Phil Markowitz: è fondamentale suonare creativamente

Pianista e compositore raffinato ma anche uomo di rara disponibilità e gentilezza, Phil Markowitz – classe 1952 – è a mio avviso uno dei tanti musicisti ancora sottovalutato. E dire che nella sua vita di cose ne ha fatte tante. Basti al riguardo scorrere la sua ricca discografia e lo troviamo sia alla testa di proprie indimenticabili formazioni, sia come sideman accanto ad altri veri e propri giganti del jazz quali Chet Baker, Dave Liebman e Bob Mintzer.
Di recente abbiamo ascoltato il doppio album inciso in solitaria durante un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 9 maggio del 2006. Ne siamo rimasti particolarmente colpiti e abbiamo avuto il desiderio di intervistarlo. Ci siamo rivolti all’amico Giorgio Enea, dell’ufficio stampa dell’Auditorium, il quale ci ha fornito un contatto mail. Così ci siamo scritti e Phil ci ha risposto immediatamente. Di qui l’intervista che pubblichiamo di seguito.

-Partiamo da un doppio album registrato live a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, il 9 maggio del 2006 ma pubblicato solo poche settimane fa. Ricorda qual era il suo stato d’animo quando suonò questa splendida musica?

“Ero davvero felice di suonare in concerto da solo e ovviamente anche un po’ nervoso prima di salire sul palco, cosa assolutamente normale. Ricordo di essermi molto concentrato per questa performance, considerato che si trattava di una scaletta parecchio impegnativa, e di essere stato infine molto soddisfatto grazie alla magnifica risposta del pubblico, cosa molto incoraggiante. I tre bis, poi, sono stati semplicemente meravigliosi”.

-Nel frattempo, sono trascorsi ben 16 anni; come è cambiato Phil Markowitz in questo lasso di tempo?
“Penso che quando uno arriva ai 50 anni più o meno sa chi è, ergo ci sono stati degli sviluppi da quel giorno ma essenzialmente il mio cammino musicale ha seguito la stessa strada eclettica che ho sempre intrapreso”.

– Qual è attualmente il suo approccio verso la musica?
“Da un punto di vista compositivo il mio approccio è quello di creare strutture in ambienti molto ben definiti e di suonare creativamente e inventivamente all’interno di esse. Per quanto riguarda le performance in gruppo è ed è sempre stato lo stesso: supportare la band, essere preparati e saper giocare di squadra”.

– Adesso riandiamo indietro nel tempo: un po’ come tutti i musicisti di jazz, anche lei prima di guidare propri gruppi ha militato come sideman in formazioni guidate da altri. Quanto ciò è importante nella formazione di un musicista?
“Se sei un musicista che si occupa del ritmo, che sia il pianoforte, il basso, la batteria o altri strumenti a corda, è cruciale per il tuo sviluppo musicale. Si deve saper valutare ogni situazione musicale e ogni musicista che si accompagna; ciò affina le tue abilità musicali e devi essere un artista maturo per avere successo. Io dico sempre ai miei studenti che le abilità di accompagnatore sono la parte più importante della disciplina di ognuno: una cosa è essere un gran solista, altra cosa è saper accompagnare. È la capacità di accompagnare che ti permette di far suonare bene la musica e di farti conservare il lavoro dato che così facendo metti il tuo leader nelle condizioni migliori!”.

– C’è stato un momento nella sua vita, nel suo percorso artistico che le ha fatto capire di essere in grado di affrontare una sua personalissima carriera?
“Non sono sicuro di aver capito la domanda ma in sintesi è stato il mio amore per la musica improvvisata che suoniamo e ovviamente i numerosi e incredibili maestri che ho avuto durante il mio percorso a spingermi verso una carriera fatta di musica. Inoltre, ho capito molto presto che è assolutamente importante essere un compositore con una propria, ben specifica unicità che ti consente di creare quegli ambienti nei quali s’innesta il panorama sonoro che ti rende immediatamente riconoscibile”.

– Lei ha ottenuto, per l’appunto, una straordinaria visibilità anche come compositore quando ha suonato con Toots Thielemans a NYC. Come ricorda quel periodo?
“New York negli anni Ottanta era magnifica, c’era un sacco di lavoro. Suonavo con Chet Baker, Toots, la Mel Lewis Big Band e, poco prima, con Joe Chambers; mi guadagnavo da vivere suonando nella downtown, in concerti con diversi gruppi. In sintesi, è stato un periodo molto fertile. Ovviamente sono molto grato a Toots, con il quale ho lavorato per quattro anni e che fu anche uno dei miei primi mentori quando studiavo al College nella Eastman School of Music. C’era questa meravigliosa confluenza di circostanze: ad esempio Bill Evans veniva al nostro concerto a N.Y. e noi suonavamo “Sno’ Peas”, un pezzo che Toots eseguiva ogni sera”.

Tra gli artisti con i quali ha suonato a lungo figurano Chet Baker e Dave Liebman, musicisti differenti quasi da ogni punto di vista. Qual è stato il suo rapporto con i due?
“Con Chet avevo un bellissimo rapporto anche se era più anziano di noi. In quel tempo – quando ero più vicino ai trenta che ai vent’anni – suonavo con la band. Lui era molto paziente con noi e dava il buon esempio a tutti. Ho certamente imparato l’arte dell’accompagnamento durante questo periodo; se qualcuno suonava un accordo sbagliato dietro a Chet rovinava le sue meravigliose e incontaminate sortite solistiche degne di Mozart. Quando mi sono trasferito a New York negli ultimi anni Settanta, conoscevo già Dave Liebman dalle sue registrazioni con Miles ed Elvin Jones e la band “Quest”, che aveva con Richie Beirach. Quando ero in città andavo quasi ad ogni concerto in cui c’erano loro; era sempre stato il sogno della mia vita suonare con Dave e nei primi anni Novanta il mio desiderio venne esaudito. Lui è sempre stato per me un assiduo e sincero maestro, mi ha sempre appoggiato ed ha avuto una grande e meravigliosamente positiva influenza nella mia vita. Penso che l’aver avuto, sin da giovanissimo, un interesse molto forte per la musica del XX secolo e per l’armonia cromatica mi abbia reso più pronto per i suoi concerti. La  “Saxophone Summit” è stata senza dubbio la miglior band con cui abbia suonato e quell’esperienza ventennale rimane la più entusiasmante che abbia vissuto nel mondo del jazz. Ci sono moltissime registrazioni meravigliose con quel gruppo e aver suonato con Joe Lovano, Michael Brecker, Ravi Coltrane, Greg Osby e naturalmente Dave Liebman è stata un’esperienza formativa dal valore incommensurabile. Per non parlare di Billy Hart che è senza ombra di dubbio il miglior batterista con cui abbia avuto il piacere di suonare”.

– Lei suona da solo, in combo e in big band. In quale situazione preferisce esprimersi?
“Adoro il piano trio perché come leader ti dà la maggior flessibilità mentre plasmi la musica. Anche il duo è estremamente gratificante, sebbene sia più difficile: devi accompagnare, essere tutta la band e suonare da solo. È un ambiente meraviglioso. D’altro canto, suonare con la sezione fiati è stato molto bello; in effetti per la big band è una lunga storia ma basti sapere che se si è pianisti in quel contesto è necessario sapere tutto ciò che l’arrangiatore ha messo in ogni spartito. La mia band con il violinista Zach Brock (jazzista statunitense, classe 1974, membro degli Snarky Puppy dal 2007 n.d.a.) è stata molto gratificante; ho sempre voluto lavorare con un violinista e ho sempre creduto che piano e violino siano un perfetto abbinamento sonoro”.

– Oggi il jazz è diventato materia di insegnamento e Lei se ne occupa appieno. A suo avviso, quanto è importante per il futuro della ‘nostra’ musica questo tipo di formazione?
“L’educazione jazz è una sorta di spada a doppio taglio. Ritengo che in questo momento sia importante perché la scena è molto più ristretta adesso rispetto a quanto lo fosse negli anni ’70 e ’80. Sono grato per la mia esperienza universitaria alla Eastman School of Music, dove ho incontrato Gordon Johnson (contrabbassista e chitarrista statunitense classe 1952 n.d.a) e il batterista Ted Moore con i quali ho fondato una band chiamata “Petrus” che vinse un concorso nazionale per il miglior gruppo jazz giovane con in palio una performance al Newport Jazz Festival del 1973. Nei prossimi mesi rilasceremo finalmente le nostre registrazioni in studio, che avevo conservato nel mio armadio… suonano come se fossero di oggi. Tutto ciò non sarebbe mai successo se non ci fossimo incontrati in Conservatorio. Le connessioni che si creano in ambito musicale con le persone che incontri, gli insegnamenti che puoi ricevere da grandi musicisti che normalmente non avresti opportunità di incontrare e la musica che crei, durano per la vita. E sono cose che non si dimenticano. È chiaro che per avere una preparazione più approfondita si deve studiare in Conservatorio, e ciò prevede dei costi; certo, si possono trovare insegnanti anche tra i musicisti di strada, ma non è la stessa cosa; tuttavia, nella scena attuale ognuno deve avere la consapevolezza di ciò cui va incontro: non tutti diventano star o super star, spesso i migliori musicisti non sono i più famosi, e spesso i più famosi non sono i migliori. Io ritengo che la pedagogia, come io l’ho sviluppata nei numerosi anni in cui sono stato educatore, specie negli ultimi 20 anni nel programma di laurea e dottorato nella “Manhattan School of Music”, mi abbia aiutato a definire il mio stile. Imparare ad insegnare può agevolare notevolmente il proprio sviluppo”.

– C’è qualche musicista che ritiene particolarmente importante per la Sua di formazione?
“Tutta la gente che ho menzionato in precedenza è molto importante: Chet Baker, Dave Liebman e posso aggiungere Bob Mintzer e Maurizio Giammarco in Italia. Queste sono le persone principali con cui ho avuto lunghe collaborazioni. Ma ovviamente ce ne sono state tante altre lungo il cammino dalle quali, ogni qualvolta si suoni assieme, si impara qualcosa”.

– Quando pensa di tornare in Italia?

“Si spera il prima possibile: È il mio posto preferito dove suonare”.

E noi ce lo auguriamo di tutto cuore; a presto Phil…

Gerlando Gatto

Grande Jazz al Roma Jazz Festival – In programma dal 1 al 21 novembre

Ci siamo. A ulteriore conferma del ritorno ad una vita normale, lunedì 1 novembre si apre la 45° edizione del Roma Jazz Festival che si concluderà il 21 novembre.
In programma 19 concerti in Auditorium Parco della Musica e al Monk; diretto come oramai da tanti anni da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2021 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Come al solito, questa manifestazione si caratterizza per la ricerca di un tema che anno dopo anno muta per affrontare sempre nuove sfide. Per questo difficilissimo periodo si è deciso di proseguire nell’esplorazione trasversale di ciò che ha cambiato la nostra vita in questi ultimi anni, e delle forme espressive che la musica e la cultura hanno assunto tramite l’uso delle tecnologie e dei social media. Di qui la scelta del “Jazz Code” quale tema di questa quarantacinquesima edizione del Roma Jazz festival.  Jazz, quindi, come “codice aperto”, da sempre proiettato nella continua ricerca di nuove forme, di nuove atmosfere, di nuove sonorità. Un crocevia tra le arti e i linguaggi in cui la musica si confronta con il multimediale e con le arti visive che entrano in sintonia con i suoni.
A dare concretezza a questi concetti, un cartellone di assoluto rilievo che accanto alle stelle del jazz, ai nuovi talenti internazionali unisce alcuni tra i più prestigiosi musicisti italiani.

Ecco quindi alcuni dei grandi nomi del pantheon mondiale della musica jazz come il sax tenore Joe Lovano, per la prima volta in Italia insieme al pianista polacco Marcin Wasilewski, il chitarrista John Scofield in duo con il contrabasso di Dave Holland, il celeberrimo pianista Brad Mehldau, la sassofonista Lakecia Benjamin e Roberto Fonseca, da molti considerato come l’Herbie Hancock de L’Avana. Senza trascurare l’incontro fra l’introspezione meditativa e l’attenzione per i diritti civili di The Vijay Iyer Trio
Naturalmente riflettori puntati anche sui nuovi talenti come il trombettista di New York Theo Croker e scoprire, grazie a Theon Cross, come uno strumento particolare come la tuba sia finita al centro della più innovativa scena londinese.
Per quanto concerne il made in Italy, da ascoltare con molta attenzione le sonorità della giovane italo-tunisina LNDFK, figlia della Napoli più contemporanea, mentre con il post-bop notturno si misurano i milanesi Studio Murena. Sempre in primo piano uno degli eroi della nostra infanzia, Zorro, grazie al giustamente celebrato Tinissima Quartet. Sarà altresì possibile modificare il corso di un concerto direttamente da mobile app come nel live di Tin Men and The telephone e rivivere l’esperienza di celebri videogame a suon di jazz come nel progetto, in anteprima nazionale, della Young Art Jazz Ensemble diretta da Mario Corvini. Ascolteremo altresì lo space funk dei Tangram e il jazz elettronico e cosmico di Gianluca Petrella, mentre ci si potrà smarrire fra le incursioni cinematografiche di La Batteria e le spericolate traiettorie di Ugoless, riflettere sulle memorie future di Paolo Damiani e sulla speranza di un futuro diverso come fa Giovanni Guidi con la Little Italy Orchestra.

Gerlando Gatto

1° novembre h21
MARCIN WASILEWSKI TRIO & JOE LOVANO
ARCTIC RIFF
Auditorium Parco della Musica | Sala Petrassi

2 novembre h21
GIOVANNI GUIDI/LITTLE ITALY ORCHESTRA
Auditorium Parco della Musica | Sala Petrassi

3 novembre h21
FRANCESCO BEARZATTI/TINISSIMA QUARTET
ZORRO
Auditorium Parco della Musica | Sala Petrassi

4 novembre h21
BRAD MEHLDAU TRIO
Auditorium Parco della Musica | Sala Sinopoli

5 novembre h21
UGOLESS feat. DOMENIO SANNA
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

6 novembre h21
YOUNG ART JAZZ ENSEMBLE diretta da MARIO CORVINI
JAZZ IS A (VIDEO) GAME
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

7 novembre h12 – h21
RJF NO JAZZ PARTY: THE TANGRAM + LA BATTERIA + STUDIO MURENA
Monk

7 novembre h21
PAOLO DAMIANI UNIT
MEMORIE FUTURE
Auditorium Parco della Musica | Sala Petrassi

8 novembre h21
THEO CROKER
BLK2LIFE
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

10 novembre h21
LAKECIA BENJAMIN
PURSUANCE – THE COLTRANES
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

11 novembre h21
ROBERTO FONSECA
YESUN
Auditorium Parco della Musica | Sala Sinopoli

11 novembre h21
LNDFK
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

12 novembre h21
JOHN SCOFIELD/DAVE HOLLAND DUO
Auditorium Parco della Musica | Sala Sinopoli

15 novembre h21
GIANLUCA PETRELLA guest V3RBO
COSMIC RENAISSANCE
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

16 novembre h21
THE VIJAY IYER TRIO
UNEASY
Auditorium Parco della Musica | Sala Sinopoli

18 novembre h21
TIN MEN AND THE TELEPHONE
GREATEST SHOW
Auditorium Parco della Musica | Teatro Studio Borgna

21 novembre h21
THEON CROSS TRIO
WE GO AGAIN
Monk

Riccardo Crimi: il fotografo AFIJ del mese di marzo – la gallery e l’intervista

Riparte, dopo una piccola pausa, la nostra rubrica dedicata all’AFIJ, Associazione Fotografi Italiani Jazz, che inizia il nuovo anno con un efficace restyling del sito web e l’inserimento dei soci Paolo Piga, Gabriele Lugli, Giuseppe Cardoni, Marco Floris, Luciano Rossetti e Riccardo Crimi tra i 30 finalisti del prestigioso Jazz World Photo, edizione 2021.
Ed è proprio quest’ultimo, Riccardo Crimi, il fotografo che abbiamo intervistato questo mese e al quale è dedicata la nuova gallery.

Riccardo Crimi

Crimi nasce in Sicilia nel 1956, ma risiede a Formia in provincia di Latina dal 1975. Si occupa di fotografia di spettacolo e di musica jazz in particolare. Collabora con diversi magazine di settore tra cui Jazzit, Musica Jazz, oltre ad alcuni web magazine. Le sue foto sono state utilizzate per diverse copertine di cd, tra cui quelle per il doppio di Paolo Fresu per EMI, Gaetano Partipilo & Urban Society, Michael Blake, Pietropaoli. Da diversi anni si occupa di corsi di fotografia, sia di gruppo sia individuali, oltre a tenere diversi workshop di fotografia musicale. Accreditato nei più importanti festival di musica jazz come Umbria Jazz nelle due date, estiva e invernale, Young Jazz e Auditorium Parco della Musica. Socio fondatore dell’AFIJ. (Marina Tuni)

Scorrendo le tue note biografiche e curiosando sul web sono rimasta davvero impressionata di quanto tu, a differenza di altri fotografi, abbia dedicato la tua intera carriera professionale quasi unicamente alla fotografia di spettacolo, al jazz in particolare. Vorresti spiegarci da che cosa scaturisce la tua scelta, partendo magari dal raccontarci come ti sei avvicinato all’arte fotografica?
«Come molti mi sono avvicinato alla fotografia da piccolo, ricordo che agli inizi fotografavo di tutto, formiche, sassi… tutto quello che stuzzicava la mia fantasia! Crescendo ho iniziato a “selezionare” i soggetti, torturando amici e parenti. Nei primi degli anni ottanta entro in una agenzia fotografica e nell’82 vengo accreditato ai concerti dei Rolling Stones e di Frank Zappa, quindi il mio primo Umbria Jazz nel 1985; lì nasce la passione pura di fotografare la musica e gli artisti che ami… che volere di più dalla vita? Poi, come spesso succede, diventa difficile conciliare lavoro e famiglia e decido di abbandonare per poi riprendere nei primi anni del 2000. Da allora non mi sono più fermato».

Osservando i tuoi scatti ho potuto cogliere aspetti peculiari della personalità di alcuni artisti, che solo ascoltando la loro musica non ero riuscita a scoprire; evidentemente riesci a creare con l’artista che stai fotografando un’interazione naturale che va oltre la superficie. Non credo basti soltanto saperli mettere a loro agio… Come entri nel mondo dei musicisti che ritrai, tirando fuori il meglio di essi – o anche il peggio, a volte?
«Penso che sia una questione di “rispetto”. Il musicista capisce che lo rispetto prima come persona poi come musicista e forse per questo nasce quella giusta alchimia che mi permette di entrare nel suo mondo intimo di “personamusicista“, dove la prima non annulla la seconda e viceversa, e come in tutti gli esseri umani convive il meglio e il peggio ed è giusto conoscere e rispettare le due facce».

-Tempo fa lessi un romanzo di Thomas Bernhard, “Estinzione”, e rimasi colpita da questa frase: «Fotografare è una passione abietta da cui sono contagiati tutti i continenti e tutti gli strati sociali, una malattia da cui è colpita l’intera umanità e da cui non potrà mai più essere guarita. L’inventore dell’arte fotografica è l’inventore della più disumana delle arti. A lui dobbiamo la definitiva deformazione della natura e dell’uomo che in essa vive, ridotti a smorfia perversa dell’uno e dell’altra». Beh, è notorio che Bernhard è un maestro dell’arte dell’esagerazione… tuttavia, queste parole sono uno spunto per dire che nell’epoca in cui tutti fotografano tutto, non è così scontato che la logica meritocratica, in qualsiasi ambito professionistico, sia sempre riconosciuta. Qual è il tuo pensiero a questo proposito?
«La fotografia, come l’arte in genere, è lo specchio della società in cui viviamo ed è giusto che sia così… poi, va anche detto che viviamo in una società che di meritocratico non ha nulla…».

Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
«Sicuramente si, anche se per un fotografo è diverso, ovvero non deve analizzare e riportare come un musicista ha  suonato ma quello che ha profuso sul palco: passione, amore, sofferenza e, soprattutto, se tutto questo è arrivato al pubblico».

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni.. anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Più che la musica che suona, per me influisce molto quanto il musicista sul palco sia “personamusicista” – come dicevo prima – cioè quanto si da al pubblico».

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?

«Quella che ancora non ho scattato e sta li ad aspettarmi.
In effetti la foto di cui vado più orgoglioso non è stata fatta da me, ma a me da Art Blakey  ad UJ nell’85!»

Marina Tuni

Mino Cinelu e Luca Aquino, simbiosi elettroacustiche sul palco virtuale di Roma Jazz Festival 2020

di Alessandro Fadalti

Il grande pregio che emerge dal Roma Jazz Festival 2020 è la volontà di adattarsi al tempo e cercare nuove soluzioni, rimettendo in discussione, citando Philip Auslander e Paul Sanden, il concetto di Liveness. Il 19 novembre si è tenuto un concerto che ha visto esibirsi su un palco fisico, ma virtuale, Mino Cinelu, (storico percussionista dei Weather Report e Miles Davis) accompagnato dal trombettista Luca Aquino. Assistere a un concerto in streaming lascia aperti molti spunti di discussione per i musicofili, ai quali rilancio alcune considerazioni a conclusione della recensione.

SulaMadiana” è il progetto che ha unito l’anima francofona di Mino Cinelu con quella norvegese del, purtroppo assente in questa data, Nils Petter Molvær, che qui a Roma è stata reinterpretata dalla tromba di Luca Aquino. Osservando il puro contenuto musicale vanno premesse alcune considerazioni vista la sua trasmissione in diretta sul web. In primis, i musicisti hanno comunque saputo dimostrare la loro energia e indubbia qualità artistica. Altresì il maggior plauso va ai tecnici che si sono adoperati per offrire la miglior resa audio e video possibile.

Sin dal primo brano “O Xingu” emerge l’importanza del suono acustico ed elettronico con le sue componenti rumoristiche, nell’insieme sono il motore percussivo dei brani. L’estetica di Cinelu si compone in un piano verticale fatto di intricate sovrapposizioni ritmiche e poliritmie, intessute con scioltezza e forte espressività, facendo oscillare il tempo dal frenetico a quello di una nenia; dal solenne al quieto meditativo. L’atmosfera frenetica di alcuni brani come “Indinala” e “Take The A# Train” richiama alle radici caraibiche del musicista, attraverso le multietnicità sonore senza barriere tipiche dell’isola di Martinica. “SulaMadiana”, nella sua rappresentazione dal vivo, cerca di non perdere la resa sonora e lo spirito sensibile che dal disco traspare come un uragano. Non è scontato riportare sul palco alcuni degli artefici elettronici che si innestano di solito tramite la registrazione in studio. Il percussionista si dimostra un’artista al passo coi tempi, l’utilizzo di loop station si articola alla perfezione con la costruzione ritmica, dondolandosi cineticamente tra una pelle del timpano con i Trigger, a un tasto del Launch Pad, per poi passare al Ride e al tasto Play di un Sample su una VST. Cinelu arricchisce questa matassa percussiva con parti canore in ogni brano dal carattere a tratti narrato a tratti simili a un canto mantra. Infine, verso la metà del concerto, si è cimentato prima alla tastiera Nord e poi, in due occasioni, alla chitarra: in un suo arrangiamento molto articolato e particolare della celebre “Summertime” e in “Cold is The Night” tratta dall’album Quest Journey del 2018.

A metà del secondo brano si innalza sullo sfondo un video della vista aerea di Langevåg, luogo d’origine di Nils Petter Molvær, nella zona principale del comune di Sula. Su questa immagine entra in scena il trombettista italiano Luca Aquino. Il suo stile si avvicina molto allo spirito di Petter Molvær e ne è degno interprete. Un potente lirismo alla tromba e flicorno, fatto di frasi in legato ma frammentate da brevi silenzi, dove il protagonista assoluto è il timbro. L’effetto aulico si amplifica e arricchisce il materiale sonoro con la componente elettronica fatta di riverberi, delay e armonizzatori; di grande effetto specialmente nel brano “Kanno Mwen”. I due artisti vanno in simbiosi e respirano in osmosi: al palazzo ritmico di Cinelu si somma il piano orizzontale, uno sviluppo di trama melodica che ben si collega, in un’atmosfera dalle forti tendenze nu-jazz. Anche per Aquino la parte rumoristica la fa da padrona, facendoci udire il rumore del fiato che esce dalla campana, i pistoni premuti e l’attacco della nota sul bocchino.

In generale, una coppia vincente, ma non senza macchia. Aquino con i suoi fraseggi risultava spesso enigmatico e il perpetuo effetto aulico faceva perdere frequentemente la bussola, forse volontariamente, annullando l’efficace periodicità di alcune sublimi frasi. Inoltre, specie nel suo flicorno solo, l’equalizzazione nelle dinamiche forti faceva scaturire una saturazione troppo squillante. Cinelu, invece, in alcuni momenti era un pelo calante di voce e il tocco con le dita sulle corde della chitarra era a volte poco pulito e chiaro; sono state delle cosiddette stecche che ho in verità apprezzato.

La stecca è diventata paradossalmente un pregio, rendendo esplicito come l’esibizione fosse in diretta. In conclusione, cosa rende dal vivo un evento Live? Verrebbe da dire l’hic et nunc, essere in un determinato spazio in un determinato momento. Il parere personale è che finché c’è vitalità si può considerare dal vivo. Lo spazio virtuale è una nuova dimensione da esplorare per tutti noi. Le cuffie durante quel concerto sono diventate un teatro casalingo grazie ad attente scelte di riverberi ed equalizzazione per mano dei tecnici. L’approssimazione alla fedeltà rende affascinante l’impegno, citando testualmente Mino Cinelu a fine concerto: “un’organizzazione della madonna”. Ciò che distoglieva da quella magia “dal vivo” erano i primi piani e campo-contro campo, forse una ripresa statica dalla poltrona avrebbe aumentato l’immersività. Le novità hanno bisogno di nuovi mezzi e nuovi linguaggi per esprimersi. Concerti come questi fanno pensare a una strada chiara nella mente, ma in corso d’opera; al pubblico non resta che pazientare. Il tema scelto dal Roma Jazz Festival 2020 “Jazz for Change”, in tal senso pare azzeccato, visto il cambiamento sociale di usi e costumi che gli artisti promulgano con coraggio, senza volersi fermare nemmeno di fronte all’epidemia.

Alessandro Fadalti

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.

Luca Aquino “Gong”, con le tavole di Paladino e i testi di Terruzzi: RomaJazz rompe il Digiuno da spettacoli dal vivo Imposto dalla pandemia con le dirette dal Parco della Musica

Quando in redazione abbiamo ricevuto il comunicato stampa del RomaJazz Festival, 44a edizione, con l’annuncio che i concerti, per ovvi motivi, si sarebbero tenuti live ma in streaming… beh, devo confessare di aver arricciato il naso!
#jazzforchange è il claim scelto per questa edizione. E il cambiamento è epocale, nel senso che se l’adattamento è la chiave di ogni trasformazione, ecco che il direttore artistico Mario Ciampà deve aver fatto suo il concetto di “ottimismo della volontà” per allestire un intero festival in “virtual mood”, in questi difficili tempi di pandemia.
Devo dire che per una giornalista del mio stampo, un’Artemide sempre a caccia di emozioni vive e costantemente alla ricerca di percorsi sinestetici e di suggestioni, un concerto non in presenza rappresentava una bella incognita… quale sarebbe stato il mio approccio a questa modalità? Forse, l’unico modo sarebbe stato quello di considerare la realtà virtuale come mezzo di comunicazione, un ponte attraverso il quale vivere l’esperienza, focalizzando la mia attenzione sugli stimoli provenienti da questo scenario, semplicemente lasciandomi andare… senza pregiudizio alcuno.
Scorrendo il programma, il concerto che più ha solleticato la mia curiosità è senza dubbio quello del trombettista beneventano Luca Aquino, che il 17 novembre presentava in live streaming HD, in anteprima mondiale, il suo progetto “Gong. Il Suono dell’ultimo Round”, dedicato ai grandi personaggi della boxe mondiale, con il suo trio formato da Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso e un ospite specialissimo: il franco-ivoriano Manu Katchè alla batteria, un’autentica leggenda che annovera tra le sue collaborazioni Jan Garbarek, Joe Satriani, Peter Gabriel, Joni Mitchell, i Pink Floyd, i Dire Straits, Sting, Pino Daniele, Stefano Bollani… e l’elenco potrebbe continuare.
A completare la rosa dei protagonisti di questo spettacolo multimediale, le opere visive inedite di Mimmo Paladino, tra i principali esponenti della Transavanguardia italiana, e i testi di Giorgio Terruzzi, valente giornalista sportivo e scrittore.
Le storie dei boxeur raccontate sono quelle di Primo Carnera, Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson, Nicolino Locche, Carlos Monzon e Mike Tyson.

Il canovaccio dello spettacolo è molto semplice ma di grande impatto e si snoda attorno alle storie, anche personali, di questi miti dello sport. Le musiche originali accompagnano immagini d’epoca dei match più significativi affrontati dai protagonisti, le loro vittorie e le loro pesanti sconfitte, dai primi anni del ‘900 con il gigante di Sequals, Primo Carnera, per arrivare fino ai nostri tempi con il racconto dell’epopea di “Iron” Mike Tyson.
Sul ring virtuale dell’Auditorium Parco della Musica scorrono sul grande schermo le forme stilizzate ed evocative di Paladino, potenti nella loro essenzialità: sfondo blu notte e tratto bianco. È evidente, da parte del Maestro, la ricerca del segno, in un perfetto equilibrio tra significato e significante inserito in un processo digitale di smaterializzazione del ritratto in megapixel… Il Maestro non è nuovo a queste contaminazioni, mi riferisco all’imponente installazione “I Dormienti” composta da cinquanta sculture in terracotta – venti coccodrilli e trenta uomini – collocati nel 1999 nella undercroft della Roundhouse di Londra, con gli interventi musicali (sebbene sia parecchio riduttivo classificarli come “interventi musicali”) di Brian Eno.
Il talento nella scrittura di Giorgio Terruzzi traspare anche in questi racconti di vite da film quasi sempre senza happy ending… La struttura delle storie è reticolare e consequenziale ed ogni parola confluisce verso un apogeo che spesso, per contro, corrisponde alla fase discendente della carriera e della vita di questi grandi uomini.

Primo Carnera

La prima narrazione è dedicata ad uno dei miei conterranei più famosi: Primo Carnera, il colosso dai piedi d’argilla (due metri per 120 kg!) un guerriero leale, un’anima gentile e un uomo di carne e di valori profondamente radicati, che Aquino ha saputo rappresentare in musica attraverso una ballata dall’andamento solenne, che quasi pareva di udire sul palco il passo cadenzato e greve del gigante… La tromba di Luca ha un impatto timbrico onirico, evocativo e lui ha un’abilità pazzesca nel saper “ascoltare” l’ambiente in cui suona, addomesticando riverberi al servizio del suo strumento.
Le tessiture ritmiche di Manu Katchè sono, ad ogni esibizione, una lezione di sagacia tattile mista ad un’incredibile scioltezza nei movimenti e ad un timbro delicato ma incisivo. Il batterista franco-ivoriano accarezza le pelli, sfiora i piatti, il suo drumming è un dono prezioso che lui elargisce sempre in punta di sorriso. Seducente!
Il secondo round dispiega una delle figure più iconiche del ‘900: Muhammad Ali, nato Cassius Clay nel 1942. “I campioni non si costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel profondo: un desiderio, un sogno, una visione”; invero, queste celebri parole del boxeur sono applicabili non solo ai campioni dello sport…

Muhammad Ali

Ali era leggenda, un’icona per i diritti degli afro-americani, un esempio di coraggio contro ogni convenzione, “The Greatest” ricevette persino la medaglia presidenziale della libertà, tra le massime onorificenze negli Stati Uniti. Sul ring sembrava un danzatore, era aggraziato, come il brano che accompagna le immagini d’antan: un pezzo lento con la chitarra di Jasevoli dai toni vagamente arabeggianti e il basso di Ranieri protagonista con una linea originalissima, che riunisce armoniosamente aspetti ritmici e melodici; bello lo slide. Il finale molto free è assolutamente in linea con il personaggio a cui il brano è dedicato!
L’estrosa Cadillac rosa del 5 volte campione del mondo dei pesi piuma Sugar Ray Robinson irrompe idealmente sulla scena. Sugar, quello delle epiche sfide con Jake La Motta (il Toro Scatenato di De Niro nell’omonimo film!) era nato nel 1921, ballava il tip tap nei Teatri di Broadway, suonava la batteria e la tromba nei locali jazz… e tirava in palestra: un tipo decisamente eclettico! La musica che lo descrive è dolce come lui, un dio della grazia, e inizia con bel giro di chitarra Fender intorno alla quale s’inseriscono man mano gli altri strumenti. Katchè fa sentire la sua presenza ma con un’inarrivabile leggiadria, un motore ritmico che gira in perfetta simbiosi con i compagni di palco. I cambi inaspettati di tempo, le sfumature jazz-fusion, un bel solo di basso e un volo di trilli della tromba di Aquino, che nel finale passa al flicorno, rendono l’ascolto di questo brano particolarmente avvincente.
“El intocable” Nicolino Locche, mostro sacro, assieme a Monzon, della noble art in Argentina (ma la famiglia era di origini sarde), era un vero e proprio grillo, maestro della schivata e molto incline alla trasgressione (fumava continuamente, anche un minuto prima di salire sul ring!) Morì a 66 anni – i polmoni… ça va sans dire – con un palmares di 136 incontri, di cui 117 vinti, 5 persi e 14 pareggi. Aquino, in scena da solo, ci mette momentaneamente in knock-down con la sua tromba midi e una loop machine con cui crea un tappeto di suoni sui quali ricama con flicorno, djembè, egg shaker… un’azione sonora totale e un’interazione molto ben calibrata tra acustico ed elettronico.
È di questi giorni la notizia che Mike Tyson torna sul ring il 28 Novembre, a 54 anni e dopo ben 15 anni di inattività; combatterà contro Roy Jones.
Iron Mike si porta dietro la nomea di essere il più pericoloso e violento pugile della storia: un cattivo soggetto, per nascita, ceto, destinazione… tante le sue vittorie ma anche squalifiche, accuse di stupro, carcere, botte, morsi (ricordate l’orecchio di Evander Holyfield che Tyson quasi mozzò, sputandone un pezzo sul tappeto e che gli costò la sospensione della licenza da pugile?), una vera e propria Gigantomachia la sua, un gigante solo contro tutti. L’opinione pubblica contro, pronta a giudicare, ad etichettarlo come un animale, senza chiedersi mai quali demoni interiori abbiano albergato in lui che, al contrario del dàimon socratico, lo hanno fatto sprofondare in una spirale distruttiva. E dopo tre mogli e otto figli (una di essi, Exodus, morta a 4 anni) Mike si rialza un’altra volta, forse dopo aver finalmente imparato il valore di una carezza.
Musicisti ora tutti sul palco per un insieme musicale molto mobile, con cambi di tempo, passaggi di tonalità e stacchi, connotato da una linea di basso molto efficace, dove il chitarrista – davvero bravo – esprime una marcata vena fusion e Katchè ci ricorda ancora una volta quanto sia un fuoriclasse, eseguendo in scioltezza le più articolate figure ritmiche, come nel suo solo dove il piede sulla cassa percuote a una velocità tale da trasformarsi nel becco di un picchio rosso su un tronco d’albero!
Il crescendo finale è corale, sulla scia della chitarra entra il flicorno minimalista di Luca Aquino, totalmente disinteressato ai fraseggi virtuosi ma cercando piuttosto l’essenza del suono. È un jazz palpitante, che scalcia e ripudia stilemi banali e dove un ballabile valzer vira improvvisamente in un incalzante ritmo latineggiante.
A questo punto, un applauso agli ingegneri del suono non è solo doveroso ma ampiamente meritato. Bravi! Ho trovato invece meno azzeccate le scelte della regia video: per l’amor del cielo, si vedeva benissimo, fin nei minimi particolari… ma forse, quello che non ha funzionato, a mio avviso, è proprio questo, i continui cambi di campo delle telecamere, i numerosi primi piani, non mi hanno fatto vivere il live come avrei sperato, ovvero facendomi dimenticare di non essere nella platea del teatro…
Nel corso dei saluti finali, Luca ammette quanto non sia facile suonare senza lasciarsi condizionare da file e file di poltrone vuote, in una dimensione quasi irreale.
Chissà se ciò gli avrà ricordato le atmosfere dello splendido concerto tenuto con il suo trio italiano e la Jordanian National Orchestra a Petra, l’antica città Rosa della Giordania, patrimonio dell’umanità UNESCO e considerata una delle sette meraviglie del mondo moderno; ovviamente quella romana non sarà stata un’esperienza così mistica ma ugualmente  surreale ed intensa.
Chiudo citando quelle che mi sembrano le parole più adatte alle sensazioni provate dopo aver sperimentato anche questa nuova pratica di ascolto, imposta dalla pandemia.
Sono del trombettista statunitense Jon Hassel: “gran parte del mondo percepisce la musica nei termini di un flusso che avanza, basandosi su dove la musica va e cosa viene dopo. C’è però un’altra angolatura: l’ascolto verticale, che consiste nel sentire quel che accade al momento”.
ps: il Digiuno Imposto che ho citato nel titolo di questo articolo è anche quello di un libro di poesie uscito nel 2000 in Germania, per i tipi di Matthes&Seitz Verlag di Monaco di Baviera, illustrato da Mimmo Paladino.

Marina Tuni

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Giorgio Enea Sironi (ufficio stampa dell’Auditorium Parco della Musica di Roma) per la collaborazione e Riccardo Musacchio, Flavio Ianniello e Chiara Pasqualini per le immagini presenti nell’articolo.

Il “Roma Jazz Festival” non si arrende e va in diretta streaming

Il “Roma Jazz Festival” non si arrende al Covid e conferma la sua 44° edizione dal titolo “Jazz for Change” in programma dal 10 al 20 novembre prossimi.


Ideato e organizzato da IMF Foundation in co-produzione con la Fondazione Musica per Roma, ovviamente non vedrà la partecipazione del pubblico ma si svolgerà a porte chiuse nelle sale dell’Auditorium Parco della Musica e verrà trasmesso in diretta streaming HD, grazie all’alleanza strategica con la piattaforma internazionale LIVE NOW.

I concerti potranno essere acquistati singolarmente (al costo di 5,00€) o in formula abbonamento (al costo di 15,00€) direttamente su LIVE NOW https://www.live-now.com/it-it/page/romajazzfestival ma anche su Dice e TicketOne e rimarranno on demand per 24 ore dopo la diretta, prevista per ogni concerto alle 21, ora italiana.
Il programma, in perfetta coerenza con il titolo della manifestazione, tende ad evidenziare come la musica e i musicisti possano rappresentare, specie in questo momento storico, le istanze di un cambiamento civile, sociale ed economico dal momento che, come acutamente osservato da Winton Marsalis, “il jazz è anche un modo di stare nel mondo e un modo di stare con gli altri”. E in un mondo che cambia così rapidamente – e drammaticamente – il jazz può ritagliarsi un suo specifico spazio nella misura in cui, forte della sua natura di musica di trasformazione continua, può essere una fonte di ispirazione: un genere basato sulla cooperazione e sull’armonia ma che, al tempo stesso, insegna il rispetto dei ruoli e lascia libero spazio alle individualità. Di qui l’idea, espressa dal direttore artistico del Festival, Mario Ciampà,  di considerare “Jazz for Change” il primo capitolo di un ciclo tematico triennale dedicato al futuro e all’innovazione.

Ma vediamo adesso più da vicino il programma evidenziando, innanzitutto, come siano stati cancellati i concerti di Don Moye, La Batteria, Ugoless, Francesco Diodati, Daniele di Bonaventura e Marco Bardoscia, oltre al già cancellato concerto dei The Comet is Coming a causa delle precedenti restrizioni del governo britannico.
Apertura sabato 10 con gli Area, storica formazione musicale nata agli inizi degli anni ’70 intorno alla figura di Demetrio Stratos. In programma la presentazione del nuovo album in uscita il 24 ottobre per Warner e registrato durante un live in Giappone.
Il giorno dopo sono di scena il sassofonista sardo Enzo Favata, ben noto agli appassionati di jazz, e il divulgatore scientifico Mario Tozzi. Il concerto si articolerà attraverso le improvvisazioni di Favata sulle tradizioni folkloriche e i grandi temi ecologici sollevati da Tozzi, in un viaggio affascinante che avrà come principale oggetto il Mar Mediterraneo.
Il 12 un duo d’eccezione composto dal pianista inglese Alexander Hawkins e da Hamid Drake, batterista della Louisiana di lunga esperienza. Hawkins, di formazione in parte classica, è maturato sulle note del primo Duke Ellington e Bill Evans mentre Drake è cresciuto ascoltando soul, funk e R&B targato Motown per allargare successivamente i suoi orizzonti sino a comprendere traiettorie e influenze della musica africana nelle sue molteplici complessità.
Il 13 avremo l’opportunità di ascoltare una delle voci più interessanti degli ultimi anni, il portoghese Salvador Sobral che presenterà il suo ultimo album “Paris, Lisboa”. Probabilmente qualcuno fra i lettori ricorderà Sobral per averlo visto vincere l’Eurovision Song Contest 2017 con la canzone “Amar pelos dois”, scritta dalla sorella Luísa Sobral.
E siamo arrivati al 14 quando si esibirà alla testa del Trio Yesun il pianista cubano Roberto Fonseca, dal 2001 membro stabile del Buena Vista Social Club. Anche in questa occasione il concerto è imperniato sulla presentazione di un nuovo lavoro discografico, “Yesun” per l’appunto. Fonseca è un pianista eccezionale le cui performances oramai da tempo raccolgono i consensi unanimi di pubblico e critica.

Il 17 uno degli artisti più amati dal pubblico italiano, Luca Aquino, in un appuntamento di grande interesse: la prima mondiale del concerto multimediale Gong. La musica del trombettista con la partecipazione speciale del percussionista francese Manu Katchè, le opere visive inedite di Mimmo Paladino caposcuola della transavanguardia italiana e i testi di Giorgio Terruzzi, tra le penne più brillanti e note del giornalismo sportivo italiano racconteranno le grandi storie della boxe: da Primo Carnera a Muhammad Ali, passando per Sugar Ray Robinson, Nicolino Loche, Carlos Monzon, fino a Mike Tyson.
Il 19 un altro duo di straordinaria suggestione: il percussionista di origine martinicana Mino Cinelu e il trombettista norvegese Nils Petter Molvær    ambedue artisti che non hanno certo bisogno di ulteriori presentazioni. In cartellone la presentazione del loro ultimo lavoro discografico, “SulaMadiana”. Il titolo dell’album prende il nome da Sula, l’isola al largo della costa occidentale della Norvegia, da cui proviene Molvær, e Madiana, sinonimo di Martinica, da cui proviene il padre di Cinelu.
Chiusura in grande stile il 20 novembre con una delle artiste più acclamate del momento: la cantante e violinista cubana Yilian Canizares con il Trio Resilient. Da anni impegnata sul fronte dei diritti civili e in particolar modo dell’eguaglianza fra i sessi, la Canizares presenterà il suo ultimo album, “Erzulie”, dedicato alla divinità femminile haitiana dell’Amore e della Libertà.  Avendo ascoltato l’album, possiamo affermare senza tema di smentite che sarà una performance memorabile in quanto l’artista riesce fondere le espressioni più autentiche e profonde della musica caraibica da un lato con le atmosfere nordamericane di matrice africana dall’altro, il tutto innervato dagli innumerevoli input provenienti dal jazz, a costituire qualcosa di inedito e affascinante.

Gerlando Gatto