A Matera il prossimo weekend alcuni appuntamenti da non perdere.

Dopo aver percorso circa 3200 km di strada per raggiungere tutti (o quasi) gli angoli di una regione che incanta gli abitanti e i viaggiatori con i suoi litorali bandiera blu, le dolci asperità della dorsale appenninica nelle aree interne, i boschi ombrosi e i monti silenziosi del Pollino, il viaggio di Gezziamoci 2023 si conclude a Matera con 6 concerti di respiro internazionale, 3 laboratori dedicati alla sostenibilità e all’architettura, la sfilata partecipata della Conturband e l’emozionante concerto all’alba.

Ma scendiamo più nel particolare e scopriamo cosa ci riserva il prossimo weekend.

Venerdì 25 Agosto, presso la Terrazza Fondazione Le Monacelle, alle 21, un trio di eccellenza con gli argentini Javier Girotto al sax soprano e baritono e Natalio Mangalavite al pianoforte, tastiere e voce che incontrano la voce di Peppe Servillo: di qui un incastro musicale perfetto, la voglia di inventare insieme nuovi percorsi musicali e nuove “storie”. Insomma, l’esempio più probante di come tre personalità artistiche, provenienti da culture musicali diverse, ricche e versatili possano incontrarsi e dar vita ad un unicum che solo la musica può consentire.

Sabato 26 Agosto, sempre presso la Terrazza Fondazione Le Monacelle, in programma il gruppo di Magnus Öström. Il batterista svedese è ben conosciuto dal pubblico internazionale in quanto fondatore nel 1993 del fantastico trio E.S.T. insieme al pianista Esbjörn Svensson, suo amico fin dall’infanzia, e al contrabbassista Dan Berglund. Il suo nome è anche legato a collaborazioni con altri artisti jazz di calibro internazionale quali Pat Metheny, Benny Golson, Curtis Fuller, Buster Williams, Roy Hargrove, Nils Landgren, Mulgrew Miller, Conrad Herwig e Stefon Harris. Dopo lo scioglimento dell’E.S.T. a causa della morte del pianista, ha inciso il primo CD a suo nome “Thread of Life” dove nel brano “Ballad for E”, dedicato all’amico scomparso, compaiono come ospiti Dan Berglund e Pat Metheny.

Nel 2016 assieme al pianista Bugge Wesseltoft e a Dan Berglund forma un trio che prende il nome di Rymden (in svedese significa “spazio”). A Matera si presenta in quartetto con Daniel Karlsson, piano e tastiere, Andreas Hourdakis, chitarra e Thobias Garbielson, contrabbasso. Musicalmente, lo stile di Öström racchiude una serie di influenze assai diverse che vanno dal modern jazz alla musica classica di Johann Sebastian Bach fino alla musica da film e rock senza ovviamente trascurare il folk scandinavo.

Sempre il quartetto del batterista svedese sarà il protagonista del concerto che si svolgerà all’alba di Domenica 27 agosto, con appuntamento in piazza della Visitazione per l’apposita navetta.

Nella stessa serata di domenica, sempre alla Terrazza Fondazione Le Monacelle, il Chico Freeman (sax) & Antonio Faraò (Piano) Quartet completato da Makar Nivikov, contrabbasso e Pasquale Fiore, batteria. Chico Freeman è oramai da tempo un dei sassofonisti, polistrumentisti, compositori, arrangiatori, produttori più in vista sulla scena internazionale grazie al suo talento che gli permette di rivisitare con pertinenza e passione alcuni capolavori del passato; dal canto suo Antonio Faraò percorre da sempre la strada maestra del jazz con convinzione e padronanza tecnica. Insomma un altro appuntamento da non perdere.

Gerlando Gatto

La musica di Danilo Rea, libera e in movimento, come l’acqua

Si dice che nella botte piccola si conserva il vino più buono e in quel di Staranzano, piccola località di settemila anime in Friuli-Venezia Giulia, nella provincia di Gorizia, nella botte ci hanno messo appunto un delizioso e prezioso Festival dell’Acqua, con trenta appuntamenti in quattro giorni, dall’11 al 14 maggio, e di cui sentiremo sicuramente parlare a lungo (https://acquafestival.it/ ).
Tanti sono i motivi per pensare di collocare a Staranzano un concept-festival dedicato a questo prezioso elemento, principio ordinatore del mondo: in primis perché nel suo territorio s’incontrano armoniosamente le acque del mare, dei fiumi, della laguna e quindi perché non seguire il loro corso in un fluire di talk scientifici, performance teatrali, percorsi di ricerca, concerti, laboratori, eventi espositivi, escursioni e incontri letterari?
Detto fatto!
In questa prima edizione, trova spazio anche la musica jazz in una delle sue massime espressioni contemporanee: il grande pianista ed improvvisatore Danilo Rea, che si esibirà sabato 13 maggio (ore 21) alla Sala Pio X (ingresso libero su prenotazione al link: https://acquafestival.it/danilo-rea-in-concerto/ )
Di Danilo si potrebbero scrivere interi trattati, avendo egli suonato con il gotha del jazz, della classica, del pop, in una lunghissima carriera iniziata ai tempi del liceo classico con un gruppo dal bizzarro nome “Gigi sax e il suo complesso”! Celie a parte, dopo gli studi di pianoforte classico al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, un debutto nell’universo progressive rock con i New Perigeo e successivamente nel mondo del jazz, a partire dal 1975, con il Trio di Roma, Rea raggiunge una popolarità internazionale e collabora con artisti quali Chet Baker, Lee Konitz, Steve Grossman, Michael Brecker, Tony Oxley, Joe Lovano, Gato Barbieri, Aldo Romano, Brad Mehldau, Danilo Pérez, Luis Bacalov (e sono solo alcuni…) e in Italia con Mina, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Gino Paoli, Domenico Modugno; senza dimenticare il sempervirens progetto Doctor 3, un unicum nel panorama musicale italiano per aver saputo rileggere il pop in chiave jazz con grande sapienza (Pietropaoli, Rea, Sferra, recentemente intervistati per noi da Daniele Mele http://www.online-jazz.net/?s=doctor+3 ).
A Staranzano, il pianista romano eseguirà un affascinante repertorio dedicato all’acqua, in piano solo. Comunque, trattati a parte, se desiderate scoprire chi è davvero Danilo Rea, leggete il suo bellissimo libro-biografia “Il Jazzista Imperfetto”, scritto a quattro mani con Marco Videtta (Rai Libri).

MT: parto innanzitutto con una mia curiosità personale: posto che non ho dubbi che il repertorio da te scelto e dedicato all’acqua rappresenterà – almeno per me – una “sovrapposizione sensoriale”: hai presente la sinestesia… ascoltare la tua musica e udire un colore, insomma… sensazioni così? Mi viene in mente “La Mer” di Debussy con quegli accordi che si rincorrono e gli occhi che si riempiono di tutte le sfumature del blu… e vedi il movimento ininterrotto delle onde del mare, fino a sentirlo dentro di te.

Puoi anticipare ai nostri lettori che cosa hai elaborato per raccordare l’elemento sonoro a questo elemento naturale, così prezioso per la vita sulla terra?
DR: Il tuo riferimento a Debussy mi sembra di grande ispirazione, non a caso qualche anno fa registrai per prova una improvvisazione pianistica proprio su quel brano.
Si l’acqua, la marea, il suono della pioggia, delle onde che si infrangono, è Musica! Spesso mi addormento con suoni d’acqua…
Per il concerto di Staranzano ho in mente una serie di temi come Moon River di Mancini, Wave di Jobim, Caruso e 4/3/1943 di Dalla, Sapore di Sale dell’amico Gino Paoli, per continuare con Bridge over Troubled Water di Simon e Garfunkel e tanti altri.
Vedremo come riuscirò a legarli insieme durante l’improvvisazione nel concerto stesso.

MT: la melodia è un po’ come l’acqua, va lasciata libera di scorrere perché il suo movimento è evoluzione, apertura mentale e desiderio di conoscenza. Tu sei un poeta dell’improvvisazione e conosco pochi musicisti che come te rispettano la melodia anche nel processo improvvisativo; inoltre hai creato un nuovo idioma espressivo nel piano solo. Forse il tuo segreto è che tu non suoni mai in modo auto-referenziale ma unicamente per suscitare emozioni in chi ti ascolta?
DR: si, suono per scambiare emozioni con chi mi ascolta, altrimenti non ci sarebbe motivo per suonare!
Suono giocando sempre attorno alla melodia, proprio perché nel piano solo godo di totale libertà e posso uscire dal concetto di tema e conseguente assolo.
Entro ed esco dal brano in piena libertà, come in un sogno, una cascata di note che partono sempre da un tema a me caro, forse caro anche a chi ascolta.

MT: attraverso la tua musica hai la rara capacità di raccontare storie sorprendenti; il tuo è un pianismo che, se me lo concedi, definirei antinomico… ovvero fatto di continui contrasti, dolcezza e irruenza, lirismo e carattere, il calore della passione e la precisione della tecnica e ogni qualvolta io abbia ascoltato un tuo concerto, partendo da un’idea che mi ero fatta su quello che avrei potuto sentire, puntualmente, alla fine, mi sono sempre ritrovata piacevolmente spiazzata. Passi dai Beatles a Verdi, da Chopin ai Rolling Stones, da Bernstein a De André ed è strano, perché si ha la netta impressione che quei brani siano stati composti ad hoc per il tuo pianoforte.
Cos’è? Forse la conseguenza del tuo modo estemporaneo – e mai asservito ad alcuna imposizione stilistica – di approcciarti alla musica?
DR: credo che dai contrasti esca la musica, che non esista un pianissimo senza un fortissimo e che nell’improvvisare un intero concerto ci sia bisogno di avere una capacità di regia estemporanea, in maniera tale da creare tensione e rilassamento, per calmarsi, sognare e poi ripartire al galoppo.
Un buon improvvisatore non deve accontentarsi di essere bravo nella struttura dell’improvvisazione, deve andare oltre, guardare il brano come parte di un mosaico che dura l’intero concerto, come un racconto nel quale la melodia guida le emozioni. È come se tutta la musica del mondo avesse una matrice comune, Beatles, Puccini, De Andrè, prendendo le loro melodie e suonandole al pianoforte a modo mio, nel bene e nel male, si ritrovano unite.

MT: tempo fa lessi una tua intervista dove dicevi che i grandi musicisti classici del passato erano soliti improvvisare e che tu e Ramin Bahrami (insieme hanno realizzato il meraviglioso album “Bach is in the Air – N.d.A) non vi siete limitati a rileggere Bach né l’avete toccato ma avete “aggiunto”. Vista la già incredibile complessità dell’armonia bachiana e le sue invenzioni contrappuntistiche, ci spieghi che cosa tu e Bahrami avete inteso per “aggiungere”?
DR: con Bahrami è venuto tutto naturale, grazie alla sua fiducia nelle mie improvvisazioni che lui definisce in stile Bachiano: lui suona ed interpreta la partitura originale.
In pratica abbiamo aggiunto l’improvvisazione alla partitura, cosa credo mai fatta. In genere i jazzisti hanno sempre portato la musica di Bach a tempo di swing, quindi riarrangiandola completamente…
Questa operazione è molto delicata, tenendo conto della perfezione della scrittura di Bach, ma l’abbiamo fatta nel rigoroso rispetto della musica del Maestro di Lipsia.
D’altronde Bach era un grande improvvisatore e forse non sarebbe male se i giovani musicisti classici ripristinassero nel loro corso di studi l’arte dell’improvvisazione.

MT: cosa pensi di quanti, con riferimento ad alcuni cantanti di musica leggera che hanno voluto in qualche modo rivolgersi al jazz, criticano questa scelta ritenendola opportunistica e priva di qualsivoglia motivazione artistica?
DR: rispondo che sono anni che mi criticano per questo, ma seguo il cuore; improvviso su ciò che mi piace, senza preconcetti, ovvero, intendo dire che io stesso ho avuto critiche nel senso opposto, perché amavo improvvisare su un repertorio pop… trovo invece che sia una scelta reciprocamente utile, perché c’è tanto da imparare da ambo le parti!

MT: infine, so che sei un grande appassionato di motociclette, credo di aver letto che ne possiedi una decina. Verrai nella mia meravigliosa terra di acque, vento, arte, vini e cibi eccellenti con quel mezzo?
Scherzo, naturalmente, sebbene sia convinta che tu potresti anche farlo! Ti è rimasto qualcosa delle volte in cui sei venuto in Friuli-Venezia Giulia? Ricordo vividamente le tue performance a Udine con Tavolazzi e a Grado con Biondini.
DR: verrò in treno ma spesso viaggio verso i concerti in moto.
Il contatto con l’esterno, con l’aria, con la pioggia che cambia l’odore dell’asfalto, il caldo, il freddo, li puoi godere e subire solo in moto… però sono sensazioni forti che restano dentro, come d’altronde la vostra bellissima Regione.

Marina Tuni ©

Un ricordo di NINA SIMONE a 20 anni dalla morte

Un ricordo di NINA SIMONE a 20 anni dalla morte

«La musica era dentro di me. Siamo in pochi ad aver ereditato questo dono dal cielo: la Callas, Rubinstein, Horowitz, io e pochi altri».
Era questa l’autoconsapevolezza di Nina Simone, e non per caso i fedeli della chiesa protestante di cui faceva parte, vedendola già incredibilmente predisposta fin dall’infanzia, la consideravano una manifestazione divina: «Il piccolo prodigio», un segno di speranza per la comunità nera della sua città (Tryon, Carolina del Nord), quasi la prova che le invocazioni rivolte a Dio da intere generazioni di afroamericani fossero state finalmente esaudite. Ecco perché quando si parla di talenti prodigiosi, di doni della natura – o di Dio –, è impossibile non pensare a lei, che ci ha lasciati 20 anni fa (morì il 21 aprile 2003) e che lo scorso 21 febbraio ne avrebbe compiuti 90.
In realtà il suo nome di battesimo era Eunice Kathleen Waymon. “Nina” era invece il soprannome datole da un fidanzato latino (Nina come niña, piccolina), mentre l’ispirazione per “Simone” le venne dalla grande attrice Simone Signoret, che ricordiamo anche per il suo anticonformismo, la sua combattività, il suo impegno contro le ingiustizie sociali: caratteristiche che Eunice-Nina replicò, ovviamente a modo proprio, gettandosi anima e corpo nella lotta per i diritti civili e scatenando, specialmente nelle esibizioni dal vivo, quello che lei stessa definì «lo spirito dei miei antenati africani».

Il pacco-regalo che si trovò fra le mani all’inizio della sua esistenza non conteneva tuttavia né una famiglia benestante – tutt’altro – né una vita felice: sesta di otto fratelli, ebbe un rapporto assai travagliato con la madre Mary Kate (una reverenda metodista «fanatica della religione», secondo Nina) e sperimentò sulla propria pelle sia la carta vetrata della discriminazione razziale sia la mano violenta della prevaricazione maschile. La sua esistenza, insomma, è stata al tempo stesso gloriosa e tormentata.
La gloria premiava innanzitutto gli enormi sacrifici fatti per valorizzare al massimo quelle doti di partenza che, come si dice, o si hanno o non si hanno: lei le aveva, e difficilmente avrebbero potuto essere sviluppate meglio. Partì da ciò che sperimentava nelle comunità evangeliche, soprattutto quelle di indirizzo neo-pentecostale (senso e potere del ritmo, energie e vibrazioni mistiche, effetto ipnotico della musica…) e intraprese durissimi studi di musica classica con la maestra di pianoforte Muriel Massinovitch («Bach ha fatto sì che votassi la mia vita alla musica», scrisse Nina nelle sue memorie): «Il rigore di Bach e le vertigini del gospel, la purezza e la mistica, la disciplina e lo spirito», come ha spiegato il biografo David Brun-Lambert.
Il tormento era figlio di diversi fattori: dalla delusione per non aver potuto diventare una concertista classica a causa del colore della pelle («All’improvviso il mondo mi apparve sotto una luce diversa e niente è stato più semplice», scrisse), al serio disturbo bipolare di cui soffriva, e poi le tumultuose e sofferte relazioni famigliari, matrimoniali e sentimentali, gli sfruttamenti subiti, gli abusi di alcol e droga, i difficili rapporti con il pubblico, con le case discografiche e con le autorità, le spinose vicende economiche e con il fisco, le sofferenze inflitte alla figlia Lisa…
Respinta dal mondo della musica classica iniziò, dal palco di una lurida bettola, una carriera leggendaria che l’avrebbe portata agli apici del “music business”. Al virtuosismo al pianoforte abbinò una presenza scenica e una voce così straordinarie che neppure lei, sulle prime, immaginava di avere, portando a livelli altissimi quella che per sua madre era «la musica del diavolo». Ma per tutti fu «The High Priestess of Soul», la grande sacerdotessa dell’anima.

Valerio Marchi

Doctor 3: non importa cosa suoni ma come lo suoni

L’intervista è stata realizzata in occasione della 23esima stagione di “Latina in Jazz”, nota rassegna a cura del Latina Jazz Club Luciano Marinelli che ospita ogni anno musicisti di fama internazionale. In occasione della terza serata, il Doctor 3 ha gentilmente accettato la proposta di farsi intervistare per la rubrica “Salotto Rosso” a cura di Daniele Mele.

Enzo Pietropaoli, Danilo Rea, Fabrizio Sferra. Il Doctor 3 ha 26 anni: la mia età
praticamente. Come si fa a far vivere una formazione per 26 anni?
Sferra: “Basta suonare poco”.         (ridono)

-Dai, rispondete voi.
Pietropaoli: “É come in un rapporto di coppia, basta gestire tutte le fasi: gli amori, i momenti belli, le crisi… saperli gestire in nome dell’amicizia e della musica, e si può andare avanti”.

-Credo a questo punto, finché…
Danilo Rea: “La morte”.
Sferra: “Finchè morte non ci separi”.

– Questi sono i piani per il futuro, quindi. E suonare poco…
Rea: “Se la prendi da un punto di vista professionale, e gli americani in questo sono maestri, si riesce a suonare anche senza parlarsi. Fanno grandissimi gruppi dove non si parlano neanche più, da anni, non si ricordano neanche i nomi praticamente”.
Pietropaoli: “O gruppi sciolti dopo tournée troppo lunghe”.
Rea: “Se si affronta con professionalità vai avanti ad libitum. Noi siamo italiani, non l’abbiamo fatto con questo atteggiamento”.

– Secondo voi, qual è il valore del trio oggi? Il pubblico ascolta e apprezza il trio come si ascoltava una volta, oppure no?
Sferra: “Forse non dipende dalla formazione, ma da come si esprime la formazione, e dal grado di comunicazione che instaura con il pubblico. Io penso che questo gruppo abbia avuto successo anche per quello, perché stabilisce un alto grado di comunicazione ed è molto interattivo sia per il repertorio scelto sia per come viene trattato. Penso che sia un gruppo molto generoso da questo punto di vista, e quella cosa lì forse conta più della formazione in sé, che sia trio, quartetto o quintetto”.
Pietropaoli: “Sono d’accordo”.

– Il purista del Barocco dice “ascolto solo Bach”, il purista del Jazz dice “ascolto Parker”,e voi invece attraversate tutti i generi musicali e arrivate a tutte le persone nel mondo. Quand’è che, secondo voi, la musica è “buona musica”?
Rea: “Diciamo che il Pop coreano ancora non l’abbiamo affrontato”.
Pietropaoli: “Però abbiamo avuto successo in Oriente”.
Rea: “Perché comunque ci sono delle canzoni che arrivano dappertutto”.

– Sì, insomma quand’è che la considerate una musica “da suonare”?
Rea: “Ah, bella domanda”.
Pietropaoli: “Tu dici a livello di scelta del repertorio?”.

– Sì.
Rea:” Questa è una domanda molto particolare. Vi ricordate quando chiesi a Jeff se avrebbe mai suonato quella canzone, “The Way We Were” “.
Sferra: “Quella che cantava Barbra Streisand”.
Rea: “Quella”.
Pietropaoli: “Dicci chi è questo Jeff”.
Rea: “No, non si può dire… Lui disse “Eh no, perché è troppo smielata”. “É troppo che?”, ho pensato. E il limite è molto personale, per rispondere alla tua domanda, ognuno ha un “pudore musicale” tutto suo”.
Sferra: “Però forse si può dire, in relazione a questo trio, che la canzone Pop funziona perché tutti e tre abbiamo un rapporto molto forte con la canzone e con la melodia. Questo, a prescindere dalla scelta, ha funzionato da sempre perché siamo tutti sinceramente e profondamente legati alla melodia e alla forma-canzone, pur essendo jazzisti e avendo fatto un percorso più complesso. Alla fine rimaniamo “puristi in relazione alla musica”.
Pietropaoli: “Dunque non importa cosa ma come”.
Rea: “Sì, esatto”.
Sferra: “Sì, è chiaro che il Pop spesso contiene quegli elementi della forma-canzone che noi privilegiamo a prescindere dal genere. Ed è la stessa scelta che abbiamo fatto nel Jazz, dove privilegiamo quella forma”.
Pietropaoli: “Non abbiamo mai fatto pezzi contorti, per così dire”.
Rea: “Ma in fondo i jazzisti afro-americani che prendevano? Le canzoni del loro tempo. A un certo punto è come se fosse stata creata una barriera, come a dire che “fin qui si può suonare, se vai oltre diventa un’altra cosa”. Ma in realtà dipende tutto esattamente dal “come”… quelle di allora erano grandi canzoni pop, Billie Holiday, Louis Armstrong, cantavano tutti pezzi pop fatti alla maniera loro. Quello che bisogna fare quindi è cercare di analizzare, contestualizzare…”.
Pietropaoli: “E di impossessarci anche della nostra cultura, che non è necessariamente quella di un americano. Nella nostra gioventù c’è Battisti, De Andrè, Tenco…”.

– In un’altra intervista ho sentito di critiche che vi sono state mosse perché avevate fatto un certo tipo di scelta di repertorio.
Rea: “Un sacco di volte”.
Sferra: “Qualche volta siamo stati additati come “Doctor Furbetti”…”.

– Quando suonate c’è comprensione, c’è feeling e tantissima interazione sul tema, ed è genuinamente bello vedervi dal vivo. Invece la nuova generazione spesso è “Il brano lo faccio tutto io, poi metto assieme i pezzi e carico la mia cover su YouTube”. Che cosa ne pensate di questo approccio alla musica? È tutto brutto, oppure…?
Rea: “Ma stai parlando di quale musica? Quella di oggi?”.

– Quella di oggi, anche Jazz. Coetanei che studiano al Conservatorio, magari prodigi
polistrumentisti che sanno suonare bene il basso, la batteria e fare un improvvisazione al pianoforte come si deve…
Sferra: “Beati loro!”.

– Poi registrano tutto quanto e caricano su Facebook, YouTube.
Rea: “Se tu pensi che Damien Rice, con The Blower’s Daughter, è nato su internet… è un approccio diverso un po’ lontano da noi, insomma”.
Sferra: “Comunque è un fenomeno un po’ complesso da trattare, che non riguarda soltanto la musica”.
Pietropaoli: “Diciamo che la tecnologia e i social sono un’opportunità, dipende come tu li usi. Quel procedimento di cui parli tu può portare a cose splendide, può portare a cose insulse ma questo riguarda anche chi suona dal vivo, per cui è difficile generalizzare”.

– Certo. Vi faccio una domanda conclusiva, la classica: che cosa c’è nel futuro prossimo del Doctor 3?
Sferra: “Abbiamo 2-3 concerti programmati, il che è un bell’orizzonte”.
Pietropaoli: “Resisteremo ancora per un po’, salute permettendo”.         (ridono)
Sferra: “Personalmente ogni volta che c’è un concerto del Doctor 3 sono molto felice”.
Rea: “Siccome ogni volta che suoniamo si aprono finestre nuove, musicalmente parlando, non sappiamo che fine faremo. La fortuna di questo gruppo è che sopravvive perché, oltre alfatto di vedersi poco frequentemente, c’è un’arte dell’incontro, del ritrovarsi per far uscire cose leggermente o spesso anche molto diverse dalla volta precedente. Difficile dire cosa bolle in pentola. I CD sono serviti proprio a mettere il punto su certe situazioni, anche se nonsi fanno quasi più… io non faccio un CD in piano solo da 4-5 anni”.
Pietropaoli: “Ora sta tornando il vinile, c’è molta musica liquida… addirittura ho risentito parlare di cassette”.
Sferra: “Mania Vintage!”.
Pietropaoli: “Beh i supporti cambiano, ma la musica è quella, anche se essa dipende dai supporti e dagli strumenti. Prima che esistessero gli amplificatori era diverso, la musica è stata condizionata da quel cambiamento tecnico, per cui non so oggi quanto sia condizionata dalle opportunità digitali”.
Sferra: “La maniera in cui si mixano i dischi è cambiata notevolmente perché deve tener presente che la musica esce da una piccola scatoletta, e quindi si lavora in maniera diversa”.
Rea: “Se pensi che oggi i dischi si registrano a casa… è cambiato tutto”.

– Vedremo cosa il futuro ha in serbo per noi. É stata una piacevole intervista, grazie per il vostro tempo!

Daniele Mele

IL GRANDE EQUIVOCO DEL POP ITALIANO

Un giorno Thelonius Monk arriva tutto trafelato a casa della baronessa Pannonica. I suoi occhi spiritati spaventano tutti. Cosa ti è successo? Chiede Nica preoccupata dal suo stato di agitazione. I miei figli, risponde lui, hanno portato a casa un disco dei Beatles. Capisci che follia? Io non riesco a trovarlo. Mi devi aiutare, lo hanno certamente nascosto, e anche bene. Nica annuì tranquillizzandolo. In effetti i suoi figli avevano realmente acquistato un disco dei Beatles e chiesto a lei di poterlo nascondere a casa sua perché altrimenti, se lo avesse trovato il padre, sarebbe stata la fine. Questo simpatico episodio, raccontato da Francis Paudras nel suo libro “La danza degli infedeli”, può sembrare una esagerazione, ma non lo è. A noi questo episodio fa sorridere perché si tratta dei Beatles – e forse Monk sapeva già che con loro, il Mondo non sarebbe stato più la stessa cosa -. Ma immaginatelo oggi, e ai Beatles sostituite i Maneskin. Anzi sostituite i quattro ragazzi di Liverpool con uno qualsiasi dei nomi costruiti a tavolino in un talent show. Non si sorriderebbe più o almeno, non più di tanto. E non solo perché siamo quelli cresciuti con la musica degli anni Sessanta e Settanta e con tutto quel jazz che è arrivato alle nostre orecchie da epoche glaciali come gli anni Quaranta e Cinquanta e ancora peggio, ascoltando gente come Bach, Mozart, Debussy, Beethoven, Chopin e Schumann. No, non è soltanto una quesitone di formazione o di gusti personali, è molto peggio: è il tentativo di conformare un mercato attraverso un prodotto che incontra una maggiore quantità di utenti, che con l’arte della musica niente ha a che fare e spazza via tutti quelli che invece non aderiscono a questa impostazione. Gente che pure ha studiato nei conservatori e provato, notte e giorno, in quelle famose umide cantine, con buona pace dei condomini.

Certo, anche negli anni Ottanta eravamo soliti sbeffeggiare la musica che dominava nelle classifiche. E forse quelli furono proprio gli anni in cui l’arte, soprattutto la musica, iniziò a essere trattata come brand. Musica figlia dell’edonismo, lo stesso denunciato anche dai Pink Floyd in “Money”: New car, caviar, four star daydream, Think I’ll buy me a Stootball team. Eppure in quelle classifiche c’era anche il seme di una musica altra che nel tempo è diventata alta. Gruppi musicali che hanno segnato un passo avanti nella storia del rock, della canzone d’autore. E anche se fuori dalle classifiche pop, i media riservavano sempre una significativa quota di interesse verso chi era “figli di un Dio minore”. E chi la passava al vaglio, non era gente così, ma critici musicali che in Italia e nel Mondo hanno scritto e raccontato la letteratura musicale del Novecento.

Ora non è che non siamo progressisti o incapaci di leggere il nuovo che avanza. Anzi. Però non ci va l’idea di essere dominati da un algoritmo che bombarda i nostri gusti. Non ci va di ascoltare voci perfezionate con l’auto-tune. Non se ne può più di rap, trap che non sono l’hip hop che stregò anche Miles Davis. E in tutta questa roba, non ci sembra nemmeno di ravvedere nemmeno i prodromi di qualcosa che cambierà la storia della musica. Anche per questo ci stupisce – ma nemmeno poi tanto – tutto il clamore e i premi e le partecipazioni di prestigio che hanno ottenuto, ad esempio, i Maneskin. La loro scrittura, il loro riusare gli strumenti musicali (si è osannato anche questo), come se usare chitarre, basso e batteria oggi fosse una bestemmia, non mi sembrano poi tanto distanti – per restare sul recente e in Italia – di gente come: Afterhours, Bluvertigo, Subsonica, Marlene Kuntz, 24 Grana, C.S.I., Verdena, Almamegretta, e chi più ne ha più ne metta, che pure avrebbero meritato premi e palcoscenici importanti. Ecco, ora qualcuno potrebbe dirci: voi siete tra quelli che ai miei tempi la musica era migliore. No! Ci piacerebbe solo che l’educazione alla musica passasse nelle mani di gente che la musica l’ha studiata – anche da un punto di vista storico sociale – e non in quelle di influencer bravi a trasformare tutto in prodotto di consumo. Gente che a una sequenza di accordi preferisce il look. Lo diciamo solo per proteggere il futuro. Altrimenti, ci ritroveremo come in un film di Bellavista e non capiremo, se sotto le macerie, avremo tra le mani un capolavoro e cesso scassato.

Carlo Pecoraro

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita.

Dopo la triennale parentesi balneare di Grado, è tornata nella sua sede naturale di Udine la storica manifestazione Udin&Jazz che ha dimostrato, con la sua 32 edizione, di essere uno dei punti di riferimento per il jazz non solo a livello italiano.


Lo ha ribadito autorevolmente con una serie di straordinari eventi musicali ma anche con tutta una serie di attività culturali collaterali che da sempre sono parte integrante di un modo di intendere la musica non solo come intrattenimento ma prima di tutto come rivendicazione di istanze democratiche e libertarie che considerano le blue note in tutte le loro sfumature come strumento di conoscenza, condivisione e rispetto di diritti inalienabili nei confronti dei nostri fratelli meno fortunati e di tutti.
Il jazz può essere inteso in molti modi: può essere un modo un po’ esotico e snob di estraniarsi dalla realtà per qualche ottusa élite oppure il grido di dolore che si alza dai campi dell’ingiustizia e della discriminazione che scuote il potere con l’intento di abbatterlo a colpi di note. Non a caso la rassegna si è aperta con il film “Gli Stati Uniti vs Billie Holiday” di Lee Daniels (Usa 2021) che a modo suo ricostruisce la persecuzione giudiziaria che subì la grande cantante per aver denunciato attraverso la propria arte gli orrori dei linciaggi contro gli afroamericani in “Strange Fruit”.
Il Jazz è uno strano frutto che penzola dall’albero dell’ingiustizia sociale ma che non muore mai continuando a scalciare contro ogni sopruso senza che nessuno possa mai far tacere la sua voce di denuncia e di protesta.
L’associazione Euritmica con il suo patron Giancarlo Velliscig, che da sempre organizza il festival, lo sa bene e da sempre si batte per gli alti valori in cui crede e professa. Il motto della manifestazione di quest’anno lo diceva chiaramente: “Play Jazz, Not War” semplice e diretto ma per nulla scontato in un momento nel quale stiamo assistendo ad una nuova pericolosa corsa al riarmo generale, mentre i soliti mentecatti credono che solo dotandosi di missili più potenti si possa “vincere la pace”. Stiamo passando dalle tragicomiche “missioni di pace” a suon di bombardamenti a tappeto (Iraq, Afghanistan, Siria ecc.) alle “Operazioni speciali di difesa democratica” con i droni telecomandati e con i lanciamissili portatili. Gli imperialisti sono sempre gli altri così come molti di noi dicono: “Sono pacifista ma…”, affermano tranquillamente anche “Non sono razzista ma…”come in una canzone, tristemente ironica, di Willie Peyote.
Di seguito daremo conto brevemente degli eventi principali del festival, solo una piccola parte di tanta meraviglia che per essere davvero compresa ha bisogno di essere vissuta personalmente, per questo si considerino le righe che seguono solo come un’indicazione e un invito a partecipare alla prossima edizione.
Gianpaolo Rinaldi con il suo rodato trio è in grado di affascinare e divertire in qualunque situazione anche la più improbabile. Udin&Jazz quest’anno più che mai ha voluto sperimentare nuovi angoli della città per alcune delle proprie esibizioni in cartellone. Come preambolo al festival ha creato un’apposita sezione chiamata semplicemente : “Aspettando Udin&Jazz”. A Rinaldi e ai suoi è toccato un bel giardino nel pieno centro cittadino perfettamente attrezzato con aree giochi per bambini e un fornitissimo chiosco per quelli che bambini non lo sono più da un pezzo e possono annegare negli spritz tutti i rimpianti e le nostalgie mentre i loro bambini fanno il diavolo a quattro su altalene, tappeto elastico e cavallucci a molla. Non è facile suonare in un luogo del genere ma è davvero affascinante, vivo, reale; non si può contare sulle liturgie della sala da concerto e nemmeno sulla dimensione intima del club, è stato vero jazz in plein air con i bambini che scorrazzavano e il vociare delle famiglie al parco mentre i tanti intervenuti per il concerto si godevano i suoni meravigliosi della vita reale che si univano dinamicamente in perfetta sinergia a quelli dei musicisti.

L’ultima ambiziosa incisione del trio con composizioni originali di Rinaldi, “Sapiens doesen’t mean Sapiens” è stata ispirata al best seller Sapiens, da animali a dei di Yuval Noah Harari e, almeno nelle intenzioni, vuole tracciare un arcobaleno di note tra la scimmia che eravamo e i quadrumani che diventiamo mano a mano che pervertiamo le nostre esigenze di esseri umani. E’ un fatto ormai acclarato che tanta abilità e adattamento evolutivo non hanno portato solamente a miglioramenti nella nostra esistenza; la catastrofe ecologica che abbiamo provocato su scala planetaria ci dimostra chiaramente che di certo siamo Homo ma che sul Sapiens si può discutere. Rinaldi traduce impeccabilmente questo discorso in musica dal proprio punto di vista di pianista talentuoso alle prese con un mondo difficile da capire ma che la musica può aiutarci a comprendere.
Il tutto è suggerito da Rinaldi in modo lieve ma per nulla superficiale, il linguaggio della sua musica è alto ma perfettamente comprensibile a tutti. Nel trio si distingue anche il batterista Marco D’Orlando dalla grande fantasia poliritmica che usa anche gli stridii delle bacchette sui piatti e altri bizzarri rumori per esprimere al meglio inquietudini e illuminazioni. Ottima la calibratura dell’insieme attraverso il contrabbasso di Mattia Magatelli.
Armando Battiston è uno dei decani del pianismo jazz friulano e si è esibito per “Aspettando Udin&Jazz” in duo con il proprio storico batterista Daniele Comuzzi al Caffè Caucigh, uno dei luoghi storici della buona musica udinese con un cartellone fitto di eventi, jam sessions e readings.
La versatilità del pianista, la lunghissima esperienza gli permettono di guardare avanti e progettare futuri imperscrutabili e inauditi. Per l’occasione ha sfoggiato la sua conoscenza e predisposizione verso il Latin Jazz con una certa vena tangheira. Moltissimi anche gli standard più classici interpretati dalla sua particolarissima sensibilità e dal suo gusto che va dalle più spericolate sperimentazioni free form al jazz main stream e confidenziale venato dalla tradizione della canzone italiana melodica. E’ davvero un gran piacere ascoltarlo; la sua musica è un vero balsamo vivificante, la sua fluviale esibizione in perfetto interscambio ed equilibrio con il batterista Comuzzi in uno degli angoli più suggestivi della città medievale ha respirato al ritmo della serata estiva e dei suoi incanti.
La manifestazione è entrata nel vivo spostando i propri eventi centrali al Teatro Palamostre. Tra i primi ad esibirsi in quella sede il pianista Emanuele Filippi che presentava per l’occasione il suo nuovo lavoro, fresco di stampa, in duo con Seamus Blake: “Heart Chant”. Il sassofonista inglese, purtroppo non ha potuto essere presente a Udine perché impegnato nella tournée americana di Roger Waters, d’altronde un nome come “Seamus” deve ricordare sicuramente qualcosa al fondatore dei Pink Floyd (Meddle, 1971). Solo da questo, che non è per nulla un particolare irrilevante, possiamo capire la rilevanza internazionale di Blake e il conseguente alto valore del sodalizio con il giovane pianista friulano. Il lavoro discografico che ne è scaturito è di una bellezza meditativa e sospesa. A sostituire il musicista inglese per il concerto udinese, Ben van Gelder da Amsterdam, giovane di talento e di grandi prospettive ma comprensibilmente, non proprio allo stesso livello.
La musica è sembrata molto solida dal punto di vista compositivo ma fin troppo sorvegliata per quanto riguarda il Pathos. Di certo, almeno dal vivo, il cambio di partner all’ultimo momento non ha giovato al risultato finale che comunque ha regalato alcuni momenti di grande intensità.

A seguire, in una serata dal doppio concerto, il quartetto del funambolico trombettista Fabrizio Bosso che ha trascinato il pubblico in un’atmosfera gioiosa di divertimento dai suoni scintillanti e preziosi fatti di grandissimo virtuosismo ma anche di tanta emozione elegante. Bosso non è mai eccessivo e non vuole stupire il pubblico a tutti i costi con equilibrismi trombettistici fine a se stessi così come i suoi musicisti che pur lanciati a folli velocità da ritmi prodigiosi mantengono sempre la barra a dritta. Nessuno di loro vuole fare il “fenomeno”. Fin da subito hanno saputo creare un’atmosfera piacevole, senza tensioni eccessive o liturgie narcisistiche, solo tanta buona musica che lascia Good Vibrations e che fa sognare ad occhi aperti. Ogni tanto ci vuole proprio.
Udin&Jazz presentava anche una personale dedicata della pittrice Ivana Burello dal significativo titolo “I colori del Jazz”. Nel ridotto del Palamostre, dedicato a Carmelo Bene e ricavato sotto una delle scalinate dell’auditorium, erano esposti alcuni ritratti di grandi icone del jazz, (Sonny Rollins, John Coltrane, Miles Davis, Billie Holiday) frutto di varie tecniche pittoriche soprattutto relative all’espressionismo astratto e all’action painting. L’effetto era quello di un’improvvisazione musicale per spatole e pennelli non del tutto inedita o assolutamente originale ma sicuramente di grande impatto.

Nel corso della manifestazione è stata anche presentata quella che ormai è giustamente diventata la migliore e più venduta graphic novel di Jazz nel nostro paese: Mingus di Flavio Massarutto e Pasquale Todisco “Squaz” dal quale, per concludere questa prima parte della recensione, rubiamo impunemente l’explicit che può davvero servirci come nuovo inizio per future riflessioni: Mingus “è la storia di un intellettuale autodidatta in lotta perenne con una società che lo vorrebbe marginale e subalterno. La storia di un Martin Eden meticcio, la si potrebbe definire anche una biografia apocrifa. Come ebbe a scrivere Ingeborg Bachmann – Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.”
(continua)

Flaviano Bosco