Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Cinzia Gizzi e Noemi Nuti entusiasmano il pubblico: Ripresa alla Casa del Jazz la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz condotta e ideata dal nostro direttore Gerlando Gatto

Dopo un’attesa di circa due mesi e mezzo, la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz, a cura di Gerlando Gatto, è ricominciata alla Casa del Jazz con due valide artiste: la pianista Cinzia Gizzi e l’arpista e vocalist Noemi Nuti.
La prima parte della serata è dedicata appunto a Cinzia Gizzi, la cui intervista inizia con una riflessione sull’assenza del canto jazz nel Festival della Canzone Italiana di Sanremo, conclusosi pochi giorni prima dell’evento: riflessione da cui scaturisce l’amara considerazione di un confinamento del jazz in certe nicchie e ambienti definiti, nonostante  l’attuale tendenza alla contaminazione tra generi.

Parla poi della sua carriera: partendo dal primo incontro con la musica che avvenne per caso durante i suoi studi universitari in una facoltà impostale dalla famiglia . Ma ben presto la musica ebbe la meglio e nell’arco di poco tempo si andò delineando la personalità di una grande artista che  proseguì con il suo rapporto con il piano classico, che lei definisce fondamentale per una buona formazione jazzistica ma non indispensabile. Sulla musica classica tornerà in seguito, esprimendo la sua preferenza, tra i compositori, per Bach, genio capace di donare equilibrio a chi lo ascolta. Enumera quindi alcune delle sue collaborazioni più significative e di alto profilo come Harry “Sweets” Edison, Joe Newman, Sammy Davis e Tony Scott, dei quali ricorda con grande affetto l’aspetto umano oltre a quello artistico. E si arriva così  al 1988, anno della svolta per la sua carriera: sarà infatti quello l’anno in cui vincerà una borsa di studio, grazie ad una sua amica che la convinse a presentare la domanda, che la porterà negli USA, a Berkeley; Cinzia ricorda questi tempi negli Stati Uniti come duri ma molto soddisfacenti. Altri incontri e collaborazioni l’hanno segnata: nello specifico con Chet Baker, Dizzy Gillespie e in particolare Jaki Byard, con cui ha studiato metodologia a seguito di un incontro presso il Mississippi Jazz Club, allora gestito dai fratelli Toth.
Racconta poi del suo ritorno in Italia e della pubblicazione del suo primo disco Trio and Sextet, nel 1991, con la collaborazione di musicisti come Flavio Boltro alla tromba, Piero Odorici al sassofono, Giovanni Tommaso al basso, Gianni Cazzola alla batteria e Mario Migliardi al trombone, e della sua carriera didattica di cui ricorda luci e ombre: tra le prime ricorda la soddisfazione dell’insegnamento, sottolineandone tuttavia la complessità; tra le seconde illustra le difficoltà affrontate a causa di un sistema che imponeva al detentore della cattedra unica l’insegnamento di sette materie in tutto il semestre ed anche del fatto che, in quanto donna, ha dovuto dimostrare più degli altri colleghi maschi. Da questo complessivo bagaglio di esperienze le deriva la forza e la capacità di scrivere due libri dedicati agli “Arrangiatori Jazz”.
Toccando infine gli aspetti più recenti della sua carriera, ricorda il premio alla carriera vinto nel 2017 nell’ambito del Premio Internazionale Profilo Donna, grazie alla segnalazione di Patricia Adkins Chiti, e conclude con una piccola riflessione sulla quasi totale assenza di jazz nella Rai, collegandosi alla prima domanda fatta durante l’incontro da cui si evince, secondo Cinzia, che i giovani d’oggi vengono bombardati da un determinato tipo di musica, mentre dovrebbero avere la possibilità di scegliere la musica che amano e la Rai – servizio pubblico, non dimentichiamolo – dovrebbe dare modo ai suoi ascoltatori, che pagano un canone, di seguire ogni genere musicale.
Come al solito non sono mancati interventi musicali: in questo caso Cinzia è stata accompagnata dal contrabbassista Pietro Ciancaglini e dal batterista Marco Valeri, e insieme hanno suonato I Keep Love in You di Bud Powell, Subconsciously di Lee Collins e Te Vojo Bene Assaje.

Dopo il consueto intervallo di cinque minuti, la serata è ripresa con l’arpista e vocalist Noemi Nuti che purtroppo, a causa di un problema tecnico con l’arpa, si è presentata solo nelle vesti di cantante, accompagnata dall’eccellente pianista Andrew McCormack, compagno non solo sulla scena ma anche nella vita.
La vita di Noemi è caratterizzata da numerosi viaggi e contatti con diverse culture: nasce infatti a New York da famiglia italiana e ci rimane fino agli otto anni; da quel momento si trasferisce in Italia dove passerà la tarda infanzia e l’adolescenza, per poi trasferirsi a Londra, dove tuttora risiede. Già fin dall’età di otto anni Noemi inizia a studiare l’arpa, di cui si è innamorata grazie alla copertina di una rivista che la raffigurava in tutto il suo splendore; comincia quindi con lo studio dell’arpa classica e folk (soprattutto celtica) fino all’ottavo grado, ma grazie al contatto con la musica di Kurt Rosenwinkel ed Ella Fitzgerald decide di passare alla musica jazz: ed è in questo ambito che nel 2012 si diplomerà al Trinity College di Londra, studiando con insegnanti del calibro di Anita Waddell, John Hendrix e Sammie Purcell.
Nella sua musica risulta evidente un vivo interesse per la musica brasiliana, soprattutto per l’unione, da lei illustrata, tra ricchi ritmi e melodie leggere, semplici solo all’apparenza ma che in realtà nascondono una complessità disarmante: questa passione la porterà a formare una band di samba che arriverà fino al celeberrimo Carnevale di Rio de Janeiro. A proposito del Brasile, Noemi lo descrive come un posto molto particolare: un luogo isolato e un porto allo stesso tempo, contemporaneamente un melting pot e un luogo legato alla propria cultura.
Un altro luogo di cui parla con molto affetto è la sua residenza attuale, ovvero Londra: facendo un paragone tra la scena musicale londinese e quella italiana Noemi nota un attaccamento al passato e alle tradizioni molto più presente in Italia che nel Regno Unito dove, al contrario, osserva una maggiore apertura all’innovazione e attenzione da parte del governo nei confronti delle arti. Sempre a proposito del jazz inglese, descrive l’influenza subita dalla musica sudafricana e le differenze dei ritmi afro-jazz presenti nelle varie regioni del mondo: da una chiacchierata con il pianista panamense Danilo Pérez nasce una maggiore attenzione alle casse e ai bassi nelle regioni del Sud America, mentre, al contrario, una predilezione nei confronti dei piatti e delle frequenze alte nel Regno Unito; a questo proposito ha citato la cantante britannica Norma Winstone e come un suo brano, Azimuth, sia tornato alla ribalta grazie ai celebri rapper Drake e Yeat e ai produttori Bnyx e Sebastian Shah, che l’hanno campionata nel loro  IDGAF, uscito nello scorso ottobre. Conclude infine il suo intervento con un ulteriore elogio nei confronti di Londra, ovvero di come la scena inglese permetta un’ottima formazione a livello professionale e di affrontare a ogni sorta di pubblico e ambiente.
I brani proposti con il pianista Andrew McCormack sono stati “For What I See,” composizione originale di Noemi contenuta nel suo disco ‘Venus Eye’ uscito nel 2020 e ispirata da “Treme Terra” di Flora Purim e Airto Moreira con Joe Farrell (il disco si chiama “Three-Way Mirror”). A questa prima, trascinante esibizione hanno fatto seguito “Disfarça e Chora” di Cartola e “I Can’t Believe You’re In Love With Me” di Jimmy McHugh, interpretato anche da Billie Holiday.
In quanto a pubblico la serata è stata un successo, facendo registrare non solo un numero di spettatori tale da riempire quasi l’intera sala ma anche un entusiasmo e un gradimento che chi vi scrive non può che condividere.

Il prossimo appuntamento è in programma martedì 20 Febbraio alle 21 con Susanna Stivali e Chiara Viola. Clicca qui per info&tickets

Beniamino Gatto

Parrhesiastes di John Zorn – Una landa franca di musiche in comunione

Una parola nuova al giorno è una di quelle tendenze che ci fa sentire più acculturati per qualche ora con delle spicce informazioni su termini spesso desueti, dimenticandoli perché mal s’incastrano alla nostra piccola isola sociale di quotidianità. Con un magheggio metalinguistico questo incipit diventa un’antipatica parresia sui tempi moderni e sul linguaggio. Ecco la parola del giorno: parresia, ossia un’attività verbale in cui il parlante esprime la verità in modo diretto, evitando qualsiasi tipo di tecnicismo retorico ma esponendosi al rischio nelle relazioni con se stesso e gli altri attraverso la critica. Questa definizione in linea coi nostri tempi ci viene regalata dalle lezioni del filosofo Michel Foucault, ma nasce dalla democrazia ateniese e in particolare nelle parole di Socrate che esaltava la parresia come una questione di vita o di morte nella lotta politica agli autoritarismi. Si sente la mancanza della parresia nella contemporaneità se pensiamo a quanto il linguaggio con cui cerchiamo di porre delle verità sia disunito e infettato dal confusionario rumore bianco della retorica dei social, dove il dialogo è una tarantella di parole persuasive e visioni distorte ed egocentriche della realtà.

Le arti fanno da specchio e antitesi a questi dilemmi sociali e nella ricerca di un crogiolo linguistico che ci accomuni è difficile non imbattersi nella figura di John Zorn.
Personaggio a cui assocerei molti poli, come polistrumentista, poliglotta, poliedrico assieme a neologismi sgangherati come policompositore, polifilosofo e poliletterato. Da quasi un decennio ha scelto di darsi anima e corpo unicamente alla composizione per svariate formazioni, assumendo il ruolo di prestigiatore che sfila dal cilindro annualmente dai tre ai quattro album pregni di quel senso di sinergia consonante tra emisferi sonori underground e l’avant-garde. La recente uscita di Parrhesiastes, per l’etichetta Tzadik fondata dallo stesso compositore nel 1995, testimonia come all’età di settant’anni la giocosità creativa di Zorn sembra fossilizzata sul rigiocare la stessa partita di Burraco, tuttavia non manca lo stupore che sa donare il rimescolamento delle carte in tavola e soprattutto la compagnia con cui si gioca è ciò che rende ogni mano una storia a sé stante. Affida questo disco alla formazione Chaos Magick, eseguendo una sorta di rituale alchemico per evocare una chimera stabile tra prog e jazz con alcuni innesti sperimentali. Un’avventura mistica con il quartetto che comincia nel 2021 con l’omonimo album Chaos Magick, proseguendo con The Ninth Circle (2021), in cui viene ripreso il viaggio agli inferi di Orfeo scritto da Offenbach, Multiplicities: A Repository Of Non-Existent Objects (2022) ispirato ai pensieri aforistici del filosofo Gilles Deleuze e infine 444 (2023), dedicato alla numerologia degli angeli. Un piano astrale che ci fa immergere in suggestioni sonore, esoteriche e filosofiche assemblate sapientemente da Zorn, che nell’ultimo album si fa più esasperato in questo apice di commistioni, mantenendo però la raffinata pragmaticità e franchezza di un parresiastes. La tracklist è un alambicco articolato in tre lunghe session che si distillano in una boccetta dall’acustica inebriante nel cui fluido vengono digerite e ridigerite le sonorità caratterizzanti dei generi amati da Zorn tra gli anni ’70 e ’80. Leggendo i titoli viene lo spauracchio che i riferimenti extramusicali ci richiedano una laurea triennale in filosofia o sociologia per essere captati. Proviamo però ad affidarci alla parresia di Zorn ed entriamo nella sua ottica di comunione linguistica senza arrovellarci alla ricerca di un ateneo a cui iscriversi.

Le coordinate celesti gettate da Zorn ci orientano nell’ascolto su un sentiero boschivo, incappando in strani solchi sul terreno… sono le orme di Hermes, messaggero degli Dei e custode della parola superiore. In The Footsteps of Hermes, possiamo seguire le impronte della divinità greca che si manifesta sotto forma di una permutazione di generi scandita passo dopo passo, minuto dopo minuto. Ogni strumento ricopre un ruolo a sé stante che si regge all’inizio in una staffetta sulla sottile soglia tra il progressive rock e il math rock; rispettivamente attraverso l’organo di John Medeski e il Fender Rhodes di Brian Marsella che cedono la parola alla chitarra di Matt Hollenberg. Quest’ultima cambia con prepotenza l’atmosfera portandoci a un focoso scontro tra solisti che assomiglia ad un match mai esistito tra Jon Lord vs. Chick Corea su un ring da boxe, muniti di tastiere al posto dei guantoni. Il groove hard rock della batteria di Kenny Grohowski sostiene questa sezione incalzante interrompendosi su brevi rullate che lasciano spazio a un intermezzo di stampo ambient ricolmo di silenzi, presto spezzato dagli inaspettati accordi metal della chitarra elettrica. In questa traccia permane con forza l’idea di perenne collisione tra le identità degli strumenti, che sgomitano alla ricerca una sintesi tra le loro individualità attraverso riferimenti stilistici elegantemente riconoscibili. Meglio apprezzare la seconda metà del brano cullati dalla sorpresa di questi interventi, piuttosto che restituirne un decalogo da telecronista. Chi segue i passi di Hermes segue l’esoterismo e la conoscenza. Questa figura per il filosofo spagnolo Luis Garagalza diventa il risolutore del problema dell’interpretazione dei linguaggi, unendo i due opposti della filosofia ermeneutica di Heidegger e Gadamer con la visione psico-antropologica di Jung che vede nel simbolismo il centro dell’esperienza umana. Traslitterando il tutto alla traccia di Zorn, seguire le orme di Hermes diventa il ponte di una schietta mediazione tra i variopinti idiomi.

The Evental Devalorization of the Perhaps cita uno scritto del filosofo Quentin Meillassoux che invoca il tema filosofico del rapporto tra eventi e caso, attraverso il pensiero di Alain Badiou che rilegge la poesia di Mallarmè Un coup de dés jamais n’abolira le hazard (Un colpo di dado non abolirà il caso). Nella poesia il fato viene raffigurato dalla morte del navigante naufragato mentre stringe tra i palmi i dadi della sorte, neanche la verità del risultato del lancio avrebbe evitato il finale nefasto. La forza costituente del brano è un mulinello di improvvisazione e noise, ma il dualismo asintotico tra verità e casualità viene richiamato nell’alternanza del generale clima incerto e onirico iniziale con gli episodi dai limpidi margini funk, blues ed acid, trovando una illusoria coesione solo per un fragile istante verso la metà. Se nel primo brano l’avvicendarsi tra le identità strumentali era una bussola della verità, qui galleggiamo sul pelo del caos, dove il preudire, nota dopo nota, diventa vano. Sorge però un problema, perché il PEUT-ÊTRE – Perhaps – dovrebbe essere il culmine inciso a lettere capitali nell’ultima pagina della poesia, una parola che mette il punto su quanto il caso sia prevaricante sugli eventi; eppure la metafora viene smorzata da un evento: l’apparizione dell’orsa maggiore, la stella polare, la salvezza oggettiva che il marinaio ha mancato e che ormai giace sul fondo assieme a lui. Una verità evenemenziale che toglie valore a quel “forse” su cui il poeta ci lascia appesi e che in Zorn corrisponde al continuo richiamo di musiche affini a cui affidarci e aggrapparci per non annegare fatalmente. La poesia visuale di Mallarmé appaia il tema della discontinuità dell’esistenza e dell’effimerità del linguaggio con un’impaginazione tipografica di parole in un fluire ondulatorio dall’alto al basso della pagina, riempiendo la carta di vuoti bianchi incisivi quanto le pause musicali nel brano. La diatriba tra il vero e il caso non trova purtroppo risoluzione nel linguaggio, un dilemma che viene marcato da un gigantesco punto di domanda acustico, la cui arcata scivolante è l’arpeggio di note evanescenti del Rhodes e il punto è l’incisivo accordo dell’organo che sfuma in un silenzio tombale.

La discrepanza tra le orme nella selva di Hermes e il galleggiare nel mare simbolista di Mallarmé genera un magnetismo che apparentemente annulla la ricerca coesiva di un crogiolo linguistico. L’indagine musicale trova però un finale di coesistenza, nell’ultimo brano Form, Object, and Desire, dove ci pensa Lacan a psicanalizzare i Chaos Magick e il loro garbuglio. La seduta comincia con una musica schizofrenica formata da attriti roventi in un susseguirsi turbolento. Una sinossi sonora dei due brani precedenti, ma in un procedimento che diventa via via più formale. Lacan è colui che assurge a demiurgo di un universo sonoro sgomitolato finalmente dal suo nevrotico intricarsi perpetuo, e così i musicisti riescono ad esprimere con lucidità le proprie inclinazioni individuali in quanto, per verbo dello psicanalista, giungono ad un epifania: il desiderio dell’oggetto non è mai indirizzato all’oggetto del desiderio. Anche se ottenuto, permane un senso di assenza e allora questa pulsione si proietta verso un nuovo oggetto e così via. La verità è che non sappiamo quello che vogliamo e non lo avremo mai, perché non è nella forma di un oggetto palpabile con i nostri sensi e quindi ogni volta che desideriamo qualcosa riceviamo una spinta che ci indirizza nel profondo della nostra interiorità, dove ci attende un oggetto che non è materiale ma esiste solo in quanto relazione tra l’umano e il linguaggio. Proprio questa visione scioglie la matassa dell’album. La parresia diventa sostanza nell’equilibrato rapporto che si crea tra le anime musicali vestite da improvvisatori che cooperano nella ricerca dell’objet petit a lacaniano. Questo, si manifesta in un brano tra il rock sofisticato e metal del chitarrismo di Hollenberg, il fraseggio bebop del piano di Marsella con ombreggiature da Cecil Taylor, il ritmo serrato da brutal prog della batteria di Grohowski, strabordando talvolta in comping degni di De Jonhette, e l’organo dal volto funk, soul e blues di Medeski. Le ultime note ripropongono un residuo di commistioni tra musica d’ascensore e innesti feroci che collimano in una tanto agognata conclusione definitiva e cadenzale.
Questa è forse la franca summa del pensiero di Zorn: una landa musicale in cui le influenze diventano comunione linguistica, accettando di affrontare assieme il caos in cui si riversa per scegliere un futuro migliore dove anche il più sognante lieto fine diventa parresia.

Alessandro Fadalti ©

Danilo Rea – La Grande Opera in Jazz: il progetto perfetto del “jazzista imperfetto”

A maggio di quest’anno ho avuto l’onore di intervistare il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, esibitosi al Festival dell’Acqua di Staranzano (Go). In quell’occasione, durante la cena prima del concerto, ebbi modo di dialogare a lungo con Danilo e tra le cose che mi disse mi raccontò del progetto che aveva presentato in anteprima mondiale al Teatro Antico di Taormina: “La Grande Opera in Jazz”; Danilo ne parlò in termini così appassionati che, una volta giunta a casa, andai a cercare immagini e notizie del progetto innamorandomene all’istante!
Nei giorni scorsi, di ritorno da Roma, scopro che il progetto è nel cartellone musicale, curato da Simone D’Eusanio, del Teatro Comunale “Marlena Bonezzi” della mia città, il 1° dicembre. Potevo perderlo? Naturalmente no! Cercherò quindi di contagiarvi emotivamente, sperando di riuscire a condividere l’emozione che io ho provato in modo diretto in una forma istintuale di empatia «scintilla che fa scaturire l’interesse umano per gli altri», sentenziava lo psicologo Martin Hoffman, generata dalle mie parole.
Credo non sia necessario dirvi chi è Danilo Rea, pianista romano, maestro dell’improvvisazione, tra i maggiori esponenti del jazz italiano e internazionale, dotato di una straordinaria padronanza della tecnica e dell’armonia del pianoforte classico e jazz; se volete saperne di più vi rimando all’intervista sopra accennata (http://www.online-jazz.net/?s=danilo+rea ).

Danilo non è nuovo ad esperimenti di contaminazione con le arie d’opera, vedi “Lirico” (Egea Records, 2003), del resto stiamo parlando di un artista mai domo, capace di abbattere recinzioni e confini tra generi musicali per creare qualcosa di unico, congiungendo mondi all’apparenza lontani.
Ed unico è stato anche il concerto monfalconese: unico e probabilmente irripetibile, visto che Danilo, improvvisatore totale, inserisce in ogni sua performance citazioni sempre diverse, seguendo ispirazioni hic et nunc, dove nulla è preventivamente programmato, dove il suo estro creativo e la sua profonda conoscenza musicale gli consentono di vagabondare seguendo un corpus narrativo nel quale trovano spazio il jazz, la musica d’autore italiana e internazionale e, come in questo caso, le arie d’opera.
Unico dogma imprescindibile è il rispetto che Danilo ha nei confronti della melodia, che egli forgia aprendo inedite prospettive di ascolto.
Quindi, non chiedetegli mai una scaletta perché lui odia averne, Danilo è uno che ama inventare storie sempre nuove, uno che traduce in musica il suo lessico emotivo condividendolo generosamente con il suo pubblico.
Ritornando alla Grande Opera In Jazz, sul palco del Comunale, dove fa bella mostra di sé un meraviglioso gran coda Fazioli, si alternano note, voci e immagini che raccontano la storia del melodramma italiano. È Danilo stesso ad azionare un dispositivo che fa partire, sullo schermo alle sue spalle, il materiale visivo e sonoro; al di là del certosino lavoro di ricerca delle incisioni originali d’epoca, con le voci ripulite dalla parte strumentale, una citazione speciale va alla pittrice Rossella Fumasoni, che firma delicati e coloratissimi dipinti di volti e di corpi dove danzano, in movimenti evocativi di leggerezza e sospensione, petali, rose, farfalle, foglie, colibrì, di grande fascino.
Non si percepisce alcun distacco spazio-temporale tra le voci dei grandi cantanti lirici del passato e il pianoforte di Danilo Rea, che duetta con estrema naturalezza con Maria Callas (inarrivabili le sue interpretazioni di Casta Diva, la cavatina dalla Norma, preghiera elevata alla luna…) con Elisabeth Schwarzkopf (soprano tedesco dotata di una timbrica cristallina e di un’innata eleganza espressiva) con i grandi Mario Del Monaco, Enrico Caruso, Tito Schipa, Beniamino Gigli, Giacomo Lauri-Volpi e ancora con Maria Caniglia, Amelita Galli-Curci, Nazzareno De Angelis… nelle arie delle Opere più conosciute: Norma, Turandot, Traviata, L’Elisir d’Amore, Cavalleria Rusticana, Madama Butterfly, Tosca.

Ciò che stupisce maggiormente è il modo in cui Danilo riesce a raccordare, con una semplicità che disarma chi lo ascolta, i temi principali delle arie ad infinite citazioni… ed ecco, ad esempio, che Lucevan  le stelle si trasforma in Les Feuilles Mortes e questa è solo una delle interazioni che il pianista romano crea nel corso dello spettacolo, così tante che è impossibile ricordarle tutte… cito My Favorite Things di Coltrane, la Barcarola di Offenbach, Bésame Mucho della Velázquez Torres e America di Leonard Bernstein con Libiamo ne’ lieti calici dalla Traviata di Verdi e poi le dolcissime Over the Rainbow che si mescola con Maria di Bernstein.
Il pianismo di Danilo è fluido e circolare – e talvolta lo sono anche i suoi movimenti mentre suona, quando le sue braccia disegnano orbite e le sue mani traiettorie imprevedibili – ed egli s’impossessa di ogni spazio abitabile del suo strumento, intercettando ogni minima sfumatura che un suono può contenere. Ed è così che in una fredda sera d’inizio dicembre, rapita da cotanta bellezza, dalla voce di Enrico Caruso e dalle architetture improvvisative di questo “jazzista imperfetto”, che trascendono qualsivoglia teoria musicale, negli occhi miei spuntò Una Furtiva Lagrima, mentre sullo schermo scorrono le immagini di una ballerina en pointe che danza con grazia, di vortici di foglie che si lasciano trasportare dal vento verso l’inesorabilità del loro destino autunnale, di due innamorati che si tengono per mano, scambiandosi tenerezze al crepuscolo. Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Danilo Rea – ph Luigi Ceccon

A completare il repertorio proposto nel corso della serata, oltre alla già citata Callas, Rea accompagna Mario Del Monaco in Nessun dorma, la Schwarzkopf in Addio al passato e in O mio babbino caro, l’Ave Maria cantata da Tito Schipa e poi Amelita Galli-Curci in Un bel dì vedremo dalla Madama Butterfly di Puccini, Giacomo Lauri Volpi in Di quella pira (con immagini di streghe al rogo…), Beniamino Gigli in E lucevan le stelle, e Nazzareno De Angelis in Dal tuo stellato soglio dal Mosè in Egitto di Rossini (sullo schermo appare anche il maestoso e furioso Mosè michelangiolesco che, come vorrebbe la leggenda, pare sia stato preso a martellate dallo stesso – altrettanto irascibile – scultore, piccato per non aver ricevuto risposta alla sua domanda «Perché non parli?», per quanto gli sembrava vivo e perfetto!).
In conclusione di serata, ritroviamo ancora Enrico Caruso in Tu ca nun chiagne e ‘O sole mio, brano che Rea interpreta magistralmente con passione ed enfasi, accennando nel finale alcune note di Nessun dorma. Splendide le immagini d’epoca di Napoli e New York, le città di Caruso e comunque curata nel dettaglio tutta la narrazione grafica e visual, compresi i suggestivi scorci di Roma, la città di Danilo.
Se pensate che il pubblico monfalconese lo abbia lasciato andar via dopo la superba esecuzione di ‘O Sole mio vi sbagliate di grosso.
Una selva di applausi ha convinto il nostro musicista a sedersi nuovamente al piano per regalarci ancora qualche scampolo della sua visione musicale, fatta di scomposizioni e ricomposizioni, di arrangiamenti e riarrangiamenti, di modellamenti e rimodellamenti, di demolizioni e ricostruzioni à sa manière, che ci hanno restituito un medley di brani di De André (La canzone dell’amore perduto e La Canzone di Marinella), di Tenco (Un giorno dopo l’altro), del suo sodale e compagno di tante avventure Gino Paoli (Sapore di Sale) e di Bindi (Il nostro concerto), in una concatenazione di sbalorditive improvvisazioni, a cavallo tra virtuosismo e lirismo, che gli hanno fatto meritatamente guadagnare l’appellativo di “grande poeta” tra i musicisti di jazz, oltre ad essere spesso accostato all’immenso Keith Jarrett… e scusate se è poco!

Marina Tuni ©

A Proposito di Jazz ringrazia l’Ufficio Teatro del Comune di Monfalcone e la fotografa Katia Bonaventura per le immagini

Casa del Jazz: grande successo per l’eroina dell’improvvisazione: Marilena Paradisi / Convince l’eclettismo di Erika Petti

Il penultimo appuntamento della serie “L’altra metà del Jazz” si è tenuto lunedì 20 novembre in concomitanza con la partita di qualificazioni della Nazionale contro l’Ucraina, evento che però non ha impedito alla sala di gremirsi di interessati e attenti spettatori.
Calcisticamente parlando, il primo tempo della serata ha visto protagonista la cantante Marilena Paradisi, accompagnata dal pianista cosentino Carlo Manna, di cui non ha mancato più volte (a ragione! N.d.A) di tessere le lodi.
Analizzando le ospiti di questi incontri, Marilena può essere considerata una figura atipica sotto alcuni aspetti: innanzitutto la sua formazione di musicista jazz, avvenuta più tardi rispetto a molte altre artiste, dal momento che lei aveva intrapreso la carriera di ballerina di danza contemporanea; poi, a seguito di un viaggio a New York e all’ascolto di numerosi dischi di musica jazz, primo tra tutti Ballads di John Coltrane, arriva il colpo di fulmine e l’innamoramento verso questo genere. Una volta rientrata a Roma, prende per cinque anni lezioni di canto dalla cantante lirica Fausta Coppetti Corti: «l’unica capace di tirarmi fuori la voce!» – dichiara Marilena.
Altro aspetto di discontinuità rispetto alle ospiti precedenti è l’aver preferito iniziare la serata cantando e non già rispondendo alle domande di Gatto, perché cantare, dice, le dà energia, quell’energia creativa che in qualche modo temeva di disperdere se prima avesse dovuto parlare.
La serata, dopo i saluti del direttore della Casa del Jazz, Luciano Linzi e l’introduzione di Gerlando Gatto, inizia con la Paradisi, accompagnata al piano dall’ottimo Carlo Manna (una vera scoperta!), che intona la dolcissima ballad di McCoy Tyner You Taught My Heart to Sing declinata in riverberi di scat e vocalese.
C’è da dire che, al di là di questo inizio classico, la principale cifra stilistica della Paradisi è l’aver improntato gran parte della sua opera musicale sulla sperimentazione e sulla pura improvvisazione; in particolare Marilena ha raccontato della sua esperienza con la soprano nipponica (dalla timbrica eccezionale) Michiko Hirayama, icona del canto contemporaneo (nota anche per il suo stretto legame artistico con Giacinto Scelsi) e della registrazione congiunta del disco Prelude for Voice and Silence (2011): quasi un’ora di pura improvvisazione vocale e di geniali “silenzi sonori”,  in cui, dato curioso, la Hirayama, alora ottantottenne, avrebbe dovuto partecipare solo a due tracce delle 34 registrate e delle 22 selezionate mentre in realtà è presente in otto.
Alla domanda del critico su quali siano stati i suoi riferimenti jazzistici, Paradisi non ha esitazione alcuna ad indicare Chet Baker, nella sua veste di cantante e non solo come trombettista, che collega ad Hellen Merril, due voci bianche caratterizzate dallo stesso minimalismo vocale. Di Chet, Marilena dice: «suona la voce come la tromba…».
La cantante ha poi illustrato la registrazione del disco The Cave (2013), realizzato in collaborazione con il percussionista Ivan Macera. Registrato all’interno del Teatro Il Cantiere di Roma, il disco è ispirato ad un articolo del musicologo Iégor Reznikoff che disquisiva sulla correlazione tra le pitture rupestri presenti nelle caverne preistoriche e la risonanza sonora; l’intenzione dell’album è appunto quella di trasportare l’ascoltatore in un’immaginaria caverna paleolitica dove ogni suono viene microfonato e amplificato. Un accenno anche al suo disco di improvvisazione testuale inciso con la  pianista Stefania Tallini (peraltro ospite della prossima e ultima serata di mercoledì 29 novembre, N.d.A. – info qui). Paradisi spiega che improvvisare parole è un esercizio di “scavo” e definisce il suo metodo come piccoli momenti poetici, assimilabili a haiku giapponesi.
Infine, ricorda con particolare affetto la sua collaborazione con Eliot Zigmund, batterista di Bill Evans, nata da una mail mandata da Marilena al musicista americano, dalla quale la vocalist non si sarebbe mai aspettata una risposta, tantomeno positiva,  e da cui, dopo un lavoro di organizzazione da parte della cantante durato circa quattro mesi, ha avuto origine il disco I’ll Never Be The Same (2002): di Zigmund ricorda soprattutto la generosità e il rispetto per le tradizioni che il batterista le ha saputo tramandare.
Dopo la citata You Taught my Heart to Sing, Marilena Paradisi è passata a Passion Dance sempre di Tyner e ad una stupefacente versione di Lawns – un omaggio alla grande Carla Bley – venuta a mancare recentemente – in una versione con l’arrangiamento vocale composto dalla stessa Paradisi, per finire con Would You Believe di Cy Coleman, brano reso famoso da Carmen McRae.

Nel secondo tempo della bella serata, al contrario degli attaccanti azzurri, la cantante e chitarrista molisana Erika Petti non ha mancato l’occasione avuta per presentarsi! L’intervista inizia parlando della sua formazione musicale e del fatto di essere cresciuta in una famiglia di musicisti: il padre è un trombettista, il fratello un fisarmonicista e la sorella pianista. Erika studia chitarra classica al conservatorio ma in realtà,  per un periodo, la sua carriera musicale passa in secondo piano in favore dei suoi studi universitari e della sua laurea in lettere: la Petti ci confessa infatti che se non avesse scelto la musica probabilmente avrebbe studiato filologia medioevale. Così non è andata, per nostra fortuna, ed Erika intraprende un percorso di studi biennale con la cantante e didatta di grande valore Carla Marcotulli.

In merito alla sua musica, descrive il suo genere come un jazz contaminato da influenze derivanti da vari stilemi come il pop, la bossa nova, il samba e la canzone italiana, primo tra tutti Pino Daniele, del quale la musicista apprezza la vis compositiva in primis e le lunghe linee melodiche. A onor del vero, Erika cita tra i suoi riferimenti musicali, come esempi di contaminazione, anche gli Earth, Wind&Fire… e come darle torto?  Queste caratteristiche appaiono evidenti nel suo album Sophisticated uscito proprio in questi giorni, un omaggio a grandi compositori quali Duke Ellington, Michel Legrand e Burt Bacharach, scomparso a febbraio di quest’anno. Parlando di queste commistioni, Erika enuncia quello che inconsapevolmente è diventato il filo rosso che collega tutte le musiciste invitate a queste serate, ovvero un unico tipo di distinzione tra buona e scarsa musica, senza discriminazione tra generi.
Inoltre, parlando dell’annoso tema delle difficoltà incontrate da una jazzista donna in un ambiente prevalentemente maschile, Erika racconta di aver incontrato alcuni ostacoli: tra questi l’impossibilità di suonare nella banda del suo paese natale in quanto donna, la sorpresa, da parte di alcuni, nel notare che la persona dietro ad un’abile esecuzione sia una donna e il fatto che in certi ambienti si sia ritrovata a dover citare uomini per qualificare un determinato ambiente di provenienza. E su questo postulato, la vostra redattrice rabbrividisce sdegnata… perché anche basta!
Infine, alla domanda postale da Gatto sullo stato della musica pop attuale in Italia, lei risponde invitando il pubblico a riflettere su come l’industria discografica possa influire pesantemente, per mere esigenze del mercato musicale, a conformare l’opera dei musicisti, a volte stravolgendola per adeguarla senza remore ai trend del momento…
I brani eseguiti dalla Petti, sono stati: Close To You di Bacharach in versione chitarra e voce e, nel celeberrimo riff finale, cantata anche dal pubblico in sala, e due pezzi di sua composizione, suonati insieme al pianista Pietro Caroleo: Amar y Vivir, con testo del poeta e cantante venezuelano José Carlos Morgana (accompagnandosi anche alla chitarra) ed E Tornerai, stavolta solo piano e voce.

Marina Tuni

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

IL FALSETTO, DAL CANTO PRIMITIVO AL JAZZ

Il falsetto nelle etno-musiche
Rock o barocco? Gospel o nenia hawaiana?  E le musiche primitive dove le mettiamo in tema di falsetto? Alan Lomax ricorda, a proposito di voce umana, che ”in tutte le età dell’uomo, nel peregrinare attraverso il pianeta, nei vari stili di vita, età, avventure, ogni adattamento ha trovato eco nel guscio di conchiglia dello stile canoro” (Cantometrics, Univ. California, 1978). Ancor prima Roberto Leydi aveva specificato che “la musica africana è forse la più varia, la più ricca, la più imprevedibile del mondo. Il cantante (…) sa usare la sua voce in ogni timbro e in ogni possibilità espressiva; sa passare dai toni più gravi al falsetto” (Musica popolare e musica primitiva, ERI, 1959). Dal “canto” suo Curt Sachs ha descritto i Maori in Nuova Zelanda che “eseguono i canti di guerra rapidamente, in un falsetto sferzante, microtonico, che sembra quasi un pigolio eccitato” (Le sorgenti della musica, Bollati Boringhieri, 1962). E tracce di falsetto sono state rilevate presso i nativi americani e in altri contesti, ad esempio fra le genti del Caucaso così come nel teatro tradizionale cinese.

Questa tecnica vocale , oltre al canto in senso stretto, può investire il linguaggio in senso lato. Dal racconto di André Schaeffner: “trovandoci per la prima volta in Africa, in Camerun, i miei compagni di missione ed io fummo ricevuti da uno di quei piccoli sovrani negri che spesso non sono altro che la triste caricatura dei grandi imperatori africani dei secoli passati. Il principe si rivolse a noi con una strana voce in falsetto che ci fece pensare si trattasse di un evirato. In seguito avemmo la sorpresa di udirlo rivolgersi agli uomini del suo seguito con voce assolutamente normale. Egli ricorreva alla voce in falsetto soltanto nell’esercizio solenne delle sue funzioni regali” (cit., La musica africana dal deserto all’equatore, RaiTv, 1955). In La musica entre los pueblos primitivos, saggio tradotto apparso nel “Boletin Latino-americano de musica” a Montevideo nel 1941, il compositore Henry Cowell intravedeva l’importanza sociale della musica per l’uomo primitivo che “impara a interpretarla seriamente, come una necessità di vita”.  Schaeffner, pioniere della critica jazz francese con Goffin e Panassié (cfr. L. Cugny, Di una ricezione del jazz in Francia, HAL Open Science, Rivista di studi sul Jazz e sulle Musiche Audiotattili, 2019) esplicita con vari esempi il contrasto fra voce naturale ed artificiosa, fra parlato profano e parlata rituale, quest’ultima legata ad una specifica funzione sociale e politica.
Allargando lo spettro visuale, sono vari i casi possibili nel campo delle musiche popolari, dallo yodel alpino al country yodel del West America, dallo huapango dei mariachi messicani e dei gruppi tipici huastechi centroamericani interpreti di petenera (sottogenere del flamenco) agli holler afroamericani, dalle musiche vocali di alcune tribù pigmoidi fino ai “canti a distesa” del giuglianese.
Per restare all’Italia, Giovanna Marini accenna a varianti vocali non “naturali” nella musica contadina in cui “la voce si permette degli spessori timbrici delle note roche di corda che nessuna voce impostata classicamente farebbe“ (Improvvisazione ed uso della voce, “I Giorni Cantati”, 2/3, 1981).  Dopo la doverosa premessa antropomusicale su una tale “tecnica di canto che, sfruttando un naturale fenomeno di impiego parziale delle corde vocali, consente la produzione di suoni più alti rispetto all’estensione naturale del soggetto cantante in voce piena” (Della Seta, Breve Lessico Musicale, Carocci, 2009) eccoci a tratteggiare, del falsetto maschile, un sintetico resoconto storico, non tecnico, che prende le mosse dalla nascita del melodramma dischiudendo l’excursus a più aree musicali.

Tra Farinelli e Moreschi
Nel cinquecento la terra è più ricca di un continente, l’America. Intanto, al di qua del Nuovo Mondo, in Europa, lettere scienze ed arti registrano uno sviluppo tumultuoso. Nell’Italia del Rinascimento anche la musica fiorisce rigogliosa. Poi, nel Seicento, la monodia accompagnata subentra alla polifonia con la trasformazione di assetto della musica vocale da cui ha origine il melodramma. A Firenze, nell’erudita Camerata de’ Bardi, figura fra i propugnatori del “recitar cantando” Giulio Caccini, convinto che il linguaggio musicale debba constare di “favella, ritmo, suono”. Il valente musicista è contrario al falsettismo, cioè a quel tipo di canto artatamente mutato in timbro e altezza. Le voci “artificiali” di soprano o contralto intonate dai falsettisti sono da lui ritenute stridule. Nelle sue prefazioni “’l’intonazione delle parole era discussa nella relazione del loro contenuto” (A. Della Corte, La critica musicale e i critici, Utet, 1961) nel presupposto che “la grazia del cantare sia parte proveniente dalla natura e non dall’arte” (V. Giustiniani, Discorso sopra la musica, 1628). Va da sé che “nell’opera italiana il canto delle arie era un compito da musicisti virtuosi; ad esempio i famosi castrati, la cui carriera era lanciata da particolari arie che ne costituivano l’epitome” (R. Strohm, Aria e recitativo. Dalle origini all’Ottocento, Enc. Musica Einaudi/Il Sole 24 Ore, 2006, I).  Nello Stato pontificio, la proibizione alle donne di esibirsi in scena, decretata da un editto del 1588, aveva aperto ampi spazi ai castrati. Questi ultimi, presenti già nei lavori del Monteverdi, possedevano una vocalità in “perfetto equilibrio fra lo sfoggio virtuosistico nell’improvvisazione e la sostanza profondamente espressiva della linea melodica” (P. Mioli, La musica nella storia, Calderini). Non c’era un unico registro espressivo e il vocalismo degli evirati era più acuto rispetto a quello “naturale” dei camerati fiorentini. E voce bianca, impiegata essenzialmente in parti femminili, era quella del famoso Farinelli, al secolo Carlo Broschi (Andria 1705 – Bologna 1782), a cui è dedicata la biografia di Cappelletto ed il film di Corbiau del 1994 con Stefano Dionisi. “Farinello”, allievo del Porpora e amico del Metastasio e di Domenico Scarlatti, soleva suscitare “stupore per il modo spavaldo con il quale gareggiava perfino con gli strumenti in passaggi virtuosistici. A Londra, circondato dal fanatismo degli ammiratori, fece registrare entusiasmi e commozione da lasciare interdetti sulla veridicità dei resoconti” (Storia dell’opera, UTET, III). Broschi ebbe successo anche a Vienna, Parigi e alla corte di Madrid quale “musico terapeuta” del malinconico re Filippo V sin dal 1737. Nell’arco di una permanenza ultraventennale vi fondò, nel 1750, una scuola di “bel canto” italiano sotto l’egida di Ferdinando VI.  Dunque “la voglia di strabiliare, il divismo, la follia delle passioni e delle rivalità furono esaltate dall’irruzione dei castrati sui palcoscenici d’opera. La loro storia incominciò alla fine del Cinquecento e durò fino all’Ottocento, fu penosa e gloriosa, esaltante e sconcertante” (L. Arruga, Il teatro d’opera italiano, Feltrinelli). Finchè appunto nell’800 nasce “l’età del tenore, in cui non sono più le voci acute dei soprani e dei castrati a primeggiare nelle rappresentazioni teatrali bensì quelle dei tenori (A. Petroni, Gilbert Deprez e i “disumani entusiasmi” per la voce tenorile, framentirivista.it, 16/12/22) e il tenore romantico subentra al contraltista evirato. Ed è grazie alle registrazioni effettuate fra il 1902 e il 1903 direttamente dalla voce del falsettista Alessandro Moreschi (Montecompatri, 1858-Roma 1922) che sono stati ricavati una decina di dischi. Moreschi, definito l’Angelo di Roma, cantore presso la Cappella Sistina dal 1883 al 1913, fra gli ultimi cantanti evirati con Domenico Mustafà (cfr. Il segreto della “quarta voce” di Mustafà, Emma Calvè ed Enrico Caruso, belcantoitaliano, blogspotcom,1/5/2020) e il Sebastianelli, si esibì, nel 1900, al Pantheon, ai funerali di re Umberto I, traghettando di fatto il falsettismo nel Novecento, secolo che avrebbe peraltro registrato l’abbandono della pratica dell’evirazione, usanza barbara e atroce, frutto di fondamentalismo moralistico, praticata su persone divenute macchine per cantare mutilate nel corpo e nella mente “immolate sull’altare dell’arte a prezzo della drammatica perdita di identità” (La riproduzione sonora, www.amedeofurfaro.it). La loro eredità canora, quella non chirurgicamente modificata, sarebbe stata raccolta dai controtenori con in repertorio, ancora oggi, musiche di Porpora, Purcell, Haendel, Bach…  Da sottolineare che nel primo Ottocento era comparso il falsettone (talora “rinforzato”), tecnica di emissione di note molto acute o sovracute adoperata da vari tenori in alcune partiture liriche di Rossini, Donizetti, Bellini (Credeasi, misera da “I Puritani”). Pagine su cui si sarebbero cimentate grandi ugole (ad es. YouTube Luciano Pavarotti sings A High E flat (!!) in Falsetto).

Poliedrico Novecento!
Nel Novecento si “sventaglia” un uso poliedrico del falsetto in più ambiti musicali. Intanto il belcanto lirico, culla ideale per le voci “finte”, consegna agli annali della discografia incisioni di un Enrico Caruso solito durante le prove cantare “le note acute in un falsetto del tipo usato dai cantori sinagogali” (Rosa Ponselle & James A. Drake, “Ponselle. A singer’s life”, Doubleday, 1982) e andrebbe ricordato al riguardo Nicolai Gedda per il suo tipico effetto alla Braham, il grande tenore ottocentesco di origine ebraica. Torniamo all’America, al continente della cui scoperta si era accennato scrivendo del Cinquecento, ma con un salto di oltre quattro secoli (anche se andrebbe quantomeno approfondito il capitolo ottocentesco della musica corale), per ritrovarvi la tecnica della voce “feigned” in nuovi “lidi” stilistici come il blues. E’ del 1928 l’incisione di “Canned Heat Blues” di Tommy Johnson. Attorno ai 40s compaiono i primi gruppi di doo-wop proprio mentre formazioni come The Mills Brothers inseriscono il falsetto fra le pratiche vocali adoperabili. Detta tendenza vocale si estende nella seconda metà dei ’50 quando è il doo-wop dei Platters, con la voce solista di Tony Williams proveniente dal gospel, a dilagare. In area popular, oltre a menzionare il falsetto “eerie” di  John Jacob Niles, decano dei folksingers, va ricordato che il successo dei Tokens, “The lion sleeps tonight,” del ’61, era una cover del sudafricano di etnia zulu Solomon Linda (Mbube, 1939).  Fra i falsetti più personali emerge quello di Jimmy Jones con la hit “Handy Man” mentre nel vicino Messico si impone Miguel Aceves Mejia, “The Golden Falsetto”.  E’ c’è in parallelo anche in Europa da segnalare il falsetto gipsy del romeno Dona Dumitru Siminica (cfr. Tom Huizenga, A suave rumanians sing the falsetto song, npr.org, 10/10/06).  Fra le grandi personalità in U.S.A. eccelle Curtis Mayfield, esponente di r&b, soul, funk, la cui carriera inizia nel’58 con gli Impressions. Divenuto celebre nei ’70, grazie alla colonna sonora del film SuperFly, del genere cinematografico della blaxploitation che ha come target iniziale il pubblico di colore, Mayfield simboleggia col suo album “Superfly” la rivalsa della coscienza politica neroamericana dell’epoca. Il suo modo di cantare è connotato dall’uso preponderante del falsetto. (cfr. riccardofacchi.wordpress.com, Il falsetto “impegnato” di Curtis Mayfield, 21//17).  Essendo tante le citazioni possibili al riguardo, è il caso di rinviare la lettura a qualche classifica presente in rete. Ad esempio, the topten.com, Top Ten Male Singers with Best Falsetto con Barry Gibb (Bee Gees), Prince, Jeff Buckley nelle prime postazioni ed a seguire artisti come Dimash Kudaibergen, Matt Bellamy (Muse), Justin Timberlake, Chris Martin (Coldplay), Michael Jackson, Brian Wilson (Beach Boys), Thom Yorke  (Radiohead). Si prosegue con The Weeknd, Smokey Robinson, Roger Taylor, Frankie Valli (The Four Seasons), Freddie  Mercury, Morten Harket (a-ha), King Diamond, Andy Gibb, Philip Bailey (Earth, Wind & Fire), Adam Levine, Bobby Debarge, Paul McCartney, Brendon Urie, John Lennon, Eddie Kendricks quest’ultimo di area soul, dopo la sequenza di rock heavy alternative e pop sia melodico che “spinto”. Il trend dunque si rafforza nei ‘60/70 laddove negli 80s dance e disco si affiancano con prepotenza al rock e ai suoi fratelli, con importanti diramazioni in direzione black music. Seguiranno picchi e sbalzi decrescenti “a ondate”, senza uscite di scena.  Da visionare al riguardo su Listcaboodle.com la Playlist di The Best Falsetto Songs utile da consultare per verificare la collocazione temporale dei vari successi. Ecco, appresso, i primi cinque hits quivi riportati:
Night Fever (Bee Gees, 1977)
After the Gold Rush (Neil Young, 1970)
Got To Give It Up (Marvin Gaye, 1977)
Let’s Work (Prince, 1981)
Only The Lonely (Roy Orbison, 1961)
Seguono vari brani, spalmati su più anni (“September” di Earth Wind & Fire del 1978 –“ Don’t Worry Baby”, dei Beach Boys del 1964 ,”Emotional Rescue” dei  Rolling del 1980 – “Don’t Stop ‘Til You Get Enough” di Michael Jackson  del 1979 – “Just My Imagination” dei Temptations del 1971, “ Tracks of My Tears” di The Miracles, 1965 ), di fine secolo  (“High And Dry” dei Radiohead del 1995) fino al più recenti “I’m Not The Only One” di Sam Smith del 2014 e “Redbone” di Gambino del 2016.  Come si vede si tratta di selezioni che coprono un arco temporale di mezzo secolo da integrare con artisti come Silvester, Police, Judas Priest, Deep Purple, AC/DC,  Kiss, Ted Neeley (Jesus Christ Superstar), Darkness …fino ai giorni nostri con Bruno Mars, Mika e il vintage soul di Aaron Frazer quindi i Maroon Five, Justin Bieber, Pharrell Williams,  i sudcoreani BTS …
L’Italia ha qualcosa da dire al riguardo a partire dalla tradizione. Non disdegnavano gorgheggi o svolazzi “falsettati” Enrico Caruso (e si era a inizio 900) e Gill; quindi, nella seconda metà del secolo, voila Luciano Tajoli, Claudio Villa, Sergio Bruni, seguiti più avanti dal pop melodico di Flavio Paulin dei Cugini di Campagna e dal rock progressivo dei New Trolls, contemporanei dei Pooh (cfr. Massimo De Vincenzo, Storia del Falsetto. Dai castrati all’heavy metal, Youtube.com).
Discorso a parte meriterebbe Alan Sorrenti così come il semifalsetto di Mango e taluni interventi vocali dello stesso Battisti, senza parlare di Antonella Ruggiero per il semplice motivo che ci si sta occupando del falsetto maschile. Il quale anche in ambito classico ha continuato ad avere proseliti fino ad oggi, vedansi ad esempio il controtenore italiano Raffaele Pe sulla scia di Alfred Deller, David Daniels, Philippe Jaroussky, Jakub Jòzef Orlinski,  il russo Vitas … (cfr. sull’argomento Alessandro Mormile, Controtenori, Zecchini Ed.).

La magnifica “ossessione”
Su “eartworm” quella del falsetto è definita una “obsession” per molti vocalist mentre su djrobblog.com si produce una playlist di The Best Falsetto Singers “A Men Only” Club aggiornata al 2015 su cui ritroviamo interessanti presenze Motown (Robinson), soul (Russell Thompkins) e comunque con propaggini nella musica neroamericana come nel caso di David Peaston ma sempre con prevalenza del pop e rock.   Fatto è che se sul web artisti tipo Sam Smith, dal falsetto preponderante, viaggiano nel brano surricordato a colpi di un miliardo e mezzo di visualizzazioni, allora la cosa andrebbe in qualche modo attenzionata. Si è detto che il falsetto rincorre la leggiadria del canto infantile e la leggerezza di quello femminile ma forse ciò è riduttivo alla luce della sua diffusione. Intanto molti musicisti che lo possiedono accarezzano in fondo il sogno di una voce in grado di passeggiare sugli 88 tasti del pianoforte. E c’è pure Ligeti che ne ha scoperto il lato noir in “Le Grand Macabre” (1974) agli antipodi rispetto alla briosa teatralità settecentesca del musical “Falsettos” (1992), di William Finn e James Lapine, costituito dai due atti unici “March of the Falsettos” e “Falsettosland”.
A proposito di jazz soffermiamoci ora su un altro esperto della “voce di testa” cioè Bobby McFerrin, alla ribalta mondiale per “Don’t Worry. Be Happy” ma jazzista a tutto tondo. Le sue capriole vocali riescono a coniugare Bach e avanguardia a tribalismi africani con straordinaria naturalezza. Un simbolo vivente di come la musica jazz possa muoversi in libertà senza frontiere nel tempo o nello spazio. Ed ecco, in conclusione, una Playlist, del tutto soggettiva, con i “magnifici sette” jazzmen da noi preferiti fra coloro che vantano  attrezzi vocali  falsettofoni, con uso magari episodico, per un range più “espanso”. Nel jazz non è configurabile una categoria settoriale di vocalist “falsettisti” ma il falsetto od anche il “similfalsetto” (Scott) può far parte del bagaglio da cui trarre spunto nelle interpretazioni e improvvisazioni.  I nomi seguenti rappresentano solo una (opinabile) delle scelte possibili, potenzialmente tante specie ove si faccia un’affacciata al soul e dintorni:
Bobby McFerrin
Mark Murphy
Kurt Elling
David Peaston
Alan Harris
Thomas Allen
Jimmy Scott
Si è affidata al jazz la chiusura di questa storia parziale del registro vocale più “ambiguo” che, partendo da etno-musica e lirica, ha attraversato do- wop, mainstream, disco, funk, dance-pop, R&B e hip hop (la suddivisione riprende quella di The Male Falsetto, cult-sounds.com). La pubblichiamo con il fondato dubbio che se oggi Farinelli rinascesse sarebbe ancora una superstar!

Amedeo Furfaro- Franco Sorrenti