Casa del Jazz: Stefania Tallini illustra la sua arte / Federica Michisanti conquista con la sua grazia

Dopo poco più di un mese di prolifiche serate, in cui il nostro direttore Gerlando Gatto, insieme alle sue ospiti, ha esplorato la situazione del jazz femminile in Italia, la serie L’Altra Metà del Jazz volge al termine, non prima però di aver regalato al pubblico un’ultima interessante serata, con una particolarità per quanto riguarda le due artiste: entrambe infatti sono state incoraggiate nella loro carriera musicale dallo stesso Gatto.
La prima parte è dedicata alla pianista calabrese, compositrice, arrangiatrice, didatta Stefania Tallini, impossibilitata suo malgrado a suonare dal vivo a causa di un infortunio ed ergo unica artista a presentare solo brani registrati, cosa di cui Stefania non manca di mostrare il proprio rammarico durante l’intervista. Intervista che parte appunto dalle origini del rapporto della pianista con il jazz, da ritrovare in un disco di Chet Baker ascoltato all’età di 17 anni, e che va in seguito a toccare il rapporto della musicista con le altre sfere artistiche di sua competenza, prima fra tutte la musica brasiliana. Da questo  complesso universo musicale, la Tallini confessa di essere stata influenzata   principalmente da  Antônio Carlos “Tom” Jobim, per quanto riguarda la composizione e l’interpretazione pianistica e, altro universo di riferimento, dalla musica classica, ambito che la Tallini ha proficuamente frequentato, descrivendoli come “vasi comunicanti”, senza alcuna gerarchia tra i generi: in tal modo si rievoca il filo rosso che ha inconsapevolmente percorso tutte le artiste intervistate, ovvero quello del superamento di una  concezione gerarchica tra generi musicali e di una sempre maggiore apertura alla contaminazione.

Tornando al Jazz propriamente detto, la conversazione va a vertere sul rapporto della musicista con gli standard jazzistici, e a questo proposito lei sottolinea l’anomalia del suo percorso rispetto a quello che è il canone accettato: lei prima inizia a suonare e comporre la propria musica e solo in seguito si dedica all’esecuzione degli standard, ma con il suo stile – non per presunzione, ci tiene a specificare, ma per una sua precisa esigenza espressiva; inoltre, Stefania ne approfitta per raccontare anche un aspetto più intimo di questo percorso, ovvero un costante senso di inadeguatezza che l’ha perseguitata per gran parte della sua carriera, fino a quando non ha imparato a considerare questa sua anomalia di percorso come il suo punto di forza. Parlando appunto della sua opera, il suo modus componendi è molto incentrato su un’improvvisazione del tutto libera, al contrario di quella che potrebbe essere quella in un pezzo jazz, legata inevitabilmente a schemi ritmici o giri armonici: è appunto in questa libera ed istintiva esplorazione del panorama sonoro che la Tallini trova ispirazione, comunque lontana da ispirazioni riconducibili alla corrente del free jazz.
L’intervista si conclude toccando altri due aspetti di Stefania: quello didattico, da insegnante, in cui esprime un quadro desolante per le generazioni presenti, ovvero una mancanza totale di sogni e aspirazioni per il futuro, ma al contempo non manca di precisare il suo orgoglio per i successi dei suoi alunni, e quello da esecutrice: parla infatti della sua formazione preferita al momento, ovvero il duo, che lei definisce terreno di scoperta continua e zenit del rapporto, della libertà e del dialogo. Al riguardo non si trova d’accordo con Gatto il quale ritiene che per suonare bene in duo occorre conoscersi bene; “Io – ribatte la Tallini,  presentando la sua esperienza con il flautista spagnolo Jorge Pardo – nonostante non ci conoscessimo, siamo riusciti ad instaurare  da subito una profonda sintonia”. Infine, rivela il suo sogno nel cassetto, ovvero poter registrare un progetto con una grande orchestra di archi.
I brani che come al solito hanno accompagnato l’intervista sono stati Riotango, tratto dall’album Brasita (2022) e registrato in collaborazione con i brasiliani Daniel Grossi all’armonica e Jaques Morelenbaum al violoncello, Silent Moon tratto dall’album E Se Domani (2023) registrato in collaborazione con il trombettista Franco Piana, presente peraltro in sala, e Uneven, estratto dall’album omonimo del quale purtroppo lamenta la mancata promozione a causa della pandemia e registrato in trio con il batterista Gregory Hutchinson e il contrabbassista Matteo Bortone.

Nel secondo tempo a calcare il palco è stata la contrabbassista Federica Michisanti, che si avvicina al mondo del jazz anche lei in un secondo momento: partendo da origini più legate al progressive rock dei Led Zeppelin, dei Genesis e di Sting (con il quale, tra l’altro, ha confessato di voler collaborare come sogno nel cassetto); conosce il jazz quando, a 20 anni, inizia a suonare il basso elettrico in un gruppo di progressive rock. Ma allora come mai si è fatta conoscere, e si è presentata sul palco, come contrabbassista? La risposta la può dare il pianista Stefano Sabatini, suo insegnante, che l’ha convinta a studiare anche il contrabbasso, strada che le ha portato molta fortuna, non abbandonando mai tuttavia il basso elettrico. “Presentando” lo strumento che ha portato sul palco della Casa del Jazz”, Federica ha spiegato come lo stesso abbia un manico più lungo di quello che sarebbero le dimensioni standard in quanto ricavato da uno strumento tirolese di fine 800, e di avere un’anomalia nell’ultima nota di questo manico – anomalia sistemata dopo un intervento da parte di un liutaio.
Inoltre ha parlato della sua passione per il disegno, tanto da essere convinta di voler fare la disegnatrice fino ai 20 anni – e a chi vi scrive non può non venire in mente, riguardo al rapporto tra musica e arti visive, l’esempio del fumettista e disegnatore Jamie Hewlett, membro fondatore insieme a Damon Albarn dei Gorillaz, affermati da ormai più di due decenni come una delle realtà più influenti dell’hip hop alternativo.
Riguardo alla domanda sulle difficoltà riscontrate dalla Michisanti in ambiente jazz in quanto donna, lei racconta da una parte di un ambiente ancora non del tutto sviluppato in questo senso, dall’altra però ci tiene a specificare il fatto che è una situazione che cambia radicalmente da persona a persona.
Parlando di come lei stia vivendo la sua situazione attuale, nella quale viene molto apprezzata sia da pubblico che da critica, la musicista riferisce da parte sua una visione di questo momento come uno sprone a fare sempre meglio e a suonare sempre meglio: per quanto riguarda il suo modo di suonare, lei riferisce che all’inizio si esibiva in trio con il pianista Simone Maggio, che peraltro l’ha accompagnata durante la serata, e il batterista Rosario de Martino, ma che a seguito – purtroppo – della morte di quest’ultimo ha iniziato a suonare accompagnata dal sassofonista Emanuele Melisurgo, e da questo sodalizio è nata una predilezione da parte di Federica per una formazione a tre senza batteria, mancanza alla quale rimedia molte volte, in quanto a scansione ritmica, il piano di Maggio. Riguardo alle sue influenze lei cita tra i classici Chopin, Beethoven, Debussy, Stravinsky e la scuola austriaca, mentre tra i musicisti jazz mostra un’ammirazione particolare per Scott LaFaro, Gary Peacock e Dave Holland. Parlando invece della sua composizione, illustra un aspetto che la accomuna alla collega che l’ha preceduta sul palco, ovvero il basare le sue composizioni su improvvisazioni al pianoforte, aiutate nel suo caso da un programma musicale per avere un’anteprima sul risultato finale complessivo; per quanto riguarda la sua identità di ascoltatrice confessa invece che a colpirla sono soprattutto le dinamiche e fa inoltre notare come il contrabbasso, nonostante la sua sottovalutazione negli arrangiamenti complessivi, serva come vero e proprio collante tra le varie frequenze. Infine racconta della sua esperienza con Ornella Vanoni e di come la Signora sia riuscita, nonostante una frattura al femore e le raccomandazioni dei suoi medici, a portare avanti il suo tour (non a caso Federica la definisce “un’eroina”).
I brani suonati da Federica e Simone sono stati Before I Go e Reset, tratti entrambi dall’album Isk (2017), e infine un medley tra Qalb – Il verde, tratto da Jeux de Couleurs (2020), e Floathing (2023).

Beniamino Gatto

I nostri cd: in forma di Duo

I NOSTRI DISCHI 
In forma di duo  

Che lingua l’italiano! Cambi la doppia consonante in una parola, per esempio duello, simbolo di lotta/contrasto ed eccola diventare duetto che, soprattutto in musica, significa il suo esatto contrario. Il duettare può infatti evocare interscambio, dialogo, accoppiata, rendez-vous, insomma comunicazione duale, frontale, collaterale, duplice, finanche effusiva o derivante da abbinamento, binomio, affiancamento… in musica può rappresentare incontro ravvicinato di tipo a sé stante, sintonizzazione di antenne sensibili non lontane fra due emittenti-riceventi messaggi sonori destinati ad incrociarsi ed a generarne uno nuovo, diverso a seconda di chi cosa dove come quando lo ha prodotto. A seguire ecco alcuni album “in forma di duo” (in qualche caso con ospiti) quale esempio delle tante opportunità che il jazz può offrire al riguardo.

Olivia Trummer-Nicola Angelucci, Dialogue’s Delight, Flying Spark.
I dialoghi, in quanto genere letterario, nascono con Platone. A livello musicale si potrebbe partire dal seicento quando il primo melodramma, offrendo nuovo spazio alla vocalità nell’azione teatrale, allarga la scena al “parlato” con musica. Nel jazz, sin dagli inizi, il dialogo (a due), anche quello strumentale, ha rappresentato una forma primigenia di interplay seppure con un certo grado di variabilità simbiotica. Rientra in quel novero il recente album, marchiato Flying Spark, della coppia formata dalla pianista-vocalist Olivia Trummer e dal batterista Nicola Angelucci, ambedue compositori. Il titolo Dialogue’s Delight è già di per sé una dichiarazione di principio, La gioia e il diletto del dialogo lo si avverte nella garbata apertura affidata ad una “When I Fall In Love” reinterpretata con una modifica del giro di accordi che cambia i connotati al famoso standard di Victor Young, con lo spirito innovativo replicato più avanti in “Lil’ Darlin” di Neal Hefti.  Al disco partecipa in qualità di ospite il fisarmonicista Luciano Biondini in quattro delle tredici tracce totali (French Puppets, Valerio, Inside The Rainbow, Portoferraio).  C’è altresì da sottolineare, della virtuosa tedesca, la bellezza delle liriche da lei scritte. I testi sono riportati nel booklet compreso quello “manifesto” che dà titolo al cd. Di Angelucci spiccano, oltre alle doti di scrittura, la saggia ponderazione delle bacchette, con un tempo che viene “enunciato” in base ai livelli espressivi della partner, “calato” pienamente nella parte che con accorto gioco di ruolo il musicista si è autoassegnato.

Baba Sissoko – Jean-Philippe Rykiel, Paris Bamako Jazz, Caligola
E’ un avventuroso rally sonoro in undici tappe l’album Paris Bamako Jazz,  un “percorso”, su colori Caligola Records, del percussionista Baba Sissoko copilota il pianista francese Jean-Philippe Rykiel (n.b.: i ruoli sono invertibili). La collaborazione artistica, già sperimentata in Griot Jazz, della stessa etichetta discografica, è divenuta liaison caratteriale cementata in amalgama fra percussioni e keyboards, sovrastate dalla voce cavernosa dell’italo/maliano. L’ideale maratona che congiunge Pirenei e Hombori Tondo, Senna e Niger è un itinerario costellato da “stazioni” su cui sono situate icone di familiari ed amici, luoghi e genti, in una visione condivisa che il meeting incornicia di note. E’ un jazz bluesato con spiragli world man mano sempre più accentuati ed accentati nel costruire un assetto d’insieme con substrato di ipnotiche iterazioni e vertiginose circolarità che attutiscono le possibili asprezze di un tracciato divenuto, strada facendo, liscio e fluente.

Greg Lamy- Flavio Boltro, Letting Go, Igloo Records

Difficile prevedere a monte il risultato musicale dell’accostamento fra la tromba di Flavio Boltro e la chitarra dell’americano Greg Lamy. Per riscontrarlo la “prova regina” sta nell’album Letting Go edito da Igloo Records a nome dei due jazzisti a loro volta affiancati dal bassista Gautier Laurent e dal batterista Jean-Marc Robin.  Ne vien fuori un mix che esalta le qualità dei leaders, in particolare la fluidità armonica di Lamy, quasi pianistica nell’accompagnamento, e la abilità nel tirar fuori dal cappello umori rock e dis/sapori jazz “lasciati andare” con una sorta di understatement che ben si amalgama con quel certo senso cool (inteso anche come “di tendenza”) del trombettista. Quest’ultimo, lo diciamo per quanti sono abituati alle ricerche genetiche del Dna artistico, potrebbe far pensare a tratti a Wheeler o Baker per la pensosità che riesce ad imprimere, tramite il movimento delle labbra e delle dita, al proprio strumento. Ma Boltro è Boltro ed è una riconosciuta autorità del nostro trombettismo con colleghi di generazione che si contano sul palmo di una mano. La sua unicità si sposa felicemente con la forte personalità di Lamy nelle dieci tracce del cd in parte a sua firma, in parte di Boltro con la chiusura affidata a Chi tene ‘O mare di Pino Daniele. Un omaggio che consegna e riconferma ancora una volta il cantautore partenopeo al songbook jazzistico.

Duo Improprium, Incontro, Dodicilune Records.
La coppia di musicisti siciliani formata dal flautista Domenico Testai e dal fisarmonicista Maurizio Burzillà, in arte Duo Improprium, presenta l’album Incontro edito da Dodicilune Records. Il lavoro intende dar corpo ad un progetto che vede allineati due strumenti che non ricorrono né si rincorrono spesso nel jazz. I quali, a dire il vero, non si dimostrano affatto “impropri” se messi assieme in quanto uniscono la capacità lirico-tematica del flauto a quella di strutturazione armonica e ritmica della fisa. Già nell’incipit del disco, “Tango for Cinzia”, appaiono più che “consoni” nella “proprietà” di linguaggio musicale sia melodica che improvvisativa (un’altra figura femminile affiora nell’altro brano “Luiza”). Il loro approccio classico si evidenzia appieno in “Suite n. 1” e in “Allegretto Fugato” così come il loro “spanish tinge” si rivela senza veli nell’andante “Badambò”. Nel tarantellato “Improprium” è la vena popolare a rigonfiarsi di echi etnici ed è forse questo il momento più “proprium” che caratterizza la particolarità del duo in questione.

B.I.T., Equilibrismi, Filibusta Records.
Il duo B.I.T. al secolo la sassofonista Danielle Di Majo e la pianista Manuela Pasqui  licenzia, per i tipi di Filibusta Records, Equilibrismi, album che segue di un biennio Come Again, della stessa label. In effetti trattasi di un “duo plus…” poiché in alcune tracce sono presenti la vocalist Antonella Vitale e il sassofonista Giancarlo Maurino di cui sono eseguiti due brani, “Meteo” e “Um Abraço”.  Si tratta di un lavoro estremamente lirico e bilanciato, nel solco del precedente. Qui la Pasqui sigla cinque composizioni su otto a partire dalla prima, “Green Tara”, su ritmo “(s)latin” fino a “For Kenny” presente anche sulla rete per chi volesse “visionarla”. Un pianismo colto e sensibile, il suo, che stimola la Di Majo nel lib(e)rare il suono, oltre che a soprano ed alto, anche al flauto, come in “Jeanne del Belleville”. La musica del duo, avvinta come in “Edera”,  in “L’equilibrista” pare camminare su fibre filiformi, in bilico su un centro di gravità che le consente di procedere sulla corda armonica tesa ancora per più “nodi”,  fino a quello conclusivo, “Hand Luggage”, autrice la Di Majo.

Francesca Leone- Guido Di Leone, Historia do samba, Abeat Records
Si vabbè la festa il carnevale ma il samba ha significato in Brasile storicamente “la voce di chi era stato sempre zittito dal suo status sociale, un modo per affermarsi nella società” come scrive Lisa Shaw.  C’è dunque un aspetto politico e sociale in tale forma musicale che ha radicata origine nella stessa origine africana e che non va sottaciuto.  Ed è un fatto che il samba, a livello musicale, con la sua speciale divisione ritmica che spinge alla danza, sia stato ispiratore di musiche di grande suggestione.  Ce ne danno un saggio, in un prezioso Cirannino formato cd edito da Abeat Recors, la vocalist Francesca Leone e il chitarrista Guido Di Leone. Historia do Samba è una “summa” di samba e musica carioca allargata cioè fino a choro e bossa, scritta da autori prestigiosi come Lyra, Bonfa, Jobim, Gil, Madi, Hernàndez, Menescal, Valle compresi i nostri Rota, Calvi, i medesimi due interpreti in veste di compositori.  Il disco, che vanta come ospite l’Oneiros String Quartet, annovera anche dei “trapianti” in chiave “sambista” di hits quali “La vie en rose”, “Cerasella”, “Everything happens to me”, in quanto, volere o volare, tutto si può sambare quando il samba si innesta nel jazz.

Stefano Onorati & Marco Tamburini, East of the Moon,   Caligola Records
L’album East of the Moon, è firmato da Stefano Onorati e Marco Tamburini. Il che già di per sé, essendo il disco – marchiato ancora e meritoriamente da Caligola Records – cofirmato dal compianto trombettista cesenate, rappresenta un evento a livello discografico. Vede la luce un lavoro “notturno” a suo tempo registrato durante le ore del buio quasi a voler iperscrutare la luna ed a riceverne inflessioni da riflettere nel suono. La registrazione risale a quando il trio elettrico Three Lover Colours stava lavorando alla sonorizzazione di “Le voyage dans la Lune”,- episodio inserito in “La magia del cinema” – sia in “Sangue e Arena”, dvd usciti in edicola per “L’Espresso” nella primavera del 2010. In quell’occasione peraltro non era presente il batterista del trio Stefano Paolini. Oggi quella musica si riconferma di lunare astralità nel descrivere il lato orientale di quel pianeta. Pare a volte eclissarsi quindi riemergere per successivamente rituffarsi nell’oscurità. Sono cinque le tracce – “Cantico”, “Lunar Eclipse”, “Black and White”, “East of the Moon”, “As It Was”, in cui la coppia tastiere-tromba è libera di improvvisare, trascinando e lasciandosi trascinare da quei chiarori che ispirarono Beethoven e Glenn Miller e dalla Moon che vari musicisti hanno visto blue o dark a seconda della prospettiva, anzitutto stilistica. Quella di Onorati e Tamburini avvolge e coinvolge chi alla loro musica si rivolge.

Dario Savino Doronzo- Pietro Gallo, Reimagining Aria, Digressione Music
Aprire l’opera come una scatoletta di tonno per estrarne il cuore melodico
principale, l’aria. Nell’album “Reimagining Aria” (Digressione Music) il flicorno soprano di Dario Savino Doronzo e il pianoforte di Pietro Gallo puntano la traiettoria su temi melodici espurgandoli di orpelli retorici, quelli ritenuti inutili, tenendoli peraltro ancorati alle rispettive basi armoniche. Felice la scelta per il repertorio   di   arie   di   compositori   sei/settecenteschi   meno   frequentati   dai concertisti come Antonio Cesti, Antonio Caldara, Francesco Cavalli unitamente ad   altri   più   gettonati   dai   concertisti   come   Alessandro   Scarlatti,   Benedetto Marcello,   Nicola   Porpora,   Giulio   Caccini,   per   un   totale   di   otto   arie   totali contenute   nell’album   arricchito   dalla   presenza   del   clarinettista  Gabriele Mirabassi in “Sebben Crudele” (Caldara) , “O cessate di piagarmi” (Scarlatti), “Dall’amor più sventurato” (Porpora). Lo stampo antico delle atmosfere viene velato dal piglio esecutivo antibarocco e da ricorrenti sonorità jazz. Ne vien fuori, ancora una volta dopo “Reimagining Opera” del 2020 (quando l’ospite era Michel Godard al serpentone), un lavoro originale, audace in “Quella fiamma che m’accende” di Benedetto Marcello che ritrae “una habanera che riecheggia   paesaggi   e   culture   lontane   attraverso   calde   melodie impressionistiche” e dall’afflato romantico in “Tu c’hai le penne, amor” di Giulio   Caccini.   Al   cui “recitativo accompagnato” si   potrebbe   associare idealmente lo   stile  del  duo   (plus   guest)   che   reimmagina   l’aria   d’opera   in quanto   intensa   esposizione   lirico-strumentale   su   una   solida   struttura   di accordi, ma con aggiunta di elementi reinterpretativi che ripensano spunti tratti da mezzo millennio di storia della musica.

Amedeo Furfaro

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

IL GRANDE EQUIVOCO DEL POP ITALIANO

Un giorno Thelonius Monk arriva tutto trafelato a casa della baronessa Pannonica. I suoi occhi spiritati spaventano tutti. Cosa ti è successo? Chiede Nica preoccupata dal suo stato di agitazione. I miei figli, risponde lui, hanno portato a casa un disco dei Beatles. Capisci che follia? Io non riesco a trovarlo. Mi devi aiutare, lo hanno certamente nascosto, e anche bene. Nica annuì tranquillizzandolo. In effetti i suoi figli avevano realmente acquistato un disco dei Beatles e chiesto a lei di poterlo nascondere a casa sua perché altrimenti, se lo avesse trovato il padre, sarebbe stata la fine. Questo simpatico episodio, raccontato da Francis Paudras nel suo libro “La danza degli infedeli”, può sembrare una esagerazione, ma non lo è. A noi questo episodio fa sorridere perché si tratta dei Beatles – e forse Monk sapeva già che con loro, il Mondo non sarebbe stato più la stessa cosa -. Ma immaginatelo oggi, e ai Beatles sostituite i Maneskin. Anzi sostituite i quattro ragazzi di Liverpool con uno qualsiasi dei nomi costruiti a tavolino in un talent show. Non si sorriderebbe più o almeno, non più di tanto. E non solo perché siamo quelli cresciuti con la musica degli anni Sessanta e Settanta e con tutto quel jazz che è arrivato alle nostre orecchie da epoche glaciali come gli anni Quaranta e Cinquanta e ancora peggio, ascoltando gente come Bach, Mozart, Debussy, Beethoven, Chopin e Schumann. No, non è soltanto una quesitone di formazione o di gusti personali, è molto peggio: è il tentativo di conformare un mercato attraverso un prodotto che incontra una maggiore quantità di utenti, che con l’arte della musica niente ha a che fare e spazza via tutti quelli che invece non aderiscono a questa impostazione. Gente che pure ha studiato nei conservatori e provato, notte e giorno, in quelle famose umide cantine, con buona pace dei condomini.

Certo, anche negli anni Ottanta eravamo soliti sbeffeggiare la musica che dominava nelle classifiche. E forse quelli furono proprio gli anni in cui l’arte, soprattutto la musica, iniziò a essere trattata come brand. Musica figlia dell’edonismo, lo stesso denunciato anche dai Pink Floyd in “Money”: New car, caviar, four star daydream, Think I’ll buy me a Stootball team. Eppure in quelle classifiche c’era anche il seme di una musica altra che nel tempo è diventata alta. Gruppi musicali che hanno segnato un passo avanti nella storia del rock, della canzone d’autore. E anche se fuori dalle classifiche pop, i media riservavano sempre una significativa quota di interesse verso chi era “figli di un Dio minore”. E chi la passava al vaglio, non era gente così, ma critici musicali che in Italia e nel Mondo hanno scritto e raccontato la letteratura musicale del Novecento.

Ora non è che non siamo progressisti o incapaci di leggere il nuovo che avanza. Anzi. Però non ci va l’idea di essere dominati da un algoritmo che bombarda i nostri gusti. Non ci va di ascoltare voci perfezionate con l’auto-tune. Non se ne può più di rap, trap che non sono l’hip hop che stregò anche Miles Davis. E in tutta questa roba, non ci sembra nemmeno di ravvedere nemmeno i prodromi di qualcosa che cambierà la storia della musica. Anche per questo ci stupisce – ma nemmeno poi tanto – tutto il clamore e i premi e le partecipazioni di prestigio che hanno ottenuto, ad esempio, i Maneskin. La loro scrittura, il loro riusare gli strumenti musicali (si è osannato anche questo), come se usare chitarre, basso e batteria oggi fosse una bestemmia, non mi sembrano poi tanto distanti – per restare sul recente e in Italia – di gente come: Afterhours, Bluvertigo, Subsonica, Marlene Kuntz, 24 Grana, C.S.I., Verdena, Almamegretta, e chi più ne ha più ne metta, che pure avrebbero meritato premi e palcoscenici importanti. Ecco, ora qualcuno potrebbe dirci: voi siete tra quelli che ai miei tempi la musica era migliore. No! Ci piacerebbe solo che l’educazione alla musica passasse nelle mani di gente che la musica l’ha studiata – anche da un punto di vista storico sociale – e non in quelle di influencer bravi a trasformare tutto in prodotto di consumo. Gente che a una sequenza di accordi preferisce il look. Lo diciamo solo per proteggere il futuro. Altrimenti, ci ritroveremo come in un film di Bellavista e non capiremo, se sotto le macerie, avremo tra le mani un capolavoro e cesso scassato.

Carlo Pecoraro

Presentata al Teatro La Fenice di Venezia la stagione concertistica “Musica con le Ali” 2022

Coltivare giovani talenti e implementare le loro potenzialità e creatività, trasformandole in opportunità per il futuro. Questa, succintamente, la mission di “Musica con le Ali”, sodalizio milanese di patronage artistico che nasce per volere di Carlo Hruby, che ne è presidente, in seno alla Fondazione “Enzo Hruby”.
Venerdì 18 marzo, nelle Sale Apollinee della Fenice di Venezia, stupendamente tappezzate di damasco in stile neoclassico, è stata presentata la quarta edizione della stagione concertistica “Musica con le Ali 2022”, realizzata con l’importante partenariato della Fondazione Teatro La Fenice. Il ricco calendario prevede otto appuntamenti: 24 marzo, 14 aprile, 19 maggio,16 giugno, 6 e 13 ottobre, 10 novembre e 1 dicembre, tutti programmati di giovedì, con inizio alle ore 18. I concerti proposti hanno un nobile denominatore comune, ovvero fornire un’importante esperienza di crescita ai giovani interpreti emergenti, grazie anche al confronto con  alcune figure di spicco della musica classica.
Ha aperto la serie di interventi Fortunato Ortombina, Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro La Fenice – «la casa dei veneziani, nonché il Teatro più bello del mondo» – esprimendo profonda soddisfazione per il rinnovarsi di questa brillante interazione tra impresa e istituzione, essenziale per il futuro della musica, «entità sovrana sulla terra e linguaggio universale che s’impara prima ancora di iniziare a parlare».

Andrea Erri – Direttore Generale del Teatro, parla del rapporto fecondo instauratosi con Musica con le Ali, che condivide il ruolo di funzione sociale della Fenice, non un luogo d’élite ma una struttura aperta e accogliente per i 340.000 visitatori e spettatori che hanno ammirato la bellezza del teatro e premiato le sue proposte artistiche. «Far lavorare i giovani talenti con musicisti di esperienza – afferma Erri – significa trasferire competenze, in una staffetta ideale tra artista affermato e in erba ma con grandi potenzialità per il futuro. Le ali sono uno strumento per volare ma anche per proteggere», richiamando il nome dell’associazione e le sue nobili finalità di patronage artistico.
In chiusura, i ringraziamenti di Carlo Hruby nei confronti dei vertici del Teatro, nel quale Musica con le Ali ha trovato una calorosa e sincera accoglienza per un progetto che ha visto la sua genesi proprio alla Fenice e che posegue grazie ad un’attenta e lungimirante condivisione, in cui il concerto è solo uno tra i tanti strumenti messi a disposizione dall’associazione, che comprendono la partecipazione a festival e rassegne, la produzione di incisioni discografiche con le principali label, il fattivo supporto nella comunicazione e nella promozione dei giovani interpreti anche tramite Radio MCA, la web radio nata nel 2020 e dedicata alla musica e all’arte. I giovani artisti, le cui candidature provengono da Conservatori, Fondazioni e Scuole di Musica, vengono così presi per mano e guidati in un percorso di crescita professionale per valorizzarne il talento, che fornirà loro un prezioso biglietto da visita per intraprendere una carriera internazionale ad alto livello. L’azione di patronage si esaurisce nel momento in cui l’artista sarà in grado di volare con le proprie ali… ali vere e non di cera come quelle di Icaro, che si sciolsero al calore del sole… (Non rammaricarti mai per la tua caduta, o Icaro del volo senza paura. Perché la più grande tragedia di tutti è non provare mai la luce che brucia…O. Wilde)

Entrando nel dettaglio, si parte giovedì 24 marzo con il violinista Gennaro Cardaropoli – fresco vincitore dell’autorevole Premio ICMA (International Classical Music Awards) come “Migliore Giovane Musicista dell’Anno”ed anche del prestigioso 1st Grand Prize all’Arthur Grumiaux International Violin Competition, unico vincitore italiano nella storia del concorso – e la pianista Ludovica De Bernardo, che presenteranno l’iridescente e vibrante Sonata n. 1 per violino e pianoforte op. 13 di Gabriel Fauré, suo capolavoro di età giovanile, Humoresque in sol minore di Ottorino Respighi, il più lungo dei Cinque pezzi per violino e pianoforte, i plastici affreschi sonori della Sonata per violino e pianoforte op. 22 di Giuseppe Martucci e il signorile virtuosismo del compositore polacco Henryk Wieniawski nel suo Tema e Variazioni.
Ricordiamo ai nostri lettori che Cardapopoli e De Bernardo si esibiranno anche martedì 22 marzo alle ore 18.30 al Ridotto dei Palchi “A. Toscanini” del Teatro alla Scala (info: tel. 02.38036605, info@musicaconleali.it), nel concerto inaugurale dell’edizione 2022 della rassegna “Il Salotto Musicale”, frutto dell’accordo tra l’Associazione Musica con le Ali e il Museo Teatrale alla Scala di Milano.
Il variegato cartellone prosegue il 14 aprile con la performance del TulipDuo formato dalla violista Eleonora de Poi e dal pianista Massimiliano Turchi, tributo alla temperie romantica e ad alcuni dei suoi compositori simbolo quali Schumann, Glazunov, Schubert e Fauré.
Il 19 maggio sarà la volta di un abbinamento decisamente intrigante, e tutto all’insegna della bellezza, tra contrabbasso e arpa. Le protagoniste saranno Valentina Ciardelli e Anna Astesano che sapranno coinvolgere il pubblico in un nuove avventure musicali con trascrizioni tratte da Puccini e Ravel e presentando una composizione originale della Ciardelli in anteprima assoluta.

Il 16 giugno il celebre violinista padovano Federico Guglielmo, che la stampa americana ha definito “la nuova stella nel panorama della musica antica”, affiancherà le giovani musiciste, sostenute da Musica con le Ali, Simona Ruisi (viola) e Maria Salvatori (violoncello) in un repertorio nel segno del classicismo con sonate di Beethoven, Schubert e Sinigaglia.
Debutto importante il 6 ottobre per il Duo David, ovvero Francesco Angelico (violoncello) e Giulia Russo (pianoforte) che si esibiranno in sonate di Debussy e Rachmaninov con un’autentica chicca: la riscoperta (finalmente!) del compositore napoletano Mario Pilati, di cui interpretano la Sonata in Re del 1929, dal fascino prepotente, edita per la prima volta proprio dal duo in un recente progetto discografico.

Il 13 ottobre si va nella direzione della forma sonata classica per violino e pianoforte con la violinista Fabiola Tedesco e la pianista Martina Consonni, in un personale omaggio a Beethoven, a Richard Strauss e allo spagnolo Joaquín Turina.
Il penultimo appuntamento, il 10 novembre, sarà incentrato sull’incontro tra il clarinetto di Clara Ricucci e il pianoforte di Federico Pulina, impegnati in una lettura dialogica di brani di Weber, C. Schumann, Widor e Busoni.
La stagione concertistica “Musica con le Ali” 2022 non poteva concludersi in modo migliore, il primo dicembre, con l’imperdibile concerto di una tra le pianiste di fama internazionale più ecletticamente crossover della sua generazione (è del 1986), la veneziana Gloria Campaner, qui assieme alla giovane violinista Sara Zeneli con un repertorio di brani del post-romantico César Auguste Franck e dell’eccentrico e innovativo Maurice Ravel.

In questi anni, Musica con le Ali ha saputo ben radicarsi nel tessuto cittadino stringendo importanti rapporti di collaborazione con la Scuola Navale Militare Francesco Morosini e con il Master MaBAC dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, offrendo inoltre tariffe vantaggiose ai residenti nella Città Metropolitana di Venezia e agli studenti.
I biglietti della stagione concertistica sono acquistabili presso la biglietteria del Teatro La Fenice e in prevendita presso le biglietterie Vela Venezia Unica.
Biglietteria online: www.teatrolafenice.itwww.events.veneziaunica.it
Biglietteria telefonica: Tel.  041 2722699
Prezzi dei biglietti: Sale Apollinee €20. Riduzioni: residenti e over 65 €16; studenti €10
Abbonamenti: intera stagione €120; tre concerti nelle Sale Apollinee €50; abbonamento sostenitore €170.
Per informazioni: Tel. 02.38036605; info@musicaconleali.itwww.musicaconleali.it

Marina Tuni

Jazz: se agli animali piace smooth…

Lo scorso 8 febbraio è stato approvato dalla Camera, dopo il Senato, il disegno di legge di riforma costituzionale che prevede fra l’altro un nuovo comma dell’art. 9 della Costituzione che statuisce il rinvio al legislatore ordinario della definizione di modi e forme per la tutela degli animali (oltre che, finalmente, dell’ambiente e non solo del paesaggio).
La riserva di legge è una novità che recepisce i contenuti del Trattato sul Funzionamento UE nel punto di cui all’art. 13  laddove è sancito che “ l’Unione e gli stati membri devono, poiché gli animali sono esseri  senzienti,  porre attenzione totale alle necessità degli animali”. La senzienza è ora dunque uno status giuridico riconosciuto agli animali nell’ordinamento giuridico italiano. Ed è lo spunto per alcune riflessioni, su queste colonne, su che tipo eventuale di senzienza musicale possa sussistere fra l’ animale e l’uomo.

È il caso anzitutto di sottolineare che diversi compositori si sono ispirati al mondo animale. La fantasia zoologica del Carnevale degli animali di Saint-Saëns è una splendida occasione celebrativa del legame fra uomo e animali attraverso le note. Così dicasi della fiaba Pierino e il lupo di Prokof’ev, che cinquant’anni dopo, nel 1936, “doppia” gli animali con gli strumenti (uccellino/flauto, anatra/oboe, gatto/clarinetto, lupo/corni). Un ventennio ancora ed è Olivier Messiaen a scrivere le partiture pianistiche del Catalogue d’Oiseaux con i canti di uccello classificati, nella prefazione, in gridi, strofe, cadenze-assoli …  ciò a otto secoli dal Cantico delle Creature!
Immaginazione, ispirazione, onomatopea. La Animal House offre un campionario di possibili suoni per concerti e dischi.
La primordiale polifonia del Concordu e Tenore di Orosei, coro sardo che ha collaborato fra gli altri con Salis e Sissoko, si fonda sull’armonia di contra (verso della pecora), bassu (imitazione del bue) e mesuvoche (fischio del vento).
Non solo le voci, anche gli strumenti giocano una loro parte. Nel jazz c’è chi, come il sax di Dewey Redman nell’album Look for the Black Star del 1975, produce animaleschi suoni gutturali. O come il percussionista Airto Moreira che usa con Miles Davis la cuica, tamburo ad attrito brasiliano tipico del samba, il cui suono, alle origini, in Africa, era associato al ruggito della leonessa (secondo altri vicino al vocio della scimmia).
Oltre alla aneddotica, la prospettiva può riguardare progetti più ampi e persino trend stilistici.
Il trombettista Wynton Marsalis, in Spaces, ha associato i movimenti della suite affidata alla Lincoln Center Orchestra di volta in volta a galline, leoni, rane…(S. Mohamed, npr.org/2016 ).
Molto prima di lui era stato Ellington a creare nei ’20s il leopardato ed esotico jungle style che ricreava in note le atmosfere della giungla africana. Non solo. Gli animali a volte possono diventare attori in scena.
Nel 1990 fece scalpore, all’Europa Jazz Festival di Noci, una mucca che sfilava davanti al palco durante il concerto del pianista russo Sergey Kuryokhin.
Nei live il compianto leader dei Pop Mekhanika era solito inserire cavalli, oche con bande musicali (come avvenuto nella rassegna pugliese), il tutto per una scena “totale” con situazioni “allargate” bipedi-quadrupedi di spettacolarità circense. Era la sua una maniera follemente geniale di stravolgere l’idea stessa di concerto coinvolgendo nella esibizione esseri viventi presi dall’ambiente circostante, (re)incarnando una tradizione che vede il jazz lasciarsi alle spalle l’accademia per farsi pura performance.

Gli animali, è notorio, fanno capolino in tanti testi e titoli di brani musicali.
Si sfogli al riguardo la classifica “per mucche” stilata nel 2001 dal “Music Research Group” di Leicester che vede ai primi posti REM, Simon and Garfunkel davanti al Beethoven ovviamente della Pastorale. Senza essere esperti di zoomusicologia si è incuriositi dalla circostanza che grazie alla musica i maiali ingrassino meglio e le pecore producano lana in quantità superiore.
Certamente più che il guardare il “gatto pianista” su YouTube o l’esecuzione “a quattro zampe” su tastiera di una coppia di micetti del tutto speciale od anche la jazz band che suonando “When The Saints” ravvicina a sè un gruppo di vacche al pascolo.
Gesti meccanici, certo. Non è lecito immaginare nella realtà una fattoria degli animali canterina come Nella vecchia fattoria. Tuttavia viene da riflettere sull’accoglienza che, nel nostro immaginario musicale, hanno gli animali. Al punto di redigere graduatorie come “30 Best Horse Songs” (horseillustrated.com) e di dedicare intere cover a mucche tipo Atom Heart Mother , quinto album dei Pink Floyd.
Guardando in dettaglio al repertorio jazzistico si annoverano Silver Swan Rag di Joplin e Tiger Rag della ODJB, Watch Dog, nella versione di Etta James, la Animal Dance del Modern Jazz Quartet, e perché no il sincopato Maramao perché sei morto. Rinviamo comunque alla lettura delle Songs about animals riportate da John Dennis su www.theguardian il 28/4/2011 per un quadro più completo (sarebbe interessante stilarlo anche per le songs italiane, a partire magari da Una zebra a pois).
Nei testi della popular, citazione d’obbligo per The Dog Song di Nellie McKay e per le orecchiabili Felix The Cat e Dolce Lassie, ed ancora da serie tv La canzone di Rin Tin Tin , le varie sigle dell’inossidabile Commissario Rex e nei cartoni animati quella di Titti e (gatto) Silvestro.
Ci sarebbe poi una marea di canzoni “ juniores “– da Johnny Bassotto di Lauzi ad Al lupo al lupo di Dalla, da Occhi di gatto a 44 gatti,  e alle varie melodie dedicate ai vari Micio e Fido di casa nostra, molti dei quali, diciamoci la verità, funzionano da antistress per i rispettivi padroni.
Ma la senzienza ci porta infine ad approfondire l’altro “punto di vista” nel rapporto musicale di cui sopra , quello animale.
Esiste un filone di studi, si prenda ad esempio il “Journal of Feline Medicine and Surgery” dell’Università della Louisiana, relativo a ricerche che comprovano le proprietà tranquillizzanti di certa musica nei confronti di cani e gatti. Il film degli Aristogatti aveva visto lontano? In un certo senso si, ma la propensione verso il jazz non è diffusa.
Secondo il “Vet.Journal” dello scorso 19 gennaio, in uno scritto di materia musicoterapica specifico sui gatti, i compositori preferiti sarebbero Bach e Chopin le cui melodie darebbero un effetto calmante nel far superare loro il logorio della moderna vita da cani (e gatti). Una croccante scoperta, questa, in linea con gli esperimenti sulle galline che fanno più uova sentendo Mozart e sulle vacche che, nell’ascoltare sinfonica, producono più latte per come a suo tempo assodato da altri accreditati studiosi statunitensi ed all’esperienza della Muzak Inc. che produceva musica poi diffusa in stalle e pollai.

Alcuni ricercatori hanno spostato il tiro verso reggae e soft rock che, a detta della Scottish SPCA, associazione che collabora con l’università di Glasgow, pare piacciano ai cani (midogguide.com/it/dog) che per contro odierebbero l’heavy metal.
Per tornare al jazz, chissà se, come avvenuto per Elègie di Gabriel Fauret, l’amico animale intra moenia non si senta sopito, sedotto da Bill Evans!
A dire il vero il dailyJournal.net del 13 luglio 2017 ci ha rassicurato al riguardo – “gli animali possono gioire dei suoni smooth del jazz” – nel presentare una serie di concerti allo zoo di Indianapolis. Ma la cronaca giornalistica non è detto combaci con la evidenza scientifica. Sul jazz, a proposito di animali acquatici e suoni del mare, sarebbero gli squali, secondo uno studio australiano pubblicato su “Animal Cognition” ripreso da “National Geographic”, a manifestare “propensione per questo genere musicale” (corriere.it, 21/5/2018).
E David Rothenberg, filosofo compositore e clarinettista jazz, è giunto alla conclusione che “è possibile creare sicuramente un linguaggio di interposizione, anche casualmente jazz, che si raccorda per raccogliere segnali non decifrabili in prima approssimazione” (cfr. E. Garzia, Jazz ed ispirazione “animalista”, percorsimusicali.eu, 1/9/2015).
Resta il fatto che molti risultati scientifici inerenti ai “senzienti” felini e canidi domestici paiono a tutti gli effetti acquisiti. Col timore per i collezionisti che cani e gatti alla fine se ne possano contendere i dischi di jazz a suono di morsi e graffi!

Amedeo Furfaro