come fosse una domanda dubbiosa nei confronti di questo piacere spensierato e cullante. La tromba di Miles è la risposta, con questo suono mesto che cambia irrimediabilmente l’atmosfera del brano. Il significato del titolo Blue in Green alla fine è simboleggiato dall’arrivo di questo istante sonoro preso in esame: una speranzosa pace che lascia spazio a una malinconia dal colore blu. Quante volte nelle nostre vite abbiamo provato questo? Parlo della gioia tipica di un traguardo raggiunto dopo un lungo viaggio verso quel verde, ma proprio quando ci si ferma per goderne, incombe la malinconia e il vuoto esistenziale con quella sua aura blu che risuona proprio come questo maledetto Mi, e in quell’istante il tempo del vivere si paralizza. Questa nota, oltre ad allacciare passato e presente di Miles, diventa profetica nel suo significato, perché questa sensazione assomiglia molto a come viene dipinto il trombettista poco dopo nel ’61. Un momento di apice della sua carriera, in cui decide di allontanarsi dalla scena per un paio d’anni, una vita di rendita in forza della fortuna monetaria accumulata, potendo godere di un’esistenza domestica nel proprio focolare. Esagerando con la fantasia potremmo prendere Miles e Monet, mettendoli seduti comodamente su due poltrone in uno di quei salotti d’intellettuali parigini che piacevano al trombettista quando andava in Francia. Una terra che per lui è croce e delizia, dal fiasco della sua prima esibizione europea nel tramonto degli anni ’40 che lo ha portato a gettarsi nell’abuso delle droghe, all’amore irrefrenabile che ha trovato in Jeanne Moreau, attrice nel famoso film noir Elevator to the Gallows del regista Louis Marie Malle, per cui Miles ha improvvisato nel ‘58 in presa diretta l’intera colonna lasciandosi suggestionare dallo scorrere delle scene su grande schermo. Chissà cosa si sarebbero detti il pittore e il musicista se si fossero scambiati quattro chiacchiere ascoltando Blue in Green mentre guardavano a uno dei quadri della serie delle ninfee.

Claude Monet scrisse “Un’istante, un aspetto della natura contiene tutto” riferendosi ai suoi tardi capolavori che ha dipinto, dal 1879 alla sua morte, nella sua dimora a Giverny. Frase azzeccata se la colleghiamo al valore d’istante che possiede questa nota rispetto al dipinto di Claude Monet del 1907: uno squarcio di blu tenue che dissipa il verde attorno fino a liquefarsi. Una scena che si mette in moto da sola al primo sguardo. Questo quadro è un’analogia che si collega per associazione visiva, alle frequenze del sonogramma e per sinestesia alla sensazione intima del Blue in Green riassunta in quel Mi. Addirittura, potremmo dire che è una summa della storia del trombettista che con il movimento degli impressionisti ha degli incroci; in fondo anche i pittori dell’epoca cercavano uno stile personale per uscire dallo stagnante linguaggio del realismo in pittura, così come Miles ha trovato in un sound in perenne evoluzione, l’essenza della sua rivoluzione del linguaggio jazz. Qualcosa di enorme che ben calza dentro qualcosa di così piccolo come una singola nota.

L’appello in chiusura è quello di immergersi in questa nota al punto tale che il frullato di parole lette non sia più qualcosa di scritto, ma venga generato in un istante come un bagliore dalla propria mente al solo ascolto di quei pochi secondi di Blue in Green. Questo è l’effetto che provo ogni volta che la riascolto e il motivo per cui quel Mi di tromba è la mia nota prescelta a riassumere l’essenza di Miles Davis. Sarei curioso di chiedere ad ogni persona quale sia il suo istante in musica preferito, quale arista, quale canzone, quale nota sceglierebbero e perché. In caso fatemelo sapere sarei ben curioso di leggere e condividere questa esperienza musicale.

Alessandro Fadalti

Casa del Jazz: Stefania Tallini illustra la sua arte / Federica Michisanti conquista con la sua grazia

Dopo poco più di un mese di prolifiche serate, in cui il nostro direttore Gerlando Gatto, insieme alle sue ospiti, ha esplorato la situazione del jazz femminile in Italia, la serie L’Altra Metà del Jazz volge al termine, non prima però di aver regalato al pubblico un’ultima interessante serata, con una particolarità per quanto riguarda le due artiste: entrambe infatti sono state incoraggiate nella loro carriera musicale dallo stesso Gatto.
La prima parte è dedicata alla pianista calabrese, compositrice, arrangiatrice, didatta Stefania Tallini, impossibilitata suo malgrado a suonare dal vivo a causa di un infortunio ed ergo unica artista a presentare solo brani registrati, cosa di cui Stefania non manca di mostrare il proprio rammarico durante l’intervista. Intervista che parte appunto dalle origini del rapporto della pianista con il jazz, da ritrovare in un disco di Chet Baker ascoltato all’età di 17 anni, e che va in seguito a toccare il rapporto della musicista con le altre sfere artistiche di sua competenza, prima fra tutte la musica brasiliana. Da questo  complesso universo musicale, la Tallini confessa di essere stata influenzata   principalmente da  Antônio Carlos “Tom” Jobim, per quanto riguarda la composizione e l’interpretazione pianistica e, altro universo di riferimento, dalla musica classica, ambito che la Tallini ha proficuamente frequentato, descrivendoli come “vasi comunicanti”, senza alcuna gerarchia tra i generi: in tal modo si rievoca il filo rosso che ha inconsapevolmente percorso tutte le artiste intervistate, ovvero quello del superamento di una  concezione gerarchica tra generi musicali e di una sempre maggiore apertura alla contaminazione.

Tornando al Jazz propriamente detto, la conversazione va a vertere sul rapporto della musicista con gli standard jazzistici, e a questo proposito lei sottolinea l’anomalia del suo percorso rispetto a quello che è il canone accettato: lei prima inizia a suonare e comporre la propria musica e solo in seguito si dedica all’esecuzione degli standard, ma con il suo stile – non per presunzione, ci tiene a specificare, ma per una sua precisa esigenza espressiva; inoltre, Stefania ne approfitta per raccontare anche un aspetto più intimo di questo percorso, ovvero un costante senso di inadeguatezza che l’ha perseguitata per gran parte della sua carriera, fino a quando non ha imparato a considerare questa sua anomalia di percorso come il suo punto di forza. Parlando appunto della sua opera, il suo modus componendi è molto incentrato su un’improvvisazione del tutto libera, al contrario di quella che potrebbe essere quella in un pezzo jazz, legata inevitabilmente a schemi ritmici o giri armonici: è appunto in questa libera ed istintiva esplorazione del panorama sonoro che la Tallini trova ispirazione, comunque lontana da ispirazioni riconducibili alla corrente del free jazz.
L’intervista si conclude toccando altri due aspetti di Stefania: quello didattico, da insegnante, in cui esprime un quadro desolante per le generazioni presenti, ovvero una mancanza totale di sogni e aspirazioni per il futuro, ma al contempo non manca di precisare il suo orgoglio per i successi dei suoi alunni, e quello da esecutrice: parla infatti della sua formazione preferita al momento, ovvero il duo, che lei definisce terreno di scoperta continua e zenit del rapporto, della libertà e del dialogo. Al riguardo non si trova d’accordo con Gatto il quale ritiene che per suonare bene in duo occorre conoscersi bene; “Io – ribatte la Tallini,  presentando la sua esperienza con il flautista spagnolo Jorge Pardo – nonostante non ci conoscessimo, siamo riusciti ad instaurare  da subito una profonda sintonia”. Infine, rivela il suo sogno nel cassetto, ovvero poter registrare un progetto con una grande orchestra di archi.
I brani che come al solito hanno accompagnato l’intervista sono stati Riotango, tratto dall’album Brasita (2022) e registrato in collaborazione con i brasiliani Daniel Grossi all’armonica e Jaques Morelenbaum al violoncello, Silent Moon tratto dall’album E Se Domani (2023) registrato in collaborazione con il trombettista Franco Piana, presente peraltro in sala, e Uneven, estratto dall’album omonimo del quale purtroppo lamenta la mancata promozione a causa della pandemia e registrato in trio con il batterista Gregory Hutchinson e il contrabbassista Matteo Bortone.

Nel secondo tempo a calcare il palco è stata la contrabbassista Federica Michisanti, che si avvicina al mondo del jazz anche lei in un secondo momento: partendo da origini più legate al progressive rock dei Led Zeppelin, dei Genesis e di Sting (con il quale, tra l’altro, ha confessato di voler collaborare come sogno nel cassetto); conosce il jazz quando, a 20 anni, inizia a suonare il basso elettrico in un gruppo di progressive rock. Ma allora come mai si è fatta conoscere, e si è presentata sul palco, come contrabbassista? La risposta la può dare il pianista Stefano Sabatini, suo insegnante, che l’ha convinta a studiare anche il contrabbasso, strada che le ha portato molta fortuna, non abbandonando mai tuttavia il basso elettrico. “Presentando” lo strumento che ha portato sul palco della Casa del Jazz”, Federica ha spiegato come lo stesso abbia un manico più lungo di quello che sarebbero le dimensioni standard in quanto ricavato da uno strumento tirolese di fine 800, e di avere un’anomalia nell’ultima nota di questo manico – anomalia sistemata dopo un intervento da parte di un liutaio.
Inoltre ha parlato della sua passione per il disegno, tanto da essere convinta di voler fare la disegnatrice fino ai 20 anni – e a chi vi scrive non può non venire in mente, riguardo al rapporto tra musica e arti visive, l’esempio del fumettista e disegnatore Jamie Hewlett, membro fondatore insieme a Damon Albarn dei Gorillaz, affermati da ormai più di due decenni come una delle realtà più influenti dell’hip hop alternativo.
Riguardo alla domanda sulle difficoltà riscontrate dalla Michisanti in ambiente jazz in quanto donna, lei racconta da una parte di un ambiente ancora non del tutto sviluppato in questo senso, dall’altra però ci tiene a specificare il fatto che è una situazione che cambia radicalmente da persona a persona.
Parlando di come lei stia vivendo la sua situazione attuale, nella quale viene molto apprezzata sia da pubblico che da critica, la musicista riferisce da parte sua una visione di questo momento come uno sprone a fare sempre meglio e a suonare sempre meglio: per quanto riguarda il suo modo di suonare, lei riferisce che all’inizio si esibiva in trio con il pianista Simone Maggio, che peraltro l’ha accompagnata durante la serata, e il batterista Rosario de Martino, ma che a seguito – purtroppo – della morte di quest’ultimo ha iniziato a suonare accompagnata dal sassofonista Emanuele Melisurgo, e da questo sodalizio è nata una predilezione da parte di Federica per una formazione a tre senza batteria, mancanza alla quale rimedia molte volte, in quanto a scansione ritmica, il piano di Maggio. Riguardo alle sue influenze lei cita tra i classici Chopin, Beethoven, Debussy, Stravinsky e la scuola austriaca, mentre tra i musicisti jazz mostra un’ammirazione particolare per Scott LaFaro, Gary Peacock e Dave Holland. Parlando invece della sua composizione, illustra un aspetto che la accomuna alla collega che l’ha preceduta sul palco, ovvero il basare le sue composizioni su improvvisazioni al pianoforte, aiutate nel suo caso da un programma musicale per avere un’anteprima sul risultato finale complessivo; per quanto riguarda la sua identità di ascoltatrice confessa invece che a colpirla sono soprattutto le dinamiche e fa inoltre notare come il contrabbasso, nonostante la sua sottovalutazione negli arrangiamenti complessivi, serva come vero e proprio collante tra le varie frequenze. Infine racconta della sua esperienza con Ornella Vanoni e di come la Signora sia riuscita, nonostante una frattura al femore e le raccomandazioni dei suoi medici, a portare avanti il suo tour (non a caso Federica la definisce “un’eroina”).
I brani suonati da Federica e Simone sono stati Before I Go e Reset, tratti entrambi dall’album Isk (2017), e infine un medley tra Qalb – Il verde, tratto da Jeux de Couleurs (2020), e Floathing (2023).

Beniamino Gatto

Trascinante Judith Hill
Più riflessiva la musica di Peirani

È proprio vero che programmare è una cosa, attuare è un’altra. Quest’anno mi ero ripromesso di vedere cinque concerti del recente Roma Jazz Festival che mi era parso ben strutturato e con proposte nuove e interessanti.
Purtroppo non è andata come volevo e sono stato costretto ad assistere solo a tre concerti perdendomi quelli del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini (il 9 novembre) e del gruppo Yellowjackets (11 novembre) che seguo da tempo immemore.
Dell’anteprima di Ibrahim Maalouf il 12 ottobre “A proposito di jazz” ha già riferito; oggi vi do conto degli altri due concerti cui ho assistito: Judith Hill il 4 novembre, Vincent Peirani Trio il 5 novembre.
Preceduta da una fama non immeritata, Judith Hill si è esibita alla Sala Petrassi dell’Auditorium dinnanzi ad un pubblico entusiasta e assai numeroso. Veramente particolare la formazione dal momento che la vocalist afro-americana aveva accanto a sé la madre Michiko alle tastiere e all’organo e il padre Robert (alias Pee Wee) al basso elettrico; alla batteria l’unico “estraneo”, il vulcanico John Staten.
Nata a Los Angeles, Judith viene, quindi, da una famiglia di origini nipponico/afroamericane che può a ben ragione definirsi “musicale”, nell’accezione più completa del termine. Ha dedicato tutta la sua vita alla musica tanto da essere attualmente, oltre che un’ottima vocalist, anche un’eccellente pianista e chitarrista. Dopo aver sviluppato le sue attitudini lavorando come cronista a fianco di vere e proprie icone della musica quali Michael Jackson, Stevie Wonder e Prince ha intrapreso una strada da solista che le sta assicurando grande successo presso le platee di tutto il mondo. In effetti le performance della Hill, stando a quanto s’è visto e ascoltato a Roma, sono davvero trascinanti. La sua voce calda, la sua intonazione, il preciso senso del ritmo le consentono, infatti, di transitare con estrema disinvoltura dal soul al R&B, dal funk al blues il tutto in un’atmosfera sempre “assai calda” che vede il continuo coinvolgimento del pubblico.
Efficace in tutte le interpretazioni personalmente l’ho particolarmente apprezzata in “Angel in the Dark” una composizione di Prince, “Better Days” e “Beautiful Life” scritte dalla stessa Hill mentre tra i brani più scatenati, particolarmente coinvolgente “That Power”

Di natura completamente diversa il concerto del fisarmonicista francese Vincent Peirani in trio con il chitarrista italiano ma oggi stabilmente a Parigi Federico Casagrande, e il batterista di origine israeliana Ziv Ravitz, oggi cittadino di New York. Ho seguito la carriera di Peirani da quando nel 2009 si affacciò sul mondo del jazz con un album particolarmente originale e promettente. Promesse mantenute negli anni successivi che hanno consacrato Peirani come uno dei migliori fisarmonicisti al mondo. Ma, se devo dire la verità, quest’ultima strada intrapresa da Vincent, così come evidenziato dal concerto romano, non mi convince più di tanto. Certo la maestria dell’artista è sempre là, così come la sua classe nell’arrangiare i pezzi, e la sua profonda conoscenza dell’universo jazzistico. Ma questo immergersi in atmosfere molto slargate (un po’ alla nordica, tanto per intenderci) i continui riferimenti alla musica “moderna” , la prevalenza della struttura sull’improvvisazione, e soprattutto il continuo ripetere di brevi segmenti melodici hanno fatto perdere un po’ di mordente alla sua musica.
Nel repertorio del concerto romano figurano alcuni brani presenti nell’ultimo album “Jokers” pubblicato nel 2022 con la stessa formazione presentata nella Capitale: tra questi “River” tratta da ‘Church of Scars’  (2018) della cantante Bishop Briggs, in cui il canto viene sostituito dalla fisarmonica; particolarmente interessante “Salsa Fake” il cui titolo è tutto un programma: in effetti il brano inizia con un assolo di chitarra che ci porta in atmosfere latine assecondato dalle note suadenti e melanconiche della fisarmonica, ma ben presto le cose cambiano: intervengono batteria e chitarra, il clima del pezzo muta completamente, adesso ci si avvicina ad una forma sofisticata di rock a segnare, a mio avviso, il punto più alto dell’intero concerto proprio perché le concezioni di Peirani riescono a elaborare una ricetta nuova e coinvolgente.
Il concerto si chiude con “Ninna nanna” eseguito come bis, sicuramente il brano più melodico dell’intera serata in cui sono evidenti i riflessi di certe melopee italiche.

Gerlando Gatto

Incontri alla Casa del Jazz: Rita Marcotulli entusiasma – Ottavia Rinaldi commuove

Dopo una settimana di stop, mercoledì 15 novembre il nostro direttore Gerlando Gatto è tornato alla “Casa del Jazz” per il quarto appuntamento della sua serie L’altra metà del jJzz, in una sala particolarmente gremita, un po’ come avveniva nel lontano 2012 con le sue Guide all’Ascolto.
La prima ospite della serata è stata la rinomata pianista Rita Marcotulli, legata a Gatto da uno stretto rapporto di amicizia che dura ormai da più di mezzo secolo, quando il comune amico Mandrake, al secolo Ivanir do Nascimento, presentò al giornalista una giovanissima ma talentuosa Marcotulli; tanto talentuosa da venir chiamata già da giovane in tour con musicisti del calibro di Billy Cobham e Dewey Redman. Buona parte dell’intervista è stata costituita da un lungo excursus sulla sua vita e le sue opere: da un’infanzia vissuta a contatto con titani della musica e del cinema come Nino Rota, Ennio Morricone o Roman Polanski, grazie al lavoro di tecnico del suono del padre, alla sua carriera, ricca di soddisfazioni: infatti oltre ai tour con i già citati Redman e Cobham, si possono annoverare alcuni sodalizi con artisti italiani del calibro di Francesco de Gregori, Pino Daniele o Eugenio Bennato, la composizione della colonna sonora del film Basilicata Coast to Coast (2010) di e con Rocco Papaleo e la vittoria del David di Donatello come migliore musicista per il lavoro svolto in questo film (peraltro, prima donna a ricevere questo riconoscimento sin dalla sua istituzione nel 1975), il suo lavoro di rappresentanza dell’Italia a livello internazionale e il conferimento delle onorificenze di Ufficiale della Repubblica Italiana e Membro della Royal Swedish Academy of Music. Parlando della sua carriera, Rita non manca mai di sottolineare l’importanza di ogni singola esperienza vissuta: dallo stile cromatico di Redman al Jazz Rock/pop di Cobham, dalla musica leggera di Bennato e De Gregori a quella di Daniele: queste esperienze l’hanno aiutata a sviluppare una linea di pensiero per quanto riguarda i generi musicali non dissimile da quella espressa da altre musiciste nelle scorse puntate; infatti si schiera apertamente contro quello che lei chiama “snobismo” tra generi musicali, e propone invece solo un tipo di distinzione: quella tra buona musica e musica scarsa. Da questa affermazione si è aperto un dibattito sullo stato attuale della musica pop in Italia, e in questo caso Rita propone una riflessione applicabile alla musica, ma ad ogni genere di arte: in fin dei conti, i veri vincitori alla prova del tempo sono coloro che hanno il coraggio di innovare e di avere una propria originalità; pensiero condiviso appieno da chi scrive.
Infine il discorso è stato intervallato, come al solito, da tre brani straordinari composti dalla stessa Marcotulli: All Together, dedicata ad un amico che quella sera compiva gli anni, Indaco, e The Way It Is.

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La seconda parte è stata dedicata all’arpista e cantante esordiente Ottavia Rinaldi, che racconta del suo percorso musicale: partendo dalla Sicilia (per la precisione da Messina) terra di origine della musicista dove ha sviluppato sin dall’età di sette anni e mezzo una passione per l’arpa, si è trasferita prima a Monopoli, poi a Como, e poi a Parma dove ha conseguito il master di II livello nello studio dell’arpa classica e jazz. Per diversi anni frequenta il corso di alto perfezionamento jazz presso la Filarmonica di Villadossola con Ramberto Ciammarughi verso il quale la Rinaldi ha parole di sincera stima e gratitudine per tutto ciò che le ha trasmesso nell’ambito del jazz.

Nel suo discorso Ottavia pone molto l’accento sul gusto di suonare insieme agli altri in orchestra: motivo per il quale non ha ancora sviluppato un progetto in solitaria, andando in controtendenza rispetto alla stragrande maggioranza degli arpisti jazz – e proprio in quanto arpista la Rinaldi riferisce di aver affrontato le maggiori sfide, soprattutto per quanto riguarda una mentalità a suo dire chiusa nell’ambiente musicale nei confronti degli arpisti. Dopo aver parlato di sé come musicista, Ottavia racconta del suo primo album Kronos, pubblicato da Alfa Music, contenente sette brani autografi ed la riarmonizzazione di uno standard (“Like Someone in Love” di Jimmy Van Heusen); da questo album sono tratti i tre pezzi che hanno intervallato la serata (in ordine Kronos a metà, Valzer delle Anime e Ciatu, unico brano cantato dei tre). L’album, uscito proprio in questi giorni, vede come protagonista l’HarpBeat Trio, costituito per l’appunto dalla Rinaldi all’arpa e canto, Carlo Bavetta al contrabbasso e Andrea Varolo alla batteria. Il trio evidenzia una notevole dose di empatia e non poteva essere altrimenti dato che i tre collaborano assieme sin dal 2017. Infine,  si apre un dibattito sull’importanza dell’improvvisazione e sull’ambizione della musicista di rimanere attiva sia nel campo della musica classica – musica che, data la formazione ricevuta, non abbandona mai del tutto, come ripetuto più volte da lei stessa – che in quello del jazz.
Redazione