I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto

Doctor 3: non importa cosa suoni ma come lo suoni

L’intervista è stata realizzata in occasione della 23esima stagione di “Latina in Jazz”, nota rassegna a cura del Latina Jazz Club Luciano Marinelli che ospita ogni anno musicisti di fama internazionale. In occasione della terza serata, il Doctor 3 ha gentilmente accettato la proposta di farsi intervistare per la rubrica “Salotto Rosso” a cura di Daniele Mele.

Enzo Pietropaoli, Danilo Rea, Fabrizio Sferra. Il Doctor 3 ha 26 anni: la mia età
praticamente. Come si fa a far vivere una formazione per 26 anni?
Sferra: “Basta suonare poco”.         (ridono)

-Dai, rispondete voi.
Pietropaoli: “É come in un rapporto di coppia, basta gestire tutte le fasi: gli amori, i momenti belli, le crisi… saperli gestire in nome dell’amicizia e della musica, e si può andare avanti”.

-Credo a questo punto, finché…
Danilo Rea: “La morte”.
Sferra: “Finchè morte non ci separi”.

– Questi sono i piani per il futuro, quindi. E suonare poco…
Rea: “Se la prendi da un punto di vista professionale, e gli americani in questo sono maestri, si riesce a suonare anche senza parlarsi. Fanno grandissimi gruppi dove non si parlano neanche più, da anni, non si ricordano neanche i nomi praticamente”.
Pietropaoli: “O gruppi sciolti dopo tournée troppo lunghe”.
Rea: “Se si affronta con professionalità vai avanti ad libitum. Noi siamo italiani, non l’abbiamo fatto con questo atteggiamento”.

– Secondo voi, qual è il valore del trio oggi? Il pubblico ascolta e apprezza il trio come si ascoltava una volta, oppure no?
Sferra: “Forse non dipende dalla formazione, ma da come si esprime la formazione, e dal grado di comunicazione che instaura con il pubblico. Io penso che questo gruppo abbia avuto successo anche per quello, perché stabilisce un alto grado di comunicazione ed è molto interattivo sia per il repertorio scelto sia per come viene trattato. Penso che sia un gruppo molto generoso da questo punto di vista, e quella cosa lì forse conta più della formazione in sé, che sia trio, quartetto o quintetto”.
Pietropaoli: “Sono d’accordo”.

– Il purista del Barocco dice “ascolto solo Bach”, il purista del Jazz dice “ascolto Parker”,e voi invece attraversate tutti i generi musicali e arrivate a tutte le persone nel mondo. Quand’è che, secondo voi, la musica è “buona musica”?
Rea: “Diciamo che il Pop coreano ancora non l’abbiamo affrontato”.
Pietropaoli: “Però abbiamo avuto successo in Oriente”.
Rea: “Perché comunque ci sono delle canzoni che arrivano dappertutto”.

– Sì, insomma quand’è che la considerate una musica “da suonare”?
Rea: “Ah, bella domanda”.
Pietropaoli: “Tu dici a livello di scelta del repertorio?”.

– Sì.
Rea:” Questa è una domanda molto particolare. Vi ricordate quando chiesi a Jeff se avrebbe mai suonato quella canzone, “The Way We Were” “.
Sferra: “Quella che cantava Barbra Streisand”.
Rea: “Quella”.
Pietropaoli: “Dicci chi è questo Jeff”.
Rea: “No, non si può dire… Lui disse “Eh no, perché è troppo smielata”. “É troppo che?”, ho pensato. E il limite è molto personale, per rispondere alla tua domanda, ognuno ha un “pudore musicale” tutto suo”.
Sferra: “Però forse si può dire, in relazione a questo trio, che la canzone Pop funziona perché tutti e tre abbiamo un rapporto molto forte con la canzone e con la melodia. Questo, a prescindere dalla scelta, ha funzionato da sempre perché siamo tutti sinceramente e profondamente legati alla melodia e alla forma-canzone, pur essendo jazzisti e avendo fatto un percorso più complesso. Alla fine rimaniamo “puristi in relazione alla musica”.
Pietropaoli: “Dunque non importa cosa ma come”.
Rea: “Sì, esatto”.
Sferra: “Sì, è chiaro che il Pop spesso contiene quegli elementi della forma-canzone che noi privilegiamo a prescindere dal genere. Ed è la stessa scelta che abbiamo fatto nel Jazz, dove privilegiamo quella forma”.
Pietropaoli: “Non abbiamo mai fatto pezzi contorti, per così dire”.
Rea: “Ma in fondo i jazzisti afro-americani che prendevano? Le canzoni del loro tempo. A un certo punto è come se fosse stata creata una barriera, come a dire che “fin qui si può suonare, se vai oltre diventa un’altra cosa”. Ma in realtà dipende tutto esattamente dal “come”… quelle di allora erano grandi canzoni pop, Billie Holiday, Louis Armstrong, cantavano tutti pezzi pop fatti alla maniera loro. Quello che bisogna fare quindi è cercare di analizzare, contestualizzare…”.
Pietropaoli: “E di impossessarci anche della nostra cultura, che non è necessariamente quella di un americano. Nella nostra gioventù c’è Battisti, De Andrè, Tenco…”.

– In un’altra intervista ho sentito di critiche che vi sono state mosse perché avevate fatto un certo tipo di scelta di repertorio.
Rea: “Un sacco di volte”.
Sferra: “Qualche volta siamo stati additati come “Doctor Furbetti”…”.

– Quando suonate c’è comprensione, c’è feeling e tantissima interazione sul tema, ed è genuinamente bello vedervi dal vivo. Invece la nuova generazione spesso è “Il brano lo faccio tutto io, poi metto assieme i pezzi e carico la mia cover su YouTube”. Che cosa ne pensate di questo approccio alla musica? È tutto brutto, oppure…?
Rea: “Ma stai parlando di quale musica? Quella di oggi?”.

– Quella di oggi, anche Jazz. Coetanei che studiano al Conservatorio, magari prodigi
polistrumentisti che sanno suonare bene il basso, la batteria e fare un improvvisazione al pianoforte come si deve…
Sferra: “Beati loro!”.

– Poi registrano tutto quanto e caricano su Facebook, YouTube.
Rea: “Se tu pensi che Damien Rice, con The Blower’s Daughter, è nato su internet… è un approccio diverso un po’ lontano da noi, insomma”.
Sferra: “Comunque è un fenomeno un po’ complesso da trattare, che non riguarda soltanto la musica”.
Pietropaoli: “Diciamo che la tecnologia e i social sono un’opportunità, dipende come tu li usi. Quel procedimento di cui parli tu può portare a cose splendide, può portare a cose insulse ma questo riguarda anche chi suona dal vivo, per cui è difficile generalizzare”.

– Certo. Vi faccio una domanda conclusiva, la classica: che cosa c’è nel futuro prossimo del Doctor 3?
Sferra: “Abbiamo 2-3 concerti programmati, il che è un bell’orizzonte”.
Pietropaoli: “Resisteremo ancora per un po’, salute permettendo”.         (ridono)
Sferra: “Personalmente ogni volta che c’è un concerto del Doctor 3 sono molto felice”.
Rea: “Siccome ogni volta che suoniamo si aprono finestre nuove, musicalmente parlando, non sappiamo che fine faremo. La fortuna di questo gruppo è che sopravvive perché, oltre alfatto di vedersi poco frequentemente, c’è un’arte dell’incontro, del ritrovarsi per far uscire cose leggermente o spesso anche molto diverse dalla volta precedente. Difficile dire cosa bolle in pentola. I CD sono serviti proprio a mettere il punto su certe situazioni, anche se nonsi fanno quasi più… io non faccio un CD in piano solo da 4-5 anni”.
Pietropaoli: “Ora sta tornando il vinile, c’è molta musica liquida… addirittura ho risentito parlare di cassette”.
Sferra: “Mania Vintage!”.
Pietropaoli: “Beh i supporti cambiano, ma la musica è quella, anche se essa dipende dai supporti e dagli strumenti. Prima che esistessero gli amplificatori era diverso, la musica è stata condizionata da quel cambiamento tecnico, per cui non so oggi quanto sia condizionata dalle opportunità digitali”.
Sferra: “La maniera in cui si mixano i dischi è cambiata notevolmente perché deve tener presente che la musica esce da una piccola scatoletta, e quindi si lavora in maniera diversa”.
Rea: “Se pensi che oggi i dischi si registrano a casa… è cambiato tutto”.

– Vedremo cosa il futuro ha in serbo per noi. É stata una piacevole intervista, grazie per il vostro tempo!

Daniele Mele

In mostra le splendide foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti

Chi abita in Italia ed ama il jazz non può non aver incontrato, almeno una volta nella vita, le straordinarie foto di Silvia Lelli e Roberto Masotti la coppia, – nella vita e nel lavoro – di fotografi ravennati di nascita e milanesi d’adozione, che ha saputo raccontare il mondo delle performing arts e della musica attraverso la sensibilità del loro sguardo.

Silvia Lelli e Roberto Masotti

Purtroppo Masotti ci ha lasciati nell’aprile dello scorso anno all’età di 75 anni, dopo una malattia che l’aveva colpito più di un anno fa, ma il suo ricordo è ben presente nel mondo del jazz.

Benissimo ha fatto, quindi, l’Associazione Tempi Moderni a organizzare la mostra SGUARDI che fino al 4 giugno abiterà le stanze e i saloni di Palazzo Fruscione (Salerno). Curata da Silvia Lelli la mostra SGUARDI racchiude le opere frutto di oltre 40 anni di carriera della stessa Lelli e di Roberto Masotti. Si tratta di una produzione davvero estesa e di eccezionale livello tanto da essere dichiarata dal Ministero dei Beni Culturali, nel 2018, “bene di interesse storico”.

La mostra si suddivide in tre sezioni: Musiche/Kontakthof-Kontrapunkt/Nucleus che a Palazzo Fruscione saranno declinate nei tre piani.

Musiche (fotografie di Lelli e Masotti). In questa sezione si scava nell’archivio di Lelli e Masotti che, come scriveva Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale di Milano che nel 2019 ospitò la grande mostra, è una miniera inesauribile di conoscenza e di memoria che consente di ricostruire e rivivere quasi mezzo secolo di storia del teatro, della musica, della danza, di performing arts, di vedere “all’opera” migliaia di personalità, di avere una visione puntuale anche dei cambiamenti sociali e culturali che si sono verificati. Una sezione composta da 109 fotografie e un’installazione video dal titolo Musiche Revisited.

Kontakthof- Kontrapunkt (fotografie di Silvia Lelli). La sezione è composta da 20 opere fotografiche e ripercorre la storia di 3 rappresentazioni in 30 anni, del celebre lavoro dedicato alla complessità dei rapporti uomo-donna della coreografa e regista tedesca Pina Bausch. Leonetta Bentivoglio, così descrive il lavoro della Lelli: Le foto che rappresentano il frutto del viaggio di Silvia attraverso i tre “Kontakthof”, definite da una beltà essenziale e vigorosa, mai affettata o patinata, ci danno un’ottica in più sulla sostanza di quella specie di monumento al teatrodanza che è lo spettacolo di Pina nato nel ‘78. Lo sguardo della fotografa non si limita a registrare l’attimo, ma ce lo fa vedere tramite il filtro di una sensibilità per così dire “aggiuntiva”.

Nucleus (fotografie di Roberto Masotti). La sezione è un omaggio al lavoro di Roberto Masotti e al suo rapporto di lungo corso, professionale e umano, con il cantautore catanese Franco Battiato, scomparso nel maggio 2021. L’esposizione è una anteprima internazionale e si compone di 16 scatti, che, come scrive Carlo Maria Cella, sono un viaggio nel tempo, dai primi anni 70, in cui Battiato si forma e si afferma nel mondo della musica, fino al 1997 dei grandi concerti, in cui i fan di quasi tre generazioni, comprese alcune nemmeno nate quando certe canzoni erano state scritte, lo innalzano nel cielo delle stelle fisse.

Unitamente all’esposizione per il settimo anno ritornano i Racconti del Contemporaneo: ASCOLTI. Parole/Note/Suoni/Visioni. L’idea, nel solco del format consolidato delle ultime sei edizioni, è quella di promuovere, all’interno di Palazzo Fruscione, eventi gratuiti di approfondimento della tematica generale affrontata nella mostra di quest’anno. Il calendario della VII Rassegna dei Racconti del Contemporaneo prevede talk, concerti ed incontri musicali e il consueto ciclo di cinema d’essai, con presentazioni d’autore, della domenica pomeriggio. Ad aprire quest’ultima sezione la proiezione (domenica 16 aprile – ore 19) la storica pellicola di Herzog, “Fitzcarraldo”. Ma le Visioni domenicali a Palazzo Fruscione prevedono anche la proiezione de “Il Concerto”; “Pina”; “Birdman”; “La sera della prima”; “Il cigno nero”; “New York, New York”.

Tra i vari appuntamenti, da segnalare infine che, nella giornata del 24 aprile dedicata al primo anniversario dalla scomparsa di Roberto Masotti, si esibiranno il sassofonista Roberto Ottaviano, il violoncellista, esperto di sonorizzazione ambientale, Walter Prati e il Carla Marciano Quartet. Infine per la sezione Note il giornalista e critico musicale, Riccardo Bertoncelli ha immaginato cinque appuntamenti legati a cinque dischi storici in perfetto dialogo con le fotografie di Roberto Masotti. Dagli Area a Keith Jarrett passando per Battiato, John Cage e Philip Glass.

Gerlando Gatto

I nostri cd: il jazz, musica d’insiemi

Il jazz, musica d’insiemi, ma forse è meglio dire insieme per non creare ambigue assonanze con … l’insiemistica. Insieme di creatività, talento, “possesso” dello strumento, istantaneità interpretativa, capacità relazionale, qualità che sono a loro volta un “insieme” di altri elementi. Nelle note seguenti la musica d’insieme presa ad oggetto è quella di una rosa dei nuovi album incisi da organici più o meno infoltiti. Sono progetti diversi fra di loro, inoltre le formazioni cambiano a seconda di strumentisti e strumenti. Altra differenza, di tipo lessicale, è fra collettivi ed ensemble, i  primi più “paritari” nella relazione che avviene collettiva/mente, le seconde con una netta prevalenza della figura di bandleader, non il conductor autoritario della felliniana “Prova d’orchestra” ma un coach che “organizza” il suono indirizzandone le componenti verso un dato obiettivo. Nel jazz i maggiori spazi concessi all’improvvisazione rispetto ad altri generi musicali fanno si che chi “coordina” debba tenere sempre stretto il timone e sott’occhio la bussola. Come il capitano di una nave che riesce a domare in ogni frangente i flutti marini.

Gerardo Pepe – “Orchestrando piano” – Caligola Records.
Le composizioni di grandi pianisti jazz hanno dell’ineffabile negli iter creativi. Su quelli compositivi, non afferenti al solo inconscio, ci si può peraltro esprimere anche in rapporto, più o meno stretto, con lo stile pianistico. Gerardo Pepe, in Orchestrando piano (Caligola Records), testando l’orchestrabilità di sei brani scritti da altrettanti maestri del piano, ne ha perscrutato l’attitudine ad essere eseguite da un organico di piccola orchestra di dodici musicisti sulla base di suoi riarrangiamenti. “Nigerian Marketplace” di Oscar Peterson è il primo pezzo ad esser stato selezionato per la band comprendente Andrea Salvato (fl.), Daniele D’Alessandro (cl.), Federico Califano (alto s.), Giacomo Casadio (t. sax), Francesco Milone (b.sax), Antonello Del Sordo e Matteo Pontegavelli (tr.), Roberto Solimando (tr.ne), Saverio Zura (guit.), Filippo Galbiati (p.), Filippo Cassanelli (cb.) e Dario Rossi (dr.). A seguire “ We See” di Monk autore replicato in “Ask Me Now”. Va detto che finalità dichiarata di questo lavoro d’esordio del jazzista gravinese è il rendere omaggio ad alcuni grandi pianisti afroamericani proponendone una personale rilettura con sul leggio gli spartiti di  ”Song For My Father” di Horace Silver e “Passion Dance” di Alfred McCoy Tyner. Nello schieramento orchestrale da lui assemblato il pianoforte comprime il proprio protagonismo pur rimanendone perno essenziale secondo cooordinate rispettate anche in “Remembering Charles”, a sua firma, che chiude la tracklist a ridosso di “Three Bags Full” di Hancock. Non solo dunque una sinopsi tratta dal Real Book pianistico per organici allargati; e non un mero make up e neanche uno stravolgente trattamento chirurgico bensì una reinterpretazione coerente con i modelli, a dimostrazione di quanta potenzialità possiedano tuttora alcune gemme  di capiscuola del piano jazz moderno e contemporaneo.

Pietro Pancella Collective, “Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1” Abeat Records
Pietro Pancella Collective licenzia per Abeat Music of Henderson Shorter Coltrane vol. 1. Un progetto ambizioso questo del contrabbassista abruzzese,  figlio d’arte del pianista Tony Pancella,  se si pensa che il primo brano in tracklist, “Black Narcissus”,  venne inciso dal sassofonista Joe Henderson nel ‘77 con figure iconiche come Kuhn al piano, Jenny-Clark al basso, DeJohnette ed Humair alla batteria! Ma il ricercare nuove skyline musicali fa parte del bagaglio di un jazzista che si rispetti.  E poi se i partners si chiamano Giulio Gentile (pf), Christian Mascetta (guit.), Manuel Caliumi (alto) e Michele Santoleri (dr.) allora il salto non sarà mai più lungo della gamba. Il 5et si è prima impadronito, a seguito di lungo rodaggio, delle partiture  hendersoniane. Quindi ha ricongiunto i moduli del prefabbricato sulle stesse fondamenta sagomandoli per mezzo di arrangiamenti, assegnati secondo l’abbinamento Pancella-Henderson, Gentile-Shorter, Mascetta-Coltrane.  Tale procedere per assimilazione-architettura si ripete anche nei due brani di Shorter, “Witch Hunt” e “Nefertiti”, quest’ultima  registrata per il quintetto di Miles Davis, composizione fra le più eseguite fra quelle esposte nel cd.  Analogamente dicasi per le coltraniane “Lonnie’s Lament” e “Resolution-Pursuance” (da A Love Supreme).  Il gran lavorio sulle punte di chitarra e sax ha prodotto risultati interessanti, vedansi assoli e “strappi” che gli stessi intessono con piano e ritmica in “Afro Centric”, tratto da “Power To The People” di Henderson. La triarchia nera ha dettato stilemi jazzistici che il Collective ha fatto propri senza l’assillo di semplificare il complesso né di complicare il semplice.  Con lo scopo dichiarato di rendere un omaggio che non fosse solo richiamo, citazione o mero strizzare l’occhio agli originali bensì riformulazione aggiornata di un linguaggio musicale che ” trascende le parole” (Coltrane).

Marco Luparia, Masnä, L’autre collectif.
Il batterista Marco Luparia presenta in Masnä (L’autre collectif) un lavoro discografico in sestetto  con  Clement Merienne al pianoforte, piano preparato (e Bontempi), Sol Lèna-Schroll all’alto sax, Hector Lèna-Schroll alla tromba, Federico Calcagno ai clarinetti e Pietro Elia Barcellona al contrabbasso.  La radice etimologica dal dialetto piemontese di Masnä è il termine bimbo. Si spiegano così le foto infantili sulla cover di questo album grondante nostalgia ideato nel quieto borgo di San Martino di Rosignano, ai piedi delle Alpi, al di qua dalla Savoia francese. Un habitat bucolico che ha ingenerato la ricerca del tempo perduto attraverso brusii fruscii rumeurs dimenticati. Essi tornano a rivivere rielaborati nell’incontro con altri musicisti con cui esplorare i canoni, da un punto di vista radicale, di antiche tradizioni quali il gagaku giapponese, il gamelan indonesiano, la musica carnatica indiana e quella sacra europea. Per una musica a/formale, di forme/non-forme, in cui la ricerca affida all’improvvisazione il ruolo-guida di riconnessione dei frammenti di un passato che gli anni hanno decostruito con il loro trascorrere. Le cinque composizioni su sette (Flock, Knup, Rapid Eye Movement, Teaper, Harm) dello stesso Luparia oltre “Etude  Campanaire” di Lèna-Schroll e “Wuh” di Calcagno, sono il frutto di un “fucina” musicale che, sotto il segno della temporalità  divisa da un ritmo spesso “concreto”, diventa  narreme di vissuto, placenta in cui nuotano i sogni che il soggetto narrante  interpreta.

Massimo Pinca – “Singing Rhythms, Pulsin Voices” – Dodicilune Records.

E’ un grand ensemble di nove elementi quello che il contrabbassista Massimo Pinca ha riunito per l’album Singing Rhythms, Pulsing Voices, prodotto da Dodicilune Records, label leccese come lui. Il lavoro, concepito nel mezzo della pandemia, è stato registrato tramite sovraincisioni tranne che per il Geneva Brass,  quintetto di ottoni che ha inciso direttamente in studio. Alle note del gruppo vanno assommate quelle del  4et  con Nicola Masson ai sax tenore e soprano, Gregor Fticar al rhodes, Paolo Orlandi alla batteria oltre a Pinca che si è alternato a basso elettrico contrabbasso e rhodes. Il collante principale delle due formazioni è dato dalla “voce pulsante”  di una scrittura che ha intessuto trame sonore “tono su tono”, non nel senso di tonalità, ma di coerenza timbrica e cromatica degli strati compositivi con gli spazi di libertà espressiva. Pinca, giunto a quest’esperienza overdubbing dopo il “solo” di Fragments (NBB Records 2021), è riuscito, in nove brani per un totale di un quarto d’ora di musica, nell’opera di incarnare un sound  naturale  anche ad un ascolto  pan  pot,  grazie anche all’apporto di musicisti che ne hanno condiviso l’approccio classico-jazz “ ed hanno inserito le loro meravigliose  tessere in un mosaico ad essi invisibile”. Il disco è stato realizzato con il contributo del dipartimento di cultura di Ginevra, città adottiva di Pinca.  Del Geneva Brass fanno parte  Baptiste Berlaud e Lionel Walter (tr. fl.), Cristophe Sturzenegger (horn), David Rey (tr.ne), Eric Rey (tuba).

Bertazzo/Francesconi  New Project Orchestra – “Playing  With Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen” – Caligola Records.                   
Non hanno più “l’acre odore di sigaretta” le canzoni di Jimmy van Heusen, “latecomer”, secondo Alec Wilder, affermatosi cioè più avanti rispetto ai primi grandi songwriter del 900, anche per ragioni anagrafiche.  All’autore della musica di “Here’s That Rainy Day”, “All The Way”,  “Darn That Dream” sono  state nel tempo dedicate diverse compilation fra cui quella del Reader’s Digest, in cui è partner di scrittura Johnny Burke (Timeless Favorites: Sunday Monday or Always. The Songs of Burke & Van Heusen), “blocco” che si affianca all’altro relativo alla collaborazione con il lyricist Sammy Cahn, a proposito del quale va segnalato almeno lo storico l.p. Emi di Frank Sinatra del ’91 (Sinatra Sings the Songs of Van Heusen & Cahn).   La sua discografia si arricchisce oggi di un titolo italiano,  Playing with Jimmy. A Tribute to Jimmy Van Heusen, di Francesca Bertazzo  Hart e Michele Francesconi  New Project Orchestra, edito da Caligola Records. Un lavoro dal giusto groove in cui ci si sposta a piacimento dall’atmosfera metropolitana alla traditional, dal soffuso al ritmicamente portante. Gli arrangiamenti, firmati dal pianista-direttore Michele Francesconi e dalla chitarrista-vocalist  Francesca  Bertazzo Hart, vengono dipanati con duttilità dai musicisti:  Trettel, tr./ Grata, tr.ne. /Menato, a.sax-cl. / Zeni, t.sax. / Beberi, t.sax b. cl. / Pilotto cb.b. / oltre al batterista Mauro Beggio in qualità di ospite. Focus dunque puntato su una categoria non certo sopravvalutata quale quella degli autori di song, nello specifico su un autore che brilla in melodiosità specie sui tempi pari, eccelle per sofisticate misure armoniche, spicca in ritmicità.  Caratteristiche che il disco “illustra” in undici brani, individuati fra le varie centinaia a firma di siffatto “Grande Artigiano” oltre a un paio scritti dalla leader, eseguiti esaltandone al meglio la “jazzabilità”.

Mario Rosini / Duni Jazz Choir- “Wavin’ Time” –  Abeat Records.
Wavin’ Time è l’album che Abeat pubblica con Mario Rosini  e il Duni Jazz Choir.  Dove il DJC, nato nel 2015 nelle classi del conservatorio Duni di Matera, con sezione soprani (Ceo/Rotunni/Lombardi), contralto  (Colangelo/ Razem/ Carrieri) e tenori (Schiavone/Giammarelli) non canta a cappella. Sottostanno infatti ai cori chitarra (Ruggiero), basso (Laviero), batteria (Parente), percussioni (Lampugnari, Ciaravella), sax (Menzella), trombe (Santoruvo, Todisco), trombone (Fallacara), flauto (Di Caterino) assortiti a seconda delle situazioni, spazianti dal cool fino al pop internazionale, per come delineate dal pianista nonché direttore ed arrangiatore Rosini.  Varia la tracklist di cover ed original.  Oltre a “A New Sunrise” in cui appare la firma di Rosini così come in “Ti sento così (per Sofia)” e “Wavin’ Time”, vi si ritrova una convincente versione corale di “Giant Steps” (un Coltrane vocalizzato è rintracciabile già in Lambert Hendrix & Bavan).  C’è poi “Four Brothers” di Giuffre, e si è in pieno vocalese stile Manhattan Transfer; ed ancora “Quando quando quando”, hit straincisa da vocalist che vanno da Humperdick  alla  Furtado. A  seguire un tuffo nel Motown con un paio di brani di Stevie Wonder – “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” e “Love Collision” –  ed il gustoso paragrafo italiano.  Quest’ultimo comprende,  oltre al citato successo di Tony Renis, “E la chiamano estate” di Bruno Martino e Franco Califano ed “I cieli in una stanza” dove si celebra il “matrimonio” fra l’evergreen di Gino Paoli e il soundtrack di  “Metti, una sera a cena” di Morricone con un arrangiamento che interseca sottilmente i due temi.  Da rimarcare in positivo “Black or White” di Michael Jackson (con B. Bottrell) di cui Mario Crescenzo dei Neri per Caso, nelle note di copertina, sottolinea l’iniziale “sentore progressive” che richiama verso il finale “la “salsa brava” della storica Fania All-Stars (la Motown latino-americana della musica Salsa)”.  Il disco reca il logo del Premio 2022 di “La Musica di Sofia”, assegnato da Guido Di Leone per conto della famiglia Bratta.

Amedeo Furfaro

Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
*****

-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

I Doctor 3

Nell’ambito della 22esima stagione dei Concerti del Latina Jazz Club “Luciano Marinelli” sabato 18 marzo altro concerto di particolare rilievo. Sarà, infatti, di scena i “Doctor Tre” uno dei gruppi più importanti che abbiano illuminato la scena jazzistica nazionale negli ultimi tempi.

I “Doctor Tre”, al secolo Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabasso e Fabrizio Sferra alla batteria, possono già vantare una lunga e prestigiosa carriera avendo inaugurato la loro collaborazione nel 1998.

Nel corso degli anni i tre si sono caratterizzati per aver centrato la loro attenzione non più sui grandi standard del jazz ma sulle canzoni che hanno accompagnato la loro adolescenza sino ad oggi, vale a dire da un canto i pezzi dei grandi gruppi come i Beatles, come i Rolling Stones, dall’altro i grandi cantautori come Battisti, De Andrè e le grandi stelle internazionali quali Neil Young, Elton John, Carole King solo per citare qualche nome . E l’improvvisazione? Al riguardo, spiega Danilo Rea “abbiamo sempre collegato la nostra improvvisazione alle melodie importanti, all’opera di grandi autori come Guccini, Verdi, Mascagni” Ma per fare tutto ciò occorreva un linguaggio diverso da quello usuale del jazz che è ormai un linguaggio standardizzato. Ed è proprio il frutto di questa ricerca ciò che ha portato i “Doctor 3” in vetta alle classifiche di gradimento di pubblico e critica.

A testimoniare quanto sin qui detto, oltre dieci album tutti di livello eccellente. Insomma sarebbe veramente un peccato perdere questo concerto che si preannuncia trascinante come nella migliore tradizione dl gruppo.

Gerlando Gatto