I nostri cd: un anno di jazz

Tutto si può dire dell’anno che si chiude, a livello di dischi jazz, tranne che sia stato monocorde e monotono.  La varietà delle proposte ha infatti caratterizzato il 2023 in modo significativo grazie a lavori spesso di bradisistica vitalità. Le recensioni che seguono ne rappresentano una possibile campionatura fra le tante proposte meritevoli. Le affidiamo alla lettura per una riflessione su quanto espresso e sui destini possibili del jazz e della musica nell’anno che verrà.

Federica Michisanti Quartet, “Afternoons”, Parco della Musica Records.
Il quartetto di Federica Michisanti featuring il clarinettista Louis Sclavis, il violoncellista Vincent Courtois e il batterista Michele Rabbia si cimenta nell’album Afternoons edito da Parco della Musica Records. Si tratta di una formazione cameristica che “illustra” musicalmente dei pomeriggi qualunque, quelli in cui il “presto” ed il “sostenuto” del ritmo mattutino cedono il passo al “moderato” e al “lento” tardopomeridiano. La musica della Michisanti si snoda in sette composizioni che la compositrice-contrabbassista romana ha definito mostrando di aver ancor più affinato la scrittura ora arricchita dalle cromie percussive che accompagnano la sottile trama arco-fiato. Il brano introduttivo “Two” espone un groove d’avanguardia che in “Sufi Loft” si mitiga in atmosfere soffuse, armonizzanti, che paiono richiamare sfondi bergmaniani. Il successivo “Not” ha strutture più decise specie quelle ritmiche di caffeinici frattali jazz. Tenero è il “Nocturne” con la libertà ispirata dal fascino delle tenebre e dai sogni, altrettanto dicasi per “Spot” contenuto nella stessa traccia. “Be4 PM” alterna momenti melodici a surplaces dialogici, un doppio registro che si rileva nella stessa “Floating”, in  conclusione. L’approccio colto-europeo non deriva solo dalla anagrafe artistica della formazione ma è il portato di un vissuto musicale comune del 4et che conduce a superare moduli interpretativi fin troppo rodati per sondare nuovi orizzonti espressivi. In definitiva un album davvero degno d’attenzione come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti proprio n questo periodo.

Adriano Clemente, “The Coltrane Suite and Other Impressions”, Dodicilune Records
In piena era jazzistica d.C. (dopo Coltrane) esce un album destinato, c’è da giurarci, a rimanere nel tempo. Vi si rievoca, del grande sassofonista neroamericano, lo Spirito fattosi Suono, la Mistica divenuta Suite. E’ il multistrumentista leccese Adriano Clemente a presentarlo con The Coltrane Suite and Other Impressions, per i tipi di Dodicilune. Giganteggia, già nel primo dei due cd, la performance del saxtenorista David Murray assieme a The Akashmani Ensemble. E furoreggia alla batteria il galvanizzante Hamid Drake, in veste di riguardevole ospite di… riguardo. Personaggio complesso da affrontare, Trane. Ma Clemente è dotto ed edotto in materia per come già fatto con Mingus con la medesima label nel 2016. Già a partire da “Mother Africa” (inizio di una tracklist con 25 sue composizioni) ne compenetra  pathos e l’alfabeto sin nella prima parte del lavoro, tirando fuori, nella seconda, Impressioni nelle quali si confermano imprescindibili i membri della Akashmani, Guidolotti e Sorrentino (sax), Pirone (tr.ne), Carucci e Buccella(pf), Pierotti e Scandroglio(cb), Aiello (cong.), Lanzini (cello), Makarovic (tr.). E naturalmente svetta il direttore Clemente con i suoi dieci e passa strumenti da maneggiare a seconda della situazione musicale.

Christian Pabst, “The Palm Tree Line”, Jazz Sick Records.
Musica di dove crescono le palme. E’ il pianista tedesco Christian Pabst a compilare una sua personale playlist dedicata a suoni di quei sud da cui è da sempre affascinato nell’album The Palm Tree Line (Jazz Sick). L’attacco è “Mambo” di Bernstein, da “West Side Story”, in un’esecuzione nervosa ed al tempo stesso seducente, con il Rhodes ad accentuare un certo suo modo di sincopare e “contratemporeggiare”. Il seguente “Amarcord” nell’alternare swing a beguine schiarisce, e non di poco, la nebbia felliniana impressa sul brano restituendogli luce solare. Nel terzo pezzo, all’ottimo combo che vede Francesco Pierotti al basso e Lorenzo Brilli a batteria e percussioni, interviene al canto Ilaria Forciniti ad intonare “Amara terra mia”, di Modugno, e con lei l’altro ospite Federico Gili, con la fisarmonica a coprire gli interstizi lasciati aperti dalla voce e a ritagliarsi, così come il pianoforte, un chorus per una impro breve quanto vibrante. Proseguiamo nel raccontare, in pillole, il disco, dando conto di “Un’ora sola ti vorrei” resa con delicato lirismo condiviso nel solo del contrabbasso di verve classicheggiante. Strano accostamento subito dopo quello dell’ “Alhambra” di Lecuona e, a marca Bongusto-Trovajoli di “‘O cielo ce manna ste cose”, a riprova di quanto possano essere vicine Granada e Napoli, accomunabili dalla musica oltre che dalla macchia mediterranea che arriva dalla Campania all’Andalusia. Alla fine, appena eseguita una tenera “Dèjame Llorardi Oteo, Pabst offre un proprio acquerello sulla tastiera del “Tramonto”, per due minuti di tratteggio, andante per sensazioni sonore, del crepuscolo del sole che si addormenta.

Claudio Giambruno, “Overseas”, Via Veneto Jazz
Swing, bebop, modale, jazz samba e tutto quanto ne è seguito con i relativi adeguamenti di  grammatica, sintassi, vocabolario alle successive tendenze stilistiche. Claudio Giambruno è  sassofonista che li ha conformate coniugandole alla propria sensibilità latina in Overseas (Via Veneto Jazz-Millesuoni). Nell’album parte innescando una marcia neohardbop alquanto light – e non è un ossimoro – essendo ciò dovuto alle due fonti “over seas” che avvicinano Mediterraneo ad Atlantico e Pacifico per addolcirsi poi in ballad ed evergreen come “ ‘Na voce ‘na chitarra e ‘o poco e ‘luna”. Nella traversata gli sono accanto il pianista Andrea Rea, il contrabbassista Dario Rosciglione e il batterista Amedeo Ariano, band di cui Seamus Blake ha elogiato il repertorio dalla modalità “thrilling and soulfull”, emozionante e pieno d’anima, declinata in nove fra standards ed originals.   In questi ultimi si denota anche una netta autorialità di Giambruno, jazzista che non rinnega la tradizione semmai se ne serve come spioncino per scrutare nel futuro.

Two Things of Gold, A.Ma Records
Un duo, quello formato dalla vocalist Francesca Sortino e dal produttore dj romano nonché figlio della vocalist Diego Lombardo, che nell’album Two Things of Gold (A.Ma), perfeziona un originale confronto, su basi elettroniche, fra jazz e house – funk – soul in un lavoro inciso su ideale supporto di l. P. .  Ne scaturiscono 14 tracce delle quali tre squisitamente jazzistiche – “Con Alma” di Gillespie, “Malachi” di Hill e “Where Flamingos Fly” successo di Gil Evans – con decollo da una piattaforma di musica internazionale per planare su lidi sonori e canori dinamici spazianti da toni duri a timbriche calate su linee melodiche più morbide nei passaggi di climax.  Della Sortino è da rimarcare il desiderio di cimentarsi “atipicamente” rispetto a certe aspettative che vorrebbero le voci femminili jazz impegnarsi nella riproposizione dei capisaldi della materia o al massimo nell’esecuzione di originals che a quella tradizione si ispirano. L’affiancarsi a un giovane musicista come Lombardo dalle visioni innovative e rampanti risulta vincente. Da segnalare nella produzione gli ospiti Roberto Rossi, Alessandro Maiorino, Alberto Parmegiani, Mauro Beggio, Pierpaolo Bisogno.

Minimal Klezmer, “Öt Minusz Kettò”,  Caligola Records
Album n. 3 (campeggia la sottrazione 5-2 all’interno della cover) per i Minimal Klezmer, al secolo Francesco Socal (cl.sax), Roberto Durante (keys, pf, acc.), Enrico Milani (cello), Pietro Pontini (v. viola) con Matteo Minotto al basson e percussioni. Il collettivo nato a Londra nel 2011 presenta Öt Minusz Kettò. prodotto unitamente a Caligola Records e presentato da Martin Tesnone. La musica ivi contenuta si rifà alla tradizione ebraica e dei paesi dell’Est (Romania, Russia, Anatolia , Grecia) nonché gitana. Ed in effetti i tredici brani, di cui quattro traditional, hanno in comune uno spirito yiddish errante che li porta a di/vagare fino al jazz. E’ questo elemento di fusione (non diciamo contaminazione) che caratterizza alquanto il gruppo e ne arricchisce il sound di componenti, come l’improvvisazione, che ci impediscono di catalogare il lavoro come etnomusicale sic et simpliciter . Ciò anche se la loro è a  pieno titolo musica klezmer, genere musicale diffusosi anche grazie ad un duraturo revival, così pimpante di strumenti, scoppiettante di note che sprizzano melodia da tutti i pori, fra introversa meditazione e scena estroversa.

Remedio, “Semillas”, Gutenberg Music.
Un “Real book” ispanomericano non potrebbe che annoverare, ab initio, miti iconici come il pajador argentino Atahualpa Yupanqui e la cantatrice cilena Violeta Parra. Hanno provato a inciderne una versione aggiornata i Remedio – Laura Vigilante (v.), David Beltran Soto Chero (chit. cuatro charango), Alberto Zuanon (cb), ospite Sergio Marchesini alla fisa – includendovi  brani dello spagnolo Carlos Cano (Maria la portuguesa), della messicana Natalia Lafourcade (Hasta la raiz), di Manuel Raygada Ballesteros (Mechita), peruviano come Ramòn Ayala (El cosec hero), degli argentini Facundo Cabral (No soy de aqui ni soy de allà) e Natalia Doco (Respira), della statunitense Llhasa de Sela (El desierto), della band uruguagia Onda Vaga (Mambeado, Tataralì), del colombiano Gentil Montana (Porro). L’album Semillas che risulta dalla selezione, un lavoro “accalorato” anche dalla presa diretta della registrazione effettuata live al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova, offre, della terra dei nostri cugini d’America, un “canto para una semilla” anzi semillas lanciate a mano aperta su quel terreno fertile da cui i musicisti hanno raccolto straordinari frutti liric-musicali.  P.S. Di Yupanqui è eseguita “Luna tucumana”. Della Parra “La jardinera”.

Gloria Trapani / Alessandro Del Signore, “InControVoce”, Filibusta Records
Ci sono voci il cui canto abbisogna di un tappeto orchestrale su cui guizzare. E ci sono ugole che, al contrario, si esaltano quando l’ambiente sonoro che le circonda è essenziale, secco, minimale. E’ il caso di Gloria Trapani che, nell’album InControVoce edito da Filibusta, si lascia accompagnare da basso e contrabbasso da Alessandro Del Signore in “clusters” di brani latini  (“Vocè E Linda”, “Mais Clara Mais Crua”), standard di jazz classico e moderno (“Summertime”, “Nature Boy”, “In Walked Bud”),  hits pop e caraibici (“Humane Nature”, “Redemption Song”).  Fra un vocalizzo ed un altro emerge l’attitudine della voce ad elasticizzarsi smorzando, misurando altisonanza ed estensione e nel contempo lavorando di cesello su melismi e fioriture nonché sulla felpatura di timbro e smalto  vocale. Del Signore si rivela dal canto suo jazzista a proprio agio nel ruolo, attento a non infrangere il “muro” del suono nel senso di non spaccare mai con tocchi eccessivi o fuori posto la magia costruita dal duo sul preesistente silenzio.

Pietro Ciancaglini, “Consecutio”, GleAm Records
Si va bene ma la consecutio temporum? Eccolo lì il tallone d’Achille di tanti che scrivono usando male i verbi. In musica, a voler fare un parallelo, la mancata concordanza fra principali e subordinate ha mietuto diverse vittime. Meno male che anche nel jazz ci sono maestri del coordinare  secondo conseguenzialità logico-lineare un discorso musicale “corretto”. Sono, queste, delle considerazioni applicabili al nuovo album del bassista e contrabbassista Pietro Ciancaglini dal titolo Consecutio. Il lavoro, edito GleAM Records, con dieci sue composizioni, è un esempio di come il jazz debba saper coniugare le frasi che “pronuncia”. In tale operazione l’uso del basso elettrico da parte del musicista romano, al posto del contrabbasso, orienta l’approccio stilistico verso raffinate prospettive elettriche di fusion(e) fra hard bop e contemporary senza lasciarsi peraltro stregare da ammiccamenti mainstream. Il risultato più che apprezzabile è anche merito del pianista-tastierista  Pietro Lussu, del batterista Armando Sciommeri e della vocalist Chiara Orlando. Le improvvisazioni, peraltro ben presenti, sono coerenti al tutto, e così le linee melodiche sono installate su armonizzazioni ricche e raffinate. E soprattutto “conseguenti”.

Haiku, Sun Village Records
Haiku, la forma poetica giapponese adottata da Rilke, Eluard e da poeti ermetisti, è anche il gruppo di jazz-funk italiano che licenzia l’ album omonimo per Sun Village Records. Trattasi di un 5et ben assortito, che annovera Federico ‘Privi” Privitera a tromba e piano elettrico, Andrea Salvato a flauto e sinth, Costanza “Skalli” Bortolotti alla chitarra, Vyasa Basili al basso e Alessandro Della Lunga alla batteria, capace di invenzioni che vanno dirette all’ orecchio dunque  nient’affatto ermetiche. Il riferimento al format nipponico al riguardo andrebbe visto come tendenza alla sintesi, alla enunciazione breve non logorroica neanche nelle impro. Certo è che le otto tracce per una mezz’ora di musica del disco si sviluppano vischiosamente, col flauto che “inalbera” pindaricamente le note più alte, le tastiere lì a “strattonare” la sezione ritmica, la tromba pronta ad acute proiezioni liriche, la chitarra protesa ad imbellettare di riverberamenti il tutto.

Nicole Johänntgen, “Labirinth”, Selmabid Records.
Gran bell’album Labirinth della sassofonista Nicole Johänntgen edito da Selmabird Records (Suisa)! Peraltro adatto a più palati musicali compresi quelli che adorano il funky e comunque i generi che abbiano una propulsione perloquale. Affidata in questo caso alla tuba di Jon Hansen ed alle percussioni di David Stauffacher, caricati del compito di dare adeguato sostegno ritmico a dieci brani. Vi svettano, come fra le montagne, gli alto e soprano della leader dalla bella voce blues ascoltabile in “Canyon wind”, il tutto arricchito dall’ospite Victor Hege al sousaphone in “Simplicity Curiosity” e “Straight Blues Baby Straight”. Nel labirinto della jazzista non è difficile muoversi, basta tenere stretto il filo d’Arianna disteso dal sax per essere condotti nel suo mondo dorato, un inno alla gioia del fare musica da proporre Coram populo affinché altri possano a loro volta appropriarsene.

 

Gaetano Duca, “Bugiardi”, Abeat Records
Lounge? No! Semmai è uno smooth dai sapori funk-fusion il jazz che propone il chitarrista Gaetano Duca nell’album Bugiardi (Abeat Records).
Un tocco, il suo, che apparirebbe bensoniano se non fosse per il fraseggio personale della propria “longa manus” esecutiva.
Il jazz “musica bugiarda”, lo diceva un suo vecchio maestro. Ma qui il riferimento si allarga all’epoca in cui viviamo, in cui si coltivano disvalori e illusorietà.
Dunque il titolo del disco va visto come un incipit, un’introduzione a… Anche perché siamo sinceri, le sue 11 “bugie” musicali sono vero jazz, E i Bugiardi, gli altrettanti brani numerati scaletta, non mentono sullo stato di salute di tale genere musicale, che è florido, nonostante tutto, e ne rappresentano una possibile cartina di tornasole. Se si considera poi la componente “etnea” insieme alla napoletanità acquisita dal leader siculo il mix appare “vulcanico”. Il risultato è merito anche dei Friends di Duca: Dario Paolo Picone (k.), Gaetano Diodato (b.), Mario Nasello (cb), Vittorio Riva e Santino Montesano (v.), Nico Roccamo (dr), EnzoTamburello (sax), Filippo/Piscitello (t.), Tonino Piscitello (t.ne).

Amedeo Furfaro

I nostri cd: in forma di Duo

I NOSTRI DISCHI 
In forma di duo  

Che lingua l’italiano! Cambi la doppia consonante in una parola, per esempio duello, simbolo di lotta/contrasto ed eccola diventare duetto che, soprattutto in musica, significa il suo esatto contrario. Il duettare può infatti evocare interscambio, dialogo, accoppiata, rendez-vous, insomma comunicazione duale, frontale, collaterale, duplice, finanche effusiva o derivante da abbinamento, binomio, affiancamento… in musica può rappresentare incontro ravvicinato di tipo a sé stante, sintonizzazione di antenne sensibili non lontane fra due emittenti-riceventi messaggi sonori destinati ad incrociarsi ed a generarne uno nuovo, diverso a seconda di chi cosa dove come quando lo ha prodotto. A seguire ecco alcuni album “in forma di duo” (in qualche caso con ospiti) quale esempio delle tante opportunità che il jazz può offrire al riguardo.

Olivia Trummer-Nicola Angelucci, Dialogue’s Delight, Flying Spark.
I dialoghi, in quanto genere letterario, nascono con Platone. A livello musicale si potrebbe partire dal seicento quando il primo melodramma, offrendo nuovo spazio alla vocalità nell’azione teatrale, allarga la scena al “parlato” con musica. Nel jazz, sin dagli inizi, il dialogo (a due), anche quello strumentale, ha rappresentato una forma primigenia di interplay seppure con un certo grado di variabilità simbiotica. Rientra in quel novero il recente album, marchiato Flying Spark, della coppia formata dalla pianista-vocalist Olivia Trummer e dal batterista Nicola Angelucci, ambedue compositori. Il titolo Dialogue’s Delight è già di per sé una dichiarazione di principio, La gioia e il diletto del dialogo lo si avverte nella garbata apertura affidata ad una “When I Fall In Love” reinterpretata con una modifica del giro di accordi che cambia i connotati al famoso standard di Victor Young, con lo spirito innovativo replicato più avanti in “Lil’ Darlin” di Neal Hefti.  Al disco partecipa in qualità di ospite il fisarmonicista Luciano Biondini in quattro delle tredici tracce totali (French Puppets, Valerio, Inside The Rainbow, Portoferraio).  C’è altresì da sottolineare, della virtuosa tedesca, la bellezza delle liriche da lei scritte. I testi sono riportati nel booklet compreso quello “manifesto” che dà titolo al cd. Di Angelucci spiccano, oltre alle doti di scrittura, la saggia ponderazione delle bacchette, con un tempo che viene “enunciato” in base ai livelli espressivi della partner, “calato” pienamente nella parte che con accorto gioco di ruolo il musicista si è autoassegnato.

Baba Sissoko – Jean-Philippe Rykiel, Paris Bamako Jazz, Caligola
E’ un avventuroso rally sonoro in undici tappe l’album Paris Bamako Jazz,  un “percorso”, su colori Caligola Records, del percussionista Baba Sissoko copilota il pianista francese Jean-Philippe Rykiel (n.b.: i ruoli sono invertibili). La collaborazione artistica, già sperimentata in Griot Jazz, della stessa etichetta discografica, è divenuta liaison caratteriale cementata in amalgama fra percussioni e keyboards, sovrastate dalla voce cavernosa dell’italo/maliano. L’ideale maratona che congiunge Pirenei e Hombori Tondo, Senna e Niger è un itinerario costellato da “stazioni” su cui sono situate icone di familiari ed amici, luoghi e genti, in una visione condivisa che il meeting incornicia di note. E’ un jazz bluesato con spiragli world man mano sempre più accentuati ed accentati nel costruire un assetto d’insieme con substrato di ipnotiche iterazioni e vertiginose circolarità che attutiscono le possibili asprezze di un tracciato divenuto, strada facendo, liscio e fluente.

Greg Lamy- Flavio Boltro, Letting Go, Igloo Records

Difficile prevedere a monte il risultato musicale dell’accostamento fra la tromba di Flavio Boltro e la chitarra dell’americano Greg Lamy. Per riscontrarlo la “prova regina” sta nell’album Letting Go edito da Igloo Records a nome dei due jazzisti a loro volta affiancati dal bassista Gautier Laurent e dal batterista Jean-Marc Robin.  Ne vien fuori un mix che esalta le qualità dei leaders, in particolare la fluidità armonica di Lamy, quasi pianistica nell’accompagnamento, e la abilità nel tirar fuori dal cappello umori rock e dis/sapori jazz “lasciati andare” con una sorta di understatement che ben si amalgama con quel certo senso cool (inteso anche come “di tendenza”) del trombettista. Quest’ultimo, lo diciamo per quanti sono abituati alle ricerche genetiche del Dna artistico, potrebbe far pensare a tratti a Wheeler o Baker per la pensosità che riesce ad imprimere, tramite il movimento delle labbra e delle dita, al proprio strumento. Ma Boltro è Boltro ed è una riconosciuta autorità del nostro trombettismo con colleghi di generazione che si contano sul palmo di una mano. La sua unicità si sposa felicemente con la forte personalità di Lamy nelle dieci tracce del cd in parte a sua firma, in parte di Boltro con la chiusura affidata a Chi tene ‘O mare di Pino Daniele. Un omaggio che consegna e riconferma ancora una volta il cantautore partenopeo al songbook jazzistico.

Duo Improprium, Incontro, Dodicilune Records.
La coppia di musicisti siciliani formata dal flautista Domenico Testai e dal fisarmonicista Maurizio Burzillà, in arte Duo Improprium, presenta l’album Incontro edito da Dodicilune Records. Il lavoro intende dar corpo ad un progetto che vede allineati due strumenti che non ricorrono né si rincorrono spesso nel jazz. I quali, a dire il vero, non si dimostrano affatto “impropri” se messi assieme in quanto uniscono la capacità lirico-tematica del flauto a quella di strutturazione armonica e ritmica della fisa. Già nell’incipit del disco, “Tango for Cinzia”, appaiono più che “consoni” nella “proprietà” di linguaggio musicale sia melodica che improvvisativa (un’altra figura femminile affiora nell’altro brano “Luiza”). Il loro approccio classico si evidenzia appieno in “Suite n. 1” e in “Allegretto Fugato” così come il loro “spanish tinge” si rivela senza veli nell’andante “Badambò”. Nel tarantellato “Improprium” è la vena popolare a rigonfiarsi di echi etnici ed è forse questo il momento più “proprium” che caratterizza la particolarità del duo in questione.

B.I.T., Equilibrismi, Filibusta Records.
Il duo B.I.T. al secolo la sassofonista Danielle Di Majo e la pianista Manuela Pasqui  licenzia, per i tipi di Filibusta Records, Equilibrismi, album che segue di un biennio Come Again, della stessa label. In effetti trattasi di un “duo plus…” poiché in alcune tracce sono presenti la vocalist Antonella Vitale e il sassofonista Giancarlo Maurino di cui sono eseguiti due brani, “Meteo” e “Um Abraço”.  Si tratta di un lavoro estremamente lirico e bilanciato, nel solco del precedente. Qui la Pasqui sigla cinque composizioni su otto a partire dalla prima, “Green Tara”, su ritmo “(s)latin” fino a “For Kenny” presente anche sulla rete per chi volesse “visionarla”. Un pianismo colto e sensibile, il suo, che stimola la Di Majo nel lib(e)rare il suono, oltre che a soprano ed alto, anche al flauto, come in “Jeanne del Belleville”. La musica del duo, avvinta come in “Edera”,  in “L’equilibrista” pare camminare su fibre filiformi, in bilico su un centro di gravità che le consente di procedere sulla corda armonica tesa ancora per più “nodi”,  fino a quello conclusivo, “Hand Luggage”, autrice la Di Majo.

Francesca Leone- Guido Di Leone, Historia do samba, Abeat Records
Si vabbè la festa il carnevale ma il samba ha significato in Brasile storicamente “la voce di chi era stato sempre zittito dal suo status sociale, un modo per affermarsi nella società” come scrive Lisa Shaw.  C’è dunque un aspetto politico e sociale in tale forma musicale che ha radicata origine nella stessa origine africana e che non va sottaciuto.  Ed è un fatto che il samba, a livello musicale, con la sua speciale divisione ritmica che spinge alla danza, sia stato ispiratore di musiche di grande suggestione.  Ce ne danno un saggio, in un prezioso Cirannino formato cd edito da Abeat Recors, la vocalist Francesca Leone e il chitarrista Guido Di Leone. Historia do Samba è una “summa” di samba e musica carioca allargata cioè fino a choro e bossa, scritta da autori prestigiosi come Lyra, Bonfa, Jobim, Gil, Madi, Hernàndez, Menescal, Valle compresi i nostri Rota, Calvi, i medesimi due interpreti in veste di compositori.  Il disco, che vanta come ospite l’Oneiros String Quartet, annovera anche dei “trapianti” in chiave “sambista” di hits quali “La vie en rose”, “Cerasella”, “Everything happens to me”, in quanto, volere o volare, tutto si può sambare quando il samba si innesta nel jazz.

Stefano Onorati & Marco Tamburini, East of the Moon,   Caligola Records
L’album East of the Moon, è firmato da Stefano Onorati e Marco Tamburini. Il che già di per sé, essendo il disco – marchiato ancora e meritoriamente da Caligola Records – cofirmato dal compianto trombettista cesenate, rappresenta un evento a livello discografico. Vede la luce un lavoro “notturno” a suo tempo registrato durante le ore del buio quasi a voler iperscrutare la luna ed a riceverne inflessioni da riflettere nel suono. La registrazione risale a quando il trio elettrico Three Lover Colours stava lavorando alla sonorizzazione di “Le voyage dans la Lune”,- episodio inserito in “La magia del cinema” – sia in “Sangue e Arena”, dvd usciti in edicola per “L’Espresso” nella primavera del 2010. In quell’occasione peraltro non era presente il batterista del trio Stefano Paolini. Oggi quella musica si riconferma di lunare astralità nel descrivere il lato orientale di quel pianeta. Pare a volte eclissarsi quindi riemergere per successivamente rituffarsi nell’oscurità. Sono cinque le tracce – “Cantico”, “Lunar Eclipse”, “Black and White”, “East of the Moon”, “As It Was”, in cui la coppia tastiere-tromba è libera di improvvisare, trascinando e lasciandosi trascinare da quei chiarori che ispirarono Beethoven e Glenn Miller e dalla Moon che vari musicisti hanno visto blue o dark a seconda della prospettiva, anzitutto stilistica. Quella di Onorati e Tamburini avvolge e coinvolge chi alla loro musica si rivolge.

Dario Savino Doronzo- Pietro Gallo, Reimagining Aria, Digressione Music
Aprire l’opera come una scatoletta di tonno per estrarne il cuore melodico
principale, l’aria. Nell’album “Reimagining Aria” (Digressione Music) il flicorno soprano di Dario Savino Doronzo e il pianoforte di Pietro Gallo puntano la traiettoria su temi melodici espurgandoli di orpelli retorici, quelli ritenuti inutili, tenendoli peraltro ancorati alle rispettive basi armoniche. Felice la scelta per il repertorio   di   arie   di   compositori   sei/settecenteschi   meno   frequentati   dai concertisti come Antonio Cesti, Antonio Caldara, Francesco Cavalli unitamente ad   altri   più   gettonati   dai   concertisti   come   Alessandro   Scarlatti,   Benedetto Marcello,   Nicola   Porpora,   Giulio   Caccini,   per   un   totale   di   otto   arie   totali contenute   nell’album   arricchito   dalla   presenza   del   clarinettista  Gabriele Mirabassi in “Sebben Crudele” (Caldara) , “O cessate di piagarmi” (Scarlatti), “Dall’amor più sventurato” (Porpora). Lo stampo antico delle atmosfere viene velato dal piglio esecutivo antibarocco e da ricorrenti sonorità jazz. Ne vien fuori, ancora una volta dopo “Reimagining Opera” del 2020 (quando l’ospite era Michel Godard al serpentone), un lavoro originale, audace in “Quella fiamma che m’accende” di Benedetto Marcello che ritrae “una habanera che riecheggia   paesaggi   e   culture   lontane   attraverso   calde   melodie impressionistiche” e dall’afflato romantico in “Tu c’hai le penne, amor” di Giulio   Caccini.   Al   cui “recitativo accompagnato” si   potrebbe   associare idealmente lo   stile  del  duo   (plus   guest)   che   reimmagina   l’aria   d’opera   in quanto   intensa   esposizione   lirico-strumentale   su   una   solida   struttura   di accordi, ma con aggiunta di elementi reinterpretativi che ripensano spunti tratti da mezzo millennio di storia della musica.

Amedeo Furfaro

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

I nostri cd: il jazz, musica d’insiemi

Il jazz, musica d’insiemi, ma forse è meglio dire insieme per non creare ambigue assonanze con … l’insiemistica. Insieme di creatività, talento, “possesso” dello strumento, istantaneità interpretativa, capacità relazionale, qualità che sono a loro volta un “insieme” di altri elementi. Nelle note seguenti la musica d’insieme presa ad oggetto è quella di una rosa dei nuovi album incisi da organici più o meno infoltiti. Sono progetti diversi fra di loro, inoltre le formazioni cambiano a seconda di strumentisti e strumenti. Altra differenza, di tipo lessicale, è fra collettivi ed ensemble, i  primi più “paritari” nella relazione che avviene collettiva/mente, le seconde con una netta prevalenza della figura di bandleader, non il conductor autoritario della felliniana “Prova d’orchestra” ma un coach che “organizza” il suono indirizzandone le componenti verso un dato obiettivo. Nel jazz i maggiori spazi concessi all’improvvisazione rispetto ad altri generi musicali fanno si che chi “coordina” debba tenere sempre stretto il timone e sott’occhio la bussola. Come il capitano di una nave che riesce a domare in ogni frangente i flutti marini.

Gerardo Pepe – “Orchestrando piano” – Caligola Records.
Le composizioni di grandi pianisti jazz hanno dell’ineffabile negli iter creativi. Su quelli compositivi, non afferenti al solo inconscio, ci si può peraltro esprimere anche in rapporto, più o meno stretto, con lo stile pianistico. Gerardo Pepe, in Orchestrando piano (Caligola Records), testando l’orchestrabilità di sei brani scritti da altrettanti maestri del piano, ne ha perscrutato l’attitudine ad essere eseguite da un organico di piccola orchestra di dodici musicisti sulla base di suoi riarrangiamenti. “Nigerian Marketplace” di Oscar Peterson è il primo pezzo ad esser stato selezionato per la band comprendente Andrea Salvato (fl.), Daniele D’Alessandro (cl.), Federico Califano (alto s.), Giacomo Casadio (t. sax), Francesco Milone (b.sax), Antonello Del Sordo e Matteo Pontegavelli (tr.), Roberto Solimando (tr.ne), Saverio Zura (guit.), Filippo Galbiati (p.), Filippo Cassanelli (cb.) e Dario Rossi (dr.). A seguire “ We See” di Monk autore replicato in “Ask Me Now”. Va detto che finalità dichiarata di questo lavoro d’esordio del jazzista gravinese è il rendere omaggio ad alcuni grandi pianisti afroamericani proponendone una personale rilettura con sul leggio gli spartiti di  ”Song For My Father” di Horace Silver e “Passion Dance” di Alfred McCoy Tyner. Nello schieramento orchestrale da lui assemblato il pianoforte comprime il proprio protagonismo pur rimanendone perno essenziale secondo cooordinate rispettate anche in “Remembering Charles”, a sua firma, che chiude la tracklist a ridosso di “Three Bags Full” di Hancock. Non solo dunque una sinopsi tratta dal Real Book pianistico per organici allargati; e non un mero make up e neanche uno stravolgente trattamento chirurgico bensì una reinterpretazione coerente con i modelli, a dimostrazione di quanta potenzialità possiedano tuttora alcune gemme  di capiscuola del piano jazz moderno e contemporaneo.

Pietro Pancella Collective, “Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1” Abeat Records
Pietro Pancella Collective licenzia per Abeat Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1. Un progetto ambizioso questo del contrabbassista abruzzese,  figlio d’arte del pianista Tony Pancella,  se si pensa che il primo brano in tracklist, “Black Narcissus”,  venne inciso dal sassofonista Joe Henderson nel ‘77 con figure iconiche come Kuhn al piano, Jenny-Clark al basso, DeJohnette ed Humair alla batteria! Ma il ricercare nuove skyline musicali fa parte del bagaglio di un jazzista che si rispetti.  E poi se i partners si chiamano Giulio Gentile (pf), Christian Mascetta (guit.), Manuel Caliumi (alto) e Michele Santoleri (dr.) allora il salto non sarà mai più lungo della gamba. Il 5et si è prima impadronito, a seguito di lungo rodaggio, delle partiture  hendersoniane. Quindi ha ricongiunto i moduli del prefabbricato sulle stesse fondamenta sagomandoli per mezzo di arrangiamenti, assegnati secondo l’abbinamento Pancella-Henderson, Gentile-Shorter, Mascetta-Coltrane.  Tale procedere per assimilazione-architettura si ripete anche nei due brani di Shorter, “Witch Hunt” e “Nefertiti”, quest’ultima  registrata per il quintetto di Miles Davis, composizione fra le più eseguite fra quelle esposte nel cd.  Analogamente dicasi per le coltraniane “Lonnie’s Lament” e “Resolution-Pursuance” (da A Love Supreme).  Il gran lavorio sulle punte di chitarra e sax ha prodotto risultati interessanti, vedansi assoli e “strappi” che gli stessi intessono con piano e ritmica in “Afro Centric”, tratto da “Power To The People” di Henderson. La triarchia nera ha dettato stilemi jazzistici che il Collective ha fatto propri senza l’assillo di semplificare il complesso né di complicare il semplice.  Con lo scopo dichiarato di rendere un omaggio che non fosse solo richiamo, citazione o mero strizzare l’occhio agli originali bensì riformulazione aggiornata di un linguaggio musicale che ” trascende le parole” (Coltrane).

Marco Luparia, Masnä, L’autre collectif.
Il batterista Marco Luparia presenta in Masnä (L’autre collectif) un lavoro discografico in sestetto  con  Clement Merienne al pianoforte, piano preparato (e Bontempi), Sol Lèna-Schroll all’alto sax, Hector Lèna-Schroll alla tromba, Federico Calcagno ai clarinetti e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso.  La radice etimologica dal dialetto piemontese di Masnä è il termine bimbo. Si spiegano così le foto infantili sulla cover di questo album grondante nostalgia ideato nel quieto borgo di San Martino di Rosignano, ai piedi delle Alpi, al di qua dalla Savoia francese. Un habitat bucolico che ha ingenerato la ricerca del tempo perduto attraverso brusii fruscii rumeurs dimenticati. Essi tornano a rivivere rielaborati nell’incontro con altri musicisti con cui esplorare i canoni, da un punto di vista radicale, di antiche tradizioni quali il gagaku giapponese, il gamelan indonesiano, la musica carnatica indiana e quella sacra europea. Per una musica a/formale, di forme/non-forme, in cui la ricerca affida all’improvvisazione il ruolo-guida di riconnessione dei frammenti di un passato che gli anni hanno decostruito con il loro trascorrere. Le cinque composizioni su sette (Flock, Knup, Rapid Eye Movement, Teaper, Harm) dello stesso Luparia oltre “Etude  Campanaire” di Lèna-Schroll e “Wuh” di Calcagno, sono il frutto di un “fucina” musicale che, sotto il segno della temporalità  divisa da un ritmo spesso “concreto”, diventa  narreme di vissuto, placenta in cui nuotano i sogni che il soggetto narrante  interpreta.

Massimo Pinca – “Singing Rhythms, Pulsin Voices” – Dodicilune Records.

E’ un grand ensemble di nove elementi quello che il contrabbassista Massimo Pinca ha riunito per l’album Singing Rhythms, Pulsing Voices, prodotto da Dodicilune Records, label leccese come lui. Il lavoro, concepito nel mezzo della pandemia, è stato registrato tramite sovraincisioni tranne che per il Geneva Brass,  quintetto di ottoni che ha inciso direttamente in studio. Alle note del gruppo vanno assommate quelle del  4et  con Nicola Masson ai sax tenore e soprano, Gregor Fticar al rhodes, Paolo Orlandi alla batteria oltre a Pinca che si è alternato a basso elettrico contrabbasso e rhodes. Il collante principale delle due formazioni è dato dalla “voce pulsante”  di una scrittura che ha intessuto trame sonore “tono su tono”, non nel senso di tonalità, ma di coerenza timbrica e cromatica degli strati compositivi con gli spazi di libertà espressiva. Pinca, giunto a quest’esperienza overdubbing dopo il “solo” di Fragments (NBB Records 2021), è riuscito, in nove brani per un totale di un quarto d’ora di musica, nell’opera di incarnare un sound  naturale  anche ad un ascolto  pan  pot,  grazie anche all’apporto di musicisti che ne hanno condiviso l’approccio classico-jazz “ ed hanno inserito le loro meravigliose  tessere in un mosaico ad essi invisibile”. Il disco è stato realizzato con il contributo del dipartimento di cultura di Ginevra, città adottiva di Pinca.  Del Geneva Brass fanno parte  Baptiste Berlaud e Lionel Walter (tr. fl.), Cristophe Sturzenegger (horn), David Rey (tr.ne), Eric Rey (tuba).

Bertazzo/Francesconi  New Project Orchestra – “Playing  With Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen” – Caligola Records.                   
Non hanno più “l’acre odore di sigaretta” le canzoni di Jimmy van Heusen, “latecomer”, secondo Alec Wilder, affermatosi cioè più avanti rispetto ai primi grandi songwriter del 900, anche per ragioni anagrafiche.  All’autore della musica di “Here’s That Rainy Day”, “All The Way”,  “Darn That Dream” sono  state nel tempo dedicate diverse compilation fra cui quella del Reader’s Digest, in cui è partner di scrittura Johnny Burke (Timeless Favorites: Sunday Monday or Always. The Songs of Burke & Van Heusen), “blocco” che si affianca all’altro relativo alla collaborazione con il lyricist Sammy Cahn, a proposito del quale va segnalato almeno lo storico l.p. Emi di Frank Sinatra del ’91 (Sinatra Sings the Songs of Van Heusen & Cahn).   La sua discografia si arricchisce oggi di un titolo italiano,  Playing with Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen, di Francesca Bertazzo  Hart e Michele Francesconi  New Project Orchestra, edito da Caligola Records. Un lavoro dal giusto groove in cui ci si sposta a piacimento dall’atmosfera metropolitana alla traditional, dal soffuso al ritmicamente portante. Gli arrangiamenti, firmati dal pianista-direttore Michele Francesconi e dalla chitarrista-vocalist  Francesca  Bertazzo Hart, vengono dipanati con duttilità dai musicisti:  Trettel, tr./ Grata, tr.ne. /Menato, a.sax-cl. / Zeni, t.sax. / Beberi, t.sax b. cl. / Pilotto cb.b. / oltre al batterista Mauro Beggio in qualità di ospite. Focus dunque puntato su una categoria non certo sopravvalutata quale quella degli autori di song, nello specifico su un autore che brilla in melodiosità specie sui tempi pari, eccelle per sofisticate misure armoniche, spicca in ritmicità.  Caratteristiche che il disco “illustra” in undici brani, individuati fra le varie centinaia a firma di siffatto “Grande Artigiano” oltre a un paio scritti dalla leader, eseguiti esaltandone al meglio la “jazzabilità”.

Mario Rosini / Duni Jazz Choir- “Wavin’ Time” –  Abeat Records.
Wavin’ Time è l’album che Abeat pubblica con Mario Rosini  e il Duni Jazz Choir.  Dove il DJC, nato nel 2015 nelle classi del conservatorio Duni di Matera, con sezione soprani (Ceo/Rotunni/Lombardi), contralto  (Colangelo/ Razem/ Carrieri) e tenori (Schiavone/Giammarelli) non canta a cappella. Sottostanno infatti ai cori chitarra (Ruggiero), basso (Laviero), batteria (Parente), percussioni (Lampugnari, Ciaravella), sax (Menzella), trombe (Santoruvo, Todisco), trombone (Fallacara), flauto (Di Caterino) assortiti a seconda delle situazioni, spazianti dal cool fino al pop internazionale, per come delineate dal pianista nonché direttore ed arrangiatore Rosini.  Varia la tracklist di cover ed original.  Oltre a “A New Sunrise” in cui appare la firma di Rosini così come in “Ti sento così (per Sofia)” e “Wavin’ Time”, vi si ritrova una convincente versione corale di “Giant Steps” (un Coltrane vocalizzato è rintracciabile già in Lambert Hendrix & Bavan).  C’è poi “Four Brothers” di Giuffre, e si è in pieno vocalese stile Manhattan Transfer; ed ancora “Quando quando quando”, hit straincisa da vocalist che vanno da Humperdick  alla  Furtado. A  seguire un tuffo nel Motown con un paio di brani di Stevie Wonder – “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” e “Love Collision” –  ed il gustoso paragrafo italiano.  Quest’ultimo comprende,  oltre al citato successo di Tony Renis, “E la chiamano estate” di Bruno Martino e Franco Califano ed “I cieli in una stanza” dove si celebra il “matrimonio” fra l’evergreen di Gino Paoli e il soundtrack di  “Metti, una sera a cena” di Morricone con un arrangiamento che interseca sottilmente i due temi.  Da rimarcare in positivo “Black or White” di Michael Jackson (con B. Bottrell) di cui Mario Crescenzo dei Neri per Caso, nelle note di copertina, sottolinea l’iniziale “sentore progressive” che richiama verso il finale “la “salsa brava” della storica Fania All-Stars (la Motown latino-americana della musica Salsa)”.  Il disco reca il logo del Premio 2022 di “La Musica di Sofia”, assegnato da Guido Di Leone per conto della famiglia Bratta.

Amedeo Furfaro

Orpheus Award 2023: i vincitori del prestigioso premio dedicato al mondo della fisarmonica e della famiglia delle ance

Anche per quest’anno operazione compiuta e con pieno successo.
Organizzato dall’Associazione Promozione Arte, si è chiuso l’ORPHEUS AWARD (Premio della Critica per produzioni di fisarmonica e tutta la famiglia delle ance, di cui il nostro direttore Gerlando Gatto è direttore artistico) rivolta ad artisti italiani. Occorre sottolineare come anche l’edizione di quest’anno abbia pienamente confermato le scelte degli organizzatori compiute nel recente passato. Quindi produzioni per lo più digitali e non coerenti con le canoniche durate dei CD: si parla di SINGOLI, di EP o brani unici ma di lunga durata.
Stante l’elevato numero di artisti partecipanti, evidentemente il nuovo regolamento è stato apprezzato dai musicisti; lo stesso dicasi per i numerosi critici che hanno partecipato all’evento, esprimendo tre preferenze per ogni sezione – classica, jazz, world – cui si affianca il premio alla carriera.

Quest’ultimo è stato conferito ad una vera e propria icona della fisarmonica: Wolmer Beltrami. Nato a Breda Cisoni il 23 maggio 1922, da ‘ragazzo prodigio’ qual era, Wolmer già a  16 anni aveva la sua orchestra con cui si esibì per molti mesi in alcuni grandi alberghi. Nel 1947, si costituì il celebre duo Kramer-Beltrami mentre con l’avvento della televisione in Italia formò il Trio con le sorelle Luisa e Leda, con le quali negli anni ’50 effettuò alcune tournée in Medio Oriente. Nel 1960 ebbe un importante riconoscimento: l'”Oscar Mondiale della Fisarmonica”.
Straordinario virtuoso, Beltrami è giustamente ricordato anche come compositore immaginifico: tra le sue “creature” da citare “Il treno”, “Carovana negra”, “Squadrone bianco”.

E veniamo adesso alla tre sezioni attraverso cui si articola l’Orpheus.

Per il jazz sono risultati vincitori Simone Zanchini e Gabriele Mirabassi con “Il Gatto e la Volpe” Egea Records.
Per la classica Marco Gemelli con ‘El Tiburon’ Ars Spoletium Publishing&Recording; infine per la world/popular, ancora un duo costituito da Flaviano Braga e Simone Mauri con ‘Ma però’ della Caligola Records.
Va ricordato come la manifestazione non sarebbe stata possibile senza l’impegno e l’abnegazione di un piccolo ma efficiente staff che oltre al già citato direttore artistico, comprende Renzo Ruggieri presidente dell’APA e vero motore della manifestazione, affiancato da Giuseppe Di Falco e Andrea Di Giacomo ambedue segretari.
A vostra disposizione il video della serata in cui, per l’appunto, sono stati comunicati i risultati delle segnalazioni operate dai critici.

Marina Tuni – Redazione APdJ

LE BAND DEI QUATTRO

Il 4et, nel jazz, è una formazione intermedia fra solisti/ combo e gruppi più nutriti nonché ensembles ed orchestre. Una “centralità” che garantisce sia snellezza che ricchezza di suoni oltre comunque ad una completezza che dipende dalla gamma strumentale e dalle caratteristiche dei musicisti.  A seguire segnaliamo una sestina di nuovi dischi di “band dei quattro” dai quali emerge varietà di proposte e combinazioni. Il 4 non sarà un numero perfetto ma a guardare la storia del jazz verrebbe da pensare che certi postulati sulla presunta imperfezione sono … imperfetti. Oltretutto il quattro in numerologia simboleggia realtà concretezza solidità nonché la precisione del quadrato e il senso del moto che dà il quadrilatero; ed ancora i quattro punti cardinali est ovest nord sud i quali orientano tanto jazz in circolazione.

Del Piano/Olivieri/Mazza/Marini, Double 3, Caligola Records

L’album Double 3 (Caligola) è a nome di quattro musicisti in quanto trattasi per così dire di un disco-matrioska. Dalla quaterna di jazzisti che vi concorrono infatti vengon fuori due trii avant-garde dalla stessa asse (più che sezione) ritmica, con Roberto Del Piano al basso elettrico e Alberto Olivieri alla batteria nonché  all’ alto e voce Cristina Mazza nei brani “Cane di sabbia”, “Forgotten Names”, “Beauty is A Rare Thingdi Ornette Coleman e “Double Moon”nonché il baritono/flauto/piano di Bruno Marini in “Endemic”, “Yogi”, “Brazz!”, “Flute and Cats”, “Sunset  Enigma”. Nelle esecuzioni non si avverte più di tanto l’alternanza dei cambi che non vanno a mutare l’ossatura dell’insieme. C’è poi che le composizioni sono firmate da chi vi partecipa. Verrebbe quasi da pensare che tre più tre potrebbe fare quattro se non ci fosse la matematica ad ostacolarne l’addizione e l’opinione. O più semplicemente che non c’è 3 senza 4et in questo lavoro di frammischi fra volute (in)esattezze infiorate dagli sminuzzamenti metrici della batteria e dai voli di calabrone del baritono, dalle acrobazie del  basso e dai volteggi vocali della sassofonista.

Canova Trio feat. Fulvio Sigurtà, Agata, Filibusta Records
Agata, pietra della famiglia dei quarzi, è l’azzeccato nome di battesimo scelto per l’album del Canova Trio. Secondo la pianista e vocalist Elisa Marangon tale minerale ha qualità vicine alla musica grazie a geometrie e tonalità che spaziano dal bianco al verde, dal muschiato al pizzo blu.  E’ così pensando che lei leviga un iridato e irradiato intaglio jazzistico assieme alla bassista Roberta Brighi ed al batterista Massimiliano Salina. Al trio si aggiunge talora il trombettista Fulvio Sigurtà in qualità di ospite, apprezzato da chi scrive in “Circles in the Sand” di Svensson e Castle. Altri pezzi – “Very Early” di Bill Evans e “Footprints” di Shorter – sono eseguiti utilizzando, della tavolozza timbrica, le marcature più calde e brillanti. Due composizioni di Jobim – “Chovendo na roseira” eFalando de Amor” –  valorizzano la trasparenza della voce della Marangon che dà il massimo, a livello di scrittura, in “Les Trois Soeurs à la plage”, uno degli originals (su undici complessivi) di cui quattro da lei firmati e due cofirmati con i colleghi del trio (plus guest). La folgorazione deriva dal dipinto “Las Tres Hermanas en la playa” del pittore spagnolo Joachim Sorolla, impressionista dal tratto luminista. Per una musica che, nel riprodurne i lineamenti,  si insinua, nei contrasti ombra-luce, en plein air.

Giovanni Benvenuti , An Hour Of Existence, AMP Music & Records
Il tenorista senese Giovanni Benvenuti nell’album An Hour Of Existence (AMP) coinvolge la propria band composta di altri tre musicisti: il pianista tedesco Christian Pabst, il contrabbassista Francesco Pierotti e il batterista Dario Rossi. Il lavoro discografico si rifà ad un racconto di fantascienza in cui uno dei protagonisti, non più in vita, si materializza per un’ora all’anno. In quel breve lasso di tempo deve scegliere come muoversi, se viverlo semplicemente o imprimervi in qualche modo una svolta.  Un po’ come nel film “Momenti di trascurabile felicità” di Daniele Luchetti in cui Pif torna sulla terra, dal paradiso, per poco più di un’ora, per risolvere le pendenze sospese ovvero riassaporare  momenti  felici. Dal canto suo Benvenuti, in un’ora circa di musica, si gioca bene le carte a disposizione. I sette brani originati da questa visione fra new age e science fiction, per quanto immaginifici siano – come “King’s Mustache” o “General Krottendorf” – e per quanto risentano di influssi extrajazzistici – le scale arabeggianti del n.5, quello che dà titolo al cd – si muovono in un contemporary che malassa materiali vari dallo svolgimento ritmico mosso e plurilineare nella modulazione melodica del sax. Il disco avvicina storia e fantascienza sul terreno jazzistico per come già emerso nel precedente album Paolina and The Android, accolto favorevolmente dalla critica. Lì due androidi avveravano il mancato incontro di un paio di secoli prima fra il poeta Keats e la Bonaparte. Nel nuovo album i personaggi sono vari come la narrazione. Così come la musica del 4et.

ABQuartet, Do Ut Des, Red & Blue.
Guido D’Arezzo, dopo aver inventato attorno al Mille la moderna notazione musicale, nell’assegnare i nomi alle note, non avrebbe immaginato che nel 1972 un gruppo di rock progressivo come i New Trolls avrebbe chiamato un proprio l.p. Ut, termine che, oltre all’avverbio affinché, indica il Do nell’ars musica.  Ancor meno il teorico avrebbe pensato che, nel terzo millennio, un quartetto jazz come l’ABQuartet avrebbe approntato un album con sostrato latino (non latin, si badi bene) intitolandolo Do Ut Des per indicare non tanto il significato comune di interscambio bensì il Do Do Re bemolle (traduzione del detto in gradi della scala temperata in base alla denominazione latino-germanica). La frase, volendo, potrebbe riferirsi al rapporto fra i musicisti che “donano” invenzioni allo spettatore che li ricambia con il proprio (ap)plauso. Od anche potrebbe simboleggiare il “contratto” che i musicisti stipulano nel formare un gruppo o addirittura rimandare ad un’idea di interplay come “obbligazione” e cioè musica praticata in forma pattizia in cui ogni strumento “dà il la” ad un altro aspettando una risposta per generare nell’insieme un’armonia complessiva.  Il pianista Antonio Bonazzo, il clarinettista Francesco Chiapperini, il contrabbassista Cristiano Da Ros e il batterista/percussionista Fabrizio Carriero hanno realizzato sette brani circondati da tale aura medievale già a partire da titoli come “Ut Queant Laxis” dove la prima sillaba Ut è la prima delle note di un metà verso (emistichio, non metaverso) seguita da Resonare Fibris/Mira gestorum/Famili tuorum/Solve polluti/ Labii reatum/Sancte/Iohannes (Ut/Re/Mi/Fa/Sol/La/S/I). Da altri brani come “Lux Originise “Dies Irae” si percepiscono i frequenti cambi di registro acustico e di gamma modale che i “trovieri” adattano,  girellando fra l’alleluiatico ed il melismatico, compenetrando, in tal guisa, la storia della musica  all’attuale vita artistica “mondana”.

Zhu Quartet, GINKGO, Workin’ Label.
Il ricordo di una pianta di ginkgo biloba che Alberto Zuanon, contrabbassista, osserva oramai cresciuta, nella stagione dell’autunno, fa da stimolo iniziale all’album Ginkgo, inciso per Workin’ Label con lo Zhu Quartet: Michele Polga, saxtenorista, Paolo Vianello, pianista, Stefano Cosi, batterista e ovviamente il leader contrabbassista.  Piant’antica, la ginkgo biloba, che ha infuso di sé il title-track del cd, brano dalla forma-canzone che sa espandere un’idea di serenità. In “Creative Process” la mente dell’Autore (e quella degli Interpreti) procede, nel ristrutturare dati e impulsi di partenza, a trasformarli in flusso sonoro. “Sabato pomeriggio con Tommaso” è composizione delicata dedicata ad un allievo che nel confronto col maestro rivela tutta la propria curiosità e devozione. “Agitato” guarda al navigante che affronta il mare tempestoso, il che in musica è rappresentato dagli strumenti che alzano il livello e l’altezza delle proprie onde sonore, amplificando certi contrasti ritmica-piano/sax già ascoltati in “Costante”. Il più placido “2022” è un personalissimo “Le Quattro Stagioni” in sunto jazz impresse nell’anno che è appena tramontato. Chiudono la decade di titoli il nostalgico “Altri tempi”, l’atrabile “ Prima del sonno” e “Laguna”, ispirato dalla visione di quella veneta.   Un lavoro, insomma, che si annuncia invitante già a partire dall’”Intro”, meritevole di essere diffuso anche in circùiti, ove attivati, di “disc/crossing”.

Marco Vavassori feat. Lincetto/Smiderle/Uliana,  Walking with Bob, Caligola Records.
Buone nuove dal North East jazzistico italiano. Ed è ancora Caligola Records a consegnarci novità discografiche che denotano l’ indubbia vitalità musicale in quell’area. E’ la volta del contrabbassista-compositore jesolano Marco Vavassori, con alle spalle brillanti studi al Conservatorio di Rovigo, che pubblica Walking with Bob, il suo primo album da leader.
Accanto a lui ben figurano tre musicisti legati da solido legame di amicizia e cioè il clarinettista Michele Uliana, il pianista Alberto Lincetto e il batterista Enrico Smiderle. Un quartetto, dunque, che fa già le dovute presentazioni con il primo degli otto brani in tracklist, il lirico “Hocking”, mettendo in scena un sound  che impasta idee permeate di solare cantabilità. Il successivo “Sognando” ma ancor più l’alveo mediterraneo di “Shukran” e quello balcanico in “Kurkuma”, lasciano trasparire una certa sensibilità verso le arie folk.  “Hare” si caratterizza perché a un certo punto contrabbasso e piano si dispongono a sezione “ritmica” nel supportare batteria e clarinetto mentre “InContra” ha  tema ed impro insistenti su un giro di accordi iterante e crescente in intensità graduale nei circa otto e passa minuti di musica fiondante. In “J. Be Blues” il gruppo pare indossare un visore virtuale che guarda al passato, al tempo di Jimmy Blanton, antesignano di tanti contrabbassisti. Il conclusivo “Francesco’s Smile” ha risvolti nordeste, per rimanere al termine geografico già nominato.  Insomma un walking, quello del contrabbasso, verso gli itinerari sonori più svariati ed imprevedibili.

Amedeo Furfaro