Quando le foto parlano: due interessanti volumi di Roberto Masotti

Quanti seguono con un minimo di attenzione ”A Proposito di Jazz” si saranno resi conto di come questa testata abbia nel tempo dedicato la massima attenzione a tutte le forme attraverso cui si manifesta, si sviluppa la musica jazz. Quindi, ovviamente, anche la fotografia che anzi si è posta come elemento fondamentale per cogliere meglio l’evoluzione di questa musica. Si pensi, ad esempio, cosa ha significato per gli studiosi riuscire a carpire alcuni momenti dell’arte jazzistica quando ancora non esistevano o non erano così diffusi i filmati. Un solo esempio credo sia sufficiente a meglio spiegare quanto fin qui detto: nell’estate del 1958 venne scattata una delle foto più famose nel mondo del jazz, quella foto che ritrae, uno accanto all’altro, cinquantasette tra i migliori jazzisti di tutti i tempi in una strada di Harlem. Non musicisti qualsiasi, ma veri e propri “giganti” che hanno fatto la storia del jazz quali Armstrong, Duke Ellington, Count Basie, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Sonny Rollins, Monk, Charlie Mingus, Coleman Hawkins.

Anche in Italia l’arte della foto-jazz, grazie all’opera appassionata di molti fotografi-artisti, ha raggiunto ottimi risultati di cui su questi spazi è stata fornita ampia documentazione. Tra quanti hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo di quest’arte nel nostro Paese c’è sicuramente Roberto Masotti che conosco bene oramai da tanti anni e i cui scatti mi hanno sempre appassionato e stupito per la carica di verità che contengono. Tracciare una biografia di Masotti in questa sede è tutto sommato inutile; basti sottolineare alcune tappe fondamentali: nel 1973 inizia una lunga e proficua collaborazione con ECM Records di cui è stato responsabile della comunicazione per l’Italia, oltre a veicolare nel mondo l’immagine della casa tedesca; dal 1979 al 1996 è il fotografo ufficiale del Teatro alla Scala di Milano con Silvia Lelli; nel 2005 viene realizzato un programma televisivo a lui dedicato per SKY/Leonardo nella serie Click… nel corso degli anni le sue fotografie sono state esposte in numerose città italiane ed europee. E proprio a questa sorta di “categoria” appartiene il primo dei due volumi che presentiamo in questa sede.

“Jazz Area – seipersei – Pgg.160 ” trae origine dalla mostra “Jazz Area la mia storia con il jazz in 25 quadri” commissionata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pavia nel  1999, e poi esposta   una decina di volte. Come sottolinea lo stesso Masotti, l’opera andrebbe considerata come “la mia storia attraverso il jazz più che con il jazz”.  Insomma una sorta di viaggio autobiografico il cui tragitto viene ripercorso attraverso una serie di immagini mai banali. Il libro si apre con la formazione “Detroit Free Jazz”, con Art Fletcher, Don Moye e Ron Miller al Conservatorio di Bologna nel 1968, e si chiude con un fotomontaggio relativo a Sun Ra.

Le foto sono impaginate in modo assai particolare: una stampa a colore argento su una carta spessa e nera, associate a titoli, didascalie, brevi testi, per cui, evidenzia ancora Masotti, è “più un progetto di mostra che un risultato fissato per sempre, più una riflessione sul jazz filtrata dalla mia personale esperienza che una storia del jazz per immagini per forza di cose limitata e parziale”. Così si susseguono una serie di istantanee accomunate da un filo rosso: l’intenzione di Masotti di non presentare una galleria di ritratti ma, in qualche modo, di interpretare il soggetto che viene ripreso in un momento di verità. Quindi nessuna posa ma scatti che colgono i musicisti o sul palco o in un momento di pausa. Le foto sono organizzate per aree tematiche tra cui: blues; blowers sassofoni; canto; Miles Davis; Sam Rivers – Archie Shepp, Jazz & Polities; Steve Lacy; Drums – drummers; Gruppi; Dave Holland big-band; Brotherhood of Breath; Jazz italiano; Jazz Rock; Chitarristi; ECM, Keith Jarrett… I protagonisti di questa galleria sono quindi  tantissimi e sarebbe inutile citarli tutti; valga comunque qualche nome: Miles Davis, Gato Barbieri, Steve Lacy, Max Roach, Ornette Coleman, Sonny Rollins, Archie Shepp, Carla Bley, Sam Rivers, Cecil Taylor, Charles Mingus, e, tra gli italiani, Stefano Bollani, Antonello Salis, Roberto Ottaviano, Gianluca Petrella.
Insomma un volume che sicuramente interesserà tutti gli appassionati di jazz.

“Keith Jarrett a portrait – seipersei – Pgg. 112” è invece di impostazione completamente diversa. Si tratta di un vero e proprio omaggio, o se volete un atto d’amore, che il fotografo dedica ad uno dei più grandi pianisti del jazz. Le foto sono accompagnate da testi di Geoff Dyer, Franco Fabbri e dello stesso Masotti il quale afferma esplicitamente che “In questa lunga serie di fotografie che osservo retrospettivamente, si gioca decisamente sulla presenza, quella del corpo e dello strumento, che compaiono nell’immagine. Le foto sono il risultato di una intima e oggettiva attenzione nei confronti di un artista a lungo seguito e ammirato, ma anche di una sua risposta che è consapevole accettazione, e soprattutto, partecipazione. Suo, solo suo, è il suono di una musica inconfondibile che la serie di fotografie ambisce di evocare e far risuonare.” In effetti Masotti ha assistito ad un centinaio di suoi concerti avendo così moltissime occasioni per estrinsecare la sua arte. Il libro si apre con una foto molti importante nella vita di Roberto: siamo nel 1969 e Keith Jarrett si esibisce al Teatro Comunale di Bologna nell’ambito del locale jazz Festival. Masotti non è ancora un professionista; fotografa con la Rolleiflex del padre, ma il risultato è talmente soddisfacente da indurlo a proseguire lungo la via delle foto. Dopo questa prima foto, gli scatti, esclusivamente in bianco e nero, sono organizzati in ordine cronologico fino al 2009… ed è davvero straniante constatare come l’aspetto del pianista sia cambiato con lo scorrere del tempo e come Masotti sia riuscito a cogliere gli aspetti più intimi della personalità dell’artista…anche perché è stato per lungo tempo l’unico fotografo ammesso alle prove di Jarrett. Ecco quindi il pianista impegnato durante un concerto… o in un momento di riposo accomodato in poltrona… o ancora seduto dietro una batteria o intento a suonare il sax soprano. E ammirando queste foto si ha quasi l’impressione di sentire le dita di Jarrett scorrere sulla tastiera per quelle straordinarie improvvisazioni che ci hanno deliziato fino al 2018 anno che ha segnato il definitivo abbandono delle scene da parte del pianista colpito da due ictus.

Gerlando Gatto

In ricordo di Lelio Giannetto instancabile innovatore

Ho appreso della morte di Lelio Giannetto quasi per caso, leggendo – a gennaio 2021 inoltrato – su una rivista le parole del pianista e sperimentatore statunitense Thollem McDonas che lo ricordava.
Giannetto – contrabbassista, compositore, organizzatore e mille altre cose – è morto il 19 dicembre 2020 in un ospedale della natìa Palermo a causa di complicazioni dovute al Covid-19: aveva cinquantanove anni, essendo nato nel 1961.
Lo ricordo sulle pagine “immateriali” di questo sito ad oltre due mesi dalla sua scomparsa. Pur aduso, professionalmente, a scrivere pezzi su musicisti che non ci sono più, mi è difficile farlo per Lelio Giannetto per vari motivi: l’essere quasi coetanei; l’impossibilità ad immaginare che un artista di incredibile vitalità e visionarietà possa non esserci più; l’inadeguatezza cronica delle parole, aggravata dal fatto che da notevole tempo non ci si vedeva o sentiva.

L’ultima volta che mi sono occupato in modo ampio di Giannetto è stato quando ho recensito quella che Francesco Martinelli (in “giornaledellamusica.it”, 30 dicembre 2020, “Addio a Lelio Giannetto, generatore di mondi”) ha definito “la miglior documentazione della sua attività di instancabile organizzatore e musicista visionario” che “si trova nella splendida pubblicazione curata dall’Archivio Antonio Uccello dedicata ai primi dieci anni di attività dell’associazione: CURVA MINORE, contemporary sound. Musica nuova in Sicilia 1997-2007, a cura di Gaetano Pennino, Regione Sicilia 2009. Al volume sono allegati tre cd antologici che documentano alcuni dei progetti di Curva Minore”. In particolare parlai dei tre album che proponevano artisti e gruppi come, tra gli altri, Gianni Gebbia, Anatoly Vapirov, Louis Sclavis, Sebi Tramontana, Demon Smith, Trio d’Orchi, Ernst Reijseger Orchestra Virtuoso, Phil Minton, Margherita Kim, Eva Geraci, Adalgisa Baldano, Giancarlo Simonacci, Stefano Zorzanello, Matilde Politi. Il primo Cd esplorava i nuovi fermenti del jazz attraverso i progetti e gli ospiti dell’associazione “Curva Minore” di cui Giannetto è stato l’anima; il secondo sintetizzava una serie di stagioni di concerti dedicati alla musica contemporanea scritta; il terzo, sempre attraverso “Curva Minore”, lavorava su una possibile reinterpretazione stilistica della musica popolare (o folk) del Mediterraneo.
Già questo rende l’idea di quanto vasti e articolati, seppur complementari, fossero i campi d’azione di Lelio Giannetto che, peraltro, era un contrabbassista di notevole levatura e personalità, fin da quando emerse nel panorama jazzistico – in senso lato – alla fine degli anni Ottanta nel trio di Gianni Gebbia. Su disco la sua prima presenza fu nell’album-progetto di Pino Minafra “Quella sporca ½ dozzina” (1990) ma molto fertile fu la stagione che il musicista palermitano trascorse a Bologna, passando attraverso il collettivo Basse Sfere (da ascoltare “Specchio Ensemble”), tra gli altri con Francesco Cusa e Fabrizio Puglisi.
Nel 1997, però, Lelio Giannetto decise di tornare a Palermo e insieme a Gianni Gebbia diede vita a “Curva Minore, associazione per la divulgazione delle musiche innovative”: sarebbe stata questa la sua “casa” e la sua missione, praticamente fino alla scomparsa. Caratterizzanti dell’azione di “Curva Minore” si sarebbero rivelate l’impegno (quasi una lotta) continuo per produrre cultura innovativa-alternativa-sperimentale nel capoluogo siciliano in spazi di rara bellezza, il respiro internazionale dei suoi progetti, l’intreccio con altre forme artistiche, il peculiare esito della sinergia tra elementi della cultura palermitana ed altri di chiara natura cosmopolita.
Nell’ultimo periodo, come rammenta ancora Francesco Martinelli, Lelio Giannetto “si era dedicato a sviluppare progetti attinenti alla tematica del paesaggio sonoro”. La più recente iniziativa – “RiEvoluzione 2020” si era tenuta in streaming tra il 7 novembre e il 5 dicembre 2020 coinvolgendo Favignana, Trapani e Scicli.
Tutto questo ora si è fermato, anche se da più parti si è espressa la volontà di portare avanti gli oltre vent’anni di ricerca sonora di “Curva Minore”. Sarebbe bello e speriamo che accada, perché la vita di Lelio Giannetto prosegua. Ho ancora in mente la sua voce al telefono, la sua gentilezza e la sua determinazione, i suoi inviti ad andare a Palermo a vedere cosa stava organizzando. Purtroppo non sono mai andato, purtroppo.

Luigi Onori

Concludo con alcune frasi tratte dal citato articolo de “ilgiornaledellamusica.it” che vedeva non solo il contributo di Martinelli ma anche quello di due musicisti molto legati al contrabbassista siciliano: Fabrizio Puglisi e Francesco Cusa.
“Lelio ha realizzato un miracolo e riusciva a trasmettere questa sensazione ai musicisti, pittori, danzatori, tecnici e al pubblico coinvolto nelle sue rassegne. A Palermo programmare dei concerti di nuove musiche è un miracolo quotidiano…” (Fabrizio Puglisi)
“Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il ‘Giannetto’, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro. Non stava mai fermo! La sua era una danza incessante, centripeta e centrifuga…” (Francesco Cusa)

(L.O.)

Jazz e goliardia, fra storia e ironia

Alcuni anni orsono, in un incontro con gli studenti dell’Università di Siena incentrato su quella goliardia che egli stesso ha professato nella propria carriera di musicista, Renzo Arbore affermava, fra il serio e il faceto, che lo spirito goliardico non era morto negli anni sessanta semmai il ’68 era “stato il punto più alto della goliardia nel manifestare la sua vocazione politica e trasgressiva”.
Ed eccolo ancora nell’estate dello scorso anno sul palco della Versiliana alla Congrega dei Goliardi, come se il tempo fosse passato invano e il movimento studentesco fosse relegato nel modernariato della storia contemporanea.
Nostalgici “amici miei” che si riuniscono al motto di “gaudeamus igitur”? Di certo se la goliardia non ė finita allora si può certificare l’esistenza in vita di suoi elementi quali popolaresco e taverna, umorismo e dissacrazione, nonsenso ed erotismo, allusione e parodia.
Per non dire poi della satira politica insita in alcuni canti dei goliardici “clerici vagantes”, con motivi antigerarchici e anticuriali e di disobbedienza civile sui quali forse non si è abbastanza riflettuto a causa dell’anatema verso la goliardia più “cameratesca”.
Dal canto suo, l’Arbore jazzista ha tentato di trasferirne la leggerezza in diverse riproposizioni di sincopati, classici e swing d’epoca, in maniera peraltro più soft rispetto a quella pop degli Squallor del compianto Alfredo Cerruti e di altri gruppi. Roberto Brivio, membro de I Gufi, nel prefare “I canti goliardici” curati da Alfredo Castelli come supplemento al n. 53 di “La Mezzora”, citava sia Jannacci sia Cochi e Renato come musicisti che si rifacevano talora al repertorio goliardico.

Per trovare più precisi punti di contatto fra jazz e goliardia occorre guardare al modello musicale per eccellenza, a livello di poesia/musica goliardica, ovvero i “Carmina Burana” di Carl Orff. Il musicista tedesco adattò vari canti, raccolti a metà 800, in un’omonima opera lirica in tre episodi nel 1935/36, rappresentata l’anno dopo a Francoforte e alla Scala di Milano nel 1952,  dopo che nel 1949 Luisa Vertova ne aveva pubblicato una prima traduzione italiana.

Una musica di “grande chiarezza tonale e incisività ritmica, ottenuta col mezzo tecnico dell’ostinato” come nel canto “O Fortuna” (Fortuna Imperatrix Mundi), affiancato a quello di influenti riff tipo “Stratus” di Billy Cobham pubblicato nel disco Spectrum del 1973: “nel XX secolo l’ostinazione, quasi l’ossessione industrial-meccanica della reiterazione” si è diffusa anche in musica (www.carlopasceri.it).
Un successo, quello di “O Fortuna”, al pari di riff rock famosi alla “Satisfaction” degli Stones, capace di penetrare vari canali di ricezione auditiva, guadagnare ascolto in ampi strati di pubblico e “contaminarsi” con altri generi.
Non saranno un caso allora progetti del genere “Carmina Burana. La classica incontra… il jazz”, come l’anno scorso a Pforzheim dove coro e cantanti sono stati accompagnati da un gruppo di cinque percussionisti e dal sassofonista jazz Matthias Anton. Ancora in Germania, al Thalia Kino di Berlino, è stata fatta un’altra operazione interessante con la sonorizzazione live, a cura del trio jazz Neuzeit, del film di Jean-Pierre Ponnelle “Carmina Burana ” del 1975 (www.urbanite.net e su YouTube cfr. Carmina Variations, sub voce).
L’incisività ritmica compressa in alcuni canti è stata estratta da Tullio De Piscopo che con la batteria ha creato un particolare tappeto percussivo ai “Carmina Burana”, come documentato nelle esecuzioni di “Buran / Fortune Empress of the World” nei due distinti album “Bona Jurnata” (Capriccio, 2007), “Questa è la storia” (Edel, 2010, 2 cd) e su YouTube.
Ed è reperibile su dvd “Carmina Burana. Live” del 2004 con il batterista e percussionista ravennate Armando Bertozzi che una decina d’anni fa ha allestito la medesima cantata scenica orffiana in chiave jazz in un “inedito connubio”, con coreografie di Luc Bouy e pittori sul palco, uno spettacolo “che incrementa il già alto calore emotivo dell’opera” (Zètema).
Ancora. Ha ripreso antichi “Carmina Burana” il sassofonista Daniele Sepe nel progetto “Kronomakia – la battaglia del tempo”, del 2017, fusione fra jazz, musica medievale, araba, funk, folk del nord Europa con formazione allargata a Rote Jazz Fraction e Ensemble Micrologus.
I “Carmina Burana” danno un’idea di medioevo pagana, ben differente da quella spirituale e solenne che ha ispirato Jan Garbarek e l’Hilliard Ensemble in parti di “Officium”(ECM), album da oltre un milione di copie! E sacrale era Hildegard of Bingen, artista a cui si sono rifatti il pianista Stefano Battaglia e il clarinettista Mirco Mariottini in un brano del cd “Music for Clarinets and Piano”, edito da Caligola nel 2019.
Ma torniamo al punto del sarcasmo nel mondo del jazz.
Storicamente jazz e goliardia hanno avuto diverse occasioni di incontro; a Bologna esisteva un Circolo Goliardico del Jazz e la Dr. Dixie Jazz Band di Nardo Giardina veniva fondata nel 1952 come Superior Magistratus Ragtime Band, adottando una tipica nomenclatura goliardica. Il jazz allora era visto come una forma di bonaria eresia rispetto alla musica dominante (cfr. cittadellamusica.comune.bologna.it).

Non si deve però pensare al jazzista come a un goliarda puro – per contro esistono esempi di attenzione goliardica verso il jazz come lo “Spiritual” (Dio del cielo etc.) il cui testo è riportato nel volume di Umberto Volpini “La goliardia” edito da Simone nel 1994 – pur se comunque sopravvivono nell’ambiente jazz pezzi di spirito goliardico come sparsi da un folletto che appare e scompare per fomentare situazioni che assemblano follia e nichilismo, jazz irridens e jazz ridens.

Un certo gusto beffardo si insinua in una fetta della musica improvvisata europea; musicisti come Sergey Kuryokhin e gruppi come il Kollektief di Willem Breuker, olandese come Han Bennink, per certi versi riesumando l’allegria del New Orleans e del Dixieland, hanno sovvertito l’idea canonica di concerto jazz, rendendo protagonista il paradosso, l’absurde, non sappiamo quanto definibile goliardico. A proposito di ridens, ci sarebbe di che discettare sulle ingiuste critiche alla ammiccante cordialità che rese popolare Louis Armstrong, ambasciatore del jazz nel mondo. Satchmo è l’emblema di un artista che fece il proprio mestiere in modo aperto e frontale ed a lui viene oggi riconosciuto un ruolo di rilievo nell’affermazione dell’identità neroamericana.

Tornando agli italiani che hanno ostentato in qualche modo un animus “post-goliardico”, oltre al vintage Arbore, si potrebbe pensare a Bollani, per la spigliatezza inventiva, od alla musica frizzante di Mauro Ottolini, od anche a Carlo Actis Dato ed a quegli altri musicisti “creativi” che sanno fare musica estrosa e spettacolare.
Ma, per quanto ci si sforzi nel trovare agganci e addentellati, la verve discola dei “cantores Goliae” pare in via di esaurimento, fors’anche per colpa dei tempi che non incoraggiano il buonumore. Sulla sua scia si sono ritagliati uno spazio performer di varie nazionalità, inquieti come quei giramondo di “les vagants” che scorrazzavano fra università e abbazie francesi, tedesche, inglesi, italiane diffondendo musica profana nel vecchio continente. Diceva un abate dell’epoca che “percorrono il mondo intero”, come i jazzisti in tour, aggiungiamo oggi. Ma era prima che venisse scoperta l’America!

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Amedeo Furfaro

La prematura scomparsa, il 20 ottobre scorso, di Alessandro Giachero, grande artista e didatta

Due pessime notizie hanno interessato il mondo del jazz in questi ultimi giorni: in Italia la prematura e improvvisa scomparsa, il 20 ottobre scorso, di Alessandro Giachero colpito da un infarto mentre andava a prendere il figlio a scuola e, negli USA, l’impossibilità dichiarata dallo stesso Keith Jarrett di poter continuare a suonare.
Di Jarrett ci occuperemo nei prossimi giorni. In questa sede vogliamo ricordare Alessandro Giachero, un artista che in vita non ha raccolto tutto ciò che avrebbe meritato. Eppure si trattava di un pianista i cui meriti erano, almeno sulla carta, ampiamente riconosciuti.

Nato ad Alessandria nel 1971, Giachero si era costruito una solidissima preparazione di base grazie e lunghi ad articolati studi culminati tra l’altro nel diploma ottenuto nel 1994 presso il Conservatorio della città natale e nella laurea specialistica in jazz e arrangiamento presso il Conservatorio “L. Cherubini” di Firenze. Come logica conseguenza era stato segnalato nel Top Jazz del 2005 e del 2006 tra i migliori nuovi talenti del jazz italiano sia come pianista solista sia con il progetto T.R.E. il cui album “Riflessi” è stato considerato, sempre nel Referendum di Musica Jazz del 2006, tra i migliori dischi dell’anno. Impegnato in diversi contesti, ha suonato, tra l’altro, con il William Parker Resonance Quartet (con Hamid Drake alla batteria e Daniele Malvisi al sax contralto), negli States, con diverse formazioni guidate da Anthony Braxton, tra cui l’omonimo Quartettto con Antonio Borghini al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria. In Italia ha inciso, tra l’altro, con l’“abeat” una delle etichette più originali e innovative del panorama jazzistico nazionale.
All’attività di musicista sul campo oramai da tempo aveva affiancato una proficua attività didattica, così dal 2001 era docente di Pianoforte, Musica D’Insieme e Armonia presso l’Accademia Nazionale del Jazz a Siena, mentre nel 2012 aveva ricoperto il ruolo di direttore didattico della Siena Jazz University. Dal 2016 al 2017 aveva esteso la sua attività didattica anche come docente di Pianoforte Jazz e Pianoforte complementare presso il Conservatorio “Maderna” di Cesena, per poi passare al Conservatorio Giovan Battista Martini di Bologna nel 2018.
Dal punto di vista discografico, Giachero si era segnalato prepotentemente a metà degli anni 2000 grazie al già citato progetto “T.R.E.” il trio formato con Stefano Risso al basso e Marco Zanoli alla batteria, seguito nel 2010 dal cofanetto formato da 6 CD “Standards” dell’Anthony Braxton Quartet, dalla produzione come leader di due album a suo nome, uno per solo piano (“Preludi – Libro Primo” abeat 2013) e l’altro con un Ensemble (“Passio” abeat 2015) fino ad arrivare a “Sonoria – Live in Pisa”, uscito su etichetta Evil Rabbit nel 2020.

L’avevamo intervistato nel 2011 e in questa sede ci piace riportare alcune delle sue risposte a conferma di una mentalità allo stesso tempo lucida e appassionata.
Richiesto di un’opinione sullo stato di salute del jazz italiano, così rispondeva Giachero:

“Anche in Italia mi sembra che la scena sia molto stimolante. Ci sono musicisti e formazioni più vicine all’area americana e altri più vicini all’area europea. La lista dei musicisti che trovo interessanti sarebbe molto lunga. In generale mi sembra che ci siano molte cose interessanti che però non riescono ad avere una visibilità adeguata. Il circuito mi sembra saturo soprattutto di una musica rappresentativa di qualcosa, invece di essere espressione diretta dei musicisti e del loro mondo interiore. Mi sembra che da parte degli organizzatori ci sia più un pensiero commerciale e diciamo così “di cassa” piuttosto che un’effettiva esigenza di una circuitazione della cultura musicale con la sua essenza rispetto a questo momento storico. Aprire a progetti e musicisti meno conosciuti o che hanno meno visibilità, ma non per questo meno bravi e interessanti, darebbe una ventata di freschezza alla musica e alla cultura in Italia. Ogni periodo di crisi e di decadenza ha in sé in realtà un fermento culturale profondo e innovativo, e questo periodo mi sembra caratterizzato da queste due dimensioni: da una parte la decadenza culturale, la confusione tra arte e commercialità, dall’altra lo sforzo di alcuni musicisti e artisti di tenersi fermi alle proprie idee e rigorosità concettuali, senza compromessi, per avere quella indipendenza artistica fondamentale per continuare nella ricerca di un nuovo linguaggio o sviluppare quelli attuali. La ricerca di un nuovo linguaggio e l’espressione di Sé stessi sono determinanti nello sviluppo della musica e nello sviluppo della società in cui viviamo”.
Ancora una ferma denuncia sullo stato del mercato discografico.
“Il disco è un po’ come mettere un punto fermo ad un progetto, concretizzare un’esperienza musicale e da lì andare oltre, o sviluppare essa stessa.
Per quanto mi riguarda, essendo interessato alla ricerca in vari ambiti, il disco rappresenta anche un documento del mio personale percorso artistico.
Trovo la tendenza di avere una propria etichetta molto importante e significativa. E’ importante perché rispecchia l’esigenza dei musicisti di avere il controllo sul proprio lavoro, senza scendere a compromessi con un editore o una etichetta, avendo il diretto coinvolgimento sulla totalità del lavoro.
Questo aspetto però rispecchia la parte negativa del mondo discografico. La maggior parte della etichette non produce più i propri artisti con un investimento, che ormai è minimo. Un artista si deve comprare un certo numero di copie, e molte volte cedendo anche una parte dei diritti d’autore, in modo che l’editore sia in pari con il suo investimento e non debba fare nessuno sforzo per la diffusione del progetto. Sarebbe interesse delle etichette far circolare i propri artisti all’interno del circuito in modo da far conoscere sia l’artista stesso che il disco, e sia il lavoro dell’etichetta stessa.  Questo semplice binomio in Italia non funziona, vuoi per le ragioni prima descritte, vuoi per la viziosità e faziosità del circuito, vuoi perché il circuito è regolato da pochi nomi e pochi interessi che impediscono la giusta e naturale diffusione di tutta la musica”.
Infine la diretta testimonianza di cosa per lui significasse l’insegnamento.
Mi piace molto insegnare, che per me vuol dire condividere il percorso con gli studenti. Credo molto nello scambio tra insegnante e allievo e cerco sempre di trasmettere quante più cose posso, sia musicali che extramusicali. L’aspetto più importante per me è quello di cercare di far capire e trasmettere il significato della musica, e la musica in se stessa”.

Gerlando Gatto

Riflettori su Mafalda Minnozzi e Francesco Di Giulio e i loro nuovi progetti

In attesa di pubblicare la solitamente corposa rubrica su “I nostri CD”, cosa che avverrà nei primi di settembre, vorrei sottoporre alla vostra attenzione due artisti che ritengo particolarmente interessanti: una, Mafalda Minnozzi, continua a proporre in giro per il mondo la musica italiana… e non solo, l’altro, Francesco Di Giulio, è un giovane artista abruzzese che meriterebbe ben altra considerazione.

Ma procediamo con ordine. Anticipato esclusivamente dalla pubblicazione di due singoli estratti dall’album – “A felicidade” (24 giugno) e “Once I Loved”D (9 luglio) – e da 8 concerti “première” realizzati a novembre con il quintetto americano, di cui 6 in Italia e 2 al Birdland di NYC (sold-out), il 20 luglio scorso è stato lanciato l’ultimo album di Mafalda Minnozzi, “Sensorial- Portraits in Bossa & Jazz”, distribuito su tutte le piattaforme digitali. Contemporaneamente è stata data la possibilità non solo di ascoltare i brani sulle piattaforme ma anche di vederli sul canale YouTube di Mafalda (disponibili 13 video realizzati durante la registrazione in studio a NY, uno per ogni brano) e di approfondirli con il podcast, per entrare nello spirito dell’artista. Al momento l’approfondimento con i podcast riguarda solo tre brani ma è intenzione dell’artista dedicare ad ogni pezzo la stessa attenzione. Insomma un’azione promozionale a tutto campo che ben si attaglia ad un album che presenta numerosi punti di forza.
Innanzitutto la ‘ricchezza’ dell’organico. A conferma della statura di artista internazionale, per quest’ultima impresa la Minnozzi è riuscita a raccogliere accanto a sé una pletora di musicisti di assoluto rilievo: al contrabbasso si alternano Harvie Swartz (classe 1948) a ben ragione considerato il bassista dei chitarristi avendo inciso tra gli altri con  John Scofield, Mick Goodrick, John Abercrombie, Gene Bertoncini, Mike Stern, Jim Hall, Leni Stern, e Essiet Okon Essiet già con Benny Golson, Johnny Griffin,  Cedar Walton; alla batteria Victor Jones, personaggio di assoluto rilievo nel panorama jazzistico internazionale come dimostrano gli oltre cento dischi cui ha partecipato sia come leader sia come sideman; alle percussioni Rogerio Boccato che può vantare collaborazioni con Maria Schneider, John Patitucci, Danilo Perez; al  pianoforte Art Hirahara già leader in trio e in quartetto con Linda Oh e Donny McCaslin; Will Calhoun  vincitore di decine di premi tra cui il ‘Buddy Rich Jazz Masters Award for outstanding performance by a drummer’ all’Udu nigeriano e shaker nel brano n. 7 (“Samba da Benção”) …e naturalmente quel Paul Ricci, alle chitarre sulle cui eccelse qualità mi sono già soffermato diverse volte su questi stessi spazi.
Secondo punto di forza, la bellezza del repertorio. In cartellone ben sette composizioni di Antonio Carlos Jobim tra cui le notissime “A Felicidade” che apre l’album, “Dindi”, “Desafinado” e “Triste”, mentre gli altri sei pezzi completano un magnifico affresco dei maggiori compositori brasiliani chiamando in causa Baden Powell (“Samba da Benção”), Chico Buarque (“Morro Dois Irmãos”), Toninho Horta (“Mocidade”), Filó Machado (“Jogral”), Alcyvando Luz e Carlos Coqueijo (“É Preciso Perdoar”).
In terzo luogo, ma non certo in ordine d’importanza, l’eccellente livello delle esecuzioni che come sottolinea lo stesso titolo dell’album non si limita ad una mera riproposizione della bossa-nova ma introduce ben individuabili elementi jazzistici nelle celebri melodie brasiliane (si ascolti a mo’ di esempio con quanta pertinenza le note del coltraniano “Lonnie’s Lament” vengano utilizzate per introdurre “É Preciso Perdoar”).

Il risultato è affascinante. La Minnozzi si conferma interprete sensibile, sorretta da una tecnica vocale di rilievo che le consente di ascendere senza difficoltà alcuna alle  note più alte, brava anche nello scat (la si ascolti in “Mocidade”) e cosa non proprio comune perfettamente in grado di esprimersi sia in perfetto portoghese sia in perfetto inglese; la sua voce, a tratti lievemente nasale, si staglia stentorea sul meraviglioso tappeto armonico-ritmico disegnato dai compagni di viaggio, sulla scorta di pregevoli arrangiamenti cui non è di certo estranea la mano di Paul Ricci. E di rilievo il modo in cui riesce a colloquiare con i compagni di viaggio: certo l’intesa con Paul Ricci è cementata da anni di fruttuosa collaborazione ma con gli altri no. Eppure l’intesa è perfetta: si ascolti come riesce a interloquire con le improvvisazioni di Hirahara in “Vivo Sonhando” (Jobim).
E le perle offerte dalla vocalist si succedono senza soluzione di continuità fino al conclusivo “Dindi” di Jobim impreziosito da un ispirato arrangiamento, di sapore blues.
Insomma un album di assoluto spessore, forse il migliore nella già prestigiosa carriera della Minnozzi.

Si ringrazia Chris Drukker per la photogallery di Mafalda Minnozi

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Trombonista abruzzese, classe 1983, Francesco Di Giulio è sulle scene jazzistiche oramai da parecchi anni.
Dopo la maturità scientifica conseguita nel 2002, si dedica interamente alla musica, al jazz. Così nel 2007 ottiene una borsa di studio presso i seminari estivi di Siena Jazz e successivamente partecipa ad un International Jazz Master a Siena. Nel 2009 ottiene il Diploma Accademico di primo livello in Jazz, Musiche improvvisate e Musiche del nostro tempo (Triennio Superiore Sperimentale di I livello) presso il Conservatorio di Musica “G. B. Martini” di Bologna. L’anno successivo vince una borsa di studio presso la New Bulgarian University in cui ha l’occasione di studiare, tra gli altri, con Glenn Ferris. L’attività professionale vera e propria inizia già nei primissimi anni 2000 e negli ultimi dieci anni si è notevolmente intensificata con la partecipazione, tra l’altro, a numerosi gruppi e orchestre sia come I trombone, sia come side-man, sia come compositore.
Per conoscerlo meglio ecco tre album, registrati in periodi diversi.
Cuneman – “Tension and Relief” UR Records è il secondo capitolo del progetto musicale Cuneman che in questa occasione cambia radicalmente pelle: non più il quartetto composto da sax, tromba, contrabbasso e batteria del primo disco del 2018 ma una formazione allargata a sei, con l’aggiunta del trombone suonato proprio da Francesco Di Giulio e del susafono nelle sapienti mani di Mauro Ottolini. Il risultato è eccellente in quanto il gruppo conserva le sue caratteristiche migliori, vale a dire una sapiente ricerca sulle armonie senza scivolare nel banale, con una giusta considerazione del passato ma con più di un occhio rivolto al free jazz. In quest’ambito particolarmente positivo l’inserimento di Di Giulio che riesce a ben dialogare con i compagni di viaggio (si ascolti il suo assolo in “Schifano”). Il gruppo sarà impegnato il prossimo 18 agosto alla Civitella di Chieti.

Completamente diverso il secondo album, “Mo’ Better Band” – “Li vuoi quei kiwi?”
La Mo’ Better Band nasce nel 2003 da un’idea di Fabrizio Leonetti, fondatore e sassofonista del gruppo: l’obiettivo era fondere la versatilità e l’organico tipici della classica banda italiana, con l’energia di un repertorio principalmente funky con “ammiccamenti” al jazz. Il tutto portato per le strade, in mezzo alla gente, per farla ascoltare anche a chi non è un appassionato di jazz.  Il nome della band proviene da ‘Mo’ Better Blues’, il brano eseguito, nell’omonimo film di Spike Lee del 1990, dal Brandford Marsalis Quartet. Di Giulio entra nella band nel 2007 nella duplice veste di strumentista e compositore ed in questo album firma il brano d’apertura (“Jam”) e quello di chiusura (“Soul In Da Hole”) a conferma di un apporto tutt’altro che marginale, come evidenziato anche dal convincente assolo nella title track.
Determinante è invece il ruolo di Di Giulio nel terzo album, “Re-Birth of The Cool” il cui contenuto musicale è già chiaramente espresso nel titolo. Si tratta, infatti, della rilettura dello storico album di Miles Davis pubblicato nel 1957 dalla Capitol Records che raccoglie le registrazioni effettuate tra il 1949 e il 1950 dal “nonetto”, capitanato da Miles Davis con gli arrangiamenti di Gil Evans. Come sottolineato dall’amico e collega Fabio Ciminiera “sulla scorta delle trascrizioni del trombonista Francesco Di Giulio e della sua conduzione e, va da sé, sulla scia delle registrazioni originali è stato costituito un nonetto fedele all’originale, con l’incontro tra musicisti jazz e classici e con alcuni dei solisti emergenti della scena abruzzese-marchigiana”. Confrontarsi con un’impresa del genere non era certo impresa facile e il trombonista-leader in questa occasione ne è uscito più che bene; sotto la sua conduzione il gruppo ha evidenziato un buon affiatamento generale e i musicisti hanno avuto modo di esplicitare appieno le proprie potenzialità data la scelta, effettuata allo stesso Di Giulio, di dare maggiore spazio agli assolo mantenendo inalterate per il resto le strutture architettate all’epoca. Ulteriore elemento che rende particolarmente riuscito l’album, il fatto che è stato registrato dal vivo il 21 giugno del 2012 durante un concerto alla Villa Comunale di Roseto degli Abruzzi.

Gerlando Gatto

La scomparsa del Maestro Morricone: lo ricorda Elio Tatti, uno dei suoi strumentisti

Elio Tatti, contrabbassista e compositore, ricorda il grande Maestro

Ennio Morricone

Ieri purtroppo ci ha lasciato uno dei più grandi compositori del novecento il M° Ennio Morricone e a tale proposito vorrei esprimere un mio ricordo personale di questa figura cosi importante ma anche controversa.

La prima collaborazione con il Maestro risale al 1987, quando fui chiamato a suonare le sue musiche presso l’Auditorium Rai in Roma con l’Orchestra del Conservatorio di Santa Cecilia. Appena diplomato, essere diretto da un grande compositore e soprattutto suonare le sue musiche, ricordo che mi creò, all’inizio, molta apprensione ma anche molta gratificazione!

Lo persi di vista per un po’ di tempo per poi rincontrarlo, a distanza di anni, in una delle tante registrazioni effettuate alla Forum di Roma, quando fui chiamato dal M° Lanzillotta come contrabbassista di fila nella sua orchestra, la Roma Sinfonietta, Orchestra nelle cui file annoverava musicisti di grande spessore come il M° Fausto Anselmo, prima viola della Rai, il M° Carlo Romano, primo oboe della Rai, il M° Stefano Aprile, primo corno della Rai, il M° Vincenzo Restuccia, batterista dell’Orchestra Rai di Musica Leggera in Roma, ecc. La costante collaborazione di questa orchestra con il M° Morricone fece sì che iniziassi una nuova fase di incontri con il Maestro, che mi portò ad effettuare diversi concerti in Italia (Milano, Lucca, Bologna, Verona ,ecc.), in Europa (Francia, Spagna, Iugoslavia,ecc.) e nel  mondo (Cile,Brasile, America,ecc.) solo per citarne alcuni; registrazioni di colonne sonore presso la Forum in Roma (La Sconosciuta, Senso 45, La Leggenda del Pianista sull’Oceano, Baaria ed altri ancora), dandomi la possibilità di conoscere meglio la sua figura.

I miei ricordi del M° Morricone appartengono a momenti meravigliosi e a situazioni vissute meno eclatanti; ricordo i concerti di grande successo, sempre con un’enorme partecipazione di pubblico; ricordo, purtroppo, discussioni accese con colleghi dell’orchestra per incomprensioni – a volte inspiegabili – a cui l’orchestra assisteva impotente ed incredula in religioso silenzio, nel rispetto delle parti. Ricordo la sua grandissima dedizione e professionalità musicale, espressa ogni volta che saliva sul podio per dirigere la sua musica. Non staccava mai gli occhi dalla partitura mentre dirigeva e per questo suo modo di fare fu anche oggetto di molte critiche. Non fu mai definito un grande Direttore; ricordo però anche un uomo semplice, con tutte le sue certezze e fragilità, un uomo che apriva spesso la porta della sua casa ai suoi più fidati collaboratori, una persona educata  che spesso a fine concerti si univa a noi componenti dell’orchestra per  cenare insieme, che viaggiava spesso con noi durante gli spostamenti per i concerti, sempre accompagnato da quella figura vigile di sua moglie, compagna da tanto tempo a cui Lui era abituato a dedicare tutti i suoi successi, la Sig.ra Maria.

Ennio Morricone e la moglie Maria

Ricordo le barzellette raccontate in aeroporto, in attesa di imbarcarsi su un aereo insieme all’orchestra. Ultimamente veniva spesso sopraffatto dall’emozione, ogni qualvolta gli si ricordasse il suo rapporto con la musica, cedendo a quel carattere apparentemente duro e scontroso che a volte lo aveva portato a rompere dei rapporti con grandissimi personaggi della sfera musicale. È stato e resterà per sempre un grandissimo compositore, vanto di tutta la nazione italiana, che ci ha lasciato una infinità di opere da poter eseguire.

Ringrazierò sempre chi mi ha dato la possibilità di collaborare con  il M° Morricone, artista che porterò sempre nei ricordi della mia vita professionale con grande orgoglio.

Elio Tatti