Christian McBride: la mia passione è suonare il contrabbasso

Nell’odierna realtà jazzistica se c’è un personaggio che riesce a racchiudere tutte quelle qualità che fanno di un buon musicista un eccezionale artista questi è sicuramente Christian McBride. Strumentista portentoso, compositore e arrangiatore di sicuro livello, didatta coscienzioso (con la moglie, la cantante Melissa Walker, diplomata anche come educatrice, crea a Montclair, New Jersey, una scuola la Jazz house Kids), sembra mai accontentarsi e così nel marzo 2016 viene nominato direttore artistico del Newport Jazz Festival. Il tutto condito da una serie di riconoscimenti ufficiali tra cui ben otto Grammy.

Originario di Filadelfia, classe 1972, ha un aspetto imponente: alto, massiccio, con una bella voce profonda e leggermente roca all’apparenza non sembra certo il tipo con cui vorresti avere qualche incontro ravvicinato del terzo tipo. Ma quando lo incontri e gli parli, l’impressione cambia radicalmente: Christian è persona squisita, gentile, comprensivo, che parla volentieri e non elude alcuna domanda.

Cominciamo da un fatto che mi incuriosisce parecchio. Lei è molto giovane eppure ha già fatto davvero tante, tante cose. Tournée, didattica, produzione, composizione, direzione di big band, tecnica straordinaria sullo strumento…e potrei continuare. Cosa preferisce fare?
“Innanzitutto vorrei precisare che non sono così giovane. Ad oggi sono cinquant’anni. Quel che ho fatto non è stato tutto pianificato, è venuto così dove mi ha portato la mia anima. Quando sono andato a vivere a New York per la prima volta, trentadue anni fa, volevo solo suonare con i miei eroi e molto di questo è successo. Per quanto concerne ciò che è venuto dopo, ho solo proseguito lungo il cammino. Comunque tornando alla sua domanda preferisco suonare il basso…e non sto scherzando. Da sempre suonare il contrabbasso è la mia passione, ciò che realmente mi riempie il cuore di gioia. Io davvero mi auguro che tutti i musicisti abbiano queste stesse possibilità, di sentirsi felici quando suonano il proprio strumento”.

Data questa sua passione per il contrabbasso, lei preferisce suonarlo nell’ambito di un’orchestra o di un combo?
“Per me è assolutamente lo stesso. Metto lo stesso impegno, la stessa passione e mi diverto allo stesso modo sia se suono all’interno di una big band, sia che mi trovo a far parte di un trio o un quartetto”.

Cosa ricorda di una delle sue prime collaborazioni, quella con Bobby Watson parecchi anni fa, se non sbaglio nel 1989?
“Ero alle primissime settimane di college quando qualcuno mi ha detto ‘ehi c’è uno strano tipo che ti sta cercando, ma non sappiamo il suo nome’. Così me ne sono andato a seguire la successiva lezione ma altri studenti mi hanno ripetuto che qualcuno mi stava cercando. Così quando sono andato a pranzo, seduto ad un tavolo leggendo un giornale l’ho visto: era Bobby Watson che già conoscevo. Appena sono entrato e l’ho visto, l’ho salutato calorosamente e lui mi ha risposto: ‘ehi, ti stavo cercando; che fai questo fine settimana? Ho un regalo per te. Suoniamo al Birdland con James Williams che suona il piano, Victor Lewis alla batteria”. Cosa ricordo di questo episodio? Che ero molto, molto spaventato. Quel pomeriggio abbiamo provato e poi è andato tutto bene. Sono rimasto nella band di Bobby Watson per due anni”

Così poco? Io avevo letto che avevate suonato assieme per più tempo…
“No, con la stessa band sono rimasto due anni. Poi, sai come succede, se uno si fa un nome finisce con il suonare con un sacco di gente. E ovviamente a me è capitato anche in seguito di suonare con Bobby. Ma nello stesso tempo ho avuto modo di suonare con altri grandissimi musicisti quali, tanto per fare qualche nome in ordine cronologico, ho lavorato dapprima con Ray Hargrove, quindi con Benny Golson, e poi con Freddie Hubbard. Tra il 1989 e il 1992 ho fatto molti concerti con diversi leader”.

Un altro dei grandi musicisti cui Lei è particolarmente affezionato è sicuramente Chick Corea. Come ricorda questo artista?
“Lui è stato una delle persone più straordinarie, meravigliose che io abbia incontrato nel corso della mia vita. Certo era un grande compositore, un grandissimo pianista, ma soprattutto una bellissima persona”.

In che senso?
“Abbiamo collaborato per ben ventisei anni e in questo lungo periodo mai una volta l’ho visto rivolgersi male verso qualcuno, essere sgarbato…insomma era davvero una brava persona, una persona per bene: nel mondo ci sarebbe bisogno di molte più persone come lui. Da un punto di vista più strettamente musicale, Chick mi spronava sempre a comporre aggiungendo che lo facevo bene. Ma egualmente io mi sentivo in imbarazzo davanti a lui in quanto, mi creda, Chick Corea è stato uno dei compositori più illuminati del secolo scorso”.

Chick a parte, qual è la collaborazione che ricorda con più piacere?
“Quella con James Brown, l’eroe della mia infanzia. Suonare con lui per me è stato come realizzare un sogno. Quando mi ha chiamato io ero, in un certo senso, più che preparato…conoscevo ogni suo pezzo, conoscevo tutto ciò che aveva fatto nel corso della sua carriera. Quindi nel momento in cui, quando festeggiava il suo 64simo compleanno, nel corso di una sorta di jam session mi chiamò sul palco, ero letteralmente al settimo cielo. Poi ho prodotto uno dei suoi ultimi spettacoli ed è stata un’esperienza unica, straordinaria, meravigliosa”.

Bene. E cosa pensi di Marvin Gaye?
“Anche lui è una leggenda. Ci sono molti cantanti r&b, soul che sono anche eccellenti musicisti jazz. Herbie Hancock racconta questa bella storia di quando entrando in uno studio di registrazione ha incontrato per la prima volta Marvin Gaye che intonava magnificamente al pianoforte “Maiden Voyage” (Uno dei brani più conosciuti di Hancock ndr). Non so se Winton Marsalis, entrando in uno studio, potrebbe incontrare John Legend che intona uno dei suoi brani. Mi piace moltissimo anche Stevie Wonder: lui è il re”

Cosa pensa del cd. ‘modern jazz’?
“Onestamente devo dire che non lo amo particolarmente. Bisogna però intendersi meglio. Oggi per modern jazz si intende la musica suonata per lo più da ventenni. In realtà molti giovani suonano mescolando ad esempio suoni acustici con l’elettronica, cosa certo non nuova, e alle volte devo ascoltare questa musica anche due volte per entrarci dentro ma ciò mi piace. Insomma in linea di massima questo tipo di espressione non mi soddisfa pienamente anche se devo riconoscere che ci sono cose interessanti”.

Pensa sia possibile parlare oggi di jazz americano, jazz europeo, jazz italiano?
“Non sono molto bravo ad operare simili distinzioni. Io penso che il jazz è jazz: il jazz è nato in America e da lì tutto deriva, anche la musica improvvisata europea, anche quella asiatica seppure innervata da elementi tratti dalle culture locali. Ciò non toglie, ovviamente, che ci siano eccellenti musicisti di jazz in tutto il mondo”.

Cosa conosce del jazz made in Italy?
“Tete Montoliou, Michel Petrucciani…”

Mi scusi ma l’uno è spagnolo e l’altro di origine italiana ma francese…
“Stefano Di Battista…”

Sì con lui ci siamo, e poi?
“Il contrabbassista Giuseppe Bassi che è un mio caro amico e poi naturalmente Paolo Fresu”.

Perché lo stato della popolazione afroamericana negli States è sempre così complessa, per usare un eufemismo?
“Io penso che in tutto il mondo, ma particolarmente negli Stati Uniti, ci sia un problema di razza e allo stesso tempo di classe sociale, di soldi. Se tu sei ricco nessun problema; viceversa i bianchi che sono poveri hanno gli stessi problemi dei neri poveri, degli asiatici poveri, dei latini poveri. A ciò si aggiunga il razzismo verso la gente di colore che negli States è ancora forte. E’ molto difficile che quanti hanno tanti soldi si prendano cura di chi è realmente povero. Questa è la grande sfida da affrontare subito”.

Personalmente Lei ha avuto brutte esperienze in tal senso?
“Certo che sì. Ogni cittadino americano di colore tra i sedici e i settantacinque anni potrebbe raccontare episodi del genere. Io stesso più volte sono stato fermato dalla polizia ho sempre reagito nel migliore dei modi, educatamente, salutando cordialmente. Ma non sempre funziona: io sono grande, grosso e nero e ciò basta per suscitare qualche sospetto, per pensare che sia violento. Per non parlare dell’enorme problema costituito dalla presenza delle armi che andrebbero bandite perché gli americani quando si parla di armi è come se diventassero bambini”.

Pensa che in Europa sia diverso?
“Onestamente non lo so. Uno dei miei più cari amici che vive a Roma da quattro anni, Greg Hutchinson, mi racconta che non importa dove vai, qualcuno ti guarderà sempre in modo sciocco. Per quanto concerne moleste della polizia e razzismo non so come sarebbe in Europa; conosco molti musicisti neri che hanno lasciato l’America tra gli anni ’40 e ’50 e sembrano felici

Qual è il suo album che preferisce?
“Francamente è difficile rispondere. Comunque, pensandoci meglio, credo che le mie preferenze vadano al primo album, “Gettin’ to It”, per la Verve nel 1995 con Roy Hargrove tromba e flicorno, Joshua Redman tenor saxophone, Steve Turre  trombone, Cyrus Chestnut  piano, Lewis Nash  batteria, Ray Brown e Milt Hinton  basso on ‘Splanky’ “.

Qual è la musica che preferisce suonare oggi?
“Tutta, purché sia buona musica. Voglio essere cittadino del mondo”.

Gerlando Gatto

Grand Prix de l’Académie du jazz le donne trionfano

Leïla Olivesi, Samara Joy et Diunna Greenleaf sono state insignite, nelle diverse categorie, del “Grand Prix” 2022 dell’Académie du jazz en France nel corso della solita prestigiosa cerimonia tenutasi all’inizio di marzo nel club Pan Piper à Paris. Questa tradizionale cerimonia annuale della prestigiosa istituzione che il prossimo anno festeggerà i suoi70 anni di esistenza, era presieduta per l’ultima volta da François Lacharme che, dopo 18 anni di leale servizio, lascia il posto a Jean-Michel Proust, sassofonista nonché direttore artistico di vari festival tra cui Jazz au phare sur l’île de Ré e Paris Guitar Festival à Montrouge, nella banlieue parigina.

Venendo allo svolgimento della cerimonia, il premio Django Reinhardt (con il sostegno della Fondation BNP Paribas) che viene attribuito al (alla) musicista francese dell’anno è stato attribuito alla pianista, direttrice d’orchestra e compositrice Leïla Olivesi. In tal modo la Olivesi diventa la sesta jazz-woman insignita di questo prestigioso riconoscimento dopo Airelle Besson (tromba – 2014), Cécile McLorin Salvant (voce – 2017), Sophie Alour (saxophone – 2020), Géraldine Laurent (sax – ex-æquo en 2008) et Sophia Domancich (piano – 1999).

Una meritatissima conferma per la giovane new-yorkese di 23 anni Samara Joy che dopo aver vinto quest’anno due Grammy Awards (migliore nuova artista e miglior album di jazz vocale), ha ottenuto anche il premio francese relativo al Jazz vocale per il suo album “Linger Awhile” votato da una cinquantina di membri dell’Académie già dalla fine dello scorso anno, quindi ben prima dei Grammy.

Infine, ultima rappresentante del genere femminile, la cantante di Blues Diunna Greenleaf, venuta espressamente da Houston (Texas) e immediatamente ripartita con in tasca il “premio Blues” per il suo album “I Ain’t Playin” (Little Village). Nonostante gli evidenti impegni, la Diunna ha trovato il tempo di esibirsi in un mini-concerto di grande spessore.

Nelle categorie puramente strumentali il “Gran Premio” per il miglior disco dell’anno è andato al magnifico quartetto composto da Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade grazie all’album  “Long Gone” (Nonesuch/Warner Music).

Il premio per il miglior disco registrato da musicista di casa è andato al contrabbassista Stéphane Kerecki per l’album “Out Of The Silence” (Outnote/Outhere Distribution) ;  il premio per il miglior inedito è stato attribuito a Mal Waldron per “Searching In Grenoble : The 1978 Solo Piano Concert” (Tompkins Square Records) mentre quello per il Jazz classico a  Dany et Didier  Doriz/Michel e César Pastre per il loro omaggio familiare “Fathers & Sons – The Lionel Hampton/Illinois Jacquet Ceremony” (Frémeaux & Associés).

Se il premio al miglior musicista europeo è andato al trombonista tedesco Nils Wogram che che suona regolarmente con Michel Portal, un nuovo premio denominato “Prix Evidence” è stato istituito per mettere in primo piano dei giovani talenti, premio andato questa prima volta alla formazione del chitarrista svizzero d’origine honduregna Louis Matute, grazie al suo disco “Our Folklore” (Neuklang).

Didier Pennequin
Membro dell’Académie du Jazz en France

Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
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-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero

Dopo le numerose escursioni di Amedeo Furfaro intorno al jazz italiano, questa volta soffermiamo la nostra attenzione sulle novità che arrivano dall’estero.

Arild Andersen Group – “Affirmation” – ECM
Arild Andersen, contrabbassista norvegese, è uno di quei rari musicisti che non sbaglia un colpo. Ogni suo album è frutto di lunga meditazione quindi di sicura riuscita…almeno dal punto di vista artistico, ché come sappiamo il gradimento del pubblico è altra cosa. Ad accompagnarlo in questa nuova impresa musicisti quasi tutti molto più giovani: il pianista quarantasettenne Helge Lien, l’altro quarantasettenne Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. Il repertorio è suddiviso in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II; a chiudere l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, “Short Story”. A questo punto avrete già capito che l’album si basa su una lunga improvvisazione di gruppo che, però, nulla ha a che vedere con le infocate sedute del free storico. Qui l’atmosfera è completamente diversa, intimista, meditativa con i quattro musicisti che dimostrano di conoscersi assai bene, districandosi come meglio non potrebbero nelle pieghe di una tessitura tanto lieve quanto complessa, in cui le pause, il silenzio hanno un loro perché. L’ultimo brano, “Short Story”, si basa su una melodia splendidamente scritta dal leader e altrettanto splendidamente eseguita dai quattro, con sassofonista e pianista in primissimo piano.

Onur Aymergen Quintet – “Lunar” – Losen
E’ con vero piacere che vi presentiamo questo gruppo proveniente dalla Turchia e composto da Onur Aymergen leader alla chitarra, Can Çankaya piano, Tolga Bilgin tromba, Apostolos Sideris contrabbasso, Turgut Alp Bekoğlu batteria. Anche se ancora poco noto nel nostro Paese, Onur Aymergen può già vantare una solida preparazione: ha cominciato a studiare chitarra classica con Özhan Gölebatmaz approfondendo anche il flamenco classico con Suat Demirkıran, fino a quando ha deciso di convogliare i suoi interessi verso il rock, il funk e il jazz. In questo suo album d’esordio, Onur dimostra di avere le carte in regola per un futuro luminoso: intendiamoci, nulla di trascendentale, ma un musicista che conosce assai bene lo strumento, il linguaggio che adopera, il patrimonio musicale del suo Paese che ogni tanto fa capolino dalle linee esposte dal gruppo. E non a caso si è citato il gruppo in quanto, nei suoi sapidi arrangiamenti, il leader ha lasciato ad ogni compagno d’avventura lo spazio per porsi in evidenza. E quanto sin qui detto appare evidente sin dal primo brano in programma, “Yeditepe”, scritto, così come gli altri sette pezzi in repertorio, dal leader che evidenzia, in tal modo, una notevolissima capacità di scrittura.

Jakob Bro, Joe Lovano –“Once Around The Room” – A Tribute to Paul Motian” – ECM

Il chitarrista Jakob Bro e il tenorsassofonista Joe Lovano sono i cofirmatari di questo album esplicitamente dedicato a Paul Motian, già loro compagno in tante avventure. Ad assecondare i due, i contrabbassisti Larry Grenadier e Thomas Morgan, Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Un organico anomalo, quindi, per una musica che di anomalo nulla propone data la maestria dei singoli e quindi dell’intera formazione. Lovano e Motian hanno collaborato per una decina d’anni e personalmente ricordiamo di averli ascoltati, tra l’altro, a Stavanger in Norvegia nei primissimi anni ’80. E ciò potrebbe spiegare assai bene il perché di questo album. Quanto poi all’immediata ricerca del drumming di Motian nella musica dell’album, si tratta di operazione, come al solito, assai difficile anche perché soprattutto Lovano non ha alcuna intenzione di scrivere una pagina calligrafica. Anzi! Ed è lo stesso sassofonista a spiegare cosa per lui significhi questo album: “Con Motian suonavamo degli standard ma cercavamo in ogni modo di farli nostri. Ecco noi suonavamo con fiducia con attitudine, con un approccio che potesse rendere al massimo le nostre intenzioni. Ecco è proprio questo stesso feeling che ho tenuto durante la registrazione dell’album”. Diverso l’atteggiamento di Jakob Bro che ha scritto due brani di sapore quasi opposto in cui si avverte chiaramente una profonda malinconia, una tristezza di fondo per la scomparsa di Motian. Qui il gruppo abbandona lo spirito improvvisativo che ha caratterizzato i primi tre pezzi, per immergersi nella scrittura di Bro che trova sia in “Song To An Old Friend” sia in “Pause” una dolce melodia. Chitarra e sassofono dialogano soavemente ben sostenuti da bassi e batterie. Nel brano conclusivo particolarmente apprezzabile il lavoro del chitarrista che disegna con delicatezza una splendida e toccante linea melodica. Ad intervallare i due brani, l’unica composizione di Paul Motian, “Drum Music”, caratterizzata da una lunga intro disegnata dai due batteristi che lasciano il posto a sax e chitarra, quest’ultima con una sonorità assi vicina a quella del sax per effetto dell’elettronica.

Eik Trio – “Eik Trio” – Losen
Sempre prodotto dalla norvegese “Losen” ecco questo nuovo trio composto dal pianista Ole Fredrik Norbye, dalla vocalist Elisabeth Karsten e dal contrabbassista John Børge Askeland, cui si aggiungono alcuni dei migliori jazzisti norvegesi ed europei quali il sassofonista Bendik Hofseth al sax tenore in tre brani, il trombettista Nils Petter Molvaer nel celeberrimo “I Love Paris” e il fisarmonicista Heine Bugge in “For Once in My Life”, mentre quasi tutti gli arrangiamenti sono curati da Fredrik Norbye. Dai titoli citati avrete forse già capito che tutto l’album è incentrato sulla riproposizione di standard, dieci pezzi che davvero hanno fatto la storia della musica che ci piace, interpretati senza alcuna voglia di sperimentalismo ma con il massimo del rispetto che meritano. Ferma restando la capacità della cantante di rendere al massimo ogni linea melodica, ogni più piccolo risvolto di queste immortali melodie, tra i brani siamo rimasti particolarmente colpito dal già citato “I Love Paris” per il fraseggio del pianista Ole Fredrik Norbye e il maiuscolo apporto di Nils Petter Molvaer

Mette Henriette – “Drifting” – ECM
Trio di grande spessore quello che si ascolta in “Drifting”: a guidarlo è la sassofonista Mette Henriette coadiuvata da Johan Lindvall al pianoforte e Judith Hamann al violoncello. In repertorio quindici brani tutti scritti dalla sassofonista (l’ultimo in collaborazione con Lindvall). Dopo l’album d’esordio, registrato sempre per ECM nel 2013 ma pubblicato due anni dopo, la sassofonista norvegese torna sempre in compagnia del pianista ma con l’aggiunta della validissima violoncellista Judith Hamman. L’atmosfera è quanto mai rarefatta con i tre che letteralmente distillano ogni singola nota che acquista così un peso specifico. I brani si susseguono legati da un filo ben preciso che si snoda attraverso le sapienti mani dei tre musicisti. Così se l’impianto melodico è spesso affidato alla leader, il pianoforte si incarica di sottolinearne le parti salienti con il violoncello impegnato in una non facile operazione di ricucitura. Il tutto a disegnare un quadro difficilmente classificabile: certo non si tratta di jazz nell’accezione più usata del termine, né di musica classica tout court…piuttosto di una sorta di esplorazione sonora che induce anche l’ascoltare a guardarsi dentro, a lasciarsi andare alle sensazioni che la musica gli propone. Senza preoccuparsi di capire dove la pagina scritta lascia il posto all’improvvisazione. E se anche chi ci legge seguirà questa metodologia, siamo sicuri che l’album risulterà di notevole interesse.

Anders Jormin, Lena Willemark – “Pasado en claro” – ECM
Album molto impegnativo questo “Pasado en claro” in cui il contrabbassista svedese Anders Jormin, in collaborazione con la vocalist, violinista e violista Lena Willemark guida un quartetto completato da Karin Nakagawa al koto e Jon Fält alla batteria, già con il leader nel trio di Bobo Stenson. La complessità di cui in apertura è determinata dal fatto che il leader ha voluto trarre ispirazione da una serie di poeti tra i più diversi della letteratura mondiale: ecco quindi testi da antiche fonti cinesi e giapponesi, accanto a poeti scandinavi contemporanei, senza per questo trascurare lo scrittore messicano Octavio Paz (dalla cui opera è tratto il titolo dell’album) e il “nostro” Francesco Petrarca. Insomma un panorama di riferimento da far apparire impossibile una qualsivoglia unità dell’album E invece il quartetto ci riesce grazie soprattutto all’interpretazione della vocalist. Su un tappeto costituito da una valida struttura sonora ben scritta e altrettanto ben arrangiata, ricca di nuances, Lena Willemark si produce in una prova di grande maturità alternando l’uso della voce all’altro strumento a sua disposizione (il violino); esemplare al riguardo “Tho Woman of the Long Ice” musica e testo della stessa Willemark . Insomma è come se nella voce di Lena si ritrovasse allo stesso tempo, il passato, il presente e il futuro di una musica il cui flusso mai si interrompe.

Edi Köhldorfer – “The Riddance” – Ats Records
Personaggio sicuramente interessante questo chitarrista austriaco Edi Köhldorfer il quale, dopo aver studiato chitarra classica, ha intrapreso la strada del musicista professionista suonando nei contesti più vari, dalle orchestre classiche al folk, dal funk al pop…fino al jazz collaborando con alcuni artisti di fama mondiale come Biréli  Lagrène, Dee Dee Bridgewater, Stephane Grappelli. Di qui una personalità compiuta non solo a livello musicale, esplicitata appieno in questo album che risponde ad una grande esigenza di fondo: evidenziare quanto può accadere quando musicisti di provenienza diversa si riuniscono per un comune progetto, e soprattutto liberarsi dalla schiavitù di una pandemia che ha costretto all’immobilismo moltissimi artisti. Per raggiungere questo obbiettivo, Edi ha contattato 26 musicisti di 4 continenti e nessuno si è tirato indietro dando vita ad una produzione assai particolare. Ascoltando l’album, in effetti, non si può non rilevare la gioia, la forza, l’entusiasmo il dinamismo che promana da questi brani cosicché è davvero arduo sceglierne qualcuno in particolare. Tuttavia dobbiamo ammettere che ci hanno particolarmente colpiio “Goodbye Armando” un sentito omaggio a Chick Corea con un fantastico assolo del pianista Ui Datler richiamante “La Fiesta” e  “Midwest” impreziosito da un lungo e centrato assolo del bassista colombiano Juan Garcia-Herreros meglio noto come “The Snow Owl”, che suona un basso elettrico personalizzato a sei corde; all’età di  37 anni, Juan ha ottenuto una nomination, per il Latin Grammy Award nella categoria Best Latin Jazz Album, per il suo terzo CD intitolato “Normas”.

Benjamin Lackner – “Last decade” – ECM
Probabilmente il pianista tedesco Benjamin Lackner non è molto noto al pubblico italiano anche se può già vantare un’invidiabile carriera che lo porta ad esordire oggi in casa ECM. Lackner è tornato da poco a Berlino, dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti dove ha avuto modo di studiare con “maestri” quali Charlie Haden e Brad Mehldau. Per questo album il pianista è affiancato da tre grandi artisti: il trombettista Mathias Eick, il batterista Manu Katché e il contrabbassista Jérôme Regard, già con Lackner dal 2006. Il risultato c’è ed è a tutto tondo. In effetti appare chiaro sin dalla primissime note come l’intendimento principale del trio sia quello di proporre una musica caratterizzata dalla ricerca della linea melodica. Una linea che risulti dolce, fors’anche accattivante, ma non per questo banale o scontata. Di qui un repertorio di nove brani (tutti composti dal leader ad eccezione di “Emile” scritta da Jérôme Regard) in cui la musica scorre in perenne equilibrio fra i quattro, con nessuna voglia particolare del leader di mettersi in luce ché anzi molto spesso ascoltiamo in primo piano la bella voce della tromba di Eick sempre sorretta da una sezione ritmica assolutamente funzionale all’intento del leader. Tra i brani particolarmente suggestivo e sofisticato è “Hang Up on That Ghost” tutto giocato su un fitto dialogo tra pianoforte, batteria e contrabbasso mentre Mathias alterna la sua voce a quella della tromba con effetti di estrema delicatezza.

Ieremy Lirola – “Mock the Borders” –
Dopo “Uptown Desire” il contrabbassista francese si ripresenta al pubblico con questo “Mock the Borders” in cui è possibile ascoltare anche il piano di Maxime Sanchez, il sax di Denis Guivarc’h e la batteria di Nicolas Larmignat, questi ultimi due già presenti nel citato lavoro “Uptown Desire”.
Il titolo è quanto mai esplicativo: “Ridicolizza il confine” appare come una sorta di manifesto programmatico che dovrebbe informare il senso dell’album. Ma è davvero così? Francamente non ci sembra che l’artista abbia voluto andare oltre la lezione di Coleman; piuttosto la sua idea, conclamata in musica, è quella di una libertà che prescinda dalle etichette, dalle mode, per dare pieno diritto di cittadinanza ad ogni forma espressiva. Insomma per Lirola la musica tonale può coesistere con escursioni nel mondo del free. Di qui un album dai colori cangianti, dalle atmosfere variegate in cui si avverte l’urgenza di nulla trascurare delle passate esperienze: guadare avanti non significa necessariamente trascurare ciò che c’è stato e che continua ad esserci. Insomma una visione oserei dire filosofica e non solo musicale che informa questo interessante lavoro. Tra i vari brani eccellente l’apertura con “Mock the lines” impreziosito dal lavoro del sassofonista. Ma nello svolgimento dell’album il leader lascia ampio spazio ai compagni d’avventura che hanno così modo di esprimere appieno le proprie potenzialità.
                                                                 
Stephan Micus – “Thunder” – ECM
Nessuna sorpresa per questo ennesimo ottimo album di Stephan Micus, un vero ricercatore di note che abbiamo imparato ad ammirare oramai nel corso di lunghi anni. Questa volta il suo interesse si focalizza, come da lui stesso sottolineato, sulla musica dei monasteri tibetani, meta di molte visite da parte del musicista. Stephan rimane particolarmente colpito dal particolare strumento che si usa in queste cerimonie, il dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri, cui affianca il ki kun ki, uno strumento a fiato – ci spiega lo stesso Micus – molto semplice, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in alcune foreste siberiane del lontano Oriente e il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Mescolate questi straordinari elementi e la ricetta è pronta: una musica ancora una volta affascinante, dai suoni allo stesso tempo primordiali e di attualità che ci trasportano in un mondo virtuale apparentemente alla nostra portata ma che mai riusciamo ad abbracciare davvero. E credo sia questo il segreto di Micus: sintetizzare gli universi musicali più disparati per ricondurli ad una unità senza spazio, senza tempo ove solo il suo credo ha diritto di cittadinanza. Per tornare al contenuto dell’album è comunque lo stesso Micus a fornirci una chiave di lettura ove afferma che l’album è dedicato alla grande famiglia delle divinità dei tuoni cui hanno creduto intere popolazioni con la speranza che il loro distruttivo potere possa in qualche modo essere placato dalla musica.

Arvo Pärt – “Tintinnabuli” – Billant Corners
Con il termine “Tintinnabuli” ci si intende riferire allo stile compositivo creato dal compositore estone Arvo Pärt, introdotto nella sua “Für Alina” (1976) e riutilizzato in “Spiegel im Spiegel” (1978).  Caratteristiche che ritroviamo appieno in questo splendido album che vede come protagonisti Jeroen van Veen al piano, Joachim Eijlander al violoncello e in un brano la moglie di Jeroen, Sandra van Veen, anch’essa pianista. L’album è una sorta di summa delle caratteristiche che hanno sempre connotato la musica di Arvo Pärt, vale a dire la quiete estatica e il saper racchiudere lo spirito dei tempi grazie anche alle   esperienze mistiche con la musica dei canti religiosi. Risultato: composizioni senza tempo che appaiono in egual misura antiche e contemporanee, religiose e profane, non immuni da una marcata influenza da parte del movimento minimalista. L’album si apre con “Fratres” cui fa immediatamente seguito uno dei brani più importanti di Arvo, quel “Für Alina” cui si è già fatto cenno. “Ukuaru Valss” ci fa conoscere un lato più “leggero” della personalità di Pärt mentre il conclusivo lungo “Partomania” è preceduto da “Spiegel im Spiegel” anch’esso citato in precedenza quale pietra miliare nel percorso compositivo dell’artista estone: ascoltandolo ancora oggi, dopo tanto tempo, impressiona il modo in cui le note sono letteralmente distillate una dopo l’altra a conferma di una maestria compositiva difficilmente eguagliabile.

Sebastian Rochford, Kit Downes – “A Short Diary” – ECM

Ecco un album non facile da recensire in quanto gli usuali strumenti che si adoperano per illustrare una produzione discografica, in questo caso non sono sufficienti. In ballo ci sono, infatti, motivazioni che vanno ben al di là del fatto musicale e che coinvolgono direttamente i sentimenti più profondi di Rochford, non a caso compositore di tutti i brani in programma. In effetti l’album è una appassionata e sentita dedica che il cinquantenne batterista scozzese rivolge al padre, Gerard Rochford, grande poeta morto nel 2019.  Alla luce di questa realtà, la musica assume una valenza tutta particolare. E’ facile immaginare come l’autore, nello scrivere, si sia lasciato andare ai ricordi della sua infanzia, degli anni trascorsi con il padre e di ciò che questo ha voluto dire per la sua crescita. Di qui l’originalità di un discorso che ha una sua compiutezza dall’inizio alla fine, ben sorretto dal partner di Rochford, ovvero Kit Downes che in precedenti occasioni aveva evidenziato tutto il suo talento. Talento che qui si manifesta nell’aver saputo mirabilmente arrangiare il tutto costruendo un coinvolgente percorso melodico-armonico in cui non esageriamo affermando che sotto alcuni aspetti ascoltare questo album è come sfogliare un album le cui pagine sono costituite dai ricordi dolcemente custodite da Sebastian. Quanto ai brani particolarmente significativo “Our Time Is Still”: un pezzo essenziale, scarnificato fino al limite massimo, tutto giocato sulla sottrazione ma con una carica di tristezza, di emozionalità, di sentimento davvero toccante.

Rubber Soul Quartet – “Something” – Losen

E’ ancora possibile eseguire in chiave jazzistica un repertorio ‘beatlesiano’ senza scadere nel già sentito, nello scontato? Certo che sì, ma si tratta sicuramente di un’impresa estremamente complessa dato che i brani dei Beatles oramai da molti anni sono entrati nel repertorio di grandi jazzisti. A provarci, adesso, sono quattro musicisti norvegesi, Bård Helgerud chitarra e vocale, Håvard Fossum sax, flauto, clarinetto, Andreas Dreier contrabbasso e e vocale, Torstein Ellingsen batteria e percussioni. In cartellone, come già accenato, undici composizioni dei Beatles per un viaggio all’indietro che si preannuncia tanto entusiasmante quanto colmo di insidie. Il quartetto cerca di evitare gli scogli proponendo una chiave di lettura originale: combinare le melodie ben note con arrangiamenti che si rifanno espressamente alla lezione dei grandi jazzisti made in USA, il tutto condito da una forte carica di swing e una buona dose di improvvisazione. Obiettivo raggiunto? Francamente non del tutto in quanto, indipendentemente dall’arrangiamento, la carica melodica dei brani è troppo forte cosicché resta lì, a farla da padrona e quindi a spedire in secondo piano esecuzione e arrangiamento, a meno che non si tratti davvero di grandi musicisti quali, tanto per fare due soli nomi, Brad Mehldau e Sarah Vaughan

Salon Odjilà – “TangoRomaBalkanJazz” – ATS Records

Un’elegante mistura di oriente e occidente, di jazz e folk, di euforia e malinconia definisce il clima di questo album interpretato da un quartetto di assoluto livello: Wolfgang e Werner Weissengruber sono multistrumentisti che oramai da anni si dedicano con passione al jazz, Manuela Kloibmüller è fisarmonicista che frequenta con assiduità sia i terreni classici sia quelli jazz nonché vocalist di riconosciuto spessore, Matthias Eglseer  è batterista fantasioso e preciso (lo si ascolti, ad esempio, in “Cetvorno Sopsko Horo”). In repertorio tre classici di Piazzolla, un originale di Wolfgang Weissengruber e sei ‘traditional’. Ciò premesso la musica rispetta perfettamente le premesse contenute nel titolo vale a dire un tango ma con quel forte imprinting che caratterizza la musica balcanica. Ciò grazie ad arrangiamenti particolarmente indovinati che riescono a valorizzare appieno l’originalità del gruppo anche quando si avventura su pezzi non sempre consigliabili. E’ il caso dei tre brani di Piazzolla e in particolare di “Libertango” il brano forse più celebre del compositore argentino: introdotto dal contrabbasso, il brano prende man mano spessore con la Kloibmüller che si produce in un vibrante assolo ben sostenuta da tutto il gruppo per una interpretazione convincente.

Solis String Quartet & Sarah Jane Morris – “All You Need Is Love” – Irma
E dopo il cd del Rubber Soul Quartet ecco un altro album interamente dedicato ai Beatles. Ad interpretare le melodie di John Lennon e Paul McCartney è però questa volta una delle voci, a nostro avviso, più belle e convincenti dell’intero panorama vocale internazionale. Oramai sulla cresta dell’onda da molti anni, la Morris mai delude; chi scrive l’ha sentita in concerto svariate volte e ha sempre trovato un’artista straordinariamente generosa, capace di interpretare ogni brano alla sua maniera andando a visitare anche le più intime pieghe delle melodie senza trascurarne la valenza ritmica. E la stessa cosa accade anche questa volta: la vocalist affronta ogni tema con gande rispetto ma allo stesso tempo con la sicurezza che le deriva da tanti anni di carriera. Di qui interpretazioni che senza alcunché togliere all’originale fascino, rivestono i brani di una veste originale. Il che, non sarebbe stato possibile, se la vocalist non fosse stata adeguatamente supportata da uno straordinario Solis String Quartet, al secolo Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio, violini, Gerardo Morrone viola e Antonio Di Francia cello e chitarra, con quest’ultimo impegnato in una preziosa opera di ri-arrangiamento che non ha fatto sentire la mancanza di quella sezione ritmica, viceversa tanto importante nella produzione originale. Tra i brani particolarmente riuscita la versione di “The Fool on The Hill” che resta una delle più belle composizioni dei Beatles.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: IL JAZZ DI CASA NOSTRA

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Giulia Barba – “Sonoro” – BNC
Non amiamo vantare primogeniture ma siamo stati tra i primi in assoluto a presentare al pubblico italiano questa brava clarinettista dopo il suo ritorno dall’Olanda. In questo suo secondo album possiamo ascoltare 6 sue composizioni, tra cui due brani con testo di W.B. Yeats (“The Everlasting Voices” e “To an isle in the water”), e 8 pezzi di improvvisazione totalmente libera. Il testo di “Bassorilievo” e “Game Over” è stato scritto dalla stessa compositrice. Accanto alla Barba troviamo Marta Raviglia, voce, Daniele D’Alessandro, clarinetto e Andrea Rellini, violoncello. Probabilmente sono sufficienti queste poche indicazioni per capire il contesto in cui si muove Giulia: un terreno irto di difficoltà in cui la maggiore preoccupazione della leader è quella di raggiungere una raffinata qualità sonora grazie ad una accurata ricerca timbrica supportata da un’altrettanto accurata ricerca dei collaboratori. Di qui la scelta della vocalist Marta Raviglia il cui apporto risulta molto importante essendo la sua voce adoperata alle volte in modo consueto altre volte in funzione meramente strumentale e di Daniele D’Alessandro, ottimo nel ruolo di seconda voce. Parimenti determinante il ruolo di Andrea Rellini al violoncello che nella difficile opera di cucire il tutto riesce a non far sentire la mancanza di uno strumento percussivo. Comunque il merito principale della buona riuscita dell’album è senza dubbio alcuno di Giulia Barba di cui attendiamo altre prove ancora più significative.

Francesco Branciamore – “Skies of Sea” – Caligola
Musicista a 360 gradi, Francesco Branciamore si è costruita una solida reputazione come batterista avendo avuto l’opportunità di lavorare con alcuni grandi del jazz come Enrico Rava, Michel Godard, Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Wim Mertens… e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Francesco mai si è adagiato sugli allori: così ha dedicato questi ultimi anni ad approfondire da un lato la tecnica pianista, dall’altro le sue capacità compositive e di arrangiatore. Non a caso nel 2018 uscì “Aspiciens Pulchritudinem” suo primo album in piano solo ottenendo unanimi consensi, preceduto nel 2013 da “Remembering B. E. – A Tribute to Bill Evans” in cui Branciamore non suona alcuno strumento ma omaggia Bill Evans dirigendo un sestetto cameristico in cui l’improvvisazione non ha diritto di cittadinanza mentre la pianista Marina Gallo esegue le trascrizioni integrali degli assoli di Evans fatta da Branciamore, autore anche di tutti gli arrangiamenti. In questo “Skies of Sea” Francesco presenta una sorte di suite in quattordici bozzetti di breve durata, tutti di sua composizione, a disegnare atmosfere le più variegate, dall’ipnotica title track al trascinante “The Remaining Time” passando attraverso brani tutti gradevoli tra cui degno di particolare attenzione ci è parso il riuscito omaggio a Chick Corea, “A Prayer for Chick”.

Maniscalco, Bigoni, Solborg – “Canto” – ILK Music
Album di spessore questo proposto dal trio italo-danese composto da Emanuele Maniscalco pianoforte, piano elettrico e tastiere, Francesco Bigoni sax tenore e clarinetto e Mark Solborg chitarra elettrica. La cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto che il combo ha già all’attivo altri due album e che la collaborazione fra i tre risale al 2015. Quali le caratteristiche della formazione? Innanzitutto una scrittura che consente di coniugare perfettamente parti scritte e improvvisazione; in secondo luogo una costante attenzione alle dinamiche e quindi al suono; in terzo luogo la capacità di frequentare con assoluta disinvoltura un territorio di confine tra il jazz e le musiche “altre” che rende quanto mai difficile una precisa classificazione della performance…ammesso che ciò sia necessario, cosa di cui personalmente dubitiamo e non poco. Il tutto sorretto da altri due elementi assolutamente necessari: la bravura tecnica ed espressiva di tutti e tre i musicisti e una profonda empatia che consente loro di suonare in assoluta scioltezza sicuri che il compagno di strada saprà cogliere ogni minimo riferimento. Di qui una musica rarefatta, di chiara impronta cameristica che sicuramente soddisferà gli ascoltatori dal palato più raffinato.

Mauro Mussoni – “Follow The Flow” –WOW
Mauro Mussoni (contrabbasso, composizione e arrangiamenti), Simone La Maida (sax/flauto), Massimo Morganti (trombone), Massimo Morganti (trombone), Andrea Grillini (batteria), Davide Di Iorio (flauto solo nella traccia Levante) sono i responsabili di questo album registrato a Riccione nel 2020. Si tratta del secondo CD a firma di Mauro Mussoni (dopo “Lunea”) il quale si ripresenta anche come compositore dal momento che i nove bani in programma sono sue composizioni. Il titolo è significativo delle intenzioni di Mussoni il quale vuole “seguire il flusso”, un flusso che – secondo le espresse volontà del contrabbassista – è quello dell’ispirazione. Di qui una musica che trova nella gioia dell’esecuzione la sua principale ragion d’essere declinata attraverso una significativa empatia di volta in volta tra i fiati e fra i componenti del trio piano-contrabbasso-batteria senza trascurare, ovviamente, l’intesa che intercorre tra tutti i componenti del gruppo, intesa cementata da precedenti collaborazioni. E’ infatti lo stesso leader a dichiarare come la musica sia arrivata in maniera spontanea seguendo l’ispirazione del momento piuttosto che idee preesistenti. Tra i vari brani particolarmente interessanti la title track impreziosita da sontuosi assolo di Simone La Maida e Massimiliano Rocchetta, il dolcemente ballabile “Freeda” e “Latina” con un convincente assolo del leader.

Ivano Nardi – “Excursions” –
Ivano Nardi è sicuramente uno dei musicisti più rappresentativi della scena jazzistica romana. Artista tra i più coerenti, profondamente ancorato alla sua terra, profondamente attaccato al valore dell’amicizia –in primo luogo quella con Massimo Urbani – mai si è discostato dal solco di un free senza se e senza ma, un free in cui dare sfogo alla propria immaginazione, al proprio modo di vedere e sentire la musica. Ovviamente, per scelte di questo tipo, risulta fondamentare circondarsi di compagni d’avventura con cui si abbia un idem sentire. E il ‘batterista’ Nardi è stato, anche in questo senso, del tutto coerente avendo condiviso le sue esperienze con artisti del calibro del già citato Urbani, Don Cherry, Lester Bowie… Adesso ritorna a farsi sentire con un altro album dedicato a Massimo Urbani, “Excursions”, in cui a coadiuvarlo sono Giancarlo Schiaffini al trombone, Marco Colonna ai fiati, Igor Legari alla batteria, un quartetto molto affiatato che si muove con estrema disinvoltura all’interno dell’unico brano in programma, lungo 32:50. Ovviamente cercare di descrivere questa performance è impresa quanto mai ardua e forse inutile; basti sottolineare come le atmosfere sono mutevoli proponendo degli improvvisi slarghi (come al minuto 12,30 circa) quasi a voler in certo senso smorzare l’andamento tumultuoso e incalzante del quartetto, o avventurandosi in atmosfere indiane e arabeggianti (come al minuto 24 all’incirca).

NewStrikers – “The Songs Album” – Alfa Music Vinile 180 gr. Tiratura limitata

Questo album esce ad ampliamento dell’album “Musiche Insane”, ottimo esempio di come anche il free riesca a trovare nel nostro Paese interpreti degni di rilievo. Il gruppo guidato dal multistrumentista Antonio Apuzzo (compositore e arrangiatore anche di quasi tutti i brani) e completato da Marta Colombo (vocale, percussioni), Valerio Apuzzo (tromba, cornetta, flicorno), Luca Bloise (marimba, percussioni), Sandro Lalla (contrabbasso) e Michele Villetti (batteria, duduk), ripresenta un repertorio in buona parte già conosciuto in cui la musica si staglia come unica e vera protagonista, una musica ben lontana da stilemi formali e da un qualsivoglia mainstream consolatorio. Quindi un jazz graffiante, originale, fluido in cui si stagliano alcune individualità come quelle di Antonio Apuzzo e della vocalist Marta Colombo. Tra i brani non presenti nel precedente “Musiche Insane”, What Reason Could I Give” e “All My Life “ di Ornette Coleman interpretate con bella sicurezza mentre il conclusivo “Four Women” è un sentito omaggio a Nina Simone che scrisse questo brano in segno di protesta contro l’ennesimo atto di sopraffazione consumato dai bianchi nei confronti della popolazione di colore. Un consiglio non richiesto: se avete tempo andate a cercare i testi della canzone e leggeteli con attenzione.

Helga Plankensteiner – “Barionda” – JW
Baritonista di spessore, la Plankensteiner si è oramai imposta all’attenzione generale non solo come strumentista ma anche come vocalist, compositrice, arrangiatrice e leader di gruppi non proprio banali. E’ questo il caso di “Barionda” un ensemble formato da quattro baritonisti (la leader, Rossano Emili, Massimiliano Milesi e Giorgio Beberi) più un batterista che nella maggiorparte dei casi è Mauro Beggio sostituito in tre brani da Zeno De Rossi. In repertorio una serie di brani che ricordano i grandi baritonisti del jazz; ecco quindi “Hora Decubitus” di Mingus (legato alla memoria di Pepper Adams), “Sophisticated Lady” (di Ellington, nelle esecuzioni della cui orchestra spiccava Harry Carney) o “Bernie’s Tune”, cavallo di battaglia di Mulligan. Il gruppo si muove con padronanza all’interno di arrangiamenti tutt’altro che semplici in cui i quattro sassofonisti evidenziano le loro abilità ben sostenuti dai due batteristi che a turno sorreggono il tutto con un timing preciso seppur fantasioso, sicché non si avverte la carenza del contrabasso. E’ interessante sottolineare come, nonostante i quattro strumenti di base siano gli stessi, si riesce egualmente ad ottenere significative variazioni di sound a seconda di chi esegue l’assolo e di chi tali assolo accompagna. Ferma restando la valenza di tutti i musicisti coinvolti, è innegabile che il peso maggiore dell’impresa grava sulle spalle della leader che nelle brevi parole che accompagnano l’album dichiara esplicitamente il proprio amore verso il suo strumento, il sax baritono..

Ferruccio Spinetti – “Arie” – Via Veneto, Indo Jazz
Ferruccio Spinetti è contrabbassista che si è guadagnato una solida reputazione lavorando per lungo tempo con Musica Nuda, Avion Travel e  InventaRio. Adesso si presenta con il primo progetto a suo nome che lo vede alla testa di un gruppo all stars comprendente la cantante Elena Romano, il pianista Giovanni Ceccarelli, il batterista Jeff Ballard e, come unica guest, la sempre straordinaria pianista       Rita Marcotulli in due brani. L’album è in buona sostanza una sorta di omaggio al jazz italiano in quanto il repertorio è composto in massima parte da brani scritti da alcuni dei migliori jazzisti italiani tra cui Enrico Rava , Bruno  Tommaso , Rita   Marcotulli, Paolo   Fresu , Enrico   Pieranunzi       , Luca   Flores , Paolino   Dalla Porta …, con l’aggiunta di brani originali di Spinetti e Ceccarelli. E di questi autori sono stati scelti brani in cui è di tutta evidenza la ricerca della linea melodica, rinvigorita sia dalle centrate interpretazioni di Elena Romano sia dai testi, scritti appositamente dalla Romano, da Peppe Servillo e dallo stesso Spinetti, sia dagli arrangiamenti che hanno messo in evidenza le caratteristiche di tutti i musicisti tra cui una menzione particolare la merita senza dubbio alcuno Jeff Ballard, sicuramente uno dei batteristi migliori oggi in esercizio. Ovviamente un merito particolare va a Ferruccio Spinetti che ha saputo guidare il gruppo con mano sicura e piena consapevolezza.

Ivan Vicari – “Afrojazz project – Il ritorno”
Entusiasmante, trascinante, coinvolgente: queste le parole che ci sorgono spontanee dopo aver ascoltato un paio di volte questo album. Conosciamo e apprezziamo Ivan Vicari oramai da molti anni; tra i pochissimi specialisti dell’organo Hammond nel nostro Paese, è uno dei pochi artisti in Italia capaci di raccogliere e divulgare l’eredità di Jimmy Smith, vera e propria leggenda dell’Hammond. Nel suo stile si ritrovano echi provenienti dai più grandi esponenti dell’organo jazz, dal già citato Jimmy Smith, a Larry Young, da Rhoda Scott fino Joey De Francesco purtroppo recentemente scomparso. E quanto sopra detto si ritrova in questa sua recente fatica discografica. Ivan guida, con mano sicura e con tecnica superlativa, un quartetto completato da Fabrizio Aiello alle percussioni, Mauro Salvatore alla batteria, Alberto D’Alfonso sax e flauto, Luca Tozzi chitarra. Il titolo recita “Afrojazz project – Il ritorno” e fotografa bene la musica che Vicari ci propone. Una musica che si ispira all’afro ma non solo dal momento che Vicari dimostra ancora una volta di conoscere assai bene sia il jazz nell’accezione più completa del termine, sia il blues. Da sottolineare ancora che Vicari si mette in gioco anche come compositore dal momento che nel CD figurano alcuni suoi original. Un tocco di umanità che mai guasta: per esplicita dichiarazione dello stesso Vicari l’album è dedicato a due “amici musicisti” scomparsi, Karl Potter e Nunzio Barraco.

Gerlando Gatto

 

Per Brass in Jazz un altro progetto inedito al profumo di Flamenco

Molti i concerti al femminile nel programma della stagione concertistica Brass in Jazz

Per il secondo appuntamento della stagione concertistica Brass in Jazz, il Reale Teatro Santa Cecilia si tingerà con i suoni del flamenco grazie ad un altro progetto inedito proposto dal Brass Group con la presidenza del Maestro Ignazio Garsia e la direzione artistica di Luca Luzzu. Ad abbellire questo fine settimana la città con la musica che risale alle culture moresche dell’Andalusia, sarà un concerto unico in assoluto. Per la prima volta l’Orchestra Jazz Siciliana sarà diretta dal grande Maestro Bernard van Rossum, vincitore di Awards internazionali e Contests.  Gli elementi del flamenco verranno ridefiniti attraverso l’orchestrazione colorata e la gamma dinamica della Big Band, una simbiosi in cui le armonie e i ritmi del flamenco forniscono un nuovo contesto per l’improvvisazione. Appuntamento quindi con il concerto BVR Flamenco Project in Luz de Luna venerdì 11 e sabato 12 novembre, con doppio turno alle 19.00 e alle 21.30.

Questo progetto riunisce la voce di Bernard come compositore, arrangiatore e musicista. Sassofonista, compositore, arrangiatore e insegnante, Bernard van Rossum inoltre riflette nella sua musica la multiculturalità del proprio vissuto poiché è nato e cresciuto in Spagna da madre inglese e padre olandese, ha trascorso l’adolescenza ascoltando rock e suonando la batteria, ha conseguito la laurea in Biologia all’università di Edinburgo; quindi, si è innamorato del sassofono e del jazz, approfondendone lo studio nei conservatori di Barcellona, di Denton nel Texas e di Amsterdam. Fautore di una originale ed eccitante miscela sonora che rilegge la tradizione andalusa del flamenco secondo le strutture e i modi improvvisativi del jazz, Rossum in questi anni ha ottenuto grande successo alla testa della sua “BvR Flamenco Big Band”, formazione con cui ha pubblicato tre album acclamati dalla critica internazionale. La sua direzione vanta anche alcuni dei migliori artisti di flamenco del mondo, tra cui Paco de Lucia associati Carles Benavent, Antonio Serrano, David de Jacoba e ballerini di flamenco come Karen Lugo, Cristina Hall e Irene Alvarez. Spettacoli recenti includono Festival Internacional de Jazz di San Javier, Biennale di Flamenco, Bimhuis, Amersfoort Jazz, Festival Internacional de Jazz de Alicante, Jazz in Duketown e Xabia Jazz, tra gli altri. Per il suo lavoro con la Big Band, van Rossum ha recentemente vinto il “Rogier van Otterloo award 2022″, “Concurso de arreglos de big band SGAE 2022” e il “Canarias Big Band Composition Contest 2021”.

Una scelta importante quella del Brass che anche quest’anno ha voluto raddoppiare i concerti in programma nella stagione. L’aumento delle repliche dei concerti deriva da uno specifico bisogno culturale a cui la Fondazione risponde con un calendario ricco di artisti internazionali, produzioni orchestrali e prime assolute. Tanti i nomi del mondo jazz inseriti per la nuova stagione concertistica del Brass.

Tra gli artisti che scorrono nel cartellone del Brass in Jazz la prima mondiale con il concerto di Benny Green in Master of Piano feat. Vito Giordano. Benny Green possiede la storia del Jazz a portata di mano. Combina la padronanza della tecnica della tastiera con decenni di esperienza nel mondo reale suonando con i più celebri artisti dell’ultimo mezzo secolo, e non c’è da stupirsi che sia stato salutato come il pianista hard-bop più eccitante di sempre come emerge da Jazz Messengers di Art Blakey.

All’interno del programma ci sono anche tante figure femminili come la bellissima Janusett Mcpherson con il concerto Deezer . La cantante, pianista, arrangiatrice e cantautrice cubana,  dopo una brillante carriera a Cuba dove ha vinto l’equivalente di una Victoire de la Musique (Premio Adolfo Guzman) e ha moltiplicato prestigiose collaborazioni (Orquestra Anacaona, Omara Portuondo & Buena Vista Social Club, Alain Perez, Manolito Simonet, Tata Guines, Miles Peña ecc), si stabilì nel sud della Francia. Notata da Yves Chamberland nel 2011 (produttore di Nina Simone, Henri Salvador, Michel Petrucciani, Richard Galliano…), ha registrato il suo primo album in Francia con alcuni illustri ospiti (Didier Lockwood, Andy Narell, Michel Alibo, Thierry Fanfant, Olivier Louvel, etc…), e arrangiamenti firmati da Nicolas Folmer (Paris Jazz Big Band) e Bernard Arcadio (Henri Salvador)).

Altro concerto in rosa è rappresentato da Lucy Garsia, che con le sue altissime qualità canore, di recente ha riscontrato enorme successo sia al Teatro Massimo che nel concerto delle Ladie, si esibirà in Tribute to Sarah Vaughan con l’OJS diretta dal Maestro Domenico Riina.

Altro concerto al femminile è quello della straordinaria Bianca Gismondi in Maracatù. In duetto saranno invece Cande y Paulo con lo spettacolo The Voice of the Double Bass.

Un progetto in esclusiva nazionale e prima assoluta è anche quello che verrà messo in scena con un noto martista siciliano, Mario Incudine che si esibirà con l’Orchestra Jazz Siciliana diretta dal Maestro Domenico Riina in Serenate d’Amuri mentre l’esibizione dell’artista Ola Onabulè sarà diretta dal Maestro Antonino Pedone.

E lo spettacolo Hollywood Movies avrà la direzione del Maestro Vito Giordano. Una stagione quella del Brass Group per un audience ampia e con target diversificato, per gli amanti del jazz e della bella musica.

Info: https://www.brassgroup.it/