La Banda dei Carabinieri al Portogruaro Festival: musica salvifica che trasmette i valori fondanti della comunità

Evento speciale e di grande prestigio per il 39esimo Festival Internazionale di Musica di Portogruaro (VE) – curato da Alessandro Taverna – una cittadina che è un piccolo gioiello di arte, storia e cultura con un profondo senso di comunità, valore teorizzato da Platone nel definire la città ideale (“Repubblica”), dove la musica era identificata come “palestra dell’anima”.
Sabato 4 settembre si è svolto in Piazza della Repubblica il concerto della Banda dell’Arma dei Carabinieri, diretta dal M° Massimo Martinelli, per ricordare e celebrare tre importanti anniversari della storia del nostro Paese: i 160 anni dall’Unità d’Italia, i 100 anni del Milite Ignoto (sulla piazza è posizionato dal 1928 un monumento alla memoria dei caduti, opera dello scultore Gaetano Orsolini) e i 75 anni della Repubblica Italiana. Il concerto è stato organizzato con la collaborazione della Fondazione milanese “Enzo Hruby”, dal 2007 in prima linea per il suo impegno nella protezione del patrimonio culturale italiano e nella diffusione della cultura della sicurezza (in calce a questo articolo troverete i contributi di Carlo Hruby, vice presidente della Fondazione e di Alessandro Taverna, direttore artistico del Festival e pianista di indiscussa fama internazionale).
Dopo il concerto, presentato con grazia da Monica Rubele, ho avuto anche modo di incontrare e intervistare il M° Martinelli, ormai un amico, avendo collaborato ai due concerti – che ho poi seguito a Roma e recensito qui – prima dello stop a causa della pandemia, per gli annuali di fondazione dell’Arma, nel 2018 all’Auditorium della “Nuvola” di Fuksas e nel  2019 al Teatro dell’Opera.
Vorrei qui ricordare che nel 2020 Massimo Martinelli ha festeggiato 20 anni di Direzione della Banda dell’Arma, che affonda le sue origini a duecento anni fa ed è attualmente composta da 102 orchestrali. In questi anni, la sua impronta e la sua lungimiranza, che trascende gli impegni istituzionali, si sono fatte sentire. Martinelli è intervenuto sul repertorio, non fermandosi a quello classico ma ampliando l’orizzonte stilistico al jazz, al pop, al rock, alla world, alle musiche da film, con una notevole apertura verso collaborazioni con musicisti che sulla carta sarebbero potute apparire “improbabili” e invece si sono rivelate “magiche”; ha introdotto nuovi strumenti all’organico, sperimentando sonorità inconsuete e colori nuovi; gli estimatori dell’Orchestra sono sempre più numerosi, grazie anche ad apparizioni in programmi televisivi popolari e ai meravigliosi concerti in tutto il mondo! L’ultimo che ho visto è stato semplicemente spettacolare, nella suggestiva scenografia naturale della piana di Castelluccio di Norcia.
Della performance di Portogruaro inizio col dirvi che la Banda dell’Arma si è esibita con un organico ristretto ad una cinquantina di professori d’orchestra, questo a causa delle ancor stringenti disposizioni per il contrasto al Coronavirus.
Il tema del festival di quest’anno è “Ouverture”, che non è un semplice titolo ma una vera e propria dichiarazione d’intenti, un segnale di ottimismo e di apertura verso scelte coraggiose. E ouverture sia, dopo mesi e mesi di fermeture… affinché la sofferenza diventi un’opportunità per ridisegnare una società più solidale e inclusiva e per rendere più umano il futuro.
E il M° Martinelli, in perfetta consonanza con il tema, ha scelto di iniziare da tre delle Ouverture più famose: quelle delle opere rossiniane “Guglielmo Tell” e “La Gazza Ladra” e della verdiana “I Vespri Siciliani”. Per i pochi che ancora non lo sapessero, entrambe le ouverture di Rossini sono state utilizzate da Stanley Kubrick nella colonna sonora del suo “Arancia Meccanica” e quella del “Guglielmo Tell” nel film subisce una vera e propria dissacrazione in una versione accelerata a dir poco schizofrenica…
L’arciere Guglielmo Tell scocca la prima freccia e l’inconfondibile rullo dei timpani, come un tuono in lontananza, preannuncia la tempesta sonora imminente. Tratta dalla tragedia di Schiller, l’opera è l’ultima composta da Rossini, senza dubbio il suo opus magnum, e la Banda esegue l’introduzione evidenziando con impeccabile maestria gli accesi contrasti della natura, elemento primario in tutta l’opera, tanto splendida quanto crudele, in una continua altalena tra l’oscurità e la luce, come in un dipinto caravaggesco.
La melodia iniziale è meravigliosa, così come il  celeberrimo galop finale, introdotto dalle trombe e interpretato da tutta l’orchestra, con le sue figurazioni ritmiche puntate. “L’espressione musicale sta nel ritmo, nel ritmo tutta la potenza della musica”. (G. Rossini)

La sinfonia introduttiva dell’opera di Giuseppe Verdi “I Vespri Siciliani” è un distillato di profondità emotiva e di sentimenti intrisi da quella vis drammatica che avvince e provoca commozione nell’animo dell’ascoltatore.
L’ultima di questa trilogia di Ouverture, e probabilmente la più conosciuta, è quella intramontabile dell’opera la “Gazza Ladra”, che pare sia stata scritta da Rossini chiuso in uno sgabuzzino del Teatro alla Scala e che sia stata anche la preferita da Frédéric Chopin.
Scintillante, marziale, maestosa, a volte giocosa, più spesso tragica, comme il faut in un’opera semiseria, la sinfonia ha un colore orchestrale luminoso, caratterizzato dall’assidua presenza dei rullanti che si rincorrono ed introducono i temi in maniera coinvolgente.
Ad un certo punto dell’esecuzione ho proprio immaginato di vedere una gazza ladra svolazzare sulla piazza di Portogruaro, attirata dalle luccicanti spalline in metallo dorato con le frange in canutiglia sull’uniforme del Maestro Martinelli!
“Una sera di Settembre” è un personale tributo in musica di Martinelli alla figura simbolo del Generale Dalla Chiesa. Il brano è un poema sinfonico che si sviluppa come la trama di un film, nella quale il Maestro inserisce una silloge di stili diversi, a segnare i diversi momenti e le vicissitudini della vita del Generale, sia del soldato sia dell’uomo. Dalla marcia militare, alla beguine, al valzer… usando anche strumenti della tradizione popolare come il friscaletto siciliano, lo scacciapensieri, i tamburelli. Avvincente!

E parlando di film e di sicilianità non poteva certo mancare il valzer in Fa Maggiore da “Il Gattopardo”. Nelle note del concerto, viene indicato come compositore unicamente Giuseppe Verdi. In realtà è vero che il brano è costruito sul manoscritto inedito di un valzer brillante che Verdi dedicò alla contessa Maffei, acquistato in una libreria antiquaria di Roma da Serandrei, montatore del film nonché amico di Visconti e di  Rota, e poi donato a Visconti, ma è altrettanto vero che Nino Rota lo orchestrò magistralmente, facendolo diventare il valzer più iconico del cinema, ballato da Angelica/Claudia Cardinale e don Fabrizio/Burt Lancaster. La versione classica della Banda dei Carabinieri ci restituisce tutto il fascino, l’eleganza e lo sfarzo che Visconti aveva saputo regalarci nella sequenza del gran ballo nel favoloso salone delle feste di Palazzo Gangi.
Nel 2021 ricorrono anche i cent’anni dalla nascita del compositore argentino e bandoneonista Astor Piazzolla, che con le sue prospezioni sulle strutture ritmiche e la commistione con il jazz ha scardinato la stratificata tradizione del tango con geniale lungimiranza, attraversando da protagonista il Novecento lungo le rotte di Buenos Aires, Parigi e Roma, rincorrendo amori travolgenti…

Del padre del nuevo tango, Martinelli sceglie due delle composizioni più note: “Libertango” e “Oblivion”. Se – e qui ritorno al mio Platone –  la musica dona ali al pensiero e fascino alla tristezza, mai parole furono più adeguate per definire la musica di Piazzolla! Certo, per me ascoltare “Libertango” è come ricevere una folgorazione elettrica ad alta tensione, sarà per il suo irresistibile groove ritmico o per la sensualità che trasuda da ogni nota, sarà per il jazz che si fonde con la classica nelle sue armonie estese, sarà per il suo magico crescendo finale… purtuttavia… le sensazioni che mi regala “Oblivion” sono inarrivabili. Nel 2018 lo ascoltai anche alla Nuvola di Fuksas e scrissi: “la vibrazione dell’ancia dell’oboe di Francesco Loppi, che ha duettato con la violinista Anna Tifu, ha fatto vibrare tutta la platea, riuscendo a ricreare, in tutta la sua valenza, il pathos insito nelle note del musicista argentino…”
Ecco, la Tifu in quest’occasione non era presente (si sarebbe esibita al Festival il 9 settembre con l’Orchestra di Padova e del Veneto n.d.a.) ma l’oboe del prof. Loppi mi ha ipnotizzata.
“Oblivion” è la perfetta sintesi tra passione e struggimento, un tòpos poetico-musicale, l’oblio  dove i sogni irrealizzati vanno a morire…
Due i bis concessi: la frizzante “Tritsch Tratsch Polka” di Johann Strauss II, che conosco molto bene per essere, sin dall’infanzia, una fedele spettatrice del Concerto di Capodanno dei Wiener Philharmoniker dal Musikverein di Vienna e per averla ballata  nei miei saggi di danza classica e “La Cumparsita” di Gerardo Hernán Matos Rodríguez, che viene dai più considerata il tango per antonomasia, “el tango de los tangos”. “Dai più…”
In effetti neppure Piazzolla l’amava molto ma si divertiva a proporla nelle sue esibizioni perché – diceva maliziosamente – «un buon abito migliora sempre l’aspetto».
Dopo i saluti istituzionali di Florio Favero, Sindaco di Portogruaro, di Alessandro Taverna, direttore artistico del Festival e di Carlo Hruby, vice-presidente della Fondzione Enzo Hruby, in Piazza della Repubblica sono risuonate le note della marcia d’ordinanza dell’Arma dei Carabinieri, “La Fedelissima” del Maestro Cirenei e “Il Canto degli Italiani”, l’Inno Nazionale Italiano. Ad accompagnare il Maestro Martinelli e i suoi valenti orchestrali, lo speciale coro dei numerosi spettatori presenti.

Ed ora, spazio alle interviste da me raccolte nel corso della serata:
Maestro Massimo Martinelli, direttore della Banda dei Carabinieri
Maestro Martinelli, ordunque possiamo ridare vita al forte legame affettivo che ha sempre unito la Banda dei Carabinieri con il suo pubblico, essendo ripartiti i concerti in presenza dopo la pausa forzata dovuta al Covid. Ci racconti come voi musicisti avete vissuto questo periodo? Che avete fatto?
«Il periodo buio appena trascorso è stato un momento di ‘pausa’ per noi musicisti che ci ha consentito di fare delle riflessioni oppure, come nel mio caso, dei bilanci. Le riflessioni riguardano il senso della nostra professione, che senza pubblico perde gran parte del significato, ovvero è come avere delle partiture o degli spartiti musicali da poter eseguire e non avere nessuno a cui farli ascoltare. Tutto rimane a livello di lettura non letta o lettera morta. La musica è viva se ha una destinazione se  incontra l’altro,  l’ascoltatore, il fruitore dell’opera musicale,  altrimenti, come una partitura mai eseguita, scompare, non esiste. Per quanto riguarda me, che tra l’altro ho passato un breve periodo di malattia a letto per il covid, la sospensione forzata dall’attività musicale ha ingenerato un irrefrenabile desiderio di scrittura; in particolare mi sono dedicato ad argomenti che riguardavano l’essere musicista e compositore all’interno di una Forza armata come l’Arma dei carabinieri, nel caso specifico ho scritto dei pezzi per celebrare la figura di alcune grandi personalità, umane e militari,  come Salvo D’Acquisto e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sono nati così due pezzi: “Presente” dedicato a Salvo D’Acquisto e “Una sera di settembre” che avete ascoltato stasera».
-Già. Ho dato una scorsa al repertorio di questa sera, Rossini, Verdi, Piazzolla e… Martinelli! C’è appunto il brano “Una sera di Settembre” che tu hai composto e dedicato al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ispirato dal bel libro “Il mio valzer con papà”, scritto da Rita, sua figlia), in occasione del centenario della nascita, nel 2020, e il cui trentanovesimo anniversario della morte è stato celebrato proprio ieri (3 settembre n.d.a). Lui fu un uomo eccezionale ed “eccezione” è un termine che proviene dal latino “exceptio”, da excipĕre, ovvero “estrarre, tirare fuori”. Lui, anche nei momenti più bui o quando gli fecero terra bruciata intorno, riuscì a tirar fuori da sé stesso quelle virtù che lo rendono ancora oggi straordinariamente unico, al punto da  essere riuscito a cambiare il corso della storia con il proprio immanente pensiero e con le azioni compiute. “Vi sono pochissimi uomini − e sono le eccezioni − capaci di pensare e sentire al di là del momento presente”. Sono parole del Generale prussiano Karl von Clausewitz,  che scrisse “Della guerra”, 8 libri in cui ne analizzò tutti gli aspetti, e quella alla mafia è una guerra… all’epoca di Dalla Chiesa come ora. Io credo che la tua dedica sia la testimonianza di quanto il Generale sia sempre molto amato da voi Carabinieri e di quanto il suo pensiero, le sue azioni e la sua integrità morale siano una guida. Come hai pensato di strutturare musicalmente i tanti episodi della la sua vita militare e di uomo?
«”Una sera di settembre” è un brano descrittivo che ripercorre le tappe più importanti della figura del generale più amato dell’Arma dei Carabinieri. Un uomo che aveva un grande senso della famiglia e che doveva dividersi tra delicati incarichi istituzionali, che comportavano lunghe assenze per motivi  di lavoro, e la sua famiglia, per la quale doveva ritagliare il poco tempo che gli rimaneva a disposizione…»
In un’intervista ad un direttore d’orchestra chiesero: “Quale è la tua musica preferita?”. Lui rispose: “Qualunque cosa io stia dirigendo in questo momento è la mia musica preferita”. Ti ritrovi in queste parole di Nachev, che dirige la Shen Yun Symphony Orchestra? C’è comunque una musica che prediligi?
«Cara Marina, circa la tua domanda anche io ho le mie preferenze, ad esempio adoro autori come Bach, Beethoven, Bartok, Bernstein! Quattro B. per dire che avendo una formazione di tipo classico ma essendo particolarmente interessato alle declinazioni musicali più varie ti confido che mi trovo a mio agio con la musica che mi piace e questi autori rappresentano per me quello che mi si addice di più. Bisogna a parer mio, come un Giano bifronte, guardare alla grande musica del passato con il rispetto che essa merita ma al contempo, come faceva Bernstein declinarla sempre al presente e possibilmente, ammesso di esserne capaci, come lo era Mozart, al futuro!
Scusami per l’estrema sintesi di questa risposta alla tua bellissima domanda!»
Carlo Hruby – Vice-Presidente della Fondazione Enzo Hruby, Milano
Dottor Hruby, dopo aver ascoltato il suo intervento alla fine del concerto di Portogruaro, ho pensato che mi sarebbe piaciuto proporre ai nostri lettori un approfondimento sulle attività della Fondazione Enzo Hruby, che credo rappresenti un unicum in Italia.
Dunque, da imprenditore di un’azienda leader nel campo della sicurezza, decide di dare vita alla Fondazione Hruby e poi ancora all’Associazione Musica con le Ali, affiancandola ad un ottimo strumento di diffusione della classica quale è la webradio MCA.
Ognuna di queste attività di patronage riveste una considerevole  importanza nei settori in cui opera: la prima nella protezione e la sicurezza dell’immenso patrimonio storico, culturale e architettonico del nostro Paese, le altre due nella meritevole azione volta alla conoscenza e alla valorizzazione della musica classica e dei suoi giovani talenti, attraverso molteplici iniziative. Forse il paragone potrà apparirle un po’ audace, tuttavia, documentandomi su ciò che state facendo, non ho potuto non andare con il pensiero al mecenatismo rinascimentale e ad uno dei suoi personaggi più rappresentativi: Lorenzo il Magnifico. Per lui il mecenatismo non era solamente un’arte per governare ma una necessità del suo animo sensibile. Anche nel suo caso è stata la sua anima, oltre alla consapevolezza di svolgere un meritorio servizio per la collettività, a guidarla nelle scelte che ha portato avanti? Avrebbe piacere di raccontarsi un po’?
«Lei ha citato un personaggio immenso, a cui non posso certo paragonarmi. Le scelte portate avanti nel corso degli anni e che hanno determinato la nascita della Fondazione Enzo Hruby – a cui si è aggiunta, più recentemente, l’Associazione Musica con le Ali – sono scaturite da una formazione umanistica che mi ha dato le basi per apprezzare la bellezza dell’Italia nelle sue infinite sfaccettature e dal desiderio, mio e della mia famiglia, di impegnarci concretamente per offrire un valore alle nuove generazioni e al Paese che ha visto nascere, alla fine degli anni Sessanta, la nostra realtà imprenditoriale, diventata nel corso del tempo un punto di riferimento nel mercato della sicurezza elettronica. Le tecnologie più evolute ci hanno sempre accompagnato nella nostra attività e dunque abbiamo desiderato sostenere con quelle stesse tecnologie la protezione del patrimonio culturale che rende così unica e straordinaria l’Italia. Ma non solo: attraverso la Fondazione Enzo Hruby il nostro desiderio costante è stato fin dall’inizio e continua ad essere tuttora quello di far crescere la cultura della sicurezza e la consapevolezza del valore del nostro tesoro-Italia. Un tesoro che per poter essere valorizzato deve essere per prima cosa protetto contro furti, sottrazioni, atti di vandalismo e danneggiamenti. Per raggiungere questo obiettivo le tecnologie da sole non bastano ma occorre creare un dialogo costante tra gli operatori della sicurezza e gli operatori dei beni culturali, e allo stesso tempo, sensibilizzare le nuove generazioni sul valore dei tesori che ci circondano e sull’importanza di conoscerli, proteggerli e difenderli.
È proprio attraverso l’attività della Fondazione Enzo Hruby che ho avuto l’occasione di approfondire la conoscenza del mondo della musica classica. Questo è avvenuto sia in occasione di progetti  destinati alla protezione del patrimonio musicale italiano sia in occasione di eventi organizzati dalla nostra Fondazione, che hanno visto l’esibizione di giovani musicisti di talento. Nel 2016 ho dunque istituito insieme a mia moglie e ai miei figli l’Associazione Musica con le Ali, che svolge un’azione di Patronage Artistico unica nel suo genere in Italia e all’estero sostenendo i migliori giovani talenti italiani, e che parallelamente si propone di diffondere sempre più la conoscenza e l’ascolto della musica classica tra le nuove generazioni. Oggi, anche attraverso uno strumento così utile e innovativo come Radio MCA, portiamo avanti il nostro percorso verso nuove avventure e nuovi traguardi. Pensando sempre –  ad ogni progetto, ad ogni nuova iniziativa che ci sta a cuore e che vorremmo tentare – che quasi nulla è impossibile, bisogna sono iniziare. Ecco, forse questa è in sintesi la massima che mi ha più guidato da sempre».
Alessandro Taverna, neo direttore artistico del Festival Internazionale di Musica di Portogruaro:
-Prof. Taverna, abbiamo assistito ad una serata speciale, prestigiosa e densa di significati. Un ottimo biglietto da visita per il nuovo corso del Festival che lei ha iniziato a curare quest’anno.
«Si, per celebrare al livello più alto gli anniversari legati alla nostra Storia (75° anniversario della Repubblica, 100° del Milite Ignoto e 160° dell’Unità d’Italia) abbiamo fortemente desiderato nel Festival la presenza di una compagine di indiscusso prestigio musicale internazionale e che nello stesso tempo incarna al massimo grado i valori della nostra Repubblica. Sono sicuro che per tutti quelli che vi hanno assistito, il concerto di sabato 4 settembre resterà come un ricordo indelebile: una serata magica, e il merito va anzitutto al maestro Massimo Martinelli e a tutti i professori della Banda dell’Arma dei Carabinieri, che con grande maestria ci hanno regalato una lettura memorabile di alcuni dei più celebri capolavori della storia della musica. Un grazie particolare alla Fondazione Enzo Hruby per aver permesso che il nostro desiderio diventasse realtà».
Chiudo questo mio reportage con la citazione completa di Platone, che avevo usato parzialmente per commentare la musica di Piazzolla: “la musica è una legge morale. Essa dà un’anima all’universo, le ali al pensiero, uno slancio all’immaginazione, un fascino alla tristezza, un impulso alla gaiezza, e la vita a tutte le cose”.

Marina Tuni

A Proposito di Jazz desidera ringraziare: l’Arma dei Carabinieri, lo Studio Sandrinelli, ufficio stampa e comunicazione del Festival di Musica di Portogruaro (dott.ssa Clara Giangaspero) e il fotografo Andrea Pavan per la gentile concessione delle immagini, la dott.ssa Simona Nistri, Responsabile Relazioni Esterne Fondazione Hruby/Musica con le Ali

Vi parlo di Amedeo Tommasi

Il 13 scorso è mancato, all’età di 85 anni, uno dei grandi personaggi della musica italiana, Amedeo Tommasi. Lo ricordiamo attraverso le parole di un’altra musicista che lo conosceva bene, Donatella Luttazzi.

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Gerlando vorrebbe che parlassi del mio rapporto intimo con Amedeo, ma come si fa a parlare di cose così private? Ho avuto con Amedeo un rapporto affettivo molto profondo di cui si è arricchita anche la mia musicalità, anche se, pur essendo io formica e lui elefante, mi permettevo di non essere sempre al cento per cento d’accordo con lui su certe sonorità, sui suoni emessi dai suoi pur meravigliosi programmi campionati, preferendo comunque e sempre le sonorità acustiche. Costretta dal poco tempo a disposizione, sono qui al PC, cercando di tirare fuori qualcosa di sincero da una mente annebbiata e sofferente e dai miei occhi ancora arrossati. Negli anni della mia adolescenza, Amedeo Tommasi era un mito (e ne ho avuti pochissimi). Non lo conoscevo, ma sapevo di lui, del fatto che era refrattario, che mollava una cantante in piena prova se non lo rispettava, che non si concedeva facilmente, che chiedeva molti soldi a differenza di altri, il che significava che non si svendeva e che aveva un grande amor proprio. Ma soprattutto sapevo che insegnava e sapevo che era il Maestro dei Maestri. E infatti ho verificato che è stato l’insegnante di tutti i pianisti amici miei che apprezzo di più.

Ma andiamo al nostro incontro: mio marito malato di tumore, io che avevo bisogno di un Maestro di musica come dell’aria che respiravo. Lo chiamo, abita a due passi da casa mia, accetta di darmi lezione. Mi trovo di fronte a un genio: divertente, giovane, appassionato, incazzato quando non riuscivo a fare un esercizio… ho la presunzione di credere che la sfuriata che ha avuto con me quella volta prendendomi le mani e mettendomele sull’accordo facendomi quasi male non l’abbia avuta con nessun altro, o altra. Era il segno della sua passione per la musica, e forse un piccolo segno premonitore del suo interesse per questa signora/ragazzina figlia del suo amico Lelio che in età avanzata, del tutto sconosciuta nonostante i natali, voleva approfondire la sua conoscenza della musica. E l’ha capito dopo qualche anno (a volte l’insegnante è accecato dal suo ruolo) che un po’ la musica già la sapevo…
E ha imparato ad apprezzarmi col tempo, musicalmente dico, e io, intimidita fino al midollo per la grandezza di chi mi trovavo davanti e con cui nel tempo si è creato un rapporto di amicizia/amore e reciproca stima, mi cullavo nella piacevole sensazione che ormai, dopo almeno cinque anni, mi considerava una sua pari. Il che ovviamente non è proprio vero. Quindi, tornando alla mia prima lezione con lui, gli porto il mio libro sul rapporto con mio padre “L’unico papà che ho”. Lui, come aveva fatto mio padre, da triestino, non si fida e lo fa “valutare” da una sua amica insegnante. L’amica gli dice che si aspettava una biografia, cosa che il libro non ha mai voluto essere. Quindi il libro resta inerte sul suo comodino. Non l’ha mai letto: dice che salto da un argomento all’altro… allora inizia questo gioco: io minaccio di riprendermelo, lui dice che lo leggerà dopo quello su Chet che gli ho regalato. Mai letto invece. Né il mio né quello su Chet. Pigro. Lo diceva lui stesso di sé. Quindi, lezioni, un CD insieme, “I Love You Chet”, anche tante risate, tante battute, il tutto nel più assoluto ma affettuoso rigore. (A questo punto se leggesse questo mio scritto direbbe “Rigor mortis”!). Aveva un grande rispetto per la Musica. Quando comunicavamo su Messenger giocavamo, inventavamo situazioni, giochi di parole, e un linguaggio tutto nostro.

Pochi concerti con lui perché già non riusciva a fare le scale, essendo i club sempre con scale ripide. Poi tante volte l’ho accompagnato al St. Louis, divertendomi un mondo per come insegnava, per la passione, l’ottimismo… ma per questo vi consiglio di parlare con i suoi innumerevoli allievi o cercare materiale su YouTube. Per quanto mi riguarda posso dire (e non sono la sola a dirlo) che insegnava la Musica nella sua accezione più alta, più che la tecnica pianistica. Dava molto di più della media degli insegnanti, perché lui era la Musica. Esigente sull’intonazione fino allo spasimo, e io a dirgli che secondo me la voce umana non è un computer, e che un comma in più o in meno è un segno di espressività di una voce. Ma non è importante quello che penso io. È importante invece che grazie a lui le mie stonature, secondo lui dovute a pigrizia – e aveva ragione – me le ha corrette a forza di scudisciate morali benevole. Adesso mi rendo conto del capitale che mi ha lasciato. Io so la sua intelligenza, il suo humour, la sua sensualità. E da musicista a musicista, da triestina a triestino, so il suo rigore, ma anche la sua fantasia. E quando penso: peccato che visto il mio impegno con mia madre anziana e visto il mio carattere incostante, ma anche visto il maledetto Covid, negli ultimi tempi ci siamo visti e sentiti di meno, cioè non tutti i giorni più volte al giorno come prima, almeno mi consolo del fatto che forse senza di me non avrebbe fatto quel concerto a Foligno, senza di me non avrebbe fatto l’ultimo CD di jazz della sua vita, dopo tanto tempo che non ne faceva, senza il mio pungolarlo non avrebbe fatto il libro degli undici standard, meraviglioso, che ho trascritto su Finale assieme a Vito Andrea Morra, senza di me non avrebbe avuto qualcuno da tormentare e da “mastruzarcome se disi a Trieste.

Potrei continuare a parlarne, sarebbero tante le cose da dire, potrei parlare della sua poetica, del suo modo di finire i pezzi sempre sul primo grado, alla Beethoven (infatti aveva iniziato con la musica classica con suo padre al violino) ma non so quanto debba essere lungo questo scritto propostomi dal mio caro amico Gerlando, il quale mi ha chiesto appunto un racconto personale. Quindi mi fermo qui. Due giorni fa, nell’ultima conversazione su Messenger, gli ho detto che stavo studiando “Very Early” di Bill Evans. “Uhm..” mi fa. “Perché, non ti piace?” Lui: “È noiosa”.  I musicisti capiscono cosa intendeva per “noiosa”. Tengo a precisare che considera Evans tra i più grandi, ovviamente. Se provo ad analizzare la struttura melodica del pezzo, forse capisco perché lo riteneva noioso: perché questi continui salti di 5a bemolle lo rendono monotono, perché non ne emerge una gerarchia di accordi secondo il classico sistema tonale, che è quello che lui negli anni maturi della sua vita ha prediletto nelle sue canzoni. Una “classicità” che aveva fatto parte della sua infanzia e che voleva ritrovare. Ho azzardato nell’interpretazione, spero di non essermi sbagliata di troppo. E mi chiedeva un parere su canzoni che stava scrivendo. Quando gli ho proposto di scrivere le parole sul suo pezzo “Hannie’s Dream”, che aveva scritto giovanissimo, si è rifiutato, scontroso, dicendo che era stato scritto per essere strumentale. L’ho convinto e ho scritto i testi di tre pezzi addirittura, che lui orgogliosamente ha fatto cantare a una sua allieva del St. Louis.  E ne avrebbe volute altre. Mi chiamava Lutt a volte, e a volte invece usava epiteti affettuosi e sempre divertenti, e sempre nuovi per combattere la noia. Un Artista vero. Aveva capito l’essenza della Musica. Guai sedersi al suo pianoforte se non ne eri degno. Non gli ho mai detto che l’amavo, ma lo sapeva. Ciao amore mio, dormi che sei stanco.
PS Mio marito, che amavo moltissimo, è morto nel 2017. Io col pianoforte, per colpa solo mia, non ho mai fatto grandi progressi, ma ho imparato molte cose di musica perché sono stata la compagna, in via ufficiosa, della Musica fatta persona.

Donatella Luttazzi

Il Pianista emerito: il sofferto coming out di Keith Jarrett che non potrà più suonare…

La notizia dei guai di salute di Keith Jarrett ha sollevato nel mondo ondate di emozione e sollecitato analisi critiche su un importante e amatissimo artista. Con l’augurare al pianista di Allentown una pronta guarigione, la presente valutazione prende le mosse da due aspetti che esulano dall’ambito strettamente jazzistico: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico.

Giuseppe Cardoni – Keith Jarrett – UmbriaJazz 2004

Di Keith Jarrett tutti ricordano l’atteggiamento verso le platee, la comunicazione non verbale e, in senso lato, il personaggio. (Mi scuseranno coloro che ne parlano già al passato, ma io non riesco a coniugare questo musico se non al presente). Lui che sul palco canta e grida come un ossesso non tollera rumori, è capace di abbandonare stizzito la sala al minimo cenno d’indisciplina e giunse al punto di apostrofare la platea di ‘Umbria Jazz’ con un epiteto (‘assholes’) non proprio sinonimo di kaloskagatói e tutto per aver disobbedito – alcuni – all’ordine di non registrare il con- certo col telefonino.
Jarrett antipatico e intollerante? Al di là della componente narcisistica, credo che egli ponga, e intenda superare, un problema importante e da troppi sottovalutato e lo faccia senza ipocrisie.
Si tratta della scarsa comunicazione tra artista e pubblico. L’arte non dovrebbe essere un banale scambio di oggetti tra donatore e acquirente ma un processo di liberazione interiore che permette a chi ascolta di divenire consapevole della propria forza e libertà, e a chi crea di liberare le sue intuizioni più riposte appoggiandosi alla piattaforma energetica generata insieme al pubblico, in quel luogo, in quel momento.
Il concerto si fa in due, si tratta di una trasformazione, di un ciclo di produzione, di un’alchimia possibile, tra l’altro, soltanto in sala da concerto, non nello “streaming” propugnato da finti amanti dell’arte musicale, che filtra e adultera il messaggio ostacolando irrimediabilmente lo scambio.
Lo “streaming” corrisponde alla visione napoleonica dell’arte come ‘instrumentum regni’. Il grande rito borghese, la liturgia chiesastica di Jarrett invece, criticata da molti come deriva autoritaria dell’ evento-concerto, è un fatto altamente etico e ad altezza d’uomo. L’esperienza del processo creativo, rivissuta dal pubblico, può e deve sensibilizzare lo spirito individuale. Sono intollerante  io, sembra chiedere Jarrett, che pretendo la concentrazione generale, o tu che ostacoli il medesimo processo al quale hai pagato per assistere? Jarrett può a volte mancare di equilibrio, mai però ha suonato con sciatteria di fronte al pubblico: questa sarebbe vera arroganza. E in  fondo anche la presunta arroganza di Miles che suonava con le spalle rivolte al pubblico non era altro, per mio conto, che una richiesta plateale di alzare l’asticella della comunicazione. Artisti di questa fatta aspirano a una fratellanza, non basta un pubblico che dica semplicemente: io c’ero. Educazione, recita il dizionario, “è condur fuori l’uomo dai difetti originali della rozza natura, instillando abiti di moralità e buona creanza”. Vale per chi la musica crea come per chi l’accoglie. Gli argomenti di Keith Jarrett sono solidi e contenuti nei dischi, disponibili a tutti, basta ascoltare.


Se la sua colpa è di dir la verità senza patteggiamenti lo perdono volentieri. Per tutto il resto c’è la Muzak.
Da decenni Keith Jarrett ha messo la propria enorme fama al servizio della grande repertorio concertistico. Ha registrato opere di vari autori, da Haendel a Pärt a Hovhaness favorendo di fatto una meritevole operazione culturale che ha attecchito, come era logico e auspicabile, soprattutto all’interno della comunità del jazz. Ho visto con i miei occhi jazzofili di stretta osservanza acqui- stare a scatola chiusa i dischi dei Concerti di Mozart con Russell Davies solo perché al pianoforte suonava Jarrett. Ma come sono, alla fine, queste registrazioni? Risultano paragonabili a quelle di Pollini, Richter, Ashkenazy? Per provare a rispondere, sarebbe bene rinunciare a paragoni insensati. Il ‘jazz’ più che un genere è un complesso approccio alla musica, quindi all’esecuzione e investe varie forme dell’agire. Come le lingue hanno i loro ‘argot’ il jazz ha una sua pronuncia, sincopata e accentata, un vero e proprio testo nel testo. La fraseologia del jazzista è appuntita, predilige la tensione, feconda l’instabilità laddove nell’estetica del pianoforte classico, particolarmente in Mozart, è importante l’opposto, l’uguaglianza, il controllo dinamico e il jeu perlè. È ostacolo non piccolo da superare per lo strumentista che voglia scollinare da un genere all’altro senza rotolare a valle. Ma c’è un altro problema, lo scoglio – non trascurabile pure – dell’ornamentazione, ossia della realizzazione degli abbellimenti, fioriture melodiche che presidiano i fraseggi specialmente delle opere classiche e pre-classiche.

Non è più accettabile oggi porgere un’ornamentazione casuale seguendo semplicemente l’istinto, anche chi suona lo strumento moderno deve ‘abbellire’ con cognizione di causa per non cadere in un analfabetismo stilistico di ritorno. Sicuramente tra i jazzisti che si avvicinano al non facile repertorio classico (penso a Corea, a John Lewis, al nostro Stefano Bollani) Keith Jarrett è il più convincente sotto il profilo tecnico come dello stile. Diciamo subito che suo lavoro di trasformazione della pronuncia jazz in fraseggio ‘classico’ è impressionante e si spiega sia con una facilità digitale miracolosa che con un istinto mimetico di prim’ordine. Immaginate un attore haitiano che reciti in perfetto italiano, o uno italiano brillare nel teatro kabuki. Casomai è strano sentire, come mi capita ogni tanto, che egli in questi repertorî “stravolge” e “sperimenta”. Se c’è una critica infatti che si può rivolgere alle sue incisioni “classiche” è casomai l’estrema, talvolta eccessiva timidezza dell’approccio interpretativo. Il suo famoso Bach, ad esempio, è preciso ma convenzionale, privo di una fisionomia davvero riconoscibile. Le sue ornamentazioni non vanno molto oltre i suggerimenti delle vecchie edizioni di Casella e Mugellini e le esecuzioni, in particolare quelle cembalistiche come le “Goldberg”, sono molto compassate.

I contrasti tra i tempi veloci e gli adagi risultano non di rado smussati, l’avvicendarsi delle varie situazioni un poco uniforme e la noia serpeggia qua e là. Anche le danze delle Suites Francesi si somigliano un po’ tutte. È come se il pianista, intimidito dagli autori affrontati, scegliesse di stare sempre al di qua del testo senza prendersi, diversamente da quanto avviene nei mirabili soliloqui improvvisati in pianoforte solo, alcun rischio. Anche Liszt, quando trascrisse per pianoforte le Sin- fonie di Beethoven dopo aver ricevuto la tonsura e gli ordini minori in Vaticano, non osò reinventare quelle opere come era solito fare e, intimidito forse dallo spirito del Maestro, quasi una divinità, le richiuse nel chiostro di “partitions de piano” fedeli come immagini allo specchio. Il corretto Bach jarrettiano è quindi, sul piano strettamente artistico, un’occasione perduta poiché  dall’enorme immaginazione di questo artista era lecito attendersi uno sguardo più rivelatore,  anche se restano letture rispettabili.
I dischi più convincenti invece, oltre a quelli che includono le sue proprie composizioni,
sono dedicati al repertorio novecentesco, Shostakovich in testa, ma anche il bell’album con il concerto di Barber e il terzo Bartok. Mi pare che tra il suono un po’ piccolo e nervoso di Jarrett, tra la sua koinè e il fecondo sincretismo intrinseco a quelle musiche si generi un’elettricità particolare che rende avventuroso l’ascolto. Il suo spazio improvvisativo restituisce qualcosa dell’ispirazione primigenia di questi lavori. Qui lo scattante pianismo di Keith si può anche prendere qualche rivincita su letture più blasonate, sempre restando entro il recinto di un approccio testuale filologico nel quale l’interprete non osa mai sovrapporsi autobiograficamente al testo.
Al Jarrett pianista classico può andare allora a pieno titolo una laurea “honoris causa” ma non direi, tutto sommato, che egli sia in quest’ambito un enfant terrible, piuttosto uno studente modello e un po’ secchione. Meglio così. Chi mi conosce sa quanto io stimi e ammiri Chick Corea, genio e sopra tutto poeta… ma soffrii le pene dell’inferno ad ascoltare una sua cadenza scombiccherata durante un Concerto di Mozart, peraltro tutto sbagliato stilisticamente! Non bisogna essere fedeli per forza ai pentagrammi, la musica, Dio ne scampi, non è un prontuario però, come si diceva più sopra a proposito della relazione tra artista e pubblico, il vero peccato mortale non sta nelle note sbagliate ma nella scarsa comunicazione tra testo e interprete. Ciò che ravvisai in quella deludente lettura di Corea fu proprio un’incompletezza espressiva, un non capirsi o non volersi capire. Ecco, di simili fraintendimenti linguistici nelle interpretazioni jarrettiane non vi è traccia.


È un gran merito. Chiaramente, a uno sguardo più generale, esiste il rischio opposto e fin peggiore, che il testo divenga un algido Totem, come purtroppo avviene in certe esecuzioni su strumenti d’epoca, rigide come militari passati in rassegna però fedeli alla lettera.
Il discorso qui ci porterebbe lontano. Non esistono verità ma canoni che non devono perdere di vista la stella polare di una chiara linea espressiva, pena il fallimento su tutta la linea.
Il canone jarrettiano, pur con i distinguo sopra esposti, è persuasivo, i gangli di comunicazione attivi ed ha in più una sua insostituibile funzione, torno a dire, nel rivolgersi a una specifica comunità di ascoltatori e appassionati. D’altronde se è vero, come credo, che nei sincretismi e non nella purezza troveremo buona parte della migliore musica del futuro, l’annessione della tradizione classica è una medicina naturale contro i suoni mercificati. Jarrett l’ha capito e messo in pratica. Non di molti artisti, anche in un lungo periodo di tempo, si può affermare una tale originalità e un tal carattere fondamentale, una visione così ampia.

Massimo Giuseppe Bianchi

I nostri CD.

Cari amici, come promesso, eccomi dopo le vacanze estive, quest’anno piuttosto particolari, con la solita nutrita rubrica dedicata alle novità discografiche. Come vedrete ce n’è davvero per tutti i gusti: dal jazz canonico a quello più sperimentale, dal jazz per big band a quello per combo, dal jazz strumentale a quello vocale. Non mi resta, quindi, altro che augurarvi buon ascolto.

Aldo Bagnoni – The Connection – Alfa Music
“The Connection” è il nuovo album di Aldo Bagnoni. Il batterista e compositore barese si ripresenta al suo pubblico alla testa di un quartetto completato da altri tre musicisti pugliesi, il polistrumentista Emanuele Coluccia, il contrabbassista Giampaolo Laurentaci e il tastierista Mauro Tre. In repertorio dieci brani di cui nove originali e l’arrangiamento di un pezzo popolare lucano. Particolare tutt’altro che trascurabile, una tantum il titolo rispecchia abbastanza fedelmente la musica che vi si ascolta; in effetti Bagnoni e compagni propongono un jazz che entra in specifica connessione con altri linguaggi: ecco quindi affacciarsi un’atmosfera tanguera nella linea melodica di “Clarabella”, un qualche riferimento a melopee seppur vagamente orientaleggianti in “Eternal Returns” con in bella evidenza il pianismo di Mauro Tre mentre Giampaolo Laurentaci si fa apprezzare in “The Dolmen and The See” brano che si può ascrivere alle correnti più attuali del jazz, una puntata nell’atonale, un’incursione nel folk con “Lipompo’s Just Arrived”… fino al conclusivo “Clarabella – Epilogo” e “The Connection” è servita nel migliore dei modi. Volendo esprimere un giudizio complessivo sull’album, direi che si tratta di un volume innanzitutto ben congegnato e altrettanto ben eseguito da tutti i musicisti, ma soprattutto coraggioso, una realizzazione che non ha alcun timore a distaccarsi dalle mode oggi prevalenti per proporre esclusivamente quella musica che si ritiene corrispondente ai propri principi non solo estetici. D’altro canto conoscendo Bagnoni non v’è alcun dubbio sul fatto che questi principi abbiano sempre indirizzato la sua esistenza e non solo di musicista.

Danilo Blaiotta Trio – “Departures” – Filibusta Records
Il pianista Danilo Blaiotta, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Valerio Vantaggio sono i protagonisti di questo album uscito il 15 maggio per l’etichetta Filibusta. Il trio, formato nel 1917, è composto da musicisti dell’area romana accomunati da un profondo interesse per la musica classica testimoniato dal fatto che sia il leader, sia il contrabbassista possono vantare approfonditi studi di pianoforte classico. In particolare Blaiotta ha studiato, tra l’altro, diversi anni con il maestro Aldo Ciccolini e negli anni dal 2010 al 2012 si è esibito in recital monografici dedicati a Chopin, Liszt e Debussy per la celebrazione della nascita dei tre compositori. Ed è proprio questa l’impronta che caratterizza tutto l’album, un profondo amore per la musica classica declinato attraverso un linguaggio jazzistico non particolarmente originale ma comunque ben lontano dalla banalità. In repertorio sei brani originali composti da Blaiotta che denota una buona capacità di scrittura anche per il giusto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate; accanto a questi original figurano “Gioco d’azzardo” di Paolo Conte, “There Will Never Be Another You” di Warren e Gordon e “Solar” di Miles Davis. In quest’ambito i pezzi più interessanti sono “The Devil’s Kitchen” con le sue due sezioni ben distinte, “Into The Blue” caratterizzato da una suadente linea melodica ben espressa anche dal contrabbasso di Ferrazza mentre “Solar”, impreziosito da una convincente intro, è porto con sincera partecipazione senza alcuna voglia di strafare nel mantenere l’originaria bellezza del brano davisiano.

Maurizio Brunod – “Ensemble” – Caligola
Una premessa di carattere personale: conosco Brunod da parecchi anni e ho avuto il piacere di averlo mio ospite durante una delle mie “Guide all’ascolto”. E’ quindi con grande piacere che vi presento questo album dal sapore del tutto particolare. In effetti per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno e i trent’anni di carriera il chitarrista ha realizzato un progetto speciale reinterpretando alcune delle sue composizioni, dagli esordi fino ad oggi. Per far ciò ha chiamato accanto a sé due giovani talenti del jazz piemontese, il pianista Emanuele Sartoris ed il contrabbassista Marco Bellafiore, cui sono stati affiancati come special guest in alcuni brani Daniele Di Bonaventura al bandoneon e Gianluigi Trovesi al sax alto e clarinetto. Il risultato è eccellente, senza se e senza ma. La musica scorre fluida, sempre piacevole, a tratti venata da una certa malinconia seppur mai inutilmente sdolcinata. E il trio, senza batteria, si muove perfettamente a suo agio nel contesto disegnato e voluto dal leader. Quanto al ruolo dei due ospiti, risulta anch’esso di grande spessore. Basti ascoltare, ad esempio, “Stinko Tango” in cui il bandoneon gioca un ruolo di primissimo piano e “Urban Squad” con un Trovesi che, con accorte pennellate, dimostra di non aver perso un’oncia della sua inimitabile statura artistica. Dal canto suo il leader dimostra di aver raggiunto una completa maturità sia come chitarrista sia come compositore quale ciliegina su una torta che lo ha visto collaborare con alcuni dei massimi esponenti del jazz nazionale e internazionale quali Enrico Rava, Miroslav Vitous, John Surman, Tim Berne.

Marcella Carboni Trio – “This Is Not A Harp” – barnum
Conosco e seguo Marcella Carboni sin dagli inizi della sua strepitosa carriera e l’ho sempre considerata una fuoriclasse, fuoriclasse perché è riuscita ad inserire in territorio jazzistico uno strumento certo non usuale coma l’arpa che tecnicamente padroneggia con estrema sicurezza, una fuoriclasse perché ha elaborato un fraseggio assolutamente personale, una fuoriclasse perché sta evidenziando una verve compositiva non comune. E questo album, registrato in trio con altri due giganti del jazz italiano quali Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria conferma appieno quanto sin qui detto. I tre si muovono con grande empatia lungo un repertorio costituito da 12 brani composti dai tre artisti, in massima parte dalla stessa Carboni. Particolarmente significativo il titolo dell’album: come spiega la stessa Marcella tutti si attendono un’arpa angelica, magica e rilassante mentre questa “non è un’arpa: è la mia voce, il mio suono. È uno strumento che sa graffiare, sa avere ritmo, groove”. E come darle torto. Il sound che la Carboni riesce a trarre dal suo strumento è davvero ben lontano da quello cui siamo abituati, come se ci si trovasse dinnanzi ad un classico trio piano-batteria-contrabbasso in cui tutti e tre gli strumenti hanno un’eguale importanza. All’interno del CD si trova una password che dà la possibilità di scaricare una vera e propria estensione del disco con contenuti extra tra cui tre pillole di improvvisazione inedite: “Time Transfixed” (M.Carboni /S.Bagnoli), “The False Mirror” (M.Carboni /P.Dalla Porta) e “The Empire of Lights”

Avishai Cohen – “Big Vicious” – ECM
Ritroviamo il carismatico trombettista Avishai Cohen alla testa del suo gruppo “Big Vicious” costituito circa sei anni addietro quando fece ritorno in Israele suo Paese natale dopo aver a lungo soggiornato negli States. A completare la formazione ci sono Uzi Ramirez chitarra, Aviv Cohen batteria, Yonatan Albalak chitarra e basso, Ziv Ravitz percussioni e live sampling. Questi musicisti, come spiega lo stesso Cohen, non provengono tutti dal jazz ma hanno alle spalle esperienze le più diversificate, dall’elettronica all’ ambient music, dalla musica psichedelica al rock, al pop…fino al trip-hop. Insomma un miscuglio di stili, di linguaggi che sapientemente mescolati dal leader, danno vita ad una miscela di sicuro interesse. Insomma qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto, del jazz classico, ma ascoltiamo qualcosa se volete di più complesso, difficile da definire. Ad esempio un brano come “King Kutner” caratterizzato da un’orecchiabile linea melodica e da un andamento armonico-ritmico assai marcato non scandalizzerebbe i seguaci del pop di qualità. Ma subito dopo troviamo sia un omaggio a Beethoven con “Moonlight Sonata”, sia un brano dei Massive Attack “Teardrop” (particolarmente indovinato l’arrangiamento) sino a giungere al pezzo di chiusura, “Intent” che ci riporta su terreni più prettamente jazzistici. Il tutto illuminato dagli interventi del leader (lo si ascolti ad esempio in “Fractals”) che si stagliano come lacerti illuminanti in un ambiente musicale dai mille colori, dalle mille sfumature con un repertorio ben scritto, ottimamente arrangiato e altrettanto ben eseguito, con tutti i musicisti messi nelle migliori condizioni per esprimere appieno il proprio potenziale.

Maria Pia De Vito – “Dreamers” – Via Veneto Jazz, Jando Music
Credo che nessuno avrà da obiettare se dico che attualmente Maria Pia De Vito è una delle più interessanti vocalist che il mondo del jazz internazionale possa annoverare. Napoletana di carattere, anno dopo anno mai si è fermata continuando a studiare, a sperimentare con passione e quella curiosità che fanno di un musicista un vero artista. E quest’ultima fatica discografica non fa che confermare quanto detto. Maria Pia è coadiuvata da Julian Oliver Mazzariello al piano, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Alessandro Paternesi alla batteria cui si aggiunge in “The Lee Shore” Roberto Cecchetto alla chitarra. Il titolo “Dreamers” (“Sognatori”) si riferisce a quanti con le loro melodie hanno saputo raccontare e fors’anche prevedere le vicende della società statunitense…e non solo. E così in cartellone ritroviamo nove brani che rappresentano una sorta di breve catalogo di canzoni icone del songwriting d’oltreoceano, firmate da Paul Simon, David Crosby, Bob Dylan, Tom Waits e soprattutto Joni Mitchell di cui la De Vito ripropone ben tre pezzi; e la cosa non stupisce dato che Maria Pia aveva già affrontato il repertorio della Mitchell nel precedente «So Right» (Cam Jazz). Io credo che la cifra stilistica dell’album consista nella grande personalità dell’artista che riesce ad esplorare ogni brano sin nelle più intime pieghe così da farlo proprio e riprodurlo in modo personale con assoluta padronanza. E la cosa è ancora più rilevante ove si tenga conto che non si tratta certo di brani facili e che moltissimi li conoscono nelle loro versioni originali per cui non è difficile effettuare paragoni. Alla perfetta riuscita dell’album contribuiscono in maniera forte gli arrangiamenti scarni, essenziali, con una particolare attenzione alle dinamiche, il tutto nel pieno rispetto dell’originario spirito dei brani. E a proposito di quest’ultimi, fermo restando che vanno tutti ascoltati con la massima attenzione, mi piace sottolineare le interpretazioni di “Chinese Cafè” e “Carey” ambedue di Joni Mitchell; il primo brano presenta uno straordinario cambio di atmosfere e il mirabile inserimento di un inserto tratto da “Unchained Melody” mentre in “Carey” si possono apprezzare, tra l’altro, i vocalizzi scat della De Vito. Ultima considerazione, di certo non secondaria, la perfetta pronuncia inglese della vocalist.

Alessandro Fabbri – «Five Winds» – Caligola
Prima di entrare nel merito di questo interessante lavoro, consentitemi ancora una volta una riflessione del tutto personale: è da molto tempo che non incontro Alessandro Fabbri e così, quando ho visto la fotografia del settetto contenuta nella copertina dell’album, ho stentato a riconoscere il batterista fiorentino. Segno evidente che la mia memoria, almeno per quanto riguarda il riconoscimento facciale, denota qualche problema. Viceversa l’udito è rimasto perfetto e così ho avuto modo di percepire appeno tutte le qualità di questo “Five Winds”. Si tratta del quarto disco da leader di Fabbri per Caligola, sette anni dopo «StrayHorn». Il gruppo presenta un organico tutt’altro che usuale dal momento che accanto al leader figurano Guido Zorn al contrabbasso, e poi una straordinaria batteria di fiati: Davide Maia al bassoon, Elia Venturini al corno francese, Simone Santini sax alto, sopranino, oboe e EWI, Sebastiano Bon flauto, flauto alto e basso, e il sempre grandioso Pietro Tonolo ai sax tenore e soprano. Il repertorio si incentra su sei composizioni di Fabbri con l’aggiunta di “Four Winds” di Dava Holland, “No Baby” di Steve Lacy e “Silent Brother” di Luca Flores, queste ultime rivisitate alla luce della personalissima visione del leader. Dalla composizione del gruppo si evince facilmente come una delle caratteristiche principali dell’album sia l’ampia tavolozza cromatica che, unitamente all’assenza di uno strumento armonico, rende possibile l’articolazione della musica su una struttura contrappuntistica con evidenti e inevitabili richiami ai grandi del cool-jazz. Insomma, come si accennava in apertura, un lavoro di gande spessore e artisticamente molto interessante.

Jimmy Greene – “While Looking Up” – Mack Avenue
Era il 14 dicembre 2012 quando Adam Lanza, di 20 anni, dopo essersi introdotta presso la Sandy Hook Elementary School, di Sandy Hook, borgo della città di Newtown in Connecticut (USA), aprì il fuoco causando la morte di 27 persone, 20 delle quali bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni, suicidandosi prima dell’arrivo della polizia. Tra le vittime c’era anche Ana Márquez-Greene figlia del sassofonista Jimmy Greene il quale, entrato in studio nel marzo del 2019, registrò “While Looking Up” ispirato a questa tragedia ma anche al caos del mondo contemporaneo. Greene è accompagnato da Aaron Goldberg al pianoforte e Rhodes, Stefon Harris a marimba e vibrafono, Lage Lund alla chitarra, Reuben Rogers al contrabbasso e Kendrick Scott alla batteria. In repertorio dieci composizioni molte originali dello stesso Greene, declinate attraverso un linguaggio prettamente jazzistico in cui si avvertono, evidenti, influssi gospel. Particolarmente interessante “No Words” in cui, su un tappeto ritmico che sembra riprodurre i battiti di un cuore, Greene si esprime con note quasi dolenti che ben si attagliano a quanto in precedenza detto. E il ricordo della tragedia è ancora richiamato in “April 4th”, data di nascita della figlia, una sorta di inno in cui all’assolo del leader fa seguito un magistrale intervento di Stefon Harris al vibrafono. Interessante e convincente anche la riproposizione di “I Wanna Dance With Somebody (Who Loves Me)” portato al successo da Whitney Houston; Greene la interpreta a tempo lento ben sostenuto dal pianismo sempre essenziale di Aaron Goldberg

Connie Han – Iron Starlet – mack avenue
E’ uscito il 12 giugno per la Mack Avenue “Iron Starlet”, il secondo album della pianista americana di origine cinese, Connie Han, alla testa del suo trio completato da Ivan Taylor al contrabbasso e Bill Wysaske nella triplice veste di batterista, produttore e direttore musicale. Ai tre si aggiungono, in alcuni brani, Walter Smith III al sax e Jeremy Pelt alla tromba a costituire un sestetto di sicuro impatto. In repertorio dieci brani tra cui “For th O.G.”, in memoria di McCoy Tyner. Ciò premesso occorre sottolineare come dal punto di vista tecnico la Han sia fortissima così come aveva dimostrato nel precedente album del 2018 “Crime Zone”: la pianista e compositrice ha ben introitato la lezione dei grandi del jazz, da McCoy Tyner a Hank Jones senza dimenticare artisti più moderni quali Kenny Kirkland e Jeff “Tain” Watts. Di qui un pianismo ricco, spumeggiante, con una diteggiatura velocissima e una buona indipendenza tra le due mani che ben si ancora alla costante pulsazione di una sezione ritmica eccellente. Il tutto impreziosito dai due fiati che innervano la musica di una certa raffinatezza e di un’ulteriore forza d’impatto. Si ascolti come il trombettista Jeremy Pelt conduce le danze nella title tracke prima che la pianista prenda in mano le redini della situazione o come tromba e sax tenore duettino all’inizio del successivo “Nova” in cui la leader suona il Fender Rhodes. Tra gli altri brani da segnalare ancora il già citato “For th O.G.” con la pianista in grande spolvero e particolarmente efficace anche sul piano espressivo e il delicato valzer “The Forsaken” della stessa Han eseguito ancora in trio con Bill Wysaske in bella evidenza.

Frank Martino – “Ego Boost” – Auand
Il sound è sicuramente l’elemento distintivo di questo album del chitarrista, compositore e produttore, Frank Martino che evidenzia ancora una volta come le sue fonti di ispirazione non vadano ricercate solo nel jazz ma anche (se non forse soprattutto) nel rock e nell’elettronica. In effetti questo terzo album del suo progetto Disorgan, attivo dal 2015, si muove lungo coordinate caratterizzate da un forte impianto ritmico e come si accennava in apertura dalla ricerca di un sound particolare, piuttosto duro, ricercato attraverso le diverse soluzioni che l’organico può offrire. E questo risultato non sarebbe stato possibile se non vi avessero contribuito in maniera determinante tutti i musicisti scelti da Martino, vale a dire il sassofonista Massimiliano Milesi, Claudio Vignali (tastiere) e Niccolò Romanin (batteria) mentre in alcuni brani Martino abbandona la sua fida chitarra a 8 corde per passare al basso. In repertorio 7 brani, tutti a firma di Martino, eccetto ‘Trees of Silence and Fire’ (Milesi/Vignali), che denotano un’intima coerenza data l’assoluta aderenza al progetto da parte dell’intero gruppo che, importante ripeterlo, ha svolto un incredibile e apprezzabile lavoro a livello di suono rendendo inutile il lavoro di post-produzione. Particolarmente rilevante il ruolo svolto da Martino che questa volta piuttosto che porsi in primo piano ha preferito mettersi a servizio del gruppo, pur non disdegnando interessanti sortite solistiche come in “Fring”.

Lorenzo Miatto – “Civico 19” – Caligola
Album d’esordio come leader per il veneto Lorenzo Miatto, specialista del basso elettrico, coadiuvato da altri due musicisti dell’area veneta, il chitarrista Nicola Privato e il batterista Niccolò Romanin. Miatto si presenta al pubblico del jazz nella triplice veste di leader, strumentista e compositore (nove brani su dodici sono suoi), e in tutte e tre le vesti Miatto se la cava più che egregiamente. Come bassista Miatto ha completato i suoi studi al Conservatorio di Adria sotto la guida di Paolo Ghetti ed è anche membro dell’orchestra nazionale di jazz diretta da Pino Jodice e Riccardo Luppi; come leader dimostra di saper guidare il trio con mano ferma e competente; infine come compositore evidenzia un notevole gusto per linee melodiche suadenti e originali. E questo della ricerca della melodia è una costante di tutto l’album; non a caso il brano che si stacca più nettamente dal resto, con un andamento più ruvido, spigoloso è “The Pretender” un brano dei Foo Fighters rivisitato in forma originale. Per il resto il trio si muove su coordinate ben precise, sempre dettate dal leader che si riserva quattro brevi interventi in completa solitudine (“Con calma # 1,2,3,4), lasciando per il resto ampio spazio ai compagni di strada per esprimere appieno le proprie potenzialità. Si ascolti al riguardo “Whirlwinds” e “Shapes” due composizioni del chitarrista caratterizzate da una bella accentuazione ritmica-armonica mentre in “Storie di sempre” ritorna in auge la linea melodica privilegiata dal leader.

Jean-Louis Matinier, Kevin Seddiki – « Rivages » – ECM
Grande musica quella contenuta in questo album realizzato in duo dai musicisti francesi Jean-Louis Matinier all’accordion e Kevin Seddiki alla chitarra. Lo riconosco: questo giudizio potrebbe essere falsato dalla mia predilezione per la fisarmonica tuttavia non credo di essere molto lontano dal vero nell’affermazione di cui in apertura. In effetti non possono sussistere dubbi sulla statura artistica di Matinier testimoniata, ampiamente, dalle precedenti prove per la stessa ECM. Si ascoltino le precedenti registrazioni con i gruppi di Anouar Brahem, Louis Sclavis e François Couturier e in duo con Marco Ambrosini. Adesso si ripresenta protagonista di una nuova impresa, un altro duo con il chitarrista Kevin Seddiki che nell’occasione debutta in casa ECM. Seddiki può vantare una robusta preparazione tecnica avendo studiato chitarra classica con Pablo Marquez dopo di che ha lavorato con molti improvvisatori non solo nel campo del jazz. Questa trasversalità culturale viene qui assai ben declinata attraverso un repertorio che accanto a traditional quali “Greensleeves” comprende brani classici come “Les Berceaux” di Gabriel Fauré fino a giungere a composizioni e improvvisazioni di grande suggestione. Comunque a prescindere dai singoli brani è tutto l’album che si lascia ascoltare con interesse dal primo all’ultimo istante. La musica fluisce in maniera naturale, senza forzature, respirando al ritmo dei mantici di Matinier che ben si accordano con il sound così caratteristico della chitarra di Seddiki. Quest’ultimo evidenzia una spiccata predilezione per la tecnica percussiva derivante anche dal fatto che il chitarrista ha studiato e collaborato con il percussionista francese di origine persiana Bijan Cherimani, specialista dello zarb (tamburo di calici proveniente dalla Persia).

Wolfgang Muthspiel – “Angular Blues” – ECM
Il chitarrista austriaco Wolfgang Muthspiel si ripresenta all’attenzione del pubblico e della critica del jazz alla testa del suo trio completato da Scott Colley contrabbasso, che ha preso il posto di Larry Grenadier presente in precedenti album di Muthspiel e Brian Blade alla batteria. In programma due standard (“Everything I Love” di Cole Porter, “I’ll remember april” di Gene de Paul, Don Ray e Patricia Johnston), e sette original del leader tra cui “Solo Kanon in 5/4”, eseguito da Muthspiel in solitudine. Si tratta del quarto album registrato dal chitarrista per ECM e ancora una volta ci restituisce un artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, che sa transitare con estrema disinvoltura dalla chitarra acustica a quella elettrica, tanto che senza un ascolto più che attento non è possibile stabilire quando venga utilizzato l’uno o l’altro strumento. Ciò detto occorre però aggiungere che l’album soffre di una certa staticità frutto da un canto di un repertorio non particolarmente originale e dall’altro di una eccessiva omogeneità di sound. Evidentemente ciò non disturberà più di tanto gli amanti della chitarra, ma il vostro recensore da un artista quale Muthspiel si attende qualcosa di più specie dal punto di vista del coinvolgimento.

Noukilla – “Soley” – Naxos
Con questo album usciamo decisamente fuori dal seminato in quanto di jazz c’è solo qualche lieve sentore: si tratta, in effetti, di musica tradizionale, popolare ma densa di significato. E’ un sentito tributo che il gruppo Noukilla rivolge al proprio Paese, l’Isola Mauritius. Com’è facile immaginare, il ritmo la fa da padrone così come la gioia di suonare e l’allegria mentre, almeno per quanto mi riguarda, le linee tematiche riportano alla mente quello ‘zouk’ che negli anni ’90 furoreggiava in Martinica tra la popolazione autoctona. In questo caso è una sorta di mélange tra sega e seggae. E per trovare le origini della musica sega bisogna andare molto indietro nel tempo in quanto la stessa venne creata dagli schiavi creoli; proprio per questo in Mauritius venne pubblicamente disprezzata fino agli anni ‘60 quando finalmente fu adottata come musica nazionale. Negli anni ‘90, un rastafari mauritiano, conosciuto come Kaya, dal celebre album di Bob Marley, innervò la sega con elementi di reggae, creando così il seggae. Nonostante sia morto nel 1999 in circostanze rimaste misteriose, molti artisti mauritiani continuano a rendergli omaggio e a creare una musica – come evidenzia anche questo “Soley” – che risente della sua influenza. Un’ultima notizia di cronaca: la copertina dell’album ritrae un ex residente dell’isola, sicuramente il più celebre, l’uccello Dodo; endemico dell’isola non poteva volare, si nutriva di frutti e nidificava a terra. Si estinse rapidamente nella seconda metà del XVII secolo in seguito all’arrivo sull’isola dei portoghesi e degli olandesi.

Francesco Polito – “Trip” – Alfa Music
Qui siamo in ambiente dichiaratamente ‘smoothjazz’, quindi niente ardite sperimentazioni, né linguaggi particolarmente astrusi ma la voglia, grande, di suonare ciò che piace, al meglio delle proprie possibilità. In effetti, se dal punto di vista compositivo l’album potrebbe far storcere il naso a quanti pretendono sempre qualcosa di nuovo, dal punto di vista esecutivo nulla si può rimproverare al gruppo guidato da Francesco Polito, al suo esordio discografico da leader ma musicista già ampiamente rodato anche perché nasce in una famiglia di musicisti ben nota in quel di Sala Consilina. Il sassofonista guida un gruppo ad organico variabile in cui figurano Enzo Polito alle tastiere-sint e accordion, Roberto Polito batteria e percussioni, Frank Marino basso, Silvio De Filippo chitarra, Gianfranco Cloralio chitarra, Massimo Romano Chitarra. In programma nove brani tutti composti da Francesco Polito da solo o in cooperazione con gli altri due Polito, cui si aggiunge, in chiusura, “A testa in giù di Pino Daniele”. Il leader suona sax tenore, sax alto e sax soprano evidenziando un’ottima preparazione strumentale che gli consente di passare con disinvoltura da uno strumento all’altro, dimostrando così di aver ben interiorizzato la lezione dei maggiori esponenti del genere quali Jenni K. I compagni d’avventura non sono da meno cosicché il gruppo, come accennato, risulta ben assortito. I brani sono tutti contrassegnati da una felice linea melodica anche se personalmente preferiamo i pezzi in cui è presente la fisarmonica, vale a dire “In Your Eyes”, “Martina” e il già citato “A testa in giù” in cui Enzo Polito sfoggia una sonorità moderna e un fraseggio non banale.

Marco Ponchiroli – “Solo Live” – Caligola
Pianista evidentemente convinto dei propri mezzi tecnici ed espressivi, Marco Ponchiroli affronta per la seconda volta le insidie del piano-solo. Ci aveva provato nel 2012 con “Solo” album registrato in studio e comprendente solo brani originali dello stesso artista. Questa volta il discorso è completamente diverso: il CD è stato registrato il 25 luglio del 2018 durante un concerto all’Arena del Parco Azzurro di Passons in provincia di Udine e il repertorio è costituito da quattro original del leader cui si affiancano tre brani molto conosciuti, “Senza fine” di Gino Paoli, “Body And Soul” di Green, Heyman, Sour, Eyton e “Retrato em branco e preto” di Jobim e Buarque. Quindi tre brani tra di loro assai diversi che si esplicano in tre differenti linguaggi ad evidenziare le buone capacità interpretative di Ponchiroli. Il pianista veneziano riesce a connettersi assai bene con il pubblico che l’ascolta e mostra eccellenti capacità improvvisative che prendono il via dal rispetto delle linee melodiche caratterizzanti tutti i brani dell’album. E devo dire che a mio avviso le capacità di Ponchiroli risaltano più evidenti nell’interpretazione dei tre brani non suoi che pur essendo (in special modo i primi due) ascoltati e riascoltati centinaia di volte vengono riproposti in versione assolutamente originale. Per il resto “Misty Morning” e “Hercules” provengono dal precedente “Solo” mentre la sola composizione non registrata in precedenza è “Inverno”.

Reunion Big Band – “My Life Is Now, a tribute to Marco Tamburini” – Caligola
Ottimo album d’esordio per questa orchestra sulla cui storia vale la pena spendere qualche parola. La “Reunion Big Band” venne fondata da Marco Tamburini, insieme a Roberto Rossi e Piero Odorici per debuttare nell’autunno del 1999 al Chet Baker, famoso club bolognese. Dopo un’intensa attività costellata di partecipazioni in molti festival, teatri e club dell’area tosco–emiliana, la band si sciolse e si ricostituì nell’estate del 2012 per accompagnare Dee Dee Bridgewater al Narni Black Festival. È stata questa la ripresa dell’attività, prima sotto la direzione di Tamburini e poi, dopo la sua scomparsa, dell’amico e trombonista Roberto Rossi. Ed eccoci, quindi, come si accennava in apertura, a questo esordio discografico dedicato al trombettista immaturamente scomparso nel 2015. I dieci brani sono tutti di Tamburini e si avvalgono di sapidi arrangiamenti firmati oltre che dallo stesso Tamburini, da Stefano Paolini, Roberto Rossi, Fabio Petretti e Ivan Elefante e impreziositi da centrati assolo presi sia dai musicisti della band, sia dagli ospiti quali Pietro Tonolo, Fabrizio Bosso (li si ascolti nel brano d’apertura “Bossa to Criss”) e Marcello Tonolo (semplicemente superlativo in “Eduard”). Comunque, a mio avviso, il brano più riuscito è quello che dà il titolo all’intero album che evidenzia un ensemble davvero omogeneo, ben rodato che si muove all’unisono con bella compattezza.

Christian Sands – “Be Water” – Mack Avenue
Nel suo nuovo album, “Be Water”, il pianista Christian Sands trae ispirazione dall’acqua attraverso le varie declinazioni attraverso cui la stessa si presenta. Così dopo aver fatto ricorso, per il titolo dell’album, alla filosofia del maestro di arti marziali e star del cinema Bruce Lee, Christian nei titoli dei dieci pezzi da lui stesso composti, cerca di rivestire in musica i concetti in precedenza espressi. Ci riesce? Francamente non tanto anche perché, come più volte sottolineato, la musica non è semantica. Ma è altresì vero che tutto ciò poco o nulla influisce sulla valenza della musica che rimane su livelli alti. Anche perché, nonostante l’ancor giovane età (31 anni), Sands ha alle spalle notevoli esperienze avendo collaborato con gli Inside Straight, il Trio di Christian McBride, Gregory Porter e Ulysses Owens. In questo quarto album per la Mack Avenu, Sands si presenta con il suo trio abituale, composto dal bassista Yasushi Nakamura e dal batterista Clarence Penn, cui si aggiungono il chitarrista Marvin Sewell, il sassofonista Marcus Strickland, il trombettista Sean Jones e il trombonista Steve Davis. In un pezzo l’ensemble è completato da un quartetto d’archi con Sara Caswell, Tomoko Akaboshi, Benni von Gutzeit ed Eleanor Norton. C’è da evidenziare come, indipendentemente dal brano, indipendentemente dallo stile e dal terreno scelti (il pianista passa con estrema disinvoltura dallo swing, al bebop, dal progressive jazz, alla fusion fino alle sonorità brasiliane e afro-cubane) Sands mai perde un’oncia di quell’eleganza e compostezza che accompagna ogni sua performance sia su disco sia live.

Cinzia Tedesco – “Mister Puccini in Jazz” – Sony Classica
Giacomo Puccini è una vera e propria icona della musica italiana…e non solo… che tutti noi rispettiamo e ammiriamo. Tentare, quindi, di ripresentare le sue immortali melodie in una veste diversa dall’originale è impresa al limite dell’impossibile, comunque molto ma molto difficile. Ma quando entra in gioco Cinzia Tedesco l’impossibile non esiste e così, dopo l’album dedicato a Verdi (“Verdi’s Mood by Cinzia Tedesco”), l’artista pugliese è riuscita a bissare il miracolo dando vita ad un CD a momenti davvero toccante. Per ottenere un risultato così brillante c’è voluto uno sforzo produttivo notevole: ecco quindi, accanto alla vocalist, un trio di grandi jazzisti quali Stefano Sabatini piano e arrangiamenti, Luca Pirozzi contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria con in più la Puccini Fetival Orchestra diretta dal maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, composta da ben ventinove elementi ai quali si sono affiancati come special guest Flavio Boltro alla tromba, Stefano Di Battista e Javier Girotto al sax soprano, Antonello Salis accordion e Roberto Guarino chitarra; superlativa anche la prova di Pino Jodice che oltre ad esibirsi al piano in “Un bel dì vedremo” ha scritto e arrangiato gli archi della Puccini Festival Orchestra. Ma risolti i problemi prettamente strumentali, restava lo scoglio dei testi dei libretti originali difficilmente adattabili al linguaggio jazz. Ebbene in questa particolare sfida la Tedesco è stata superlativa riuscendo a superare lo scoglio grazie alla sua grande sensibilità e alla duttilità della voce che le hanno consentito di esprimere con assoluta padronanza e coerenza quelle frasi che oramai fanno parre integrante del patrimonio dei melomani di mezzo mondo. Gli undici brani sono uno più bello dell’altro: basta qualche titolo per rendersene conto, da “Che gelida manina” da “La Bohème” a “E lucevan le stelle” dalla “Tosca” sino alla ripresa di “E lucevan le stelle” che chiude l’album. Insomma un album che coniuga una estrema godibilità con un ragguardevole spessore artistico.

Luca Zennaro – “When Nobody Is Listening” – Caligola
Nonostante sia molto giovane (23 anni) e tuttora studente del Conservatorio di Rovigo, il chitarrista di Chioggia è già al suo secondo album da leader dopo “Javaskara” del 2018. In effetti questo “When Nobody Is Listening” ci consegna un musicista già in grado di affrontare prove impegnative come quella di un’uscita discografica. In repertorio nove composizioni originali, tutte di Zennaro, eseguite da un quintetto di base completato da Jacopo Fagioli alla tromba, Nicola Caminiti al sax alto, Michelangelo Scandroglio al contrabbasso e Mattia Galeotti alla batteria cui si aggiungono in alcuni brani Alessandro Lanzoni e Nico Tangherlini, ambedue al pianoforte. Il linguaggio è sicuramente jazzistico a tutto tondo, con una front line ben sostenuta dalla sezione ritmica; l’atmosfera è in linea di massima intimista con il gruppo alla ricerca della migliore intesa per esplorare, nelle pieghe più intime, le linee melodiche disegnate dal leader. Questi, piuttosto che porsi continuamene in primo piano, preferisce mantenersi quasi in disparte dando così l’opportunità ai compagni di viaggio di estrinsecare le proprio possibilità. Ciò ovviamente non toglie che Zennaro ci dia mostra del suo talento chitarristico come in “Heritage”. Tra gli altri brani particolarmente interessante “Recitativo” a chiudere l’album, con Tangherlini e Fagioli che dialogano con disinvoltura e pertinenza.

Antonio Baiano: fotografo AFIJ del mese di luglio – la gallery e l’intervista

Nel prosieguo della felice collaborazione di A Proposito di Jazz con l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ, s’inserisce l’iniziativa “Il fotografo AFIJ del mese”. Luglio mi ha riservato un’inaspettata sorpresa, l’intervista ad Antonio Baiano. Devo dire che le sue risposte e le sue immagini mi hanno trascinata in un viaggio dell’anima che ha messo in moto anche la mia sete di conoscenza, accendendo i sensori della mia curiosità; un viaggio che mi ha portato a scoprire il suo modo intimo di fotografare il jazz e la sua capacità di cogliere l’istante perfetto, come nella foto che ha scattato a Carla Bley e Paul Swallow… delicata, tenera… emozionante. Attraverso le sue foto sulla Santeria, una religione che fonde le pratiche animiste dell’Africa occidentale e il cattolicesimo, mi si è svelato un aspetto inconsueto e affascinante di Cuba. Al netto della passione per il jazz e per i viaggi, ho scoperto di avere in comune con lui anche quella per i Van der Graaf Generator e per i King Crimson!  (Marina Tuni)

Nato a Napoli nel 1962, Antonio Baiano, vive a Torino dal 1990 ed ha iniziato la sua attività fotografica nel 1997 fotografando concerti jazz.
Nel suo percorso formativo ha frequentato i seminari di David H. Harvey, Kent Kobersteen, Tomasz Tomaszewski, Ernesto Bazan e Alexandra Boulat.
Oltre alle immagini di spettacolo, predilige i reportage, che considera il mezzo perfetto per approfondire l’esplorazione e la conoscenza di tematiche sociali e diversità culturali.
Nel 2001 parte il suo progetto “Roots” sulle religioni afro-caraibiche; negli anni ha portato avanti un lungo progetto sui riti della Santeria Cubana e sul Candomblé, in Brasile.
Le immagini di questi reportage sono state esposte a Cuba, in Francia e in Italia e sono conservate nel museo “Casa de Africa” ​​de L’Avana e nel Museo Etnografico “Pigorini” di Roma. Suoi scatti sono pubblicati su varie riviste e giornali come Musica Jazz, Repubblica, Volunteers for Development, Collections Edge ed è anche autore di diverse copertine di CD.
Collabora regolarmente con la webmagazine All About Jazz ed è membro dell’American Society of Media Photographers (www.asmp.org) dal 2002.

Ci racconti qualcosa di te? Cos’è che ti ha fatto capire che la fotografia, di jazz soprattutto, sarebbe stata una parte determinante della tua vita?
“Sono vissuto in una famiglia amante della musica: ho un fratello ed una sorella musicisti classici che, fin da piccoli, hanno riempito la casa e la mia vita di musica. Fra i dischi di Beethoven e Stravinsky c’erano alcuni “V Disc” e una copia di “Giant Steps” di mio padre, ed io ho cominciato con essi ad ascoltare il jazz. Mio padre mi fece avvicinare alla fotografia dandomi la sua Nikon F con la quale ho fatto i miei primi scatti. Il connubio tra fotografia e musica è stato quindi inconsciamente sempre naturale. Mi sono avvicinato alla fotografia di Jazz dopo aver lasciato lo studio della chitarra, forse è stato un atto compensativo per questa rinuncia perché, quando fotografo i concerti, mi sembra di partecipare attivamente ad essi. A volte mi sembra quasi di scattare al ritmo del brano che stanno suonando!”

-Ho letto – e devo dirti che mi ha colpita molto – del tuo progetto dedicato alla Santeria Cubana, con gli scatti che hai realizzato a Cuba in un periodo molto lungo. So che per i cubani la Santeria rappresenta non solo un culto, che peraltro si mescola al cattolicesimo, ma una vera e propria filosofia di vita basata sulla ricerca della felicità e sul fatto che la realizzazione di una persona non può avvenire se ciò arreca infelicità all’altro. Determinante è stato per te l’incontro con Yadira, che hai conosciuto nel 1999 quand’era ancora una bambina e che continui a seguire anche ora che è diventata donna e madre. La sua storia è legata a doppio filo alla Santeria, alla quale fu iniziata dai genitori in tenera età. Credo che un’esperienza così intensa possa aver influito profondamente nella tua vita personale e forse anche nel tuo modo d’intendere la fotografia. È così?

“Sicuramente l’incontro con Yadira è stato un elemento determinante della mia vita; siamo profondamente legati e ormai dei momenti della mia vita passata e futura sono legati a lei ed alla sua famiglia. Ma non penso che abbia cambiato il mio modo di intendere la fotografia, perché almeno per me è sempre dipeso dall’etica con cui l’affronto e dai motivi per cui fotografo. Quando affronto un progetto fotografico, avendo il raccontare come elemento di base, il mio principio è prima di tutto quello di essere sincero nei confronti sia del soggetto fotografato sia di chi poi guarda le mie foto e “legge” la mia storia. Così è stato per Yadira e così per altri lavori, come quello sulla Santeria o sul Kurdistan. Poichè la fotografia non descrive la realtà, ma in qualche modo la interpreta o comunque lascia gli spazi all’interpretazione, ritengo sia necessario che il proprio approccio sia quanto più possibile onesto e sincero, perlomeno in un campo come quello del reportage”.

-Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
“Sono totalmente d’accordo con te! Come ho detto sopra, la fotografia interpreta e lascia interpretare. È il fotografo che decide cosa e come inquadrare, e con che parametri, come la focale o l’esposizione. È il fotografo che decide cosa lasciare all’interpretazione, cosa svelare, cosa nascondere, se ingannare o meno lo spettatore. D’altronde, artisti in altri campi ci hanno insegnato che anche gli oggetti reali possono non essere quello che sembrano. Come potrebbe quindi la fotografia essere oggettiva?”

-Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?

“Sicuramente. Anche io faccio una scelta molto ponderata (di cui magari poi mi pento dopo la pubblicazione) delle foto che ho scattato, cercando di restituire al meglio ciò che ho ascoltato e fotografato. A mio avviso però qui entra in gioco maggiormente (rispetto al reportage) il voler raccontare sé stessi in quella foto o meglio mostrare come si vede  quel musicista e la sua personalità. Rimane sempre presente quel filo legato alla soggettività della fotografia”.

-La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
“Penso che in qualche modo la musica che viene suonata mi condizioni, ma in modo limitato. Alla fin fine sono un fotografo, quindi cerco forme, ombre e luci. Sono molto più condizionato da questi elementi e da come e cosa il musicista fa in scena e di come interagisce con gli eventuali partner”.

Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Alcune delle mie immagini preferite sono fra quelle che ho scelto per questo articolo, come quella di Carla Bley e Steve Swallow. È un momento così sincero di tenerezza fra i due che penso descriva molto di questi due musicisti e sono sempre stato felice di aver colto quell’attimo. Un’altra foto che mi piace molto è quella di Ralph Towner mentre accorda la chitarra. Ralph è un musicista determinante nella mia vita perché fu ascoltando lui che decisi di studiare chitarra classica. Accordare lo strumento, se vogliamo, è un gesto banale ma fondamentale che il chitarrista ripete spesso durante un concerto. Quella foto coglie l’estrema attenzione con cui il musicista lo compie. Poi la foto di David Jackson (la numero nove, ndr). Non potevo credere di conoscere uno dei musicisti di uno dei miei gruppi preferiti, i Van der Graaf Generator. È una persona estremamente cordiale e disponibile, ricca di umanità; ebbi una bella discussione con lui, che sfociò in quello scatto. Penso che descriva molto della sua personalità. Poi sicuramente (ed ovviamente) tanti degli scatti fatti a Yadira o della Santeria sono parte integrante di me!”

Marina Tuni

 

Ezio Bosso… un cammino che non si interrompe

Ezio Bosso – foto di Barbara Domenis

Ezio Bosso è venuto a mancare oggi all’età di 48 anni per una malattia neurodegenerativa. La notizia della morte di questo musicista sta lasciando, mentre scrivo, una forte eco. Ezio Bosso ha avuto una vita non facile, la salute ha deciso di rendere ancora più tortuoso il suo cammino di musicista, già periclitante di suo. Era artista amato e molto discusso. Mi si permetta una riflessione generale, che esula un poco dalla figura di questo musico. Quando ci riferiamo a un’icona, un personaggio, dimentichiamo spesso che dietro di lui si cela una vita. Egli vive e soffre, prova simpatie, antipatie, subisce ingiustizie. A volte parteciperà a meccanismi più grandi di sé, spinto da forza d’inerzia: meccanismi spesso criticabili, mai veramente controllabili, siccome governati da forze collocate altrove. Non di rado si ascoltano giudizi ‘tranchant’ sui musicisti e spesso siamo noi artisti i primi protagonisti di queste piccole crudeltà. Si è incapaci di ricordare che l’artista nelle sue manifestazioni è pur sempre qualcuno che suona alla nostra porta per portarci un ‘cadeau’, un mazzo di fiori, un presente. Si ricorda di noi quando stiamo male e anche gli amici non si fanno più sentire, rimane con noi nel momento della più acuta sofferenza, basta concentrarsi e possiamo sentire il calore della sua mano sulla nostra spalla. L’artista dedica la propria vita a qualcosa di più alto e non a fronte di un titolo di credito ma in ossequio a un Dio che forse neppure c’è, a una chiamata cui forse non seguirà risposta: a un pensiero, di cui la vita è fatta.

Quando Ezio Bosso, prima contrabbassista e poi pianista, direttore d’orchestra e compositore, entrò d’improvviso nelle case degli italiani grazie a un invito di Carlo Conti al festival di Sanremo, non era conosciuto dal grande pubblico se non, forse e parzialmente, grazie a alcune colonne sonore realizzate per Gabriele Salvatores. Immediatamente per lui iniziava il successo, lo sfruttamento, la sovraesposizione quasi morbosa dell’immagine e, quasi contestualmente, l’inevitabile processo di delegittimazione. In Italia, infatti, quando cominci a salire su un palcoscenico iniziano i problemi.

Ezio Bosso – foto di Alice B. Durigatto

Non esaminerò musicalmente composizioni di Bosso, che si collocano in uno spazio tra la pop music, il minimalismo, un classicismo conciliante e vivono in un luogo lontano da quello che io quotidianamente abito. Non rientrando nel raggio della mia formazione mentale mi è mancata, per così dire, l’urgenza di frequentarle. Ha davvero importanza? Se nella musica cerco altro, ciò riguarda il mio gusto personale. Ho però ascoltato attentamente Ezio Bosso e so che la sua musica è quella di un musicista senza dubbio attrezzato, che si rivolge a un largo, larghissimo pubblico, sa ispirare e non si pone lo scopo di innovare quanto di piacere. Bosso non è Dallapiccola, somiglia più a Sem Benelli che ad Anton Čechov. Ma se l’autore della “Cena delle beffe” avesse copiato “Il Giardino dei Ciliegi” di cinque anni prima non avrebbe scritto la “sua” pagina nel libro della drammaturgia moderna. Coerenza è tutto, e nel valutare un’opera musicale non bisognerebbe fermarsi al “mi piace” ma considerarne con discernimento le qualità organolettiche: è fatta bene oppure no? La musica di Bosso sublima un’idea di ‘pop’ in una dimensione sinfonica, cerca l’ibridazione tra il suono dello strumento acustico e la vibrazione elettronica, tenta di inserirsi, come il suo collega Ludovico Einaudi, in una tradizione di chiara matrice americana. E in fondo raggiunge un proprio (ambizioso) obiettivo: non perdere di vista il Mondo, accordarsi con la verità odierna. Sono grato a Ezio Bosso per una cosa sopra tutte: la generosità con cui ha messo la carriera al servizio della più nobile divulgazione. Non sembri poca cosa! La divulgazione della musica classica in Italia è una medicina indispensabile, specialmente in questi tempi calamitosi. Sono blasfemo se dico che gli artisti sono gli eroi spirituali di questi giorni, quando i medici e gli infermieri sono gli eroi sul campo di battaglia? Divulgare cultura, farlo bene, nel mondo odierno equivale a comporre la Sinfonia Eroica. Privo di arte, l’uomo è simile al prigioniero che si trova davanti a una porta chiusa e non sa come girar la chiave.

Or non è molto, sono andate in onda in Tv in una fascia oraria importante due puntate con Bosso dedicate a Beethoven e Čajkovskij.  Alcuni milioni di concittadini si sono incollati allo schermo per ascoltare e sentir parlare, con passione e competenza, di Beethoven, del contrappunto, della variazione. È accaduto veramente. Con simili trasmissioni superbamente condotte egli ha dato agli italiani il più alto aiuto che si potesse. Ci siamo abituati fino all’indifferenza al brutto, il bello essendo più difficile a cogliersi. Anima e corpo, pensiero e immaginazione oggi si trovano dolorosamente disgiunti e la musica, che del bello è figlia primogenita, serve a unirli sigillando la ferita. Questo artista, che purtroppo salutiamo, ha fatto molto per la musica, forse più di tantissimi che si credono oggi indispensabili. Rendiamogli pertanto il giusto omaggio.

Ezio Bosso – foto Barbara Domenis

L’orologio oggi si è fermato ma Ezio Bosso continua il suo cammino.

Massimo Giuseppe Bianchi