Casa del Jazz: grande successo per l’eroina dell’improvvisazione: Marilena Paradisi / Convince l’eclettismo di Erika Petti

Il penultimo appuntamento della serie “L’altra metà del Jazz” si è tenuto lunedì 20 novembre in concomitanza con la partita di qualificazioni della Nazionale contro l’Ucraina, evento che però non ha impedito alla sala di gremirsi di interessati e attenti spettatori.
Calcisticamente parlando, il primo tempo della serata ha visto protagonista la cantante Marilena Paradisi, accompagnata dal pianista cosentino Carlo Manna, di cui non ha mancato più volte (a ragione! N.d.A) di tessere le lodi.
Analizzando le ospiti di questi incontri, Marilena può essere considerata una figura atipica sotto alcuni aspetti: innanzitutto la sua formazione di musicista jazz, avvenuta più tardi rispetto a molte altre artiste, dal momento che lei aveva intrapreso la carriera di ballerina di danza contemporanea; poi, a seguito di un viaggio a New York e all’ascolto di numerosi dischi di musica jazz, primo tra tutti Ballads di John Coltrane, arriva il colpo di fulmine e l’innamoramento verso questo genere. Una volta rientrata a Roma, prende per cinque anni lezioni di canto dalla cantante lirica Fausta Coppetti Corti: «l’unica capace di tirarmi fuori la voce!» – dichiara Marilena.
Altro aspetto di discontinuità rispetto alle ospiti precedenti è l’aver preferito iniziare la serata cantando e non già rispondendo alle domande di Gatto, perché cantare, dice, le dà energia, quell’energia creativa che in qualche modo temeva di disperdere se prima avesse dovuto parlare.
La serata, dopo i saluti del direttore della Casa del Jazz, Luciano Linzi e l’introduzione di Gerlando Gatto, inizia con la Paradisi, accompagnata al piano dall’ottimo Carlo Manna (una vera scoperta!), che intona la dolcissima ballad di McCoy Tyner You Taught My Heart to Sing declinata in riverberi di scat e vocalese.
C’è da dire che, al di là di questo inizio classico, la principale cifra stilistica della Paradisi è l’aver improntato gran parte della sua opera musicale sulla sperimentazione e sulla pura improvvisazione; in particolare Marilena ha raccontato della sua esperienza con la soprano nipponica (dalla timbrica eccezionale) Michiko Hirayama, icona del canto contemporaneo (nota anche per il suo stretto legame artistico con Giacinto Scelsi) e della registrazione congiunta del disco Prelude for Voice and Silence (2011): quasi un’ora di pura improvvisazione vocale e di geniali “silenzi sonori”,  in cui, dato curioso, la Hirayama, alora ottantottenne, avrebbe dovuto partecipare solo a due tracce delle 34 registrate e delle 22 selezionate mentre in realtà è presente in otto.
Alla domanda del critico su quali siano stati i suoi riferimenti jazzistici, Paradisi non ha esitazione alcuna ad indicare Chet Baker, nella sua veste di cantante e non solo come trombettista, che collega ad Hellen Merril, due voci bianche caratterizzate dallo stesso minimalismo vocale. Di Chet, Marilena dice: «suona la voce come la tromba…».
La cantante ha poi illustrato la registrazione del disco The Cave (2013), realizzato in collaborazione con il percussionista Ivan Macera. Registrato all’interno del Teatro Il Cantiere di Roma, il disco è ispirato ad un articolo del musicologo Iégor Reznikoff che disquisiva sulla correlazione tra le pitture rupestri presenti nelle caverne preistoriche e la risonanza sonora; l’intenzione dell’album è appunto quella di trasportare l’ascoltatore in un’immaginaria caverna paleolitica dove ogni suono viene microfonato e amplificato. Un accenno anche al suo disco di improvvisazione testuale inciso con la  pianista Stefania Tallini (peraltro ospite della prossima e ultima serata di mercoledì 29 novembre, N.d.A. – info qui). Paradisi spiega che improvvisare parole è un esercizio di “scavo” e definisce il suo metodo come piccoli momenti poetici, assimilabili a haiku giapponesi.
Infine, ricorda con particolare affetto la sua collaborazione con Eliot Zigmund, batterista di Bill Evans, nata da una mail mandata da Marilena al musicista americano, dalla quale la vocalist non si sarebbe mai aspettata una risposta, tantomeno positiva,  e da cui, dopo un lavoro di organizzazione da parte della cantante durato circa quattro mesi, ha avuto origine il disco I’ll Never Be The Same (2002): di Zigmund ricorda soprattutto la generosità e il rispetto per le tradizioni che il batterista le ha saputo tramandare.
Dopo la citata You Taught my Heart to Sing, Marilena Paradisi è passata a Passion Dance sempre di Tyner e ad una stupefacente versione di Lawns – un omaggio alla grande Carla Bley – venuta a mancare recentemente – in una versione con l’arrangiamento vocale composto dalla stessa Paradisi, per finire con Would You Believe di Cy Coleman, brano reso famoso da Carmen McRae.

Nel secondo tempo della bella serata, al contrario degli attaccanti azzurri, la cantante e chitarrista molisana Erika Petti non ha mancato l’occasione avuta per presentarsi! L’intervista inizia parlando della sua formazione musicale e del fatto di essere cresciuta in una famiglia di musicisti: il padre è un trombettista, il fratello un fisarmonicista e la sorella pianista. Erika studia chitarra classica al conservatorio ma in realtà,  per un periodo, la sua carriera musicale passa in secondo piano in favore dei suoi studi universitari e della sua laurea in lettere: la Petti ci confessa infatti che se non avesse scelto la musica probabilmente avrebbe studiato filologia medioevale. Così non è andata, per nostra fortuna, ed Erika intraprende un percorso di studi biennale con la cantante e didatta di grande valore Carla Marcotulli.

In merito alla sua musica, descrive il suo genere come un jazz contaminato da influenze derivanti da vari stilemi come il pop, la bossa nova, il samba e la canzone italiana, primo tra tutti Pino Daniele, del quale la musicista apprezza la vis compositiva in primis e le lunghe linee melodiche. A onor del vero, Erika cita tra i suoi riferimenti musicali, come esempi di contaminazione, anche gli Earth, Wind&Fire… e come darle torto?  Queste caratteristiche appaiono evidenti nel suo album Sophisticated uscito proprio in questi giorni, un omaggio a grandi compositori quali Duke Ellington, Michel Legrand e Burt Bacharach, scomparso a febbraio di quest’anno. Parlando di queste commistioni, Erika enuncia quello che inconsapevolmente è diventato il filo rosso che collega tutte le musiciste invitate a queste serate, ovvero un unico tipo di distinzione tra buona e scarsa musica, senza discriminazione tra generi.
Inoltre, parlando dell’annoso tema delle difficoltà incontrate da una jazzista donna in un ambiente prevalentemente maschile, Erika racconta di aver incontrato alcuni ostacoli: tra questi l’impossibilità di suonare nella banda del suo paese natale in quanto donna, la sorpresa, da parte di alcuni, nel notare che la persona dietro ad un’abile esecuzione sia una donna e il fatto che in certi ambienti si sia ritrovata a dover citare uomini per qualificare un determinato ambiente di provenienza. E su questo postulato, la vostra redattrice rabbrividisce sdegnata… perché anche basta!
Infine, alla domanda postale da Gatto sullo stato della musica pop attuale in Italia, lei risponde invitando il pubblico a riflettere su come l’industria discografica possa influire pesantemente, per mere esigenze del mercato musicale, a conformare l’opera dei musicisti, a volte stravolgendola per adeguarla senza remore ai trend del momento…
I brani eseguiti dalla Petti, sono stati: Close To You di Bacharach in versione chitarra e voce e, nel celeberrimo riff finale, cantata anche dal pubblico in sala, e due pezzi di sua composizione, suonati insieme al pianista Pietro Caroleo: Amar y Vivir, con testo del poeta e cantante venezuelano José Carlos Morgana (accompagnandosi anche alla chitarra) ed E Tornerai, stavolta solo piano e voce.

Marina Tuni

ℹ️ INFO UTILI:
Casa del Jazz – Viale di Porta Ardeatina 55 – Roma
tel. 0680241281 –
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19:00 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
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-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita (parte 2)

Pubblichiamo la seconda parte della recensione di Flaviano Bosco sul Festival Internazionale Udin&Jazz, 32esima edizione, svoltosi a Udine dal 25 giugno al 16 luglio 2022 (clicca qui per leggere la prima parte)

Rosa Brunello è una delle certezze della giovane musica italiana. Figlia d’arte, di ottima formazione, è coinvolta in innumerevoli progetti musicali ed ha al proprio attivo molte collaborazioni anche con artisti internazionali. Il suo quintetto è composto da professionisti della sua stessa pasta che in qualche modo gravitano attorno al pianeta creativo dell’estroso trombonista Gianluca Petrella. La contrabbassista ha voluto mettere a frutto le sue innumerevoli esperienze musicali in un’incisione che interpreta le ultime tendenze del jazz che vedono come capofila i soliti giovani leoni della scena inglese con i loro mash-up di elettronica, nu-jazz, free form, Techno, Trance, World Music, tutte etichette giornalistiche che non dicono moltissimo ma che servono a delimitare un oggetto musicale, altrimenti non facilmente definibile. La musicista si è dimostrata coraggiosa e ardita a provarci, certo ha investito molto del suo talento in un progetto che ha buone prospettive ma che, almeno dal vivo, dimostra qualche reticenza o quanto meno il bisogno di essere maggiormente rodato. Comunque l’insieme è una perfetta espressione della forza gentile e del cuore cortese e generoso della giovane, affascinante contrabbassista che forse potrebbe osare di più.

Completamente fuori registro invece il celebre chitarrista Al Di Meola, la cui esibizione ispirata alle canzoni dei Beatles (Across the Universe) era tra le più attese dell’intera rassegna. Nessuno può mettere in dubbio le sue capacità tecniche e la sua meritata fama a livello mondiale ma a Udine ha dimostrato un’assoluta mancanza di rispetto per il suo pubblico e un’insospettabile irascibilità prendendosela con l’organizzazione e con il service fin dal sound check pomeridiano.
Irritato e risentito, per motivi probabilmente nemmeno chiari a lui stesso, si è fatto attendere per più di un’ora dal pubblico ignaro già in sala. Dopo mille esortazioni e preghiere dell’organizzazione si è deciso a salire sul palco accolto da una selva di fischi e di booo del pubblico che l’aveva tanto atteso. Non si è minimamente scusato rivolgendo parole decisamente insultanti ai tanti paganti accorsi per ascoltare la sua arte. Ne è seguita, naturalmente, un’esibizione nervosa, scostante, sbrigativa e autoreferenziale; il chitarrista ha suonato al peggio di sé con sommo rancore e nessuna empatia. Una serata sbagliata può capitare a tutti ma il chitarrista ha davvero passato il segno.
Molto meglio la serata successiva con la presentazione dell’ultimo lavoro del vulcanico collettivo italiano C’Mon Tigre e quello del Vjay Iyer Trio, incredibile protagonista della scena jazz mondiale.
I primi sono l’esempio perfetto di ciò che si può intendere per musica socialmente impegnata che però non abdica anche alla propria funzione d’intrattenimento. “Scenario”, l’ultimo album dell’ensemble ad organico variabile, vive letteralmente dei suoni della diaspora migrante dei nostri fratelli in cammino lungo le vie della speranza e della libertà. C’Mon Tigre collabora da anni con il fotografo di guerra della Magnum Photos, Paolo Pellegrini, che ha documentato, tra l’altro, il dramma dei profughi delle guerre africane e mediorientali sia sulla rotta balcanica, sia su quella Mediterranea. Con gran gusto estetico per il light design e le coreografie, l’ensemble sonorizza sul palcoscenico quella drammatica esperienza esistenziale, visivamente documentata dalle fotografie, facendo riferimento all’Afrobeat, al indie-rock, alla world music nelle loro declinazioni elettroniche e clubbing in un’atmosfera complessiva che forza le frontiere del jazz fino a dissolverle. Un’esibizione che davvero ha lasciato un segno nel cuore di tutti.

Indimenticabile anche il concerto di Vijay Iyer della contrabbassista Linda May Han Ho e del batterista Tyshawn Sorey. Un trio all star di musicisti straordinariamente dotati, al vertice del nuovo jazz a livello planetario. Nemmeno qui sono mancati i riferimenti all’impegno civile e politico della musica. Il pianista ha come modello d’ispirazione primaria l’opera poetica di Amiri Baraka con il quale ebbe una fruttuosa collaborazione. Sappiamo bene quanto fosse radicale la critica al regime capitalistico e schiavistico del poeta afroamericano che nel 2008 fu anch’egli ospite graditissimo di Udin&Jazz. Iyer a proprio modo se ne fa portavoce con una musica tellurica e carica di una bellezza abrasiva e indiavolata che non lascia indifferenti, esplosiva e perfino tribalistica nella sua essenza esplosiva e dirompente. In concerto, il trio s’impegna in lunghissime, compatte e travolgenti suite che sono un’esperienza immersiva e totale per musicisti e pubblico uniti in un percorso interiore di eccezionale valore.

Tra le conferme del festival anche quest’anno la “serata brasiliana” ispirata dal conduttore radiofonico Max De Tomassi, grande esperto della musica latinoamericana che durante tutta questa edizione di Udine&Jazz trasmetteva le cronache della rassegna in diretta su Radio Uno RAI nel suo programma estivo “Torcida”.
Il concerto del cantautore Ivan Lins, autentico monumento vivente della musica Popular brasileira, è stato il meraviglioso compimento di un breve interessante percorso tra interviste e approfondimenti che anche quest’anno ha avvicinato il pubblico di Udine all’universo creativo della musica tropicale.
Lins ha deliziato il pubblico con le sue melodie suadenti fatte di lontane nostalgie e dolcezze   di caramelle tra sofisticato jazz main stream e ritmi sudamericani del Samba e della Bossa Nova.

L’evento finale della rassegna udinese, il concerto degli Snarky Puppy è andato in scena in un gremitissimo Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Centinaia di fan aspettavano con ansia da mesi questo concerto che non ha deluso per nulla le aspettative. Il supergruppo di League e Lawrence ha una preparazione tecnica e una capacità esecutiva fuori dall’ordinario che lascia basiti e ipnotizzati gli ascoltatori. Grandissima e coinvolgente la verve compositiva del gruppo che sul palcoscenico rivela un’energia che fa sognare e ballare e che fin dalle prime note disegna un largo sorriso sul volto di tutti da una parte all’altra del palcoscenico. Generosissimi si sono impegnati in un acclamatissima esibizione, con trionfale, meritata ovazione finale di tutto il teatro giusta conclusione di un festival come sempre tutto maiuscolo.
Dulcis in fundo da non dimenticare due iniziative per nulla minori che rivelano la cifra della manifestazione e le sue prospettive.
Il festival ha attivato un’interessante collaborazione con il collettivo Muud, acronimo di Musica a Udine, che normalmente si occupa di promuovere giovani artisti locali attraverso un canale di podcasting finalizzato alla condivisione di contenuti culturali sui social. Il sodalizio già sperimentato nelle due edizioni Winter di Udin&Jazz, ha trasmesso in diretta streaming interviste e succulenti approfondimenti in deliziosi dopo-concerto in un accogliente pub della notte udinese.

Di grande significato il gioioso Workshop d’introduzione al Jazz dedicato ai bambini nel quale, attraverso suoni e giochi, i più piccoli hanno giocato con le note blu. La loro fresca, genuina creatività è la migliore garanzia per il futuro della musica; al loro cuore è dedicata ogni emozione, saranno loro a decidere direzione e prospettive, qualunque percorso sceglieranno sarà quello giusto perché apparterrà solo a loro, di tutto il resto avrà ragione il tempo.
In fondo a queste righe è utile ripetere una celebre frase di John Coltrane che come sempre ci esorta a meditare sull’Amore supremo:
“Il Jazz se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica per me è un’espressione degli ideali più alti: c’è dunque bisogno di Fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra… with brotherhood, there would be no war.”

Flaviano Bosco

A Proposito di Jazz ringrazia Udin&Jazz Festival e il suo ufficio stampa per la collaborazione e i fotografi Luca A. d’Agostino, Angelo Salvin e Gianni Carlo Peressotti per le immagini.

Cos’è che luccica sul grande mare? È GradoJazz 2021 – dal 17 al 24 luglio a Grado (Go)

di Flaviano Bosco –

Lasciandoci alle spalle mesi davvero difficili e  guardando al prossimo futuro, la prima cosa che ci meritiamo è una bella vacanza “sole e mare” che ci faccia dimenticare le brutture della galera del lockdown: i locali chiusi, gli schermi dei computer, la claustrofobia nelle nostre case e il continuo bombardamento a tappeto di brutte notizie. Ora basta! L’unico obbligo per almeno quindici giorni deve essere quello di non dimenticare a casa l’olio solare, cappellino e occhiali da sole.
Dopo le giornate sul bagnasciuga per ritemprarci, servirebbe una sostanziosa, quotidiana dose di musica, il farmaco migliore per cancellare le nostre passate ubbie.
Sembra un’utopia, un luogo da sogno, una cosa del tutto irreale, ma un posto così esiste davvero: è l’isola che c’è.
Grado, la perla dell’Adriatico, da tre anni ospita quello che, per qualità e bellezze artistiche, può essere considerato uno dei più importanti festival Jazz dell’estate italiana.
Dobbiamo solo lasciarci affascinare dalle sue suggestioni, abbandonandoci ai suoni, alla brezza, alla risacca e al paesaggio ineguagliabile tra la luminosa laguna e il cielo che l’isola d’oro ci regala.
Non sono certo parole da ufficio di promozione turistica, Grado non ne ha quasi bisogno grazie alle sue bellezze e alla sua storia millenaria; poche altre spiagge possono annoverare antiche vestigia romane e basiliche paleocristiane con magnifici mosaici a pochi metri dalla sabbia dorata. Grado Jazz con la sua magia si inserisce perfettamente in questo contesto e anche qui non serve sforzarsi troppo in persuasioni occulte o trovate di marketing, basta dare un occhiata ai nomi degli artisti sul cartellone.
Cominciamo dal calibro più rilevante che ci permette attraverso la sua arte immortale e le parole delle sue canzoni di introdurci alla rassegna. Nemmeno Paolo Conte avrebbe bisogno di tante presentazioni, in realtà, ma non ci si stanca mai di dire che senza di lui in Italia il jazz non esisterebbe nemmeno. Sono state le sue canzoni a contrabbandare nella musica cosiddetta leggera e leggerissima gli accordi e i ritmi dello swing che la tradizione musicale italiana aveva contribuito a creare già nell’epoca dei pionieri della musica degenerata (Nick La Rocca, cornettista di origine siciliana, con la sua Original Dixiland Jazz Band fu il primo ad utilizzare il termine che dal 1918 definisce il genere). Certi capivano il Jazz, l’argenteria spariva, ladri di stelle di Jazz, così eravamo noi, così eravamo noi.
Con la sua orchestra di 11 elementi, l’avvocato di Asti dietro i suoi baffi e con le dita sulla tastiera, celebra ancora i 50 anni della sua Azzurro emblema della canzone italiana propriamente detta e universalmente conosciuta. Il programma di Grado Jazz sembra costruito a partire dai gusti di Conte: dal main stream del songbook classico afroamericano, alla musica brasiliana fino alle suggestioni della musica orientale e ancora dal pianismo più classico e sognante fino alle trombe levigate.
Si esibirà il 24 luglio in un luogo il cui nome da solo evoca le atmosfere e l’alchimia della sua poetica in musica: Parco delle Rose. Sembra fatto apposta per lui e le sue canzoni: sulla riva del mare, alla luce lunare, al ritmo delle onde che si infrangono placide sulla sabbia, non mancherà di certo nemmeno un gelato al limon… mentre un’altra estate passerà. Libertà e perline colorate. Ecco quello che io ti darò…
Dee Dee Bridgewater. È proprio tra le rose che sarà accolta anche una delle più splendide signore del Jazz, dalla grazia e dalla dolcezza impareggiabili unite ad una potenza vocale e ad una presenza scenica davvero sbalorditive. Sul palco delle Rose, il 18  luglio, presenterà, in esclusiva, il suo nuovo progetto musicale accompagnata da giovani talenti e dalla sua solita verve: Ma cos’è la luce piena di vertigine, sguardo di donna che ti fulmina, Come-di, come-di.

Brad Meldhau. Prodigio del pianoforte, ha smesso già da un po’ di essere quell’eterno enfant prodige della tastiera che riempiva le pagine dei rotocalchi. Meldhau si è lasciato alle spalle quell’immagine pubblica di ragazzotto americano evolvendosi in un musicista raffinatissimo, dalle doti interpretative rare e dal prezioso virtuosismo. Si presenta il 19 luglio con il suo leggendario trio che fece furori in tutto il mondo negli anni novanta e che ancora oggi non ha perso la voglia di sperimentare tra post rock, jazz fino alle allucinate visioni bibliche espresse dal leader nel misticheggiante album Finding Gabriel: Io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto ad amare e di nascosto a danzare…

È dedicata alla musica brasiliana una delle serate più attese della rassegna (17 luglio) che da anni presenta le novità più interessanti e la tradizione classica di quell’universo di suoni. A far da guida al pubblico un vecchio amico del festival Max De Tomassi di Radio 1 Rai (media partner ufficiale di GradoJazz, assieme a Radio 3 Rai e Rai FVG), conduttore di Stereo Notte e  già autore della trasmissione Brasil, oggi in Stereo Notte, che ha fatto conoscere al nostro paese le bellezze della musica Carioca.
Potremo ascoltare così la suadente voce di Mafalda Minnozzi Ambasciatrice della canzone italiana in Brasile e il contrario, nelle sue interpretazioni degli standard della Bossa Nova riletti attraverso il Jazz contemporaneo di New York che hanno trovato la sintesi nell’acclamato album Sensorial (2019).

Altro grosso calibro del festival in salsa piccante brasiliana è Ivan Lins che ha messo il proprio sigillo da decenni sul jazz mainstream contemporaneo del paese sudamericano. La sua vena romantica e morbida gli ha permesso di collaborare sia con gli scatenati cubani Irakere sia con il crooner confidenziale Michael Bublè portando nuovamente la musica brasiliana sul palcoscenico internazionale.
Il 21 luglio è la volta di Enrico Rava & Danilo Rea, un duo di autentici colossi della musica italiana. A ottant’anni suonati, è proprio il caso di dirlo, il trombettista triestino-piemontese può considerarsi il padre nobile dell’attuale scena musicale italiana per quanto riguarda gli artisti più ricercati. Se si guardano i componenti dei gruppi che nei suoi sessant’anni di carriera ha incrociato e lanciato si può affermare tranquillamente che li ha disegnati tutti lui soffiando nella sua tromba. Non da meno Danilo Rea che ha attraversato la storia della musica d’arte italiana dal progressive fusion più raffinato dei New Perigeo nei primi anni ‘80, passando per i favolosi Doctor 3, fino alle numerosissime collaborazioni con la creme della musica pop italiana da Mina a Celentano, da Domenico Modugno a Renato Zero e Claudio Baglioni.
David Bowie sarà omaggiato dal progetto musicale di un altro gigante del jazz di casa nostra. Paolo Fresu, con la sua straordinaria band che si avvale dell’incantevole voce di Petra Mangoni, rileggerà le meraviglie del Duca Bianco il 22 luglio. Forse non molti sanno che il battesimo musicale di Bowie avvenne nei Jazz club di Londra nei quali si faceva felicemente trascinare dal fratello. Fu questo che lo spinse a prendere lezione di Sassofono contralto, come dichiarò: Quello strumento divenne per me un emblema, un simbolo di libertà. Da allora non ne fece più a meno fino all’ultimo capolavoro Blackstar che al di là dei generi può essere considerato un’opera d’avanguardia. Fresu rilegge quella straordinaria avventura musicale attraverso la propria arte promettendo fuochi artificiali e che We can be heroes, Just for one day, We can be all us Just for one day.
Saltando ancora dall’altra parte del mondo, Grado Jazz offre ai suoi spettatori una serata interamente dedicata ai tesori musicali dell’Asia che in modo trasversale incontrano i suoni di derivazione afroamenricana. Ad aprire le danze, anzi i canti, il 23 luglio, le voci diplofoniche e triplofoniche degli Huun Huur Tu, maestri del canto laringeo degli sciamani della tundra siberiana e delle steppe mongole. Chi avesse familiarità con le spericolate arditezze della vertiginosa vocalità del compianto Demetrio Stratos può farsi una lontana idea delle meraviglie che proporranno questi musicisti che si accompagnano con gli antichi strumenti della loro tradizione.
All’Asia anteriore appartiene il mondo cui si ispira il giovane ma già acclamato pianista Tigran Hamasyan. Di origine armena ha un’idea totalmente mistica della musica come ricerca di spiritualità assoluta e trascendenza che possiamo associare liberamente al lavoro di ricerca interiore e di riflessione religiosa intrapreso da Brad Meldhau di cui dicevamo. L’arte dell’armeno è stata paragonata alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, quindi il Parco delle Rose deve prepararsi a qualcosa di inaudito dalla bellezza cristallina e straniante.
I manicaretti offerti da Grado Jazz non finiscono certo qui. Gli appassionati si troveranno come bambini in gelateria davanti a tutte quelle vaschette che promettono talmente tanta delizia da non saper quasi scegliere.
Al variegato all’amarena nel nostro giochino infantile potremmo associare la fantastica mostra del fotografo Luca A. d’Agostino e dell’AFIJ sui trent’anni di Udin&Jazz, matrice della rassegna gradese con immagini che restituiscono le emozioni di decenni di concerti (dal 17 al 24 luglio all’ex Cinema Cristallo).

Al gelato al caffè corrisponde il Black Water Music concerto all’alba davanti al mare di Claudio Cojaniz da assaporare nella luce del mattino (18 luglio).
Al sapore tutti frutti sarà decisamente la fanfara urbana Bandakadabra, che per le strade di Grado farà sentire i propri ottoni così come nella tradizione più autentica del Jazz.

Allo stesso modo, al fresco sapore di agrumi saranno le granite in musica distribuite negli angoli più suggestivi della città dal sassofono di Daniele D’Agaro o dalla tromba di Mirko Cisilino.
Necessariamente un gelato al limone servirà alla fine dell’escursione sulla Jazz Boat (20 luglio) attraverso la laguna accompagnati dalla migliore musica dal vivo e dalla degustazione di prodotti tipici di mare e dalle bollicine delle vigne friulane.
Black come il cioccolato più fragrante e goloso sarà il tributo alla fantastica voce soul di Aretha Franklin: Respect! Di Elena Vinci, Joy Jenkins & Michela Grilli (20 luglio).
Aristocratica zuppa inglese e malaga per i classici Standard interpretati dall’Ensemble Jazz del Conservatorio Tartini di Giovanni Maier (21 luglio, prima di Rava/rea).
Sapori sperimentali e d’avanguardia per la band di Michelangelo Scandroglio, giovane e intraprendente contrabbassista toscano tutto Pan di stelle e cacao al peperoncino (22 luglio prima di Fresu).
Un tripudio di creme colorate per i Laboratori musicali per bambini di PraticaMenteMusica e allora via libera a dolci scorpacciate in musica per i più piccoli al sapore di Puffo, gianduia, amarena, liquirizia e pistacchio. Tutte proposte che non sono per niente solo eventi collaterali ma deliziosi dessert che rendono le giornate di Grado Jazz ancora più sfiziose e colorate.
Ormai l’abbiamo capito, a Grado Jazz sarà un’estate torrida e affascinante con duemila enigmi nel jazz, ah non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche, Arrivederci all’Isola d’oro sotto la luna del Jazz.
Il programma dettagliato lo trovate nella web-gelateria www.euritmica.it !

Flaviano Bosco

Joe Barbieri: quando la musica diventa poesia

Alle volte capita, anzi capita più spesso di quanto si possa immaginare, che conosciuto personalmente un artista ne rimani profondamente deluso. Ciò perché la personalità e la statura umana non sempre coincidono con la statura artistica.
Di qui il mio compiacimento nel constatare come l’idea che mi ero fatta di Joe Barbieri corrisponde appieno alla statura umana e intellettuale del Barbieri uomo.
L’altro giorno ho avuto il piacere di partecipare ad una affollata conferenza stampa, naturalmente online, per la presentazione del nuovo album del cantautore napoletano – “Tratto da una storia vera” (Microcosmo Dischi/Warner Music Italy), – disponibile dal 16 aprile in Europa e dal 22 aprile in Giappone sia in digitale sia in formato fisico.
Barbieri si è sottoposto ad un vero e proprio tiro incrociato che lo ha visto rispondere sempre in maniera molto intelligente, pertinente e, quel che mai guasta, con grande gentilezza ed educazione, mai mostrando un solo attimo di fastidio. Così all’immagine più che positiva dell’artista, si è aggiunta l’immagine, anch’essa più che positiva, dell’uomo mai saccente, che risponde compiutamente alle domande, cercando di trovare i concetti e le parole giuste, che non si atteggia a grande artista…insomma una persona con cui si può dialogare piacevolmente.

In particolare, parlando dell’album, Barbieri ha tra l’altro ribadito come lo stesso definisca meglio di mille parole chi è Joe Barbieri dal momento che tutti i brani prendono vita dal suo vissuto più profondo, aggiungendo che il disco ha bisogno di essere pensato e osservato nella sua interezza. Quanto poi alla valenza delle varie tracce, Barbieri ha sottolineato come l’ultimo pezzo, quello solo strumentale, ha per lui un valore particolare rappresentando una sorta di ponte tra ciò che sta facendo e ciò che vorrebbe fare in un futuro non lontano, cioè centellinare le parole, sceglierle con ancor più cura e, perché no, farne anche a meno per una musica solo strumentale.
Rispondendo ad una mia domanda se, sulla scorta di quanto accade nel free-jazz, il musicista deve preoccuparsi solo di esprimere sé stesso attraverso la propria arte o se invece è sempre indispensabile il confronto con l’ascoltatore, Barbieri ha risposto che nella prima fase, quella di creazione, l’artista è solo con sé stesso e la musica ha bisogno di non essere corrotta dal confronto, anche se poi, in un secondo momento, a fatica compiuta, il confronto  diventa vitale perché la musica è come una pianta che ha bisogno di germogliare, di crescere…”Io poi, ha proseguito Barbieri, nel corso del tempo ho avuto il privilegio di vedere svilupparsi intorno alle cose che modestamente faccio, una piccola comunità di persone che si sentono legate, in qualche modo, alla mia musica per cui, inevitabilmente, quando faccio un disco nuovo penso a loro, quindi ci penso due, tre , quattro volte prima di presentare un nuovo disco, una nuova canzone”.
E non c’è dubbio alcuno che questa piccola comunità cui Barbieri fa riferimento, avrà accolto con entusiasmo questo “Tratto da una storia vera”.
L’album è infatti di indubbia valenza grazie ad una serie di elementi. Innanzitutto la bellezza della linea melodica che caratterizza oramai da tempo le produzioni di Barbieri coniugata con una scelta di testi coerenti, mai banali. In secondo luogo la preziosità degli arrangiamenti tutti assai ben curati. In terzo luogo le straordinarie capacità interpretative del vocalist il cui stile oramai trascende i confini della musica pop, per situarsi in una sorta di sfera atemporale in cui è possibile trovare influssi provenienti da più fonti, dalla tradizione napoletana, alla musica brasiliana, dalla world music, al jazz, dalla bossa nova al cantautorato. A tutto ciò occorre aggiungere la sapienza con cui Barbieri ha saputo circondarsi di musicisti strepitosi: ecco quindi la tromba di Fabrizio Bosso in “La Giusta Distanza” e “Tu, Io E Domani”, mentre il trombone di Mauro Ottolini si fa apprezzare in “Promemoria”. E ancora, Jaques Morelenbaum con il suo violoncello in “Niente Di Grave”, Luca Bulgarelli col suo contrabbasso, le voci di Carmen Consoli, di Tosca (con la quale Barbieri ha già altre volte collaborato) e di Sergio Cammariere, l’organo Hammond di Alberto Marsico in “Vedi Napoli E Poi Canta”. Il tutto senza inficiare di una sola virgola l’unitarietà dell’album assicurata da un Barbieri sempre presente ma non per questo debordante. Insomma un artista sobrio, maturo, elegante, perfettamente consapevole dei propri mezzi vocali messi sempre al servizio dell’espressività di una musica a tratti sinceramente toccante. Come la riproposizione di “Lazzari Felici”, un omaggio esplicito al grande Pino Daniele, proposto con originalità ma, allo stesso tempo, rispettando la valenza originaria del brano.

Gerlando Gatto

I nostri CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Pierluigi Balducci – “L’equilibrista” – Dodicilune
Una prima notazione tutt’altro che secondaria: “questo lavoro – afferma lo stesso Balducci – vede la luce ad otto anni dal mio precedente disco, “Blue from Heaven”, e a tre anni da “Evansiana”, pubblicato nel 2017. Lo dedico a John Taylor, che in questi due dischi è presente: punto di riferimento sia per me che per tanti altri musicisti europei, John mi ha onorato della sua presenza nel mio quartetto fino alla sua scomparsa, nel 2014”. Ebbene, nell’intento di omaggiare cotanto artista, il bassista/compositore pugliese Pierluigi Balducci, ben coadiuvato da Robert Bonisolo (sax tenore), Fabrizio Savino (chitarra) e Dario Congedo (batteria) ha realizzato questo eccellente album con sette brani originali tutti composti dal leader. Inquadrato l’album nelle sue linee generali, occorre aggiungere che il titolo rispecchia appieno la musica che si ascolta. Un equilibrio tra forma e contenuto, un bilanciamento apprezzabile tra parti scritte e improvvisate, un giusto alternarsi di atmosfere tra energico groove e avvolgente melodia, il tutto condito da una ricerca sul sound che ha dato frutti copiosi. In particolare si fa apprezzare il dialogo a più voci che vede impegnati alle volte Balducci e sezione ritmica, altre volte Balducci e Bonisolo; ciò senza trascurare il peso degli assolo che si ascoltano nei vari brani: particolarmente apprezzabile, ad esempio, il chitarrista nella title-track con il suo incedere elegantemente descrittivo mentre il sax di Bonisolo s’impone alla generale attenzione già a partire dalle primissime note del brano d’apertura “Blackarera” caratterizzato da un coinvolgente andamento ritmico.
Dal canto suo il leader, oltre a fornire un irrinunciabile supporto armonico per tutta la durata dell’album (si ascolti a mò di esempio “Kosmos and Chaos”) si produce anche in notevoli assolo come nel caso di “Monet” probabilmente il pezzo migliore dell’album. Fra gli altri brani più significativi “Fino a prova contraria”, una lunga ballad esposta con sapienza narrativa da Robert Bonisolo e con i notevoli assolo della chitarra di Savino e del basso elettrico del leader.

Luiz Bonfà – “Plays & Sings Bossa Nova + The Gentle Rain” – Aquarela do Brasil
Siamo nei primissimi anni ’60, per la precisione nel 1962, quando viene registrato un lp dal sassofonista Stan Getz con il chitarrista Charlie Byrd: è l’inizio del fenomeno ‘jazz samba’ (più tardi inteso come ‘bossa nova’) che tanto successo ebbe nel mondo del jazz. Tra i sacerdoti di questa nuova musica figura certamente il chitarrista e vocalist Luiz Bonfà (Rio de Janeiro, 17 ottobre 1922 – Rio de Janeiro, 12 gennaio 2001) che nello stesso 1962 fu tra i protagonisti dello storico spettacolo di bossa nova che si tenne alla Carnegie Hall. A testimonianza delle sue frequentazioni con il mondo del jazz restano le incisioni con Stan Getz, Quincy Jones, Frank Sinatra, Eumir Deodato. Moltissime le composizioni di Bonfà – oltre un centinaio – molte celebri, tra cui ricordiamo innanzitutto “Manhã de Carnaval” e “Samba de Orfeu” entrambi tratti dalla colonna sonora del film “Orfeo Negro”. In questo album si ascoltano due lp risalenti agli anni ’60. Nel primo, registrato a New York nel 1962, troviamo Bonfà a capo di un sestetto e una sezione d’archi arrangiata da Lalo Schifrin; il secondo – “The Gentle Rain” – è la colonna sonora dell’omonimo film in cui il chitarrista suona con un’orchestra arrangiata e diretta dall’amico Eumir Deodato, realizzata a Rio De Janiero nel 1966. Naturalmente in repertorio figurano altre perle targate Bonfà come il già citato “Manhã de Carnaval” e ancora “Samba de Duas Notas”, “Silencio do amor”, “Perdido de amor” registrato a Rio de Janeiro nel 1959 e porto come “bonus track”. Fornire un quadro esauriente dell’arte di Bonfà è opera davvero ardua dato l’enorme numero di registrazioni effettuate dall’artista tuttavia dall’ascolto di questo album si può ricavare un ritratto soddisfacente di quel che Bonfà ha rappresentato nel mondo della musica.

Jakob Bro – “Uma Elmo” – ECM 2702
E’ un trio di caratura internazionale quello che il chitarrista danese Jakob Bro, al suo quinto disco da leader per la ECM, presenta in questa occasione: al suo fianco sono, infatti, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Ad onta del fatto che i tre mai avevano inciso prima, la formazione si dimostra assolutamente compatta, ben guidata dal leader e perfettamente in grado di svolgere la musica che Bro aveva immaginato. Nove brani tutti composti dal chitarrista caratterizzati da un’atmosfera profonda, intimista, fortemente evocativa, ricca di echi, di riverberi, con chitarra e tromba che dialogano continuamente e la batteria di Rossy a punteggiare e sostenere il tutto, pur concedendo davvero poco all’impianto ritmico. Nell’ambito del repertorio figurano tre espliciti omaggi, in cui, però, Bro continua ad evidenziare la sua poetica mantenendosi ad una certa distanza dagli artisti evocati. Non a caso l’album si apre con “Reconstructing a Dream” in ricordo di quel periodo (2007) in cui collaborava con la Paul Motian’s Electric Bebop Band. “To Stanko” è un tributo al trombettista polacco Tomasz Stanko con il quale Bro aveva collaborato per ben cinque anni incidendo, tra l’altro, nel 2009 l’album ECM “Dark Eyes” unitamente a Alexi Tuomarila piano, Anders Christensen chitarra basso e Olavi Louhivuori batteria; la linea melodica è dolcemente suggestiva ben lontana, quindi, dal clima arroventato proprio dell’artista polacco. L’altro jazzista omaggiato è Lee Konitz per il quale Bro ha scritto ed eseguito “Music For Black Pigeons”; nei confronti del sassofonista Bro dichiara una sorta di sincera devozione sorta negli anni in cui hanno suonato assieme durante le tournée effettuate in Islanda, Groenlandia, Norvegia, Danimarca. Il brano più interessante? Difficile da enucleare anche se mi ha particolarmente colpito “Housework” sia per il sound affatto particolare della tromba, sia perché è piuttosto complicato enucleare le parti improvvisate dall’intelligente scrittura.

James Booker – “The Ivory Emperor” – Soul Jam 806188
Album da non perdere per gli appassionati di un certo tipo di jazz, molto vicino al blues. In effetti vi sono contenuti tutti i singoli che James Booker realizzò come leader all’inizio della sua carriera, tra il 1954 e il 1962, quando incideva per diverse etichette tra cui Imperial, Chess, Ace e Peacock. Il cd contiene inoltre brani di altri artisti in cui James Booker appare come sideman. E’ il caso, ad esempio, di “You’re On My Mind” e “The Nex Time” in cui suona accanto a Junior Parker (voce) e Arnett Cobb (sax tenore), e delle due tracce conclusive in cui collabora con il bluesman Earl King. Ma chi era James Booker domanda che probabilmente si staranno facendo i nostri più giovani lettori. Ebbene James Booker, (New Orleans, 17 dicembre 1939 – 8 novembre 1983), conosciuto come il Principe del piano di New Orleans, è stato uno dei musicisti più amati di Crescent City. Era un pianista eccellente, organista di livello (lo si ascolti ad esempio in “Cross My Heart”), vocalist e compositore che si era creato uno stile del tutto personale fondendo R&B, gospel, blues, boogie-woogie, jazz tradizionale e moderno attraverso un suono originale. Ma le sue conoscenze musicali andavano ben al di là rivolgendosi anche alla musica classica europea, così rivisitò in chiave blues il “Valzer del minuto” di Chopin e inserì una composizione dello stesso autore polacco in un brano boogie-woogie. Data l’importanza della sua musica nell’ambito della scena jazz-blues di New Orleans, la sua produzione fa parte dal 2008 degli archivi della Biblioteca del Congresso.

Sam Cooke – “Wonderful World – The Hits” – Hoo Doo
Questo è un album chiaramente divisivo: in effetti se amate il soul jazz e più in generale la soul music allora l’ascolto sarà più che gradevole; esattamente il contrario se vi sentite lontani da questo particolare genere. Il protagonista è un vocalist di assoluto rilievo, Sam Cooke, che può essere considerato uno dei padri fondatori della soul music essendo stato tra i primi a coniugare le tematiche gospel con input provenienti dalla vita reale. Nato a Clarksdale il 22 gennaio 1931 e scomparso a Los Angeles l’11 dicembre 1964, Sam sulla spinta del padre – il Reverendo Charles Cook della Chiesa Battista – si era già affermato da giovanissimo come leader del famoso gruppo gospel “teenage” “The Highway QC” che abbandonerà all’età di 19 anni per dedicarsi ad una musica “profana”. Nel corso della sua non lunga carriera, Sam collezionò una serie incredibile di successi, grazie ad un incredibile senso del ritmo e a straordinarie capacità vocali che gli consentivano di passare con disinvoltura da Gershwin (lo si ascolti in “Summertime” a classici del pop quale “Youn Send Me”, anch’esso presente in questa raccolta. E il pregio principale di questo CD consiste proprio nel fatto che nell’ambito delle 30 tracce, registrate tra il 1956 e il 1962, possiamo ascoltare tutti i più grandi successi del vocalist, da “Wonderful World” che apre la compilation a “Bring It On Home to Me”, da “Chain Gang” a “Twistin’ the Night Away” da “A Change Is Gonna Come” fino al conclusivo “Having a Party” per circa 78 minuti di musica. In queste numerose performances Sam Cooke è accompagnato anche da alcuni eccellenti jazzisti quali il pianista Hank Jones, Mike Pacheco (conga), Red Callender (basso).

Chick Corea – “Plays” – Concord 2 CD
E’ di poche settimane fa la dipartita di Chick Corea un artista che ha segnato la storia del jazz negli ultimi cinquant’anni. Ecco, quindi, questo pregevole doppio album della Concord che lumeggia uno dei tanti lati della complessa personalità artistica di Corea: quella del piano solo. Piano solo declinato attraverso una varietà di situazioni che testimonia, meglio di mille parole, da un lato l’incredibile conoscenza del repertorio pianistico, dall’altro la capacità di ben interpretarlo. Eccolo quindi alle prese con Mozart, con Gershwin, con Scarlatti, con Bill Evans, con Scriabin, con Antonio Carlos Jobim, con Monk, per chiudere con una serie di brani tratti da quell’inesauribile scrigno costituito dalle sue composizioni. In particolare il primo CD è dedicato a prezzi celebri che tutti conoscono mentre nel secondo è possibile ascoltare tutti brani di Corea eccezion fatta per “Pastime Paradise” di Stevie Wonder. I brani sono tratti da una serie di concerti svolti in vari Paesi europei e statunitensi e ovunque, dinnanzi ad un pubblico che lo acclama, Chick non si risparmia e affronta con disinvoltura i non facili confronti con gli autori su citati. Ma non basta ché Corea si lascia andare anche ad improvvisazioni che testimoniano la valenza di un artista che mai ha fatto ricorso al banale, al facile ascolto, ai cliché spesso di moda. Insomma ancora una volta Corea si concede senza limiti al suo pubblico, senza particolari modalità, fedele al suo motto più volte espresso secondo cui “a me piace – afferma il pianista – che il pubblico ai miei concerti si senta come se stessimo nel mio salotto a discutere del più e del meno”.
Così il suo pianismo conserva intatta la sua originalità e soprattutto quel tocco che lo ha reso celebre. Come ho molte volte sottolineato, quello che trasforma un buon musicista in un grande artista è la riconoscibilità e in un pianista detta riconoscibilità si sostanzia nella originalità del tocco, nel caso di Corea un tocco sublime e straordinariamente controllato.

Daniele Germani – “A Congregation of Folks” – Gleam Records 7004
Album d’esordio per questo alto-sassofonista originario di Frosinone ma di stanza a Brooklyn, NY, ben coadiuvato dal pianista originario dell’Oregon Justin Salisbury, dal bassista Giuseppe Cucchiara e dal batterista sudcoreano Jongkuk Kim. In programma tredici composizioni tutte scritte dal sassofonista che si è fatto le ossa suonando al Wally’s Jazz Cafe, il leggendario jazz club di Boston; in questa città Germani si è trasferito nel 2013 avendo ottenuto una borsa di studio per frequentare il Berklee College of Music. Mentre era lì, è stato ammesso al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Danilo Perez, dove ha studiato sotto la guida di Terri Lyne Carrington, Joe Lovano e del suo mentore, George Garzone. Avendo alle spalle tanti anni di studio e con maestri talmente prestigiosi, Germani si presenta al pubblico italiano come musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi e in grado di guidare un ensemble ben equilibrato e affiatato grazie al fatto che i quattro si sono conosciuti al Berklee. Di qui una perfetta spaziatura tra gli strumentisti e il giusto tempo dato ad ognuno per esprimere le proprie potenzialità. Così ad esempio in “One Moment To Monet” è il piano di Salisbury a mettersi in particolare evidenza mentre in “Hal Believe It” è l’intera sezione ritmica ad evidenziare la sua bravura nel sostenere magnificamente il solismo del leader. Il quale dà un’impronta all’intero album già nelle primissime note del brano d’apertura quando su un tappeto disegnato dal basso introduce e sviluppa il tema, portandolo dolcemente a conclusione Comunque ad avviso di chi scrive il brano meglio riuscito è “Eres luz”, una suggestiva melodia disegnata anche dal contrabbasso di Cucchiara e che vede l’intero quartetto esprimersi al meglio.

Andrea Goretti – A Light in The Darkness – Dodicilune 503
Undici composizioni originali che il pianista-compositore Andrea Goretti affronta in solitudine. Di qui una duplice fatica: da compositore e da esecutore. E la valutazione non può che essere positiva. Le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da introspezione e sincera meditazione, mentre le esecuzioni risultano perfettamente aderenti alle idee dell’artista. Quindi nessuno sfoggio virtuosistico ma un uso intelligente delle dinamiche, una accurata ricerca armonica nell’ambito di un pianismo tecnicamente ineccepibile. Il tutto supportato da una profonda conoscenza della letteratura sia classica sia jazzistica, con specifico riferimento alle tendenze più attuali. Non a caso in repertorio figura anche un brano, “T.T.T. X – Twelve Tone Tune X” costruito con una linea melodica di dodici suoni, ad omaggiare il celebre “Twelve Tone Tune” di Bill Evans. Altra dote di Andrea Goretti la capacità di saper bilanciare scrittura e improvvisazione, pratica quest’ultima, che pur evidenziandosi in tutto l’album si palesa particolarmente in “Neptune’s Blues” e “I giganti”. L’album si chiude con tre pezzi registrati dal vivo durante un concerto a Roma nel novembre del 2018: “Impro I”, “Lamento”, ispirato al blues e “Il Grinch 2”, dedicato, non senza un tocco d’ironia, al periodo natalizio, in particolare a quel personaggio – Grinch per l’appunto – inventato nel 1957 dal Dr. Seuss, che odia il Natale, non ne sopporta l’atmosfera allegra, i canti, i regali e le luci. L’album è impreziosito da una poesia di Umberto Petrin, “Question”, ispirata dalla musica di Goretti.

Pietro Lazazzara – “My Art of Gypsy Jazz” – Stradivarius
Chiarezza esemplare nel titolo dell’album: siano nel campo di un certo ben preciso tipo di jazz che il chitarrista e compositore Pietro Lazazzara frequenta con disinvoltura. Ma sarebbe un errore confinare l’album nell’ambito del “Gipsy Jazz”: in effetti, restando questo la fonte principale da cui trae ispirazione, il percorso di Pietro è più complesso e completo. Eccolo quindi studente di chitarra classico, appassionato conoscitore del flamenco, laureato in musica jazz e infaticabile appassionato ricercatore nell’ambito di uno sconfinato universo musicale. Di qui una musica in cui tutti questi input sono ben amalgamati e condotti ad unità grazie ad una buona verve compositiva e ad una eccellente tecnica esecutiva che si palesa soprattutto nei due brani per chitarra-solo “Passion d’Amour” ed “Echi d’Infanzia”. Nell’album Lazazzara è, in effetti, coadiuvato da Antonio Solazzo al basso e in un brano, “Relax”, da Emanuele Maggiore al flicorno. In cartellone quattordici pezzi scritti dallo stesso chitarrista con l’eccezione di “Douce Ambiance” di Django Reinhardt, “Joseph Joseph” di Kahn, Chaplin, Nellie e “Bistrot Fada” di Stephane Wrembel. Alla fine di un duplice attento ascolto dell’album, si può ben dire che la figura di Lazazzara quale compositore ed esecutore si colloca su livelli più che buoni. Le composizioni appaiono tutte ben scritte, equilibrate, caratterizzate da una sapiente ricerca armonica e si fanno ammirare anche per il notevole bilanciamento tra parti scritte ed improvvisate. L’esecuzione, poi, è raffinata, elegante ad evidenziare un chitarrista sensibile, ispirato, dalla tecnica ineccepibile per quanto misurata e lontana dalla volontà di stupire l’ascoltatore cosicché ogni nota ha il suo preciso perché.

Peggy Lee – The Hits of – All Anglow Again!” – Essential Jazz11443
Peggy Lee (Jamestown, 26 maggio 1920 – Bel Air, 21 gennaio 2002) è stata artista di squisita sensibilità che ha incantato le platee di tutto il mondo. Dotata di una voce non potentissima ma di grande fascino, suggestiva, capace di portare l’ascoltatore in una dimensione “altra”, Peggy ottenne grande popolarità durante l’era dello swing quando lavorò e incise con grandi orchestre dirette, tra gli altri, da Benny Goodman, Nelson Riddle, Billy May. Questo album contiene l’edizione integrale dell’lp “All Aglow Again”; si tratta di una compilation realizzata nel 1960 con in repertorio dodici brani tratti dalle varie registrazioni effettuate sino a quel momento ivi comprese alcune hit come la celebre “Fever” canzone di Eddie Cooley e Otis Blackwell (usando lo pseudonimo di John Davenport) del 1956; incisa per la prima volta da Little Willie John nello stesso anno, diventò di grande successo grazie alla cover di Peggy Lee del 1958 che raggiunse la quinta posizione nel Regno Unito e l’ottava negli Stati Uniti ed in Olanda, vincendo il Grammy Hall of Fame Award 1998. In aggiunta al già citato “All Anglow Again!” il cd in oggetto presenta altri 17 brani scelti tra i maggiori hit della cantante come “Black Coffee”, “Sugar”, “Ain’t We Got Fun” e “La La Lu”. In buona sostanza per chi come il sottoscritto conosce già da qualche decennio l’arte di Peggy Lee nessuna sorpresa ma il piacere di ascoltare alcune delle sue più convincenti interpretazioni; per i più giovani un’occasione da cogliere per fare la conoscenza di una delle migliori cantanti jazz.

Joe Lovano – “Garden of Expression” – ECM 2685
Conosco personalmente Lovano dall’oramai lontano 1982 e l’ho sempre considerato uno straordinario musicista oltre che una bella persona, cosa che mai guasta. Quest’ultimo album ci restituisce un Lovano in forma smagliante, alla testa di quel Trio Tapestry con cui lo avevamo apprezzato nell’omonimo album del 2019, quindi ancora con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Registrato nel novembre del 2019, l’album è dedicato a quanti sono rimasti vittime del Covid 19. Di qui otto brani tutti scritti dallo stesso Lovano che conducono l’ascoltatore in atmosfere rarefatte disegnate dal leader ma ben supportate da pianoforte e batteria che non fanno assolutamente rimpiangere la mancanza del contrabbasso. Si ascolti quindi con quale e quanta delicatezza il pianismo di Marilyn avvolge il sax del leader, quasi a tessere un intricata trama su cui quasi si adagia la voce di Lovano, mentre la batteria di Carmen segue con grande intelligenza e intuito gli intenti del leader. Una musica, quindi, che si sostanzia nell’empatia che i tre evidenziano sin dalle primissime note a conferma di un “idem sentire” tutt’altro che banale. Esemplare al riguardo il suadente “Night Creatures” in cui la Crispell sembra quasi volersi espandere nel comune territorio pronta, però, a cedere il passo all’entrata del sassofono, il tutto porto con estrema delicatezza. Appare quasi come uno standard il successivo “West of the Moon” mentre nella title- track il trio abbandona le melodie disegnate in precedenza per avventurarsi su terreni diversi, quasi vicini ad un certo free, ma che comunque mette in luce un abilissimo e lucido Castaldi il quale non si lascia sfuggire l’occasione per evidenziare il suo, d’altronde ben noto, talento. L’album si chiude con un lungo (oltre 10 minuti) “Zen Like” scandito da campane tibetane che si stacca nettamente da tutto ciò che si è ascoltato sinora.

Shai Maestro – “Human” ECM 2688
Coinvolgente la musica di questo quartetto la cui leadership si potrebbe tranquillamente spartire tra il pianista Shai Maestro e il trombettista statunitense Philip Dizack, coadiuvati da una puntuale sezione ritmica composta dal batterista israeliano Ofri Nehemya e dal contrabbassista peruviano Jorge Roeder. Certo la maestria del pianista israeliano non la scopriamo certo adesso dato che Shai è già al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM, e può vantare anche quattro album di spessore incisi con l’Avishai Cohen Trio. Ma in questo album c’è forse qualcosa di più. Innanzitutto una piena maturità compositiva declinata attraverso un repertorio di undici composizioni tutte sue ad eccezione di “In a Sentimental Mood”. In secondo luogo la piena conferma di uno stile pianistico che nulla aggiunge a ciò che è strettamente necessario ad esprimere la propria individualità, il proprio essere più profondo (si ascolti al riguardo soprattutto “Compassion” e “Hank and Charlie” il commovente omaggio porto a Hank Jones e Charlie Haden, con il contrabbasso di Jorge Roeder in bella evidenza). In terzo luogo la capacità di eseguire al meglio, in modo originale, composizioni non proprie come la su citata pagina ellingtoniana, pezzo tanto affascinante quanto difficile da riprodurre visto l’inevitabile confronto con l’originale. Infine la straordinaria facilità con cui riesce a rapportarsi con i compagni di viaggio; semplicemente perfetta l’intesa con il trombettista assai evidente soprattutto in “Human” e in “They Went to War” mentre la sezione ritmica è sempre lì, presente e discreta, a puntualizzare le linee disegnate da pianoforte e tromba.

Angelo Mastronardi – “Rough Line” – GleamRecords7003
Con questo terzo album da leader, il pianista si ripresenta con la formula preferita del trio assieme al batterista palermitano Melo Miceli e al contrabbassista americano Rogers Anning. In programma 6 composizioni originali scritte dal leader e due standard, “All Things You Are” (J.Kern / O. Hammerstein II) e “Oleo” (S. Rollins). Il terreno è quello di un jazz caratterizzato da una forte carica ritmica e da spiccate individualità che emergono nel corso delle varie esecuzioni; il tutto impreziosito da una accurata ricerca sul suono che si evidenzia ancora più chiaramente quando Mastronardi si produce non solo al pianoforte ma anche al Fender Rhodes. Come si accennava notevole l’apporto solistico di tutti i membri del trio: così ecco il basso di Rogers Anning particolarmente in evidenza in “Everything I Need” mentre la batteria di Melo Miceli si fa apprezzare in “Away From The Scene”. E il leader? A parte la sapienza con cui guida il trio, si ritaglia spazi per convincenti assolo: in particolare nei due brani eseguiti in solitudine, “All The Things You Are” e “7 H-Our”, Mastronardi evidenzia una assoluta padronanza della tastiera che sa utilizzare in maniera completa evidenziando tra l’altro una ottima diteggiatura e una eccellente indipendenza tra le due mani. In particolare il brano di Kern e Hammerstein è porto in maniera originale con l’intento da un canto di preservare la bellezza del tema dall’altro di osare qualcosa di nuovo, alla costante ricerca di quell’equilibrio fra tradizione e sperimentazione che caratterizza tutto l’album ; in “7H-Our” Mastronardi, avendo a che fare con una propria composizione, si muove con sicurezza nel dichiarato intento di sperimentare le possibilità timbriche del Fender.

Lucio Miele – “Kalpa” – Creative Sources Record
Album assolutamente atipico in cui Lucio Miele, percussionista di tradizione classica, dedito alla ricerca e alla sperimentazione, si racconta attraverso sei sue composizioni, affiancato da Simona Fredella alla voce recitata in due brani e da Anacleto Vitolo al mastering. Chi conosce il musicista salernitano troverà in questo album una perfetta continuità con le sue realizzazioni in cui ha sempre cercato di condensare la molteplicità delle sue esperienze. Viceversa per chi questo album rappresenta il primo approccio con la musica di Miele, sicuramente ne resterà sorpreso, nel bene o nel male non spetta certo allo scrivente deciderlo. In ogni caso è opportuno sottolineare che Miele è artista sincero, intellettualmente onesto, che ha sempre seguito la sua strada per quanto ostica fosse la stessa. Certo, fare musica basandosi solo su percussioni ed elettronica non è impresa facile, anche quando si è perfettamente padroni degli strumenti utilizzati (si ascolti ad esempio il convincente uso dell’elettronica in “Mbombo”). Mancano i riferimenti usuali, la linea melodica, l’andamento ritmico è assolutamente frastagliato e imprevedibile, ma quando si approccia una realizzazione di questo tipo i vecchi parametri vanno messi da parte e occorre lasciarsi andare al flusso sonoro. Aprire la mente il cuore, l’anima e lasciare che la musica ci attraversi fin nel profondo alla ricerca di emozioni sopite che forse solo in questo modo saremo in grado di apprezzare. Insomma un album, come si accennava, di non facile ascolto ma che vale la pena fruire ma, ripetiamo, con disponibilità e attenzione…altrimenti è meglio lasciar perdere.

Roberto Ottaviano – “Resonance & Rapsodies” – Dodicilune
Doppio album del sassofonista (soprano) e compositore pugliese Roberto Ottaviano, affiancato in “Resonance” dal quartetto Eternal Love composto da Marco Colonna (clarinetti), Giorgio Pacorig (piano, rodhes), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), ampliato dalla presenza di Alexander Hawkins (piano), Danilo Gallo (contrabbasso e basso acustico) e Hamid Drake (batteria), mentre nel secondo CD, “Rapsodies” solo dal quartetto Eternal Love. Una realizzazione, quindi, particolarmente impegnativa che non a caso ha vinto l’annuale referendum come miglior disco italiano del 2020. Ora, a prescindere dal valore che valutazioni del genere possono avere o non avere, resta il fatto che a mio avviso raramente una produzione discografica è stata così meritevole di tali considerazioni. In effetti Roberto Ottaviano è artista di grandissimo livello, tra i migliori che l’attuale scena jazzistica, non solo italiana, possa annoverare. La sua mente compositiva è sempre lucida, attuale, capace di cogliere i fermenti più significativi che attraversano l’universo musicale senza distinzione di genere mentre le modalità esecutive evidenziano un bagaglio tecnico molto profondo, talmente ben assorbito da non necessitare di alcuna palese esposizione e che, di conseguenza, si sostanzia in uno stile asciutto, senza fronzoli, che nulla lascia all’esibizionismo. L’intento che sta alla base dell’opera è, come afferma lo stesso Ottaviano, “una sorta di omaggio alla ricerca di quella sofferta poetica che fa parte della condizione umana”. Per dare forza e concretezza a questi concetti, Roberto fa ricorso ad una musica declinata attraverso ventitré brani in larga misura da lui stesso scritti in cui non mancano i riferimenti alla musica classica contemporanea. Ma è la pratica collettiva il dato fondamentale di questo doppio CD, una pratica che consente una sorta di doppione del sax di Ottaviano con i clarinetti di Marco Colonna, che risultano essenziali per allargare a dismisura il concetto di suono. Se volessimo sintetizzare in poche parole il significato più profondo di questo “Resonance & Rapsodies” si potrebbe forse dire che nel momento in cui rievoca le esperienze del passato Ottaviano non rinuncia a guardare oltre, non rinuncia ad una ricerca che costituisce una delle cifre fondamentali del suo essere artista.

Dino Piana – “Al gir dal bughi” – PMR, Jando Music
90 anni e non sentirli…o meglio che bel sentire ci procura questo nuovo album del trombonista Dino Piana. Conosco oramai da molti anni la premiata ditta composta da Dino e Franco Piana e ne ho sempre ricavato una bella impressione e non solo dal punto di vista squisitamente musicale, visata la gentilezza, la signorilità con cui i due amano rapportarsi con noi critici e giornalisti. Ma è il versante artistico su cui tocca concentrarsi in questa sede e allora dico, immediatamente, che l’album si colloca su quegli alti livelli cui Dino e Franco Piana ci hanno abituati oramai da decenni. Con in più un elemento di notevole importanza: il CD è stato fortemente voluto da Enrico Rava (storico amico di Dino Piana) e da Franco Piana per festeggiare i 90 anni (a luglio 91) del trombonista piemontese. Di qui la strutturazione di un organico d’eccellenza in cui accanto ai senatori Rava al flicorno e Dino Piana al trombone figurano Franco Piana al flicorno, Julian Oliver Mazzariello al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Di qui la scelta di un repertorio oggi non di moda: nove standard celeberrimi – “Bernie’s Tune”, “Dear Old Stockholm”, “Everythings Happens To Me”, “I’ll Close My Eyes”, “Line For Lions”, “Rhythm A Ning”, “Polka Dotz and Moonbeams”, “When Light Are Low”, “When Will The Blues Leave” – che tutti, più o meno, si richiamano a quell’hard bop da cui in buona sostanza è poi derivato tutto il jazz moderno. Il gruppo si esprime con bella compattezza impreziosito dal fitto dialogo tra i fiati e dagli assolo di Dino che non si risparmia anzi fa sentire ben nitida la voce del suo strumento in ogni brano. Gli standard fluiscono genuinamente ‘freschi’ come se il tempo non fosse trascorso e l’ascolto è sempre gradevole anche se occorre attenzione per catturare le mille sottigliezze dell’esecuzione. Una precisazione: lo strano titolo deriva dal fatto che durante il primissimo incontro tra Rava e Piana, quest’ultimo associò al blues in fa il giro armonico del boogie-woogie per l’appunto “Al gir dal bughi”.

Marcello Rosa – “The World On A Slide” – Alfa Music 236
Straordinario viaggio nel mondo del trombone. A fungere da gran cerimoniere è Marcello Rosa, uno dei personaggi più rilevanti dell’universo jazzistico nazionale. Conosco Marcello personalmente oramai da tanti anni e so perfettamente quanto ami la sua musica e quanta passione metta in ogni cosa che fa. Ovviamente a quest’aurea regola non sfugge “The World On A Slide” una raccolta di ben sedici brani –molti originali, altri scelti tra le più belle melodie del repertorio jazzistico del XX secolo – ma tutti suonati e arrangiati da Rosa nel corso della sua vita. Ebbene per questa sua ultima fatica discografica, Marcello ha voluto coronare un bel sogno: incidere un disco di soli e tanti tromboni. Ha così chiamato accanto a sé alcuni specialisti non solo del jazz ma anche della musica colta. Ed eccoli tutti i nomi dei temerari che hanno partecipato all’impresa: dalla musica colta Andrea Conti I trombone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Luigino Leonardi trombonista presso la Banda musicale dell’Aeronautica Militare, Gianfranco Marchesi trombone basso dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Quartetto italiano di tromboni, formato da Devid Ceste secondo trombone dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, Matteo De Luca I trombone dell’orchestra della Suisse Romande di Ginevra, Diego Di Mario I trombone presso l’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e Vincent Lepape I trombone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Dal mondo del jazz sono arrivati i già ‘collaudati’ Andrea Andreoli, Mario Corvini, Massimo Morganti e Roberto Rossi; accanto a loro i giovanissimi e brillanti Stefano Coccia, Elisabetta Mattei, Federico Proietti e il G.E.F.F. Trombone Quartet, composto da Giovanni Dominicis, Francesco Piersanti, Eugenio Renzetti e Gabriele Sapora. In taluni pezzi c’è pura una sezione ritmica composta da Paolo Tombolesi al pianoforte, Luca Berardi e Roy Panebianco alla chitarra, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni. Il risultato è semplicemente entusiasmante: come si diceva una volta ‘dove peschi peschi bene’ ed in effetti tutte le esecuzioni contengono una carica tale da mai lasciarti indifferente. Qualche titolo? “Autumn Leaves” con Massimo Morganti in veste di solista, la suadente “Southern Ballad” che ad onta delle difficoltà di realizzazione narrate da Rosa è venuta molto bene con Roberto Rossi solista, il sempre toccante “What Are You Doing the Rest of Your Life” affidato al Quartetto Italiano di Tromboni con Gianfranco Marchesi. Da segnalare infine che come bonus track figurano “Miss Magnolia Lee” del giugno 1974 con Enrico Pieranunzi piano, Alessio Urso basso e Gegè Munari batteria e “Il ladro di noccioline” del 1980 con Daniele Cestana piano, Nanni Civitenga chitarra e chitarra basso e Enzo Restuccia batteria.

Bob Salmieri – “…and Mama Was a Belly Dancer” – Cultural Bridge
Il sassofonista tenore romano Bob Salmieri si è già fatto conoscere da quando, nel 2016, costituì l’Erodoto Project, i cui album sono stati recensiti su questi stessi spazi. E’ di pochi mesi fa la costituzione del ‘Bob Salmieri Bastarduna Quintet’ con Giancarlo Romani alla tromba, Vincenzo Lucarelli organo e piano, Maurizio Perrone contrabbasso e Massimiliano de Lucia alla batteria, ospite in tre brani il vibrafonista e pianista polacco Mateusz Nawrot. In piena pandemia il gruppo incide il disco “…and Mama was a belly dancer” per Cultural Bridge, declinato attraverso otto composizioni tutte del leader che anche come strumentista non si risparmia di certo per tutta la durata dell’album. Due le necessarie premesse: nell’intento di Salmieri si tratta di un concept album in quanto rivede e rivive i sogni di un uomo-bambino che costruisce i suoni, i sapori, i colori di un tempo lontano e di un mondo sognato. In secondo luogo il termine Bastarduna con cui si è voluto caratterizzare il gruppo indica una varietà pregiata di fichi d’India a voler indicare la strada ‘mediterranea’ che il gruppo intende perseguire. Ora se, more solito, almeno per me è assai difficile stabilire se la musica coincide con l’impianto concettuale che dovrebbe sostenerla, non c‘è invece dubbio alcuno sul fatto che il jazz proposto si inserisca nel solco di un’ispirazione di impronta chiaramente mediterranea, particolarmente evidente in “Madame oculus” e “Men With The Painted Faces” impreziosito da un bell’assolo di Lucarelli all’organo. Dal punto di vista della linea melodica, particolarmente apprezzabile “The Flying Devils”. Comunque è tutto l’album che si snoda attraverso un filo rosso che vede in primo piano il fitto colloquio tra i due fiati ben sostenuti dalla sezione ritmica con l’ospite polacco in grado di ben inserirsi nel discorso collettivo con assoli di pregevole fattura (lo si ascolti in “The Balinese Dancer (Reprise)”.

Roberto Spadoni – “Mah” – Sword Records
Anche Roberto Spadoni fa parte delle mie oramai lunghe amicizie musicali ed è proprio partendo da questa base che mi sento di affermare la valenza dello stesso quale musicista assai ben preparato e che, tutto sommato, non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita. Adesso, dopo lunghi anni in cui ha suonato la sua fida chitarra, diretto organici di varie dimensioni, composto, insegnato, si cimenta con qualcosa di nuovo: produrre, promuovere e diffondere la sua musica seguendola in tutta la sua lunga filiera, dalla composizione alla registrazione, dal progetto grafico alla stampa e alla diffusione. Di qui la creazione di una label che – con una venatura di ironia – sottolinea Spadoni ha chiamato ‘Sword Records’. “Mah” è per l’appunto la prima realizzazione targata ‘Sword Records’ per cui il leader-chitarrista si esibisce con Fabio Petretti (sax tenore & soprano), Paolo Ghetti (contrabbasso) e Massimo Manzi (batteria). In programma nove composizioni originali tutte scritte dal leader a conferma di quanto su accennato a proposito della poliedricità di Roberto. L’album è sicuramente apprezzabile sia per l’originalità della scrittura così ben equilibrata sia per la bravura dei singoli notevoli nella parti d’insieme così come nei vari assolo. Ecco quindi il contrabbasso di Paolo Ghetti farsi apprezzare in “Remore morali” un brano non nuovo ma sempre affascinante. In “Girotondo” è la batteria di Massimo Manzi in primo piano, impegnata in un fitto dialogo con i compagni di viaggio mentre in “Borgo antico” si apprezza Fabio Petretti impegnato a disegnare una fluida linea melodica. Dal canto suo il leader non fa mancare il suo apporto solistico in ognuno dei brani apparendo, almeno a chi scrive, particolarmente convincente in “Buonanotte”. Ottima anche la chiusura con “Ce la posso fare” un pezzo che, evidenzia ancora Spadoni, egli ha diretto molte volte e che comunque rappresenta una sorta di mantra, un augurio, “una carica di energia positiva”, impreziosito nell’occasione dagli assolo di Petretti e di Spadoni.

Barney Wilen & Alain Jean-Marie – “Montreal Duets” – Elemental 2 CD
Vi piace la “buona” musica senza distinzione di stili, di epoca, di messaggi più o meno espliciti…insomma senza se e senza ma? Se la risposta è affermativa allora dovete ascoltare questo doppio album. Siamo nella Chiesa di Gesù, a Montreal (Canada) il 4 luglio del 1993 in occasione dell’annuale Festival del jazz. In programma per un doppio concerto pianificato alle 20 e alle 22,30 un duo d’eccezione composto da Barney Wilen al sax tenore e dal pianista martinicano Alain Jean-Marie. Già a quell’epoca i due avevano lungamente suonato assieme sin dagli anni ’80 potendo vantare una propria ben solida reputazione. In particolare Barney era considerato uno dei più prestigiosi sassofonisti francesi avendo, tra l’altro, collaborato con Miles Davis per la colonna sonora del film “Ascenseur pour l’Échafaud” nel 1957 mentre Alain a conferma di una carriera prestigiosa aveva ricevuto il “Prix Django Reinhardt” e nel 2000 il “Django d’Or”. Ora se è vero che nel mondo della musica e del jazz in particolare non sempre uno più uno fa due, questa volta si potrebbe ben dire che invece fa tre. Ascoltarli nelle loro evoluzioni è davvero un piacere tale e tanta è la fluidità del loro linguaggio. I due si intendono a meraviglia, si inseguono, si interrompono, si passano la palla senza soluzione di continuità nel rispetto di soluzioni ritmiche che guardano da vicino alla grande tradizione del bop. Non a caso Alain Jean-Marie agli inizi della carriera era stato avvicinato stilisticamente a Bud Powell. Nell’ampio programma enucleare qualche brano è davvero difficile anche se una menzione particolare la merita la splendida ballad di Gordon Jenkins, “Good Bye”, pezzo con cui Barney Wylen chiuse la sua performance a Caen il 14 marzo 1996 in quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Ascoltando “Good Bye” non ci si può non lasciar prendere da una ondata di malinconia nel ricordo di un grande artista che anche nell’esecuzione presente in questo album evidenzia una classe e una musicalità senza pari. E vorrei chiudere citando le parole di Jean-Paul Sartre riportate da Pascal Anquetil nel booklet del disco: “il y a un gros homme qui s’époumone à suivre son trombone dans ses évolutions, il y a un pianiste sans merci, un contrebassiste qui gratte ses cordes sans écouter les autres. Ils s’adressent à la meilleure part de vous-même, à la plus sèche, à la plus libre, à celle qui ne veut ni mélancolie ni ritournelle, mais l’éclat étourdissant d’un instant. Ils vous réclament, ils ne vous bercent pas”.

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Ferenc Snétberger, Keller Quartett – Hallgató – ECM New Series 2653
Com’è nostra consuetudine, consentiteci una tantum qualche digressione al di fuori degli ambiti prettamente jazzistici. Questa volta lo facciamo per segnalarvi questo album targato ECM New Series, dedicato al dolore vissuto da molti nel corso dei secoli senza motivo alcuno, che vede come protagonisti il chitarrista ungherese Ferenc Snetberger, il terzo pubblicato da ECM, e il Keller Quartet, anch’esso costituito da musicisti ungheresi. L’album, registrato in concerto nella Grand Hall della Liszt Academy di Budapest nel dicembre 2018, presenta un programma interamente dedicato alla musica classica. L’apertura e la chiusura sono dedicati a brani dello stesso Snétberger, inframmezzati da composizioni di Dimitri Shostakovich (il Quartetto per archi N. 8 in Do minore dedicato alle vittime della guerra e del fascismo), John Dowland ( “I Saw My Lady Weep” per chitarra e quartetto d’archi, e “Flow, My Tears” per chitarra e violoncello), Samuel Barber (lo struggente “Adagio for strings” interpretato dal solo “Keller Quartet”. Dal canto suo Ferenc Snetberger presenta alcune sue composizioni che non sfigurano al cospetto di contati autori. Così il “Concerto In Memory of My People,” in tre movimenti, composto da Snétberger nel 1994 per chitarra e orchestra, e qui riproposto in un arrangiamento per chitarra e quintetto d’archi, coglie perfettamente nel segno riuscendo a trasmettere l’ispirazione dell’autore che ricorda e dedica questa musica alla memoria dei suoi antenati gitani Roma e Sinti (cui il chitarrista appartiene) perseguitati e uccisi nei secoli. L’album si chiude con due composizioni del chitarrista, “Your Smile” per chitarra solo, unico brano in cui ci si distacca dalla sensazione di tristezza e dolore che domina tutto il CD e “Rhapsody No.1, for Guitar and Orchestra” qui però nella versione per chitarra e quintetto d’archi.
Che altro aggiungere se non che alla bellezza dei brani si aggiunge la valenza di Ferenc Snétberger che si conferma esecutore e compositore di sicuro livello.