Roberto Ottaviano mai delude

Non sono certo moltissimi, oggi, i musicisti che mai deludono, gli artisti che non sbagliano un colpo sia nelle produzioni discografiche sia negli eventi live. Bene, tra questi pochi c’è sicuramente il sassofonista Roberto Ottaviano il quale giorni fa si è esibito alla Casa del Jazz di Roma alla testa del suo quintetto ‘Eternal Love’ con Marco Colonna al clarinetto basso, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Ermanno Baron alla batteria in sostituzione di Zeno De Rossi.

L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti europei, un sassofonista e un band-leader che non ha ancora raccolto tutto ciò che effettivamente merita. In effetti Ottaviano ha sviluppato un linguaggio del tutto personale in cui il gusto per l’improvvisazione si coniuga da un lato con la profonda conoscenza delle tradizioni jazzistiche dall’altro con la ferrea volontà di guardare sempre avanti. Il tutto impreziosito da una tecnica che gli consente di esprimere compiutamente i sentimenti, le sensazioni del momento che, proprio per questo, riescono a smuovere nell’ascoltatore un mondo di emozioni.

Il concerto di Roma è stato salutato dalla folta partecipazione di un pubblico numeroso che ha seguito con entusiasmo la musica eseguita da Ottaviano e compagni. Musica che come recita il titolo del suo ultimo cd – “People” – è una sorta di inno alla pace, alla tolleranza, alla concordia universale. Ma non solo ché il musicista ci tiene a lumeggiare un altro elemento della sua poetica: la necessità sociale di denunciare ciò che non va. Dall’osservazione dell’umanità, con tutti i suoi pregi e difatti, nasce questo album in cui Roberto ha voluto raccogliere alcuni dei momenti salienti del gruppo durante le sue esibizioni nel tentativo di “disegnare ritratti di questa umanità fatta di persone incontrate realmente e virtualmente, persone che ci hanno dato qualcosa, i loro luoghi ed i loro respiri».

Nelle circa due ore di concerto, Ottaviano ha presentato quasi per intero il contenuto del disco vale a dire quattro delle sue cinque composizioni originali (Mong’s Speakin’, Hariprasad, Homo Sum e Ohnedaruth) e i brani At The Wheel Well di Nikos Kypourgos, Gare Guillemans di Misha Mengelberg e come bis, Caminho Das Águas di Rodrigo Manhero e African Marketplace di Abdullah Ibrahim.

Ora, a prescindere dai contenuti sociali sopra esposti, la musica in sé è semplicemente superlativa. L’intesa tra i cinque è perfetta e anche l’apporto singolo è in linea con la cifra generale del gruppo. E l’empatia che si respira all’interno di “Eternal Love” è dimostrata dal fatto che a Roma la mancanza del batterista titolare Zeno De Rossi non è stata avvertita più di tanto data la facilità, la spontaneità con cui Ermanno Baron si è inserito. Insomma un quintetto davvero straordinario in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente disegnato dal leader.

Gerlando Gatto

Greta Panettieri ed Elena Paparusso: ancora due grandi artiste a “L’altra Metà del Jazz””

Anche il penultimo incontro del ciclo “L’altra Metà del Jazz”, ideato e condotto da Gerlando Gatto, ha confermato le premesse da cui la serie ha preso avvio. Rifacendosi al secondo libro di Gatto, “L’altra Metà del Jazz”, il giornalista ha voluto presentare uno spaccato di quanto ricco sia il panorama delle musiciste jazz nel nostro Paese. Di qui una carrellata di artiste notissime, conosciute e meno conosciute che hanno tutte evidenziato un livello artistico di qualità assoluta e che forse, almeno in molti casi, meriterebbero maggiore considerazione.
Ma, rimandando alla prossima, conclusiva puntata del ciclo (martedì 12 marzo, con  Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti) un bilancio più approfondito, veniamo alla serata di martedì scorso.

La prima musicista intervistata da Gatto è stata Greta Panettieri, che esordisce raccontando la sua infanzia a dir poco peculiare: cresciuta facendo vita rurale in una comune in Umbria, ovvero in un casale abbandonato e occupato dai suoi genitori e un gruppo di stretti amici, Greta racconta che questa vita, oltre ad insegnarle ad affrontare con coraggio le difficoltà del momento e a crescere in maniera organica con la natura, è stata fondamentale per avvicinarla al macrocosmo musicale in cui vive oggi. Infatti erano molto comuni le esibizioni musicali e gli ascolti in comunità di numerosi dischi, soprattutto di Frank Zappa, ed è proprio da questo ascolto che nascerà la sua passione per la musica, passione che si concretizzerà tramite lo studio del violino dall’età di sei anni, proseguito a sedici anni con l’ingresso al conservatorio.
A questo proposito viene evidenziato un particolare anno nella vita della cantante, ovvero il 1994: infatti quello sarà l’anno in cui inizierà a studiare canto sotto la maestra Cinzia Spata, prima e unica insegnante di canto – per il resto Greta racconta di essere autodidatta – della quale ricorda con affetto il fatto di essere stata la prima sia ad instillare in lei la concezione della voce come vero e proprio strumento, sia ad approfondire la forma del canto jazz; narra inoltre un simpatico aneddoto secondo cui la passione di Greta per il canto e la sua foga fossero tali da far esclamare alla maestra, l’ultimo giorno di lezione: “Non so nemmeno cosa ti ho insegnato!”. E alla constatazione di Gatto sulle radici siciliane della maestra Spata, come del resto di altre insegnanti – vocalist già menzionate nelle scorse serate – Greta risponde lodando la generosità della gente di Sicilia e la loro voglia di condividere la propria conoscenza.
Altro anno cruciale per la carriera di Greta sarà il 1998, anno in cui vincerà una borsa di studio per andare al Berkeley College of Music di Boston; tuttavia, a differenza di sue altre colleghe, lei non studierà veramente lì: infatti, per una questione di sostenibilità dei costi, non coperti del tutto dalla borsa di studio, si fermerà a New York City per un periodo,  che a conti fatti si dimostrerà molto fruttuoso.
Nel 2004 forma una band, i Greta’s Bakery, con il pianista, produttore e arrangiatore Andrea Sanmartino, suo accompagnatore per la serata nonché compagno nella vita, e il bassista Mike LaValle; con questa band firmerà nel 2007 un contratto con la prestigiosa casa discografica Decca Records, da cui uscirà nel 2010 l’album The Edge of Everything, che comprende sia composizioni originali del trio sia cover di altri celeberrimi artisti come Diane Warren, Mina o gli Outkast. Se da un lato Greta descrive quest’esperienza come estremamente formativa per conoscere meglio il mestiere sia del cantante che del discografico, d’altra parte riconosce le profonde difficoltà riscontrate durante quel periodo: infatti le era stato chiesto dalla casa un cambiamento radicale, sia d’immagine sia dal punto di vista musicale. Di qui la necessità – nonché la voglia – di un cambiamento che la porterà, nel 2011, a rescindere il contratto con la Decca per ritornare ad essere un’artista completamente indipendente. Da questa svolta nascerà nel 2011 l’album Brazilian Nights, in collaborazione con il pianista Cidinho Teixeira, il sassofonista Rodrigo Ursaia,  il batterista Mauricio Zottarelli e il bassista Itaiguara Brandão, disco nel quale, a suo dire, ha ritrovato quell’integrità artistica smarrita durante il periodo con la Decca.
Infine Greta racconta della sua attività secondaria, ovvero la scrittura di libri: infatti a repertorio ha una graphic novel intitolata Viaggio di Jazz, narrazione della sua storia fino a quel momento, e La voce nel pop e nel jazz, un testo universitario in cui si analizzano cento canzoni tratte dal repertorio del pop classico americano degli anni ‘20-‘60. Certo è piuttosto sorprendente scoprire una musicista che scrive libri, ma a ben vedere la cosa non è poi così strana.  Al riguardo, prendendo spunto anche dall’intervista della serata scorsa ad Ottavia Parrilla, che raccontava del suo ruolo di storyteller, non appare particolarmente bizzarro che un compositore, già avvezzo a raccontare storie per mezzo della musica, si trovi nel suo elemento cimentandosi in quelle che in fondo sono altre forme di espressione artistica. È il caso per esempio del rapper spagnolo Rayden, al secolo David Martínez Álvarez, che ha sempre coltivato una passione per la letteratura tale da arrivare non solo a scrivere romanzi durante la carriera, ma addirittura a ritirarsi l’anno scorso, proprio all’apice del suo successo, per dedicarsi in toto alla letteratura e alla scrittura.
I brani presentati live dai due artisti sono stati Don’t know (Sammartino, Panettieri) The Sabiá di Chico Buarque e Tom Jobim, e Strangers In the Night, tratto dal songbook di Frank Sinatra, cui sarà dedicato il prossimo album della Panettieri in uscita a breve.

La serata prosegue con Elena Paparusso, artista poliedrica che nonostante i suoi legami con numerose forme d’arte, tra cui la danza, si sente prima di tutto musicista; di lei Gatto nota subito il curriculum zeppo di eventi cui ha partecipato, ed Elena risponde affermando che questa è una passione nata fin da quando lei era piccola: condividere e far conoscere degli artisti da lei stimati attraverso l’organizzazione di eventi, concerti e rappresentazioni. Inoltre, interrogata riguardo la scarsa produzione discografica da parte sua, spiega come la sua attività non si fermi alla musica, ma si estenda anche ad altre branche dell’arte – e di conseguenza la maggior parte delle sue idee non trova concretizzazione in dischi (ad esempio la danza contemporanea).
Parla poi della sua storia personale: nata a Noci, cittadina in provincia di Bari, dopo aver finito le superiori si trasferisce a Roma – inizialmente per studiare economia, ma poco dopo si iscrive al Conservatorio di Santa Cecilia studiando con Maria Pia de Vito, laureandosi e specializzandosi in canto jazz ma proseguendo comunque i suoi studi di canto con il contralto lirico Lucia Cossu; a questo proposito racconta che, dato il suo timbro da mezzosoprano, ha sempre avuto una particolare attenzione alla tecnica vocale, notando la difficoltà da parte delle persone con il suo stesso timbro vocale nel cambiare registro.
A proposito della sua discografia e delle sue opere, parlando del suo primo album Inner Nature del 2016, l’artista afferma il legame profondo con la tradizione jazz presente in esso; a questo proposito cita i suoi modelli di riferimento: in quanto a cantanti Carmen McRae, Jeanne Lee, Becca Stevens, Sarah Vaughan, Abbey Lincoln ed Ella Fitzgerald. Inoltre, riguardo alle sue composizioni, la cantante spiega come il testo di una canzone e scrivere quello che si canta siano visti da lei come elementi di estrema importanza nei suoi lavori, nonostante questo non le impedisca di musicare alcune poesie già esistenti: a questo proposito, oltre a citare tra i suoi lavori un adattamento di Dark August di Derek Walcott, racconta di come abbia messo in musica una raccolta di poesie dello scrittore Vittorio Tinelli. A proposito interviene Gatto che racconta un gustoso episodio di come molti anni addietro, prima del Nobel,  conobbe Walcott in una splendida spiaggia caraibica, trovandolo un uomo molto colto ma allo stesso tempo gentile e affabile.
Riguardo alla sua carriera, nel 2015 vince il premio come Miglior Compositrice nel Women in Jazz Competition, vittoria che le permetterà di suonare sia a Londra sia  ala Casa del Jazz; a questo proposito, rispondendo alla consueta domanda di Gatto sulle discriminazioni a stampo sessista nell’ambito jazzistico e musicale, lei risponde che non molti uomini, fortunatamente, mettono in atto comportamenti di questo genere, esistono tuttavia ancora discriminazioni in questo ambito: in sostanza, si sono fatti passi avanti ma c’è ancora molto da fare.
Nel 2018 partecipa al progetto della sua insegnante Maria Pia de Vito, Moresche e altre invenzioni, realizzato in collaborazione con l’Ensemble Burnogualà: di questa collaborazione Elena ricorda divertita le sessioni di registrazione a Ventotene, le esibizioni sulle Dolomiti e a Ravello e in generale l’atmosfera cameratesca che si respirava in quell’ambiente.
Accenna infine alle sue altre attività, sia parlando dell’evento Cantiere Infinito nel 2019 in collaborazione con la coreografa Mariagiovanna Esposito, descritto come una collaborazione tra il conservatorio e l’accademia nazionale di danza e come un momento di sperimentazione tra musicisti e ballerini, sia raccontando della sua attività didattica come docente di canto jazz al conservatorio. Dell’entusiasta racconto che Elena fa di questa sua esperienza, ormai quinquennale, due sono i punti su cui focalizza maggiormente la sua attenzione: la soddisfazione ottenuta dal buon feedback ricevuto dai suoi alunni e l’aver capito la necessità da parte loro di lavorare con persone attive e appassionate.
I pezzi presentati dalla cantante e dal suo accompagnatore Francesco Poeti, alla chitarra-basso, sono stati Labile, sua composizione originale eseguita originariamente in quintetto con Francesco Poeti, Domenico Sanna al piano, Luca Fattorini al basso e Fabio Sasso alla batteria, My First Dance With You come anteprima del suo nuovo album Anatomy of the Sun di prossima uscita, In attesa e Poor Butterfly.

Beniamino Gatto

Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Nerovivo di Evita Polidoro – Nero i giorni dispari e Vivo i giorni pari

Parlami di te. Dividi un foglio con una linea orizzontale e cospargi di nero solo la metà inferiore.
Prendi una classica Bic nera e scrivi dei tuoi beni nello spazio bianco e dei tuoi mali sopra la coltre di pece.
Non si riesce a leggere ciò che sta sotto, eppure vive, siccome esiste a prescindere dalla vista. Un disequilibrio tra la parte chiarescente dell’Io e quella che sprofonda in pullulanti atti rimossi e nascosti alla mente. Tuttavia, angolando la carta sotto la luce di una lampadina, brillano i riflessi di limpidi solchi scavati dalla penna. Il tratto disvela il suo contenuto e si avvia un processo di emersione dell’interiorità che smargina il confine netto tra due zone in antitesi, trovando una pacifica coesistenza sulla medesima superficie. “Per poi fuggire, sopra le nuvole, volare ai limiti, niente sole, nero vivo, nuvole e fuliggine.”

Un quieto urlo cantato da John di Leo, nella strofa di Nero Vivo dei Quintorigo, diventa una eco travolgente che Evita Polidoro, batterista e cantante, accoglie e trasforma nel suo primo album come band leader: Nerovivo, per l’etichetta Tuk Music di Paolo Fresu, in trio con i chitarristi Nicolò Francesco Faraglia e Davide Strangi. La carriera di Polidoro è una somma di occasioni colte e scelte per giungere a questo punto del 2024. Il triennio alla Fondazione Siena Jazz, le tournée con la cantante Dee Dee Bridgewater e Francesca Michielin e il Siena Jazz 2022 al fianco di Shai Maestro, Avishai Cohen e Matt Penman. Un’anima da rocchettara dichiarata, cui nocciolo si schiude nel privato in un ricco mondo di ascolti: pop, elettronica, trap, drill, new wave, punk, fino agli sperimentalismi di Alejandra Ghersi.
Le note incise sul calco nero dell’album sono la ricerca di un gusto timbrico-elettronico che mette i suoni su frequenze gravi in primo piano, con perpetui rumorismi e drone dei synth, riverberi, feedback e delay alla chitarra, lasciando spazio sia a ricchezze melodiche che a necessari respiri di vuoti e silenzi, un mix caro all’estetica post-rock. Una locandina che promette Thom Yorke, Alt-J, Bon Iver e Sigur Rós sul medesimo palco; special guests le limature jazzistiche e gli innesti ambient perfettamente in interplay tra le formazioni.

Commistioni che pulsano nell’eclettico batterismo della Polidoro, destreggiandosi esilmente tra rock, pop e jazz. In Black Mirror, il groove dal tiro rock si articola in un fraseggio libero ma coeso nel timing, uno stile esecutivo dei batteristi post-bop e venturi. Un moto turbinante dell’accompagnamento percussivo che si amalgama ai tratti scuri e onirici delle pennate di Faraglia e Strangi, ascrivibili a colonna sonora per l’omonima serie TV dalle tematiche distopiche. Simile attenzione ai crossover anche in Limerick, una raffinata poesia strumentale strutturata su quattro sezioni, dove cellule sonore della chitarra o della batteria in una stanza rimano per riemersione in quelle successive, in un continuo permutare della tessitura colma di impliciti da scovare con l’orecchio.

Le rifiniture jazz e le sonorità ambient spirano nelle quattro “Arie” del disco, come uno spirito errante che aleggia su tutta la tracklist. Stupefacenti nel modo in cui rovesciano il ruolo convenzionale dell’ambient da significato a significante. Infatti, Arie di pioggia ha per struttura generatrice un immaginifico paesaggio plumbeo disegnato con cupe nuvole di synth, arpeggi e frasi melodiche allacciati tra le chitarre e condite da gocce d’acqua nelle sferzate con le spazzole su piatti e pelli della batteria. Un incedere atemporale del brano in cui il cumulonembo sonoro si dirada solo verso il finale. I neri più profondi sono espressi in Arie dimenticate, un gioco d’improvvisazione tra le due chitarre che diventano l’una evanescente fantasma acustico dell’altra, e in Arie morte con i solenni rintocchi dissonanti sulle corde, simili a campane funebri. Il finale dell’album, Arie ricordate, è un risveglio della coscienza, in cui le rimembranze tratte dalle arie precedenti distendono i pulviscoli neri, senza snaturarne il senso.

In Extra-Ordinary e In Your Head, s’incastrano pezzi di puzzle in frasi verticali scritte sul foglio da cui siamo partiti, un testo che prende vita con la vocalità dolce e pulita di Evita Polidoro. Leggiamo un diario di spontanea intimità che racconta le difficoltà nel mantenere i rapporti umani a noi cari, in una quotidianità sempre meno ordinaria e il funambolico rapporto tra la realtà dentro la nostra testa e quella fuori. I sintetizzatori modulari e sampler di Ruggero Fornari e Stefano Bechini creano in questi brani un perfetto connubio con le atmosfere del trio: un tepore inquieto, così avviluppante tra suono e parola da non poterlo concepire come ossimoro. La stessa Polidoro parlando di Nerovivo spiega questa sincrasi: “Nerovivo è quello che mi passa per la testa. È il contrasto continuo nel vivermi la vita: nero i giorni dispari e vivo i giorni pari.” Pari e dispari potrebbero avere un ironico corrispettivo nella posizione della “Arie” che dividono la tracklist: prima e terza contro sesta e ottava, quali di queste metà è la parte nera del foglio? Forse entrambe?
Con Nerovivo, il trio testimonia quanto il jazz odierno sia per sua natura agglomeratore e mediatore delle forze sonore interiori ed esteriori dei musicisti. Il jazz ci ha trasmesso un’idea di approccio musicale aperto verso il superamento dei confini attraverso l’estemporaneità di stimoli globali coevi e passati, ossia suonare evitando di cristallizzarci su manifesti neromorti.

Alessandro Fadalti ©

Cinzia Gizzi e Noemi Nuti entusiasmano il pubblico: Ripresa alla Casa del Jazz la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz condotta e ideata dal nostro direttore Gerlando Gatto

Dopo un’attesa di circa due mesi e mezzo, la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz, a cura di Gerlando Gatto, è ricominciata alla Casa del Jazz con due valide artiste: la pianista Cinzia Gizzi e l’arpista e vocalist Noemi Nuti.
La prima parte della serata è dedicata appunto a Cinzia Gizzi, la cui intervista inizia con una riflessione sull’assenza del canto jazz nel Festival della Canzone Italiana di Sanremo, conclusosi pochi giorni prima dell’evento: riflessione da cui scaturisce l’amara considerazione di un confinamento del jazz in certe nicchie e ambienti definiti, nonostante  l’attuale tendenza alla contaminazione tra generi.

Parla poi della sua carriera: partendo dal primo incontro con la musica che avvenne per caso durante i suoi studi universitari in una facoltà impostale dalla famiglia . Ma ben presto la musica ebbe la meglio e nell’arco di poco tempo si andò delineando la personalità di una grande artista che  proseguì con il suo rapporto con il piano classico, che lei definisce fondamentale per una buona formazione jazzistica ma non indispensabile. Sulla musica classica tornerà in seguito, esprimendo la sua preferenza, tra i compositori, per Bach, genio capace di donare equilibrio a chi lo ascolta. Enumera quindi alcune delle sue collaborazioni più significative e di alto profilo come Harry “Sweets” Edison, Joe Newman, Sammy Davis e Tony Scott, dei quali ricorda con grande affetto l’aspetto umano oltre a quello artistico. E si arriva così  al 1988, anno della svolta per la sua carriera: sarà infatti quello l’anno in cui vincerà una borsa di studio, grazie ad una sua amica che la convinse a presentare la domanda, che la porterà negli USA, a Berkeley; Cinzia ricorda questi tempi negli Stati Uniti come duri ma molto soddisfacenti. Altri incontri e collaborazioni l’hanno segnata: nello specifico con Chet Baker, Dizzy Gillespie e in particolare Jaki Byard, con cui ha studiato metodologia a seguito di un incontro presso il Mississippi Jazz Club, allora gestito dai fratelli Toth.
Racconta poi del suo ritorno in Italia e della pubblicazione del suo primo disco Trio and Sextet, nel 1991, con la collaborazione di musicisti come Flavio Boltro alla tromba, Piero Odorici al sassofono, Giovanni Tommaso al basso, Gianni Cazzola alla batteria e Mario Migliardi al trombone, e della sua carriera didattica di cui ricorda luci e ombre: tra le prime ricorda la soddisfazione dell’insegnamento, sottolineandone tuttavia la complessità; tra le seconde illustra le difficoltà affrontate a causa di un sistema che imponeva al detentore della cattedra unica l’insegnamento di sette materie in tutto il semestre ed anche del fatto che, in quanto donna, ha dovuto dimostrare più degli altri colleghi maschi. Da questo complessivo bagaglio di esperienze le deriva la forza e la capacità di scrivere due libri dedicati agli “Arrangiatori Jazz”.
Toccando infine gli aspetti più recenti della sua carriera, ricorda il premio alla carriera vinto nel 2017 nell’ambito del Premio Internazionale Profilo Donna, grazie alla segnalazione di Patricia Adkins Chiti, e conclude con una piccola riflessione sulla quasi totale assenza di jazz nella Rai, collegandosi alla prima domanda fatta durante l’incontro da cui si evince, secondo Cinzia, che i giovani d’oggi vengono bombardati da un determinato tipo di musica, mentre dovrebbero avere la possibilità di scegliere la musica che amano e la Rai – servizio pubblico, non dimentichiamolo – dovrebbe dare modo ai suoi ascoltatori, che pagano un canone, di seguire ogni genere musicale.
Come al solito non sono mancati interventi musicali: in questo caso Cinzia è stata accompagnata dal contrabbassista Pietro Ciancaglini e dal batterista Marco Valeri, e insieme hanno suonato I Keep Love in You di Bud Powell, Subconsciously di Lee Collins e Te Vojo Bene Assaje.

Dopo il consueto intervallo di cinque minuti, la serata è ripresa con l’arpista e vocalist Noemi Nuti che purtroppo, a causa di un problema tecnico con l’arpa, si è presentata solo nelle vesti di cantante, accompagnata dall’eccellente pianista Andrew McCormack, compagno non solo sulla scena ma anche nella vita.
La vita di Noemi è caratterizzata da numerosi viaggi e contatti con diverse culture: nasce infatti a New York da famiglia italiana e ci rimane fino agli otto anni; da quel momento si trasferisce in Italia dove passerà la tarda infanzia e l’adolescenza, per poi trasferirsi a Londra, dove tuttora risiede. Già fin dall’età di otto anni Noemi inizia a studiare l’arpa, di cui si è innamorata grazie alla copertina di una rivista che la raffigurava in tutto il suo splendore; comincia quindi con lo studio dell’arpa classica e folk (soprattutto celtica) fino all’ottavo grado, ma grazie al contatto con la musica di Kurt Rosenwinkel ed Ella Fitzgerald decide di passare alla musica jazz: ed è in questo ambito che nel 2012 si diplomerà al Trinity College di Londra, studiando con insegnanti del calibro di Anita Waddell, John Hendrix e Sammie Purcell.
Nella sua musica risulta evidente un vivo interesse per la musica brasiliana, soprattutto per l’unione, da lei illustrata, tra ricchi ritmi e melodie leggere, semplici solo all’apparenza ma che in realtà nascondono una complessità disarmante: questa passione la porterà a formare una band di samba che arriverà fino al celeberrimo Carnevale di Rio de Janeiro. A proposito del Brasile, Noemi lo descrive come un posto molto particolare: un luogo isolato e un porto allo stesso tempo, contemporaneamente un melting pot e un luogo legato alla propria cultura.
Un altro luogo di cui parla con molto affetto è la sua residenza attuale, ovvero Londra: facendo un paragone tra la scena musicale londinese e quella italiana Noemi nota un attaccamento al passato e alle tradizioni molto più presente in Italia che nel Regno Unito dove, al contrario, osserva una maggiore apertura all’innovazione e attenzione da parte del governo nei confronti delle arti. Sempre a proposito del jazz inglese, descrive l’influenza subita dalla musica sudafricana e le differenze dei ritmi afro-jazz presenti nelle varie regioni del mondo: da una chiacchierata con il pianista panamense Danilo Pérez nasce una maggiore attenzione alle casse e ai bassi nelle regioni del Sud America, mentre, al contrario, una predilezione nei confronti dei piatti e delle frequenze alte nel Regno Unito; a questo proposito ha citato la cantante britannica Norma Winstone e come un suo brano, Azimuth, sia tornato alla ribalta grazie ai celebri rapper Drake e Yeat e ai produttori Bnyx e Sebastian Shah, che l’hanno campionata nel loro  IDGAF, uscito nello scorso ottobre. Conclude infine il suo intervento con un ulteriore elogio nei confronti di Londra, ovvero di come la scena inglese permetta un’ottima formazione a livello professionale e di affrontare a ogni sorta di pubblico e ambiente.
I brani proposti con il pianista Andrew McCormack sono stati “For What I See,” composizione originale di Noemi contenuta nel suo disco ‘Venus Eye’ uscito nel 2020 e ispirata da “Treme Terra” di Flora Purim e Airto Moreira con Joe Farrell (il disco si chiama “Three-Way Mirror”). A questa prima, trascinante esibizione hanno fatto seguito “Disfarça e Chora” di Cartola e “I Can’t Believe You’re In Love With Me” di Jimmy McHugh, interpretato anche da Billie Holiday.
In quanto a pubblico la serata è stata un successo, facendo registrare non solo un numero di spettatori tale da riempire quasi l’intera sala ma anche un entusiasmo e un gradimento che chi vi scrive non può che condividere.

Il prossimo appuntamento è in programma martedì 20 Febbraio alle 21 con Susanna Stivali e Chiara Viola. Clicca qui per info&tickets

Beniamino Gatto

Parrhesiastes di John Zorn – Una landa franca di musiche in comunione

Una parola nuova al giorno è una di quelle tendenze che ci fa sentire più acculturati per qualche ora con delle spicce informazioni su termini spesso desueti, dimenticandoli perché mal s’incastrano alla nostra piccola isola sociale di quotidianità. Con un magheggio metalinguistico questo incipit diventa un’antipatica parresia sui tempi moderni e sul linguaggio. Ecco la parola del giorno: parresia, ossia un’attività verbale in cui il parlante esprime la verità in modo diretto, evitando qualsiasi tipo di tecnicismo retorico ma esponendosi al rischio nelle relazioni con se stesso e gli altri attraverso la critica. Questa definizione in linea coi nostri tempi ci viene regalata dalle lezioni del filosofo Michel Foucault, ma nasce dalla democrazia ateniese e in particolare nelle parole di Socrate che esaltava la parresia come una questione di vita o di morte nella lotta politica agli autoritarismi. Si sente la mancanza della parresia nella contemporaneità se pensiamo a quanto il linguaggio con cui cerchiamo di porre delle verità sia disunito e infettato dal confusionario rumore bianco della retorica dei social, dove il dialogo è una tarantella di parole persuasive e visioni distorte ed egocentriche della realtà.

Le arti fanno da specchio e antitesi a questi dilemmi sociali e nella ricerca di un crogiolo linguistico che ci accomuni è difficile non imbattersi nella figura di John Zorn.
Personaggio a cui assocerei molti poli, come polistrumentista, poliglotta, poliedrico assieme a neologismi sgangherati come policompositore, polifilosofo e poliletterato. Da quasi un decennio ha scelto di darsi anima e corpo unicamente alla composizione per svariate formazioni, assumendo il ruolo di prestigiatore che sfila dal cilindro annualmente dai tre ai quattro album pregni di quel senso di sinergia consonante tra emisferi sonori underground e l’avant-garde. La recente uscita di Parrhesiastes, per l’etichetta Tzadik fondata dallo stesso compositore nel 1995, testimonia come all’età di settant’anni la giocosità creativa di Zorn sembra fossilizzata sul rigiocare la stessa partita di Burraco, tuttavia non manca lo stupore che sa donare il rimescolamento delle carte in tavola e soprattutto la compagnia con cui si gioca è ciò che rende ogni mano una storia a sé stante. Affida questo disco alla formazione Chaos Magick, eseguendo una sorta di rituale alchemico per evocare una chimera stabile tra prog e jazz con alcuni innesti sperimentali. Un’avventura mistica con il quartetto che comincia nel 2021 con l’omonimo album Chaos Magick, proseguendo con The Ninth Circle (2021), in cui viene ripreso il viaggio agli inferi di Orfeo scritto da Offenbach, Multiplicities: A Repository Of Non-Existent Objects (2022) ispirato ai pensieri aforistici del filosofo Gilles Deleuze e infine 444 (2023), dedicato alla numerologia degli angeli. Un piano astrale che ci fa immergere in suggestioni sonore, esoteriche e filosofiche assemblate sapientemente da Zorn, che nell’ultimo album si fa più esasperato in questo apice di commistioni, mantenendo però la raffinata pragmaticità e franchezza di un parresiastes. La tracklist è un alambicco articolato in tre lunghe session che si distillano in una boccetta dall’acustica inebriante nel cui fluido vengono digerite e ridigerite le sonorità caratterizzanti dei generi amati da Zorn tra gli anni ’70 e ’80. Leggendo i titoli viene lo spauracchio che i riferimenti extramusicali ci richiedano una laurea triennale in filosofia o sociologia per essere captati. Proviamo però ad affidarci alla parresia di Zorn ed entriamo nella sua ottica di comunione linguistica senza arrovellarci alla ricerca di un ateneo a cui iscriversi.

Le coordinate celesti gettate da Zorn ci orientano nell’ascolto su un sentiero boschivo, incappando in strani solchi sul terreno… sono le orme di Hermes, messaggero degli Dei e custode della parola superiore. In The Footsteps of Hermes, possiamo seguire le impronte della divinità greca che si manifesta sotto forma di una permutazione di generi scandita passo dopo passo, minuto dopo minuto. Ogni strumento ricopre un ruolo a sé stante che si regge all’inizio in una staffetta sulla sottile soglia tra il progressive rock e il math rock; rispettivamente attraverso l’organo di John Medeski e il Fender Rhodes di Brian Marsella che cedono la parola alla chitarra di Matt Hollenberg. Quest’ultima cambia con prepotenza l’atmosfera portandoci a un focoso scontro tra solisti che assomiglia ad un match mai esistito tra Jon Lord vs. Chick Corea su un ring da boxe, muniti di tastiere al posto dei guantoni. Il groove hard rock della batteria di Kenny Grohowski sostiene questa sezione incalzante interrompendosi su brevi rullate che lasciano spazio a un intermezzo di stampo ambient ricolmo di silenzi, presto spezzato dagli inaspettati accordi metal della chitarra elettrica. In questa traccia permane con forza l’idea di perenne collisione tra le identità degli strumenti, che sgomitano alla ricerca una sintesi tra le loro individualità attraverso riferimenti stilistici elegantemente riconoscibili. Meglio apprezzare la seconda metà del brano cullati dalla sorpresa di questi interventi, piuttosto che restituirne un decalogo da telecronista. Chi segue i passi di Hermes segue l’esoterismo e la conoscenza. Questa figura per il filosofo spagnolo Luis Garagalza diventa il risolutore del problema dell’interpretazione dei linguaggi, unendo i due opposti della filosofia ermeneutica di Heidegger e Gadamer con la visione psico-antropologica di Jung che vede nel simbolismo il centro dell’esperienza umana. Traslitterando il tutto alla traccia di Zorn, seguire le orme di Hermes diventa il ponte di una schietta mediazione tra i variopinti idiomi.

The Evental Devalorization of the Perhaps cita uno scritto del filosofo Quentin Meillassoux che invoca il tema filosofico del rapporto tra eventi e caso, attraverso il pensiero di Alain Badiou che rilegge la poesia di Mallarmè Un coup de dés jamais n’abolira le hazard (Un colpo di dado non abolirà il caso). Nella poesia il fato viene raffigurato dalla morte del navigante naufragato mentre stringe tra i palmi i dadi della sorte, neanche la verità del risultato del lancio avrebbe evitato il finale nefasto. La forza costituente del brano è un mulinello di improvvisazione e noise, ma il dualismo asintotico tra verità e casualità viene richiamato nell’alternanza del generale clima incerto e onirico iniziale con gli episodi dai limpidi margini funk, blues ed acid, trovando una illusoria coesione solo per un fragile istante verso la metà. Se nel primo brano l’avvicendarsi tra le identità strumentali era una bussola della verità, qui galleggiamo sul pelo del caos, dove il preudire, nota dopo nota, diventa vano. Sorge però un problema, perché il PEUT-ÊTRE – Perhaps – dovrebbe essere il culmine inciso a lettere capitali nell’ultima pagina della poesia, una parola che mette il punto su quanto il caso sia prevaricante sugli eventi; eppure la metafora viene smorzata da un evento: l’apparizione dell’orsa maggiore, la stella polare, la salvezza oggettiva che il marinaio ha mancato e che ormai giace sul fondo assieme a lui. Una verità evenemenziale che toglie valore a quel “forse” su cui il poeta ci lascia appesi e che in Zorn corrisponde al continuo richiamo di musiche affini a cui affidarci e aggrapparci per non annegare fatalmente. La poesia visuale di Mallarmé appaia il tema della discontinuità dell’esistenza e dell’effimerità del linguaggio con un’impaginazione tipografica di parole in un fluire ondulatorio dall’alto al basso della pagina, riempiendo la carta di vuoti bianchi incisivi quanto le pause musicali nel brano. La diatriba tra il vero e il caso non trova purtroppo risoluzione nel linguaggio, un dilemma che viene marcato da un gigantesco punto di domanda acustico, la cui arcata scivolante è l’arpeggio di note evanescenti del Rhodes e il punto è l’incisivo accordo dell’organo che sfuma in un silenzio tombale.

La discrepanza tra le orme nella selva di Hermes e il galleggiare nel mare simbolista di Mallarmé genera un magnetismo che apparentemente annulla la ricerca coesiva di un crogiolo linguistico. L’indagine musicale trova però un finale di coesistenza, nell’ultimo brano Form, Object, and Desire, dove ci pensa Lacan a psicanalizzare i Chaos Magick e il loro garbuglio. La seduta comincia con una musica schizofrenica formata da attriti roventi in un susseguirsi turbolento. Una sinossi sonora dei due brani precedenti, ma in un procedimento che diventa via via più formale. Lacan è colui che assurge a demiurgo di un universo sonoro sgomitolato finalmente dal suo nevrotico intricarsi perpetuo, e così i musicisti riescono ad esprimere con lucidità le proprie inclinazioni individuali in quanto, per verbo dello psicanalista, giungono ad un epifania: il desiderio dell’oggetto non è mai indirizzato all’oggetto del desiderio. Anche se ottenuto, permane un senso di assenza e allora questa pulsione si proietta verso un nuovo oggetto e così via. La verità è che non sappiamo quello che vogliamo e non lo avremo mai, perché non è nella forma di un oggetto palpabile con i nostri sensi e quindi ogni volta che desideriamo qualcosa riceviamo una spinta che ci indirizza nel profondo della nostra interiorità, dove ci attende un oggetto che non è materiale ma esiste solo in quanto relazione tra l’umano e il linguaggio. Proprio questa visione scioglie la matassa dell’album. La parresia diventa sostanza nell’equilibrato rapporto che si crea tra le anime musicali vestite da improvvisatori che cooperano nella ricerca dell’objet petit a lacaniano. Questo, si manifesta in un brano tra il rock sofisticato e metal del chitarrismo di Hollenberg, il fraseggio bebop del piano di Marsella con ombreggiature da Cecil Taylor, il ritmo serrato da brutal prog della batteria di Grohowski, strabordando talvolta in comping degni di De Jonhette, e l’organo dal volto funk, soul e blues di Medeski. Le ultime note ripropongono un residuo di commistioni tra musica d’ascensore e innesti feroci che collimano in una tanto agognata conclusione definitiva e cadenzale.
Questa è forse la franca summa del pensiero di Zorn: una landa musicale in cui le influenze diventano comunione linguistica, accettando di affrontare assieme il caos in cui si riversa per scegliere un futuro migliore dove anche il più sognante lieto fine diventa parresia.

Alessandro Fadalti ©