MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

Per Brass in Jazz un altro progetto inedito al profumo di Flamenco

Molti i concerti al femminile nel programma della stagione concertistica Brass in Jazz

Per il secondo appuntamento della stagione concertistica Brass in Jazz, il Reale Teatro Santa Cecilia si tingerà con i suoni del flamenco grazie ad un altro progetto inedito proposto dal Brass Group con la presidenza del Maestro Ignazio Garsia e la direzione artistica di Luca Luzzu. Ad abbellire questo fine settimana la città con la musica che risale alle culture moresche dell’Andalusia, sarà un concerto unico in assoluto. Per la prima volta l’Orchestra Jazz Siciliana sarà diretta dal grande Maestro Bernard van Rossum, vincitore di Awards internazionali e Contests.  Gli elementi del flamenco verranno ridefiniti attraverso l’orchestrazione colorata e la gamma dinamica della Big Band, una simbiosi in cui le armonie e i ritmi del flamenco forniscono un nuovo contesto per l’improvvisazione. Appuntamento quindi con il concerto BVR Flamenco Project in Luz de Luna venerdì 11 e sabato 12 novembre, con doppio turno alle 19.00 e alle 21.30.

Questo progetto riunisce la voce di Bernard come compositore, arrangiatore e musicista. Sassofonista, compositore, arrangiatore e insegnante, Bernard van Rossum inoltre riflette nella sua musica la multiculturalità del proprio vissuto poiché è nato e cresciuto in Spagna da madre inglese e padre olandese, ha trascorso l’adolescenza ascoltando rock e suonando la batteria, ha conseguito la laurea in Biologia all’università di Edinburgo; quindi, si è innamorato del sassofono e del jazz, approfondendone lo studio nei conservatori di Barcellona, di Denton nel Texas e di Amsterdam. Fautore di una originale ed eccitante miscela sonora che rilegge la tradizione andalusa del flamenco secondo le strutture e i modi improvvisativi del jazz, Rossum in questi anni ha ottenuto grande successo alla testa della sua “BvR Flamenco Big Band”, formazione con cui ha pubblicato tre album acclamati dalla critica internazionale. La sua direzione vanta anche alcuni dei migliori artisti di flamenco del mondo, tra cui Paco de Lucia associati Carles Benavent, Antonio Serrano, David de Jacoba e ballerini di flamenco come Karen Lugo, Cristina Hall e Irene Alvarez. Spettacoli recenti includono Festival Internacional de Jazz di San Javier, Biennale di Flamenco, Bimhuis, Amersfoort Jazz, Festival Internacional de Jazz de Alicante, Jazz in Duketown e Xabia Jazz, tra gli altri. Per il suo lavoro con la Big Band, van Rossum ha recentemente vinto il “Rogier van Otterloo award 2022″, “Concurso de arreglos de big band SGAE 2022” e il “Canarias Big Band Composition Contest 2021”.

Una scelta importante quella del Brass che anche quest’anno ha voluto raddoppiare i concerti in programma nella stagione. L’aumento delle repliche dei concerti deriva da uno specifico bisogno culturale a cui la Fondazione risponde con un calendario ricco di artisti internazionali, produzioni orchestrali e prime assolute. Tanti i nomi del mondo jazz inseriti per la nuova stagione concertistica del Brass.

Tra gli artisti che scorrono nel cartellone del Brass in Jazz la prima mondiale con il concerto di Benny Green in Master of Piano feat. Vito Giordano. Benny Green possiede la storia del Jazz a portata di mano. Combina la padronanza della tecnica della tastiera con decenni di esperienza nel mondo reale suonando con i più celebri artisti dell’ultimo mezzo secolo, e non c’è da stupirsi che sia stato salutato come il pianista hard-bop più eccitante di sempre come emerge da Jazz Messengers di Art Blakey.

All’interno del programma ci sono anche tante figure femminili come la bellissima Janusett Mcpherson con il concerto Deezer . La cantante, pianista, arrangiatrice e cantautrice cubana,  dopo una brillante carriera a Cuba dove ha vinto l’equivalente di una Victoire de la Musique (Premio Adolfo Guzman) e ha moltiplicato prestigiose collaborazioni (Orquestra Anacaona, Omara Portuondo & Buena Vista Social Club, Alain Perez, Manolito Simonet, Tata Guines, Miles Peña ecc), si stabilì nel sud della Francia. Notata da Yves Chamberland nel 2011 (produttore di Nina Simone, Henri Salvador, Michel Petrucciani, Richard Galliano…), ha registrato il suo primo album in Francia con alcuni illustri ospiti (Didier Lockwood, Andy Narell, Michel Alibo, Thierry Fanfant, Olivier Louvel, etc…), e arrangiamenti firmati da Nicolas Folmer (Paris Jazz Big Band) e Bernard Arcadio (Henri Salvador)).

Altro concerto in rosa è rappresentato da Lucy Garsia, che con le sue altissime qualità canore, di recente ha riscontrato enorme successo sia al Teatro Massimo che nel concerto delle Ladie, si esibirà in Tribute to Sarah Vaughan con l’OJS diretta dal Maestro Domenico Riina.

Altro concerto al femminile è quello della straordinaria Bianca Gismondi in Maracatù. In duetto saranno invece Cande y Paulo con lo spettacolo The Voice of the Double Bass.

Un progetto in esclusiva nazionale e prima assoluta è anche quello che verrà messo in scena con un noto martista siciliano, Mario Incudine che si esibirà con l’Orchestra Jazz Siciliana diretta dal Maestro Domenico Riina in Serenate d’Amuri mentre l’esibizione dell’artista Ola Onabulè sarà diretta dal Maestro Antonino Pedone.

E lo spettacolo Hollywood Movies avrà la direzione del Maestro Vito Giordano. Una stagione quella del Brass Group per un audience ampia e con target diversificato, per gli amanti del jazz e della bella musica.

Info: https://www.brassgroup.it/

“Immersivity” è l’insegna del Roma Jazz Festival 2022!

E siamo alla 46° edizione: dal 6 al 19 prossimo torna il Roma Jazz Festival, che animerà la Capitale con 26 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del Jazz e il Monk Club, fino ad arrivare al Teatro del Lido a Ostia. Diretto da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2022 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Dopo “Jazz is Now” del 2018, “No Border” del 2019, “Jazz for Change” nel 2020 e “Jazz Code” del 2021, il titolo di questa nuova edizione è “Immersivity”, per un approccio multisensoriale, ludico e coinvolgente che guarda al contemporaneo e al futuro senza dimenticare le radici di un linguaggio al tempo stesso colto e popolare, sofisticato e immediato, in grado di parlare a pubblici diversi, da quelli della sale da concerto e dei jazz club, fino ai frequentatori del dancefloor e dei grandi festival multimediali.
Giganti della scena mondiale come Steve ColemanSpyro Gyra e la celeberrima Mingus Big Band al fianco dei protagonisti della nuova scena british come Alfa Mist o esordienti puri come il collettivo Jemma, vincitori del programma LazioSound Scouting 2022. Il protagonismo femminile è incarnato da straordinarie artiste come Lady BlackbirdNuby GarciaRosa Brunello e Ramona Horvath mentre l’inarrestabile spinta all’innovazione è documentata da artisti già celebri come Enrico Rava – al festival con il chitarrista sperimentale austriaco Christian Fennesz e il percussionista indiano Talvin Singh – e Danilo Rea, in programma con il progetto cromestetico Soundmorphosis.
Ancora: i sofisticati software del pianista Ralf Schmid e le performance multimediali di XY Quartet, le visioni ecologiche di Kekko Fornarelli e della giovanissima Jazz Campus Orchestra con lo spettacolo Let’s Save The Planet e la carica visionaria di videoartisti come Paolo Scoppola e Claudio Sichel. La cura della tradizione del pianista azero Isfar Sarabski e l’avanguardia di Erik Fredlander, in compagnia di Uri Caine, o dell’ensemble Itaca 4et, ma anche i ritmi elettroacustici di Kodex. E poi le produzioni originali della New Talent Jazz Orchestra con un grande omaggio a Charles Mingus e di Fabrizio Consoli e Fausto Beccalossi che celebrano Pasolini, così come l’incontro fra jazz e teatro e i due appuntamenti dedicati ai bambini di Fiabe in Jazz.
Questo lo straordinario programma del Roma Jazz Festival 2022, che prosegue così l’incessante ricerca sulle trasformazioni della scena jazz nazionale e internazionale, sulle sue contaminazioni con altre forme espressive e con l’innovazione tecnologica per rendere ancor più manifesta la trasversalità assoluta del Jazz e offrirne una fruizione più dinamica e contemporanea.

Info: https://romajazzfestival.it/

CALENDARIO
6 novembre
Fiabe Jazz: I Musicanti di Brema | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
New Talent Jazz Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Lady Blackbird | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Ralf Schmid: Pyanook | Casa del Jazz, h21

7 novembre 
Rosa Brunello: Sounds Like Freedom ft. Yazz Ahmed, Enrico Terragnoli, Marco Frattini| Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

8 novembre 
Erik Friedlander The Throw | Casa del Jazz, h21

9 novembre
Ramona Horvath/Nicolas Rageau | Casa del Jazz, h21

10 novembre
Enrico Rava/Christian Fennesz/Talvin Singh | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

11 novembre
Nubya Garcia | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Kodex | Casa del Jazz, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Teatro del Lido (Ostia), h21

12 novembre
Spyro Gyra | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Lino Volpe/Rosario Giuliani: Jazz Story | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Casa del Jazz, h21

13 novembre
Fiabe Jazz: Cenerentola Rock | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
Jazz Campus Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Mingus Big Band | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

14 novembre 
Kekko Fornarelli: Anthropocene | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

15 novembre 
Isfar Sarabski Quartet | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Itaca 4et | Casa del Jazz, h21

16 novembre 
XY Quartet: 5 astronauts | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

17 novembre 
Danilo Rea/Paolo Scoppola: Soundmorphosis | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Jemma | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

18 novembre 
Alfa Mist | Monk Club, h21:30

19 novembre 
Steve Coleman Quintet | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

I NOSTRI CD: ANCHE NEL JAZZ IN “DUO” VIENE MEGLIO

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.

Franco D’Andrea, DJ Rocca – “Franco D’Andrea Meets DJ Rocca” – Parco della Musica Records 3 CD
Conosciamo Franco D’Andrea da tanti, tanti anni e quelle non poche volte in cui ci siamo confrontati sulla sua arte, sul futuro della musica, sulle possibilità insite nel jazz abbiamo sempre trovato un musicista, un artista, un uomo mai appagato ma sempre rivolto al futuro, alla ricerca di nuove situazioni che gli permettano di esprimersi al meglio. Ecco, quindi, questo triplo album registrato alla fine del 2021, in cui D’Andrea si confronta con Luca Roccatagliati (in arte Dj Rocca) musicista con il quale aveva già avuto modo di collaborare in due precedenti occasioni ma non in duo. Ovviamente in quest’ultimo lavoro le cose cambiano in modo radicale. D’Andrea si trova a dover connettere il proprio strumento con un suo “pari” che disegna paesaggi sonori in maniera totalmente diversa, mai dando tregua al compagno d’avventura in un rimpallo costante. Di qui un’incessante ricerca soprattutto sul suono, sulle combinazioni timbriche, cosa tutt’altro che banale dati gli strumenti in azione. Quasi inutile sottolineare come in questa registrazione così come in ogni concerto dei due, non esista alcuna scaletta ma tutto nasca spontaneamente nel momento stesso in cui gli artisti decidono di intervenire. Insomma questa realizzazione discografica ci consegna due artisti impegnati al massimo e particolarmente attratti da questo lavoro. Prova ne sia che l’album, verrà ripresentato in alcuni concerti che, se avete la possibilità, vi consiglio vivamente di andare a sentire.

Giovanni Falzone, Glauco Venier – “Dialogo espressivo” – Parco della Musica Records
All’insegna della melodia questo album che vede come protagonisti il trombettista Giovanni Falzone e Glauco Venier in una sorta di incontro che congiunge l’Italia dal momento che Glauco è friulano mentre Falzone è cresciuto in Sicilia. Ma a parte questa curiosità geografica, l’album, registrato il 3 agosto del 2020, si segnala per ben altre particolarità. Innanzitutto la qualità artistica dei due musicisti che oramai da tempo si caratterizzano non solo per le capacità strumentali ma anche per quelle interpretative; in secondo luogo la gradevolezza del repertorio: undici brani tutti composti dal trombettista il quale sottolinea come fosse suo preciso obiettivo mettere al centro del progetto la ricerca melodica, il suono acustico e l’essenzialità del duo. Obiettivo perfettamente centrato in quanto sin dal primo brano si percepisce compiutamente quella che sarà la cifra stilistica dell’intero album tutto giocato per l’appunto su un dialogo spontaneo, naturale, che pone in primo piano l’espressività: di qui il titolo “Dialogo espressivo” quanto mai centrato, cosa che raramente accade. I pezzi sono tutti godibili anche se personalmente preferisco “Il poeta del silenzio” anche questo titolo assai significativo dal momento che il brano è dedicato a Enrico Rava; particolarmente suggestivi anche gli altri due omaggi rivolti a Kenny Wheeler e Tomasz Stanko, come a dire tre trombettisti che hanno contribuito a forgiare lo stile del musicista siciliano.

Biagio Marino, Zeno De Rossi – “Break Seal Gently” – Fonterossa
Biagio Marino (chitarra elettrica, effetti) e Zeno De Rossi (batteria, percussioni) sono gli autori di questo “Break Seal Gently” uscito il 6 settembre per Fonterossa Records, l’etichetta fondata dalla contrabbassista Silvia Bolognesi. Il duo, al debutto discografico, si muove su quel territorio di confine che lambisce jazz, rock e free improvisation, ma lo fa sempre con grande lucidità e proprietà di linguaggio. D’altro canto si tratta di due musicisti che possono vantare un curriculum di assoluta eccellenza. In particolare Biagio Marino, nato a Eboli nel 1972 e residente a Bologna, ha alle spalle lunghi anni di approfonditi studi e sperimentazioni che l’hanno portato ad elaborare particolari tecniche chitarristiche basate sull’uso di accordature anomale, tecniche poi impiegate nei suoi progetti sempre caratterizzati da un sound affatto particolare come nel caso dell’album in oggetto. Zeno De Rossi (Verona – 1970) è artista completo sotto ogni punti di vista prova ne sia che attualmente è uno dei batteristi-percussionisti più richiesti sulla scena. Le sue collaborazioni davvero non si contano; in questa sede basti citare quelle con Hank Roberts, Wayne Horvitz, Bill Frisell, Greg Cohen, Ralph Alessi, , David Murray… In questo album i due hanno la possibilità di esplicitare appieno il proprio talento. Sei brani tutti scritti dal chitarrista in cui sognanti ambientazioni (“La grande pellicola effimera”) si incrociano con atmosfere in cui aleggia l’influenza del grande Frisell. Si tenga presente come il disco arrivi dopo una fase di maturazione iniziata nel 2021 e cementata attraverso tutta una serie di concerti.

Roberto Ottaviano, Alexander Hawkins – “Charlie’s Blue Skylight” – Dodicilune

Roberto Ottaviano al sax soprano e Alexander Hawkins al pianoforte acustico ed elettrico sono i superlativi interpreti di questo omaggio alla musica di Charles Mingus nel centenario della sua nascita (Nogales, 22 aprile 1922). Dedicare a Mingus un qualcosa è impresa da far tremare le vene ai polsi ma i due l’affrontano con il piglio e la determinazione giuste…per non parlare della classe e dell’originalità che costituiscono elementi fondamentali della poetica dei due artisti. Di qui un album assolutamente convincente declinato attraverso undici composizioni di Mingus tra cui brani arcinoti come “Pithecanthropus Erectus”, “Self Portrait In Three Colors” e “Haitian Fight Song” e pezzi meno eseguiti come “Canon” o “Hobo Ho”. Ma, a prescindere dai brani, i due si muovono sorretti da una intesa perfettamente, dialogando strettamente per tutta la durata dell’album, senza un solo attimo in cui si avverta un benché minimo calo di tensione. Il sax di Ottaviano appare lucido, preciso, timbricamente superbo come sempre mentre il pianismo di Hawkins è perfettamente a suo agio con le non semplici partiture del contrabbassista. In definitiva i due artisti, pur rimanendo rispettosi delle strutture architettoniche e delle trame narrative mingusiane, non rinunciano ad aggiungere un quid di originalità che conferisce al lavoro una propria pregnanza. Assolutamente inutile evidenziare un brano rispetto all’altro: vanno tutti ascoltati con la massima attenzione e la soddisfazione sarà massima.

Barre Phillips, György Kurtag jr. – “Face à Face” – ECM
Barre Phillips, Daniele Roccato – “Confluence” – Parco della Musica Records
Una doverosa avvertenza: qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto ma in un terreno quasi di confine tra la musica moderna europea e una certa forma di sperimentalismo, basato totalmente sull’improvvisazione, pratica che i tre musicisti conoscono assai bene. Per cui se volete ascoltare questi album – per altro assai interessanti– è d’obbligo una buona dose di concentrazione che vi consenta di seguire le evoluzioni degli artisti. L’iniziativa per la registrazione del primo album parte dal contrabbassista che dopo aver ascoltato lo specialista di effetti elettronici ungherese lo vuole al suo fianco. Nasce così questo “Face à Face” registrato a Pernes-les Fontaines tra il settembre del 2020 e il settembre del 2021.  Come sottolinea lo stesso Kurtag, i due si sono trovati in piena sintonia nel mantenere l’intensità del dialogo. Inutile, quindi, cercare una qualsivoglia traccia di linea melodica, occorre lasciarsi andare totalmente al flusso sonoro che scaturisce dai due artisti. I quali sono impegnati a disegnare cangianti atmosfere a seconda di chi, in quel momento, detiene le redini dell’incontro. Di qui un universo sonoro che nasconde grandi sorprese come l’incalzante “Stand Alone” a parere di chi scrive il pezzo migliore dell’album, seguito da un altro brano di grande spessore, il conclusivo Forest Shout, un brevissimo, suggestivo bozzetto. Interessante sottolineare come i due artisti riescono a far convivere il sound di uno strumento acustico e tradizionale come il contrabbasso con le sonorità ultra moderne della strumentazione di Kurtag, davvero un esempio di come in musica quasi nulla sia impossibile.
In “Confluence”, registrato live nella Sala accademica del Conservatorio Santa Cecilia, a Roma, il primo marzo del 2020 il contrabbassista statunitense si trova a collaborare con un altro contrabbassista, Daniele Roccato, musicista che da anni si dedica all’interazione fra più contrabbassi, essendo tra l’altro il fondatore dell’ensemble Ludus Gravis, un gruppo di soli contrabbassisti (spesso nove) che si è affermato nel mono della musica moderna eseguendo partiture, fra gli altri, di Hans Werner Henze, Sofia Gubaidulina, Terry Riley, Gavin Bryars, Stefano Scodanibbio. Come evidenziato in apertura, i due contrabbassisti si incontrano sul terreno dell’improvvisazione libera e dal convergere di questi due percorsi musicali, totalmente diversi, emergono nuovi paesaggi che siamo sicuri saranno ancora nuovi e diversi se i due avranno modo di incidere un altro album. Insomma un’immersione totale in una sorta di università sonora per chi ama questo strumento. Un’ultima notazione: davvero belle le foto che accompagnano l’album.

Enrico Rava, Fred Hersch – “The song s You” – ECM
Registrato a Lugano nel novembre 2021, “The Song is You” è il frutto di un incontro tra due straordinari musicisti che pur partendo da situazioni piuttosto differenziate, trovano un magnifico punto di intesa negli otto brani presentati nell’album. In effetti il repertorio comprende oltre a due brani con la loro firma “Child’s Song” di (Hersch) e “The Trial” (Rava), alcuni standard come “Misterioso” e “‘Round Midnight” di Thelonious Monk, “The Song Is You” di Jerome Kern, “Retrato em Branco e Preto” di Jobim -Chico Buarque   e “I’m Getting Sentimental Over You” di George Bassman-Ned Washington. Per chi conosce anche se non approfonditamente questi due artisti, è facile capire come l’improvvisazione sia la chiave di lettura più appropriata per entrare nel mood dell’album. Sia Rava sia Hersch evidenziano una certa predilezione per linee melodiche riconoscibili e affascinanti e da questo idem sentire iniziano il loro discorso che li porterà a ridare nuova linfa a brani già iper noti come “Round Midnight” o “Retrato em Branco e Preto”. Ma anche nei due original la cifra stilistica dell’album non si discosta da quanto detto in precedenza. I due continuano a narrare le loro storie senza nulla sacrificare del proprio bagaglio ma facendo confluire l’uno nell’altro le capacità improvvisative ed esplorative. Insomma un album che tiene fede a quanto ci si poteva attendere da due giganti del jazz quali Enrico Rava e Fred Hersch.

Gerlando Gatto

I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro