Rino Cirinnà: in Sicilia non si riesce a fare sistema

Non si può certo dire che la vita di Rino Cirinnà sia banale; nato a Hartford negli Stati Uniti proveniente da una famiglia siciliana di musicisti da tre generazioni torna in Italia quando ha sei anni. Studiato clarinetto nei conservatori di Catania e Roma, città dove si trasferisce per ben otto anni.
Nel 1984 vince il concorso come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ha la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz confrontandosi con i più importanti musicisti Italiani e principalmente Massimo Urbani, Sandro Satta, Maurizio, Giammarco, Danilo Terenzi, Antonello Salis, e studia con Alfio Galigani. Partecipa ad alcune trasmissioni televisive RAI e fa parte di tour di musica leggera di alcuni tra i più conosciuti cantanti Italiani
Nel 1989 si trasferisce negli USA dove risiede per parecchi anni, studia al Berklee College di Boston con insegnanti del calibro di Jerry Bergonzi e Charlie Banacos. Negli USA frequenta gli ambienti Blues, Jazz, Etno e collabora con Ibraima Camara, Tony Bennett, John Lockwood.
Rientrato in Italia, decide di stabilirsi in Sicilia, sua terra d’origine senza comunque trascurare i suoi “rapporti” con l’estero. Così realizza due tour negli Stati Uniti, ha
la cittadinanza onoraria della città di Little Rock e partecipa a vari Festival Jazz in Francia.
Di recente è uscito il suo ultimo album, “Open Letters” ,  che recensiamo qui accanto:
Ma cosa lo ha spinto a tornare in Italia e trasferirsi in Sicilia. Glielo abbiamo chiesto ed ecco le sue risposte.

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-Tu hai un’intensa vita professionale. Cosa ti ha spinto e cosa ti spinge anche oggi a rimanere in Sicilia?
“Come sai io provengo da una famiglia di musicisti. Mio nonno semi-professionista, mio padre professionista: è stato probabilmente, a livello nazionale, il più importante suonatore di flicornino nelle bande; il flicornino era lo strumento che nelle bande sostituiva il soprano.  Di qui la mia passione per la musica. Ad un certo punto tutta la mia famiglia si trasferisce negli States, io sono nato lì per la precisione a Hartford e lì sono cresciuto fino ai miei sei anni, dopo di ché siamo tornati in Sicilia. Tieni presente che quando noi arrivammo negli Stati Uniti, mio padre fece amicizia con Conrad Gozzo il quale proveniva dallo stesso paese di mio papà; Conrad sotto certi aspetti prese mio padre sotto la sua ala protettiva e man mano lo inserì in un certo ambiente. Mio padre era un discreto strumentista, non improvvisava ma eseguiva bene le parti che gli venivano affidate; suonava un po’ alla Harry James e quindi da lì parte un po’ tutto…ovviamente anche la mia preparazione, la mia cultura musicale”.

-Cultura che non si sostanziava solo nel jazz…
“Certo che no. A casa mia si ascoltava molta lirica, così come la musica delle grandi orchestre…ecco questo era il panorama musicale al cui interno mi sono sempre mosso, sin da bambino”.

-Ok, ma torniamo alla domanda di apertura. Dato questo enorme bagaglio di esperienze, perché hai deciso di stare in Sicilia che non rappresenta certo una tappa definitiva per un musicista di jazz.

“Quando negli anni ’70 siamo rientrati in Italia, io ho vissuto otto anni a Roma, poi, nel 1984, ho vinto il concorso per entrare come sassofono soprano nella prestigiosa Banda Nazionale dei Carabinieri di Roma. Nella capitale ho avuto la possibilità di frequentare ed approfondire la musica e l’ambiente jazz. Ho partecipato ad alcune trasmissioni televisive RAI finché nel 1989 ho deciso di ritornare negli USA dove sono rimasto per ben dodici anni, approfondendo, ovviamente la mia preparazione. Ad un certo punto ho sentito che per tirare fuori veramente tutto ciò che avevo fatto nella mia vita era indispensabile tornare in Sicilia dove avevo vissuto dai sei ai diciotto anni. Così la grande decisione di cui non mi pento assolutamente. In Sicilia ho veramente tirato fuori tutto ciò che avevo dentro; tieni presente che ho anche messo su uno studio di registrazione che mi dà parecchie soddisfazioni. Sai in America la musica è una vera professione per cui mai ti puoi rilassare o fermarti a pensare su come andare avanti, no, devi andare avanti…e poi ci accorgiamo che tutto ciò non ci appartiene”.

-Da quanto mi dici intuisco che sei soddisfatto del percorso compiuto…
“Certo che sì; distinguiamo: in Italia non mi trovo bene anzi in Sicilia mi trovo meglio che in altri posti. Per fortuna mi muovo meglio all’estero dove ho un’intensa attività. Il problema è che da noi – e quindi non solo in Sicilia – c’è una mentalità piuttosto ristretta, gli ambienti sotto certi aspetti sono naif. Certo il Conservatorio ha aperto le porte al jazz ma l’insegnamento è francamente ridicolo. Quindi mi trovo male per quanto riguarda il lato prettamente musicale. Viceversa, per quanto riguarda, lo spazio mentale sono assolutamente soddisfatto: io vivo in campagna, come ti dicevo mi sono costruito un bellissimo studio di registrazione, la vita non è cara per cui se vivi una vita economicamente tranquilla la dimensione di artista la puoi mantenere senza troppi sforzi”.

-Secondo te, qual è oggi la situazione del jazz in Sicilia?
“Dal punto di vista tecnico, vale a dire del numero e della preparazione dei musicisti ci siamo appieno…peccato, però che non esista un ambiente. Ognuno si muove per conto suo, è praticamente impossibile fare qualcosa di buono assieme per cui si procede in ordine sparso con le conseguenze che puoi facilmente immaginare. C’è un individualismo troppo sfrenato per cui non si riesce a creare un ambiente”.

-Ma questo è grave…
“Non è grave, è gravissimo dal momento che non si riesce a fare sistema”.

-Secondo te che conosci assai bene sia la realtà jazzistica statunitense sia quella italiana, è possibile tracciare un qualsivoglia parallelismo tra quanto accadeva negli States nei primi anni del ‘900 quando nasceva il jazz e ciò che in quegli stessi anni accadeva in Sicilia?

“Sì, secondo me sì. Noi abbiamo portato negli States il contributo delle bande che in Italia erano state importantissime già da metà dell’800, importanza che hanno mantenuto sino ad oggi. Mio padre ha mantenuto la nostra famiglia proprio suonando con una banda e adesso è pensionato della Banda Municipale di Noto; in Sicilia le tre bande municipali, non militari, regolarmente costituite, con stipendi regolari e quant’altro, erano tre, Acireale, Caltagirone e Noto. Quindi sì, da questo punto di vista, sono certo che c’è stato un notevole contributo delle bande soprattutto nel jazz eseguito dagli italo-americani. Poi a partire dagli anni ‘70, il jazz è cambiato radicalmente: Comunque facendo riferimento ai miei anni trascorsi negli Stati Uniti devo dire che c’era un fortissimo ambiente jazzistico italo-americano, o forse sarebbe meglio dire siculo-americano. Ti do un elemento interessante: quando veniva fatto un blindfold test se c’era da distinguere un musicista nero da un musicista bianco la cosa risultava facile, ma se il musicista bianco era un siculo-americano la cosa era molto ma molto più difficile”.

-Ma perché questo elemento mai viene enfatizzato a dovere?
“Per il motivo cui accennavo in precedenza: noi non facciano sistema. Mentre ad esempio i lombardi proteggono i loro musicisti, noi siciliani non lo facciamo. SE tu pensi che Conrad Gozzo, ovvero colui che ha definito il ruolo della prima tromba nelle big band, era figlio di un emigrato negli USA proveniente da Canicattini Bagni e pochissimi ne conoscono l’esistenza. Noi non abbiamo alcun rapporto con gli americani di origine siciliana che suonano lì. L’anno scorso ho fatto un calendario in cui c’erano sei musicisti siculo-americani e sei musicisti autoctoni. Bene, tra gli altri ho contatto Sam Noto, Pat LaBarbera, Joe Lovano… e devi vedere come questi sono orgogliosi delle loro origini”.

-Si lo so; parecchi anni fa, quando abitavo in Norvegia, ho avuto modo di conoscere Joe Lovano e quando ha saputo che io ero siciliano mi ha fatto davvero un sacco di feste e da allora abbiamo mantenuto un bel rapporto…
“Purtroppo è così. Io mi sono legato molto più all’estero…ho cari amici in Portogallo Malta, in Israele”.

-E non credo che le cose miglioreranno in un prossimo futuro…anche perché le teste sono sempre le stesse.
“A mio avviso le cose potrebbero migliorare solo se la politica si mette da parte. Finché la musica e la politica sono così strettamente connesse, non se ne esce”.


Gerlando Gatto

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Rino Cirinnà – “Open Letters” – Anaglyphos
Tenendo fede alla sua statura internazionale, Rino Cirinnà guida il “Red Apple 4et” costituito da due musicisti di base siracusana – lo stesso leader al sax soprano e tenore e Santi Romano al basso e contrabbasso – e da due musicisti di radice italiana ma francesi d’adozione, il chitarrista Vittorio Silvestri e il batterista italo-americano Michael Santanastasio.
L’album è declinato attraverso sei composizioni originali (“Esbjorn” e “Dimples” di Vittorio Silvestri, “Deep down” e “Open letters” di Rino Cirinnà, “Wheater Changes” e “While I was waiting for you” di Michael Santanastasio), e una cover (“Historia de un amor” di Carlos Eleta Almaran) e da ciò si può facilmente intuire come la musica proposta rappresenti appieno la personalità dei singoli musicisti. Quindi atmosfere e dinamiche diversificate in cui passato e presente convivono straordinariamente all’insegna di un jazz che, così come sempre dovrebbe essere, non conosce confini di tempo e/o di luogo. I temi sono tutti godibili, ben strutturati, ottimo l’equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte e, cosa ancora più importante, gli assolo appaiono tutti pertinenti, ben inseriti nel contesto globale, senza alcuna pretesa di stupire l’ascoltatore con improbabili equilibrismi sonori. Ciò detto vorrei spendere qualche parola sull’unica cover presente: “Historia de un amor” è un brano ‘latino’ celebre composto dal panamense Arturo “Chino” Hassán con testo scritto da Carlos Eleta Almarán dopo la morte della moglie di suo fratello. Il pezzo ha raggiunto in breve una grandissima popolarità essendo stato inserito nelle colonne sonore di vari film ed inciso da alcuni dei più grossi nomi della musica internazionale quali Cesária Évora, Dalida, Richard Galliano. Insomma molte esecuzioni con cui raffrontarsi: ebbene Cirinnà e compagni hanno felicemente superato la prova per la stretta attinenza mostrata nei confronti dell’originale grazie anche agli ottimi assolo di Rino Cirinnà e Vittorio Silvestri.

Grande jazz al Festival di Palermo: il SJF in programma dal 23 giugno al 2 luglio

Cari amici, il team di “A Proposito di Jazz” è lieto di comunicarvi una nuova iniziativa che speriamo possa risultare di vostro interesse, la nostra inchiesta su: il Jazz in Sicilia.
L’Isola presenta, in effetti, molti aspetti paradossali ma ce n’è uno che riguarda da vicino il nostro microcosmo. Non c’è dubbio alcuno che la Sicilia sia una delle più belle terre da visitare: un clima splendido, una cucina tradizionale di grande spessore, bellezze storiche, artistiche e naturalistiche su cui non è necessario spendere ulteriori parole. A fronte di tutto ciò, la situazione lavorativa è drammatica… e non da oggi. Il nostro direttore appartiene a quella categoria di chi, alla fine degli anni ’60, fu costretto a stabilirsi a Roma per trovare soddisfacenti condizioni di lavoro.
Dal punto di vista jazzistico, oggi come ieri, la Sicilia è terra fertile di talenti: sono davvero tantissimi i jazzisti siciliani che si sono fatti onore anche al di là delle Alpi. Eppure, nonostante le difficili condizioni lavorative cui prima si faceva riferimento, molti artisti, anche dopo esperienze vissute altrove, hanno preferito ritornare alla terra d’origine per stabilirvisi definitivamente.
Ecco questa inchiesta tende a scoprire quali sono “i segreti” che hanno così fortemente condizionato moltissimi musicisti… ma anche a darvi conto di ciò che di importante accade nell’Isola. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività.
Ci pare quindi opportuno iniziare questa avventura presentando la terza edizione del Sicilia Jazz Festival che si terrà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio.
Seguirà una vasta serie di ritratti, recensioni discografiche, interviste che abbiamo condotto su larga scala avvicinando molti musicisti che abitano in Sicilia senza però trascurare quanti, e sono una minoranza, hanno fatto una scelta diversa.
Buona lettura! (Marina Tuni, redazione APdJ)
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Si svolgerà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio la terza edizione del Sicilia Jazz Festival, promosso ed organizzato dalla Regione Siciliana – Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo, frutto della collaborazione con il Comune e l’Università degli Studi di Palermo, la Fondazione the Brass Group e i Conservatori di Musica siciliani
La manifestazione sembra avere tutte le carte in regola per bissare il successo degli anni scorsi; in effetti, come abbiamo spesso sottolineato specie in questi ultimi tempi, un Festival Jazz a nostro avviso si giustifica solo se in strettissima relazione con il territorio nel cui ambito insiste. Insomma non solo musica ma anche valorizzazione di tutto ciò che il territorio stesso rappresenta, quindi spazio ai talenti locali, forti richiami alle tradizioni culturali, alle testimonianze archeologiche, ai prodotti della terra e via discorrendo.
Ecco, il festival siciliano risponde appieno a questo tipo di peculiarità: per quanto concerne i talenti locali saranno presenti anche quest’anno con numerose esibizioni i dipartimenti jazz dei conservatori “Vincenzo Bellini” di Catania, “Arcangelo Corelli” di Messina, “Alessandro Scarlatti” di Palermo, “Antonio Scontrino” di Trapani, e “Arturo Toscanini” di Ribera al cui interno spiccano come special guest i nomi di Paolo Damiani e Nicky Nicolai.

Per quanto riguarda le location, anche questa terza edizione del Sicilia Jazz Festival vuole rivolgersi alla valorizzazione di luoghi particolarmente significativi per riscoprirli nella loro pienezza storica e culturale in quanto la musica è un linguaggio universale, da tutti compreso senza limiti di età e di genere, senza limiti di appartenenza e di razza. Prova ne sia l’altra importante novità di quest’anno costituita dal fatto che verranno realizzati alcuni spettacoli a Palazzo Butera, per valorizzare ancora di più le bellezze storiche e monumentali della Sicilia.
Ma tutto ciò non avrebbe senso compiuto se non fosse accompagnato da un programma musicale di sicuro livello.
Anche da questo punto di vista, il Festival non ha alcunché da invidiare ad altre situazioni grazie alla scelta oculata degli organizzatori che hanno previsto per il capoluogo siciliano un cast davvero eccellente. Ma la bontà del Festival non si gioca solo sui grandi nomi, dal momento che saranno proposti più di 100 concerti, di cui 10 produzioni orchestrali originali in scena in alcuni siti del centro storico di Palermo quali Palazzo Butera, Palazzo Chiaramonte Steri, il Complesso Monumentale Santa Maria dello Spasimo, il Real Teatro Santa Cecilia e il Teatro di Verdura di Villa Castelnuovo. Sono previste altresì 4 prime assolute di produzioni inedite appositamente commissionate.
Ma vediamo, seppure a grandi linee, cosa ci propone il SJF con specifico riferimento alle “stelle” di primaria grandezza: apertura venerdì 23 giugno allo Steri con Marcus Miller, fuori abbonamento; seguiranno, tutti al Teatro di Verdura, i concerti di Diane Schurr il 24 giugno; Bob Mintzer il 25 giugno; Gregory Porter il 26 giugno; Anastacia il 27 giugno; Al McKay – Earth Wind & Fire Experience il 28 giugno; Judith Hill il 29 giugno; Dave Holland il 30 giugno; Manuel Agnelli il 1 luglio; The Manhattan Transfer il 2 luglio.
Tutti questi concerti saranno accompagnati dall’Orchestra Jazz Siciliana diretta, volta per volta, da Carolina Bubbico, Giuseppe Vasapolli, Dave Holland, Bob Mintzer, Domenico Riina, Antonino Pedone, Gianna Fratta e Vito Giordano.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione, sono stati presentati anche alcuni dati a significare l’importanza della manifestazione. In particolare da segnalare un incremento del 104% per gli abbonamenti realizzati con ben 955 del 2023 al 3 maggio ; ed ancora le entrate di botteghino (dati SIAE) di € 88.802,00 il primo anno, € 147.643,22 con un incremento del 66,26% il secondo anno e € 129.741,00 al 3 maggio scorso per il terzo anno; il numero complessivo degli eventi è stato di 56 nel 2021, 100 nel 2022 con un incremento del 78.57% e 107 nel 2023 con un incremento del +7 % rispetto all’anno precedente; il numero di giornate lavorative dei musicisti residenti è di 693 nel 2021, 1.118 nel 2022 con un incremento del 61.33 % e 1.365 nel 2023 con un incremento del 22.09 %; non si deve trascurare anche il numero di prime esecuzioni assolute con un incremento nel 2023 del 33,33%.
Insomma ci sono tutte le premesse affinché anche l’edizione di quest’anno sia un grande successo.

Gerlando Gatto

BaSi Jazz: un ponte fra territori

Dalla sinergia fra Il Jazz va a scuola, l’associazione culturale Algos – Monk Jazz Club di Catania e l’Onyx Jazz Club di Matera è nato “BaSi Jazz: un ponte fra territori”, progetto realizzato grazie al sostegno del MIC, Bando Musica Jazz 2023, rivolto ai ragazzi delle scuole medie e superiori.

Lo scopo è quello di formare le Giovani Guide del Jazz – G.G.J., con l’aiuto di artisti e docenti noti nel panorama jazzistico italiano e internazionale, e di realizzare uno scambio fra le scuole della Basilicata e della Sicilia: il Liceo Musicale “T. Stigliani” e l’I.C. “Minozzi – Festa” di Matera, l’I.C. “R. Scotellaro” di Tricarico (MT), il Liceo Classico e Scientifico “C. Marchesi” e l’I.C. “G. Parini” di Catania.

L’Onyx Jazz Club di Matera e l’Associazione Algos di Catania hanno testato, nel tempo, come il linguaggio jazz e la pratica di insieme possano portare opportunità formative e sociali per la crescita e lo sviluppo delle generazioni future con un forte impatto sul territorio e puntando l’attenzione su tematiche importanti del nostro tempo, tra cui la sostenibilità ambientale e l’inclusione.

Coadiuvati dai tutor, i giovani diventeranno essi stessi formatori: partendo dai gradi superiori si sperimenterà un processo a cascata che porterà gli studenti Guide a partecipare attivamente, restituendo la propria esperienza agli alunni delle scuole medie, contribuendo in modo diretto a compiere un primo passo nella diffusione della musica jazz nelle giovanissime fasce di età.

Il progetto si avvale di valide collaborazioni di artisti e docenti fra i quali Pasquale Mega, Kevin Grieco, Giuseppe Lapiscopia, Enzo Appella, Rino Locantore (docenti dei corsi di musica Onyx, Matera) e Roberto Catalano, Nello Toscano, Rino Cirinnà, Giuseppe Privitera, Francesca Mara Santangelo, Dino Rubino, Maurizio Cuzzocrea, Roberto Catalano, Franco Barbanera provenienti dalle realtà siciliane.

Le G.G.J. delle diverse scuole coinvolte avranno l’opportunità di esibirsi, nella seconda fase progettuale, in un evento finale in autunno che vedrà protagonisti, fra gli altri, Alfio Antico e Amedeo Ronga.

Tra gli obiettivi del progetto vi sono anche la conoscenza e l’uso di strumenti tipici delle regioni appartenenti alle relative tradizioni popolari, affrontando tematiche di educazione civica e cittadinanza attiva relative nello specifico al rispetto dell’ambiente.

L’altra metà del Jazz, il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, continua a far parlare di sé…

Il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, “L’Altra Metà del Jazz – Voci di donne nella musica Jazz” (2018, KappaVu – Euritmica edizioni) continua a far parlare di sé, anzi a far parlare il suo autore e, soprattutto, le trenta musiciste intervistate! (Redazione)

Cliccando qui potrete accedere all’articolo completo di Guido Michelone pubblicato su Doppio Jazz, con l’intervista in esclusiva a Gerlando Gatto 

Riportiamo il testo dell’intervista:

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«Gerlando Gatto, giornalista professionista, decano della critica jazz italiana di alto livello, negli ultimi anni ha composto una sorta di trittico librario (destinato forse a diventare un polittico) con tre volumi dedicati alla realtà locale, sia pur con apertura internazionali: il primo testo è Gente di Jazz. Interviste e personaggi dentro un festival jazz e l’ultimo, al momento, è Il Jazz Italiano in Epoca Covid. Parlano i jazzisti. Nel mezzo c’è questo originalissimo L’Altra Metà del Jazz. Voci di donne nella musica jazz, di cui l’autore stesso ci parla approfonditamente in quest’intervista esclusiva.

-Gerlando, come ti è venuta in mente l’idea di un libro di interviste a sole donne jazziste?
La genesi di questo libro è piuttosto particolare. Nel maggio del 2017, quando si trattava di dare l’ok alla stampa, in fase di impaginazione del mio primo libro Gente di Jazz, per ragioni di spazio saltarono due interviste a Tiziana Ghiglioni e Rita Marcotulli. Così il libro uscì con interviste solo a “maschietti”. La prima ad accorgersi di questa anomalia fu mia moglie di solito molto attenta al mio lavoro; lei mi rimproverò aspramente anche perché poteva venir fuori l’immagine di un giornalista (il sottoscritto) che non considerava le musiciste di jazz mentre nella vita privata aveva molte amicizie reali con jazziste quali la stessa Marcotulli, Maria Pia De Vito, Marilena Paradisi, Antonella Vitale… e l’elenco potrebbe allungarsi di molto.

-Anche per esperienza personale, i rimproveri delle mogli hanno spesso risvolti positivi…
Infatti, questa ramanzina mi fece riflettere molto e mi rafforzò in un’idea che già da tempo mi frullava in testa: dedicare un libro di interviste solo alle jazziste e non già per ghettizzarle ancora una volta ma per dimostrare con i fatti quale importanza abbiano oggi le musiciste jazz, concetto che stenta a passare nella mentalità comune. Parlai, quindi, di questo progetto con Giancarlo Velliscig presidente di Euritmica che insieme a KappaVu avevano curato l’edizione di Gente di Jazz e con Marina Tuni che mi è stata accanto nella stesura di tutti e tre i libri che ho pubblicato. Ambedue trovarono l’idea giusta e così il libro è uscito ottenendo un grande successo. Una precisazione: grande successo non di vendite ma di attestati di stima.

-In che modo le hai prevalentemente intervistate? Telefono, e-mail, prima o dopo i concerti? In hotel? O altro ancora?
Ovviamente un po’ di tutto. Tengo a precisare che il libro contiene alcune interviste storiche, tra cui una a Dora Musumeci mai pubblicate in precedenza e interviste – la maggior parte – realizzate proprio per questa pubblicazione. Ovviamente se dovessi raccontare la storia di ogni singola intervista forse potrei scrivere un altro libro, ma colgo l’occasione per segnalartene qualcuna. Innanzitutto, in questa sede vorrei ancora una volta ricordare la figura di Dora Musumeci la prima vera jazzista italiana, pianista e vocalist, di grandissimo spessore del tutto ignorata dai critici vecchi e nuovi, così come evidenziato anche nelle più recenti Storie del jazz. Ebbene la intervistai nel 1998 come primo atto di un libro a lei dedicato. Purtroppo, un pirata della strada la falciò nel pieno centro di Catania e ovviamente non fu possibile proseguire. Nel 2017 era a Roma Sarah Jane Morris un’artista che in famiglia amiamo tutti e tre: io, mia moglie e mio figlio.

-Un’occasione da cogliere al volo, come si suol dire

Così quando l’artista ci concesse un appuntamento per intervistarla ci recammo tutti e tre e lei [Sarah Jane Morris] fu di una straordinaria dolcezza. Un altro episodio: ho sempre ammirato la pianista e compositrice Myra Melford ma non avevo avuto l’occasione di incontrarla; quasi per caso, decisi di contattarla su Facebook ed ebbi così modo di conoscere non solo un’artista formidabile ma una persona di squisita gentilezza. Non altrettanto potrei dire di una celebre vocalist statunitense di cui non farò il nome che aveva delegato tutto a un portavoce, il quale voleva indicarmi lui quali domanda fare e quali no, al che si beccò un bel… infine vorrei ricordare l’intervista a Radka Toneff, una straordinaria cantante norvegese che ebbi modo di intervistare durante il mio soggiorno in quel Paese e che purtroppo se ne andò suicida nel 1983 a soli 30 anni. Ma, come accennavo, ogni intervista contiene in sé un’altra storia per cui mi fermo qui.

-Pensi che in questa fase storica (il XXI secolo grosso modo) ci sia stata davvero un’emancipazione per la donna che vuole occuparsi di jazz?
In una certa misura sì… ma solo in una certa misura.

-Come spieghi la cronica scarsa presenza nella storia del jazz dell’universo femminile (a parte quello canoro)?
Questa domanda si riallaccia alla precedente. Il jazz è nato in un ambiente prevalentemente maschilista e anche quando negli anni Venti si affermò il blues classico portato in auge da vocalist donne, queste donne faticarono non poco per far assurgere in primo piano tematiche femministe. Al riguardo consiglierei di leggere il bel libro di Angela Davis Blues e femminismo nero. In buona sostanza i maschi l’hanno sempre fatta da padroni nel micro-universo jazzistico anche quando si sapeva benissimo che c’erano moltissime musiciste al di fuori dell’ambito vocale che potevano suonare in qualsivoglia contesto.

-Nel tuo libro su 31 intervistate ben 11 sono straniere da tutto il mondo. Riveli diversità d’approccio, nel parlare e nel dialogo, tra italiane e straniere?
Sostanzialmente no. Ho notato invece diversità di approccio a seconda del rapporto con le intervistate. Ad esempio, Marilena Paradisi si è aperta in modo davvero straordinario, così come Enrica Bacchia si è rivelata nella sua complessa umanità al limite del commovente. Con le straniere questo non è stato possibile in quanto con nessuna c’era un vero e proprio legame di amicizia.

-E fra le straniere noti particolari differenze fra le jazziste?
C’è poco da fare: tranne qualche eccezione le star mai dimenticano di essere tali e non vorrei aggiungere altro.

-A differenza delle straniere (dove per circa metà incontriamo strumentiste o bandleader) le jazz woman tricolori sono tutte cantanti: perché questa penuria in Italia di donne che non suonano uno strumento (salvo qualche eccezione che tu hai ovviamente evidenziato)?
Hai ragione… ma solo in parte. Tornando al mio libro ci sono, infatti, ben sei musiciste che non sono solo vocalist: Giulia Barba si sta sempre più confermando eccellente sassofonista, Marcella Carboni è arpista di assoluto livello, Rita Marcotulli è pianista che tutto il mondo ci invidia, Silvia Bolognesi è considerata una delle migliori contrabbassiste a livello europeo, Donatella Luttazzi oltre a cantare suona bene la chitarra mentre di Dora Musumeci ho già parlato. Questo per dire che anche in Italia la situazione sta cambiando anche se attraversiamo un momento particolarmente difficile e delicato le cui responsabilità, a mio avviso, ricadono anche sugli stessi musicisti alcuni troppo ideologizzati, altri troppo poco.

-Vero o no che sembra essere tornato (magari con ironia) lo stereotipo della cantante jazz un po’ vamp o sexy o dark lady rispetto alle femministe alla Jeanne Lee o Nina Simone degli anni ’60-’70?
Francamente non mi sembra. Ma la mia opinione vale per quel che vale dal momento che negli ultimi anni ho di molto diradato la mia presenza ai concerti e quindi non ho avuto modo di percepire ciò che tu affermi.

-Da quanto ti hanno raccontato, rispetto alle narrazioni del passato, il jazz è ancora un ambiente maschilista?
A questa domanda ho già risposto seppur tra le righe in precedenza. Comunque lo ribadisco in modo chiaro e netto: il jazz rimane un ambiente maschilista e ci vorrà ancora qualche tempo perché le cose cambino realmente e non solo di facciata”.

-Come mai nel giornalismo, nella critica, nell’insegnamento, nella fotografia, nell’organizzazione del jazz la donna è largamente e tristemente assente (o minoritaria)?
Innanzitutto vorrei sottolineare come in tutti gli ambiti che hai citato si prosegue lungo la vecchia strada per cui il merito, le capacità sono all’ultimo posto. Vedi ciò che accade nell’editoria, nei Conservatori per cui gli studenti pagano cifre rilevanti per avere un’educazione al massimo livello e i direttori viceversa pensano a risparmiare a scapito della qualità dell’insegnamento. Purtroppo, valgono altri elementi. Ciò detto la risposta alla tua domanda va ricercata nel fatto che gli spazi sono veramente pochi e dato il maschilismo imperante per le donne non è facile trovare un terreno su cui avventurarsi».
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I nostri libri

Angela Davis – “Blues e femminismo nero” – Alegre – pgg. 320 – € 20,00

Quando si parla di Angela Davis il pensiero corre immediatamente all’attivista afro-americana che, nei decenni scorsi, fu protagonista di tante battaglie per l’emancipazione della gente di colore. Attività che si svolse anche attraverso importanti contributi letterari tra cui “Blues Legacies and Black Feminism” pubblicato nel 1998 e che adesso possiamo leggere in italiano grazie all’ottima traduzione di Mari Moise e Angelica Pesarini.
Della storia del blues si occupa compiutamente Ted Gioia nel volume che analizziamo qui di seguito. Questo volume analizza viceversa un aspetto particolare ma molto, molto importante del blues: il ruolo di tre vocalist – Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, appartenenti a tre generazioni diverse – nell’interpretare questo genere, sostanziandolo di contenuti che avrebbero influenzato lo sviluppo sociale nel suo insieme. Stiamo, infatti, parlando di un tema ancora oggi di attualità come l’emancipazione delle donne e l’importanza del loro ruolo.
Angela Davis, con la sua prosa partecipativa, analizza i testi dei brani interpretati dalle tre blueswoman e le loro performances, ricavandone tracce di tradizioni culturali risalenti al passato schiavista. Di qui un quadro esauriente di quali fossero le condizioni in cui le citate vocalist si sono trovate ad operare, un ambiente in cui era molto molto difficile contestare gli assunti patriarcali sul ruolo delle donne specie per quanto concerneva la sessualità. Per non parlare della marginalità che avevano gli artisti di colore nella nascente industria discografica. Ebbene queste tre artiste rivoluzionarono letteralmente l’industria discografica di massa assegnando un ruolo ben preciso e importante alle donne in genere, a quelle di colore in particolare. E si badi bene, si parla di musica, ma l’azione ‘rivoluzionaria’ qui accennata spinse i suoi orizzonti ben al di là del jazz degli anni Venti in quanto vi possiamo trovare i prodromi di quel femminismo che, come si accennava in apertura, avrebbe posto in primo piano il problema dell’emancipazione femminile, indipendentemente dal colore della pelle. Come a dire che sarebbe errato consegnare il monopolio della lotta femminista alle sole donne bianche della middle class, anche se “attribuire una coscienza femminista per come la definiamo oggi a Ma Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday sarebbe insensato e poco interessante”. A dirlo è la stessa Angela Davis nell’introduzione al suo libro, affermando subito dopo: “Ciò che è più interessante e provocatorio della produzione artistica che ognuna di queste donne ha lasciato è il modo in cui dalla loro musica emergono – attraverso delle crepe all’interno dei discorsi patriarcali – tracce di un’indole femminista”.
E crediamo che questa sia una chiave di lettura assai utile per chi voglia intraprendere un viaggio nel tempo attraverso le parole di Angela Davis.

Amedeo Furfaro – “100 dischi di jazz italiano” – The Writer – pgg. 128 – € 12,00

Si succedono le fatiche editoriali del nostro collaboratore Amedeo Furfaro dedicate prevalentemente alla discografia. Quest’ultimo volume si pone come occasione di riflessione sulla produzione discografica compresa fra 2020 e inizio 2022, un periodo quindi particolarmente delicato e non solo per il jazz e i suoi musicisti.
Ecco quindi una selezione di album, successiva ai cinque tomi de “Il giro del jazz italiano in ottanta dischi”, in cui l’Autore ha messo assieme materiali sparsi per rappresentare il jazz italiano su disco in era pandemica. Un jazz, quello italiano, le cui quotazioni sono in netto rialzo anche a livello discografico grazie ai grandi maestri, alla “generazione di mezzo” e alle nuove leve che hanno saputo coniugare preparazione tecnica e originalità dei progetti attuati.
In effetti i musicisti italiani di jazz, pure in un momento di difficoltà operativa e di graduale ripresa dei rapporti col pubblico, non hanno rinunciato al proprio ruolo ritrovando proprio nei lavori discografici momenti di rivalsa verso le difficoltà   esterne. Certo, non tutte le produzioni discografiche del periodo assurgono ad un eccellente livello, ma in linea di massima siamo su standard qualitativi più che accettabili.
Il merito è sicuramente ascrivibile ai musicisti…ma non solo ché rilevante è stato anche il contributo di altre componenti quali le label che hanno acquisito una levatura professionale che le proietta sempre più spesso sul mercato internazionale e gli staff che in varie fasi hanno concorso a confezionare il prodotto discografico. Monitorando il jazz nazionale di inizio millennio l’Autore ha individuato alcune macro-tendenze, da quelle più attente alla tradizione afroamericana a quelle più radicali, da quelle affondate nell’humus del territorio alle più contaminate stilisticamente.
Dal turn over emerso si sono evidenziati interessanti talenti ma è un po’ tutto il  “sistema” jazzistico italiano che si va riconfigurando, a  partire da festival e rassegne che sono poi il campo in cui le idee si confrontano e ricevono il riscontro della critica e del pubblico. Quel pubblico che è anche acquirente di dischi in cui cerca di riassaporare il gusto di un live, di un contatto ravvicinato con i propri beniamini. Il saggio è impreziosito dall’inserto fotografico curato da Maria Gabriella Sartini.

Ted Gioia – “Delta Blues” – EDT, Siena Jazz – pgg. 460 – € 26,00

Prima di addentrarmi nelle valutazioni su quest’altro importante volume di Ted Gioia, vorrei premettere alcune considerazioni che mi sembrano importanti.
Innanzitutto devo confessare che pur amando il blues non ne sono un esperto per cui il volume in oggetto è stato come una sorta di manna avendomi fornita una messe enorme di informazioni che non possedevo.
In secondo luogo è straordinario il modo in cui Gioia è riuscito ad includere in questo volume quella messe enorme di informazioni cui prima facevo riferimento: tenete presente che il sottoscritto è da due anni che cerca di completare la biografia di un grande pianista ancora in esercizio, senza riuscirvi proprio per la difficoltà di trovare e sistematizzare dati biografici.
A questo punto vi sarete già fatta un’idea di quanto potrete trovare in “Delta Blues” ma vi assicuro che l’integrale lettura del libro sarà di gran lunga superiore alle vostre più rosee aspettative.
In effetti Gioia, nel tracciare la storia del Blues partendo da quegli artisti provenienti dalle zone poverissime del Delta del Mississippi a partire dai primi anni Venti del secolo scorso, in realtà ci racconta la storia di un genere musicale che ha avuto una influenza determinante sulla musica degli anni a venire. Ecco quindi i primi straordinari personaggi come Charley Patton, Son House, Skip James e Robert Johnson che hanno lasciato i primi semi fatti poi germogliare da artisti di caratura internazionale che hanno portato il blues al successo mondiale, da Muddy Waters a Howlin’ Wolf, da John Lee Hooker a B. B. King, fino al blues revival degli anni Sessanta, il tutto senza trascurare la scena contemporanea del Delta fino agli anni Duemila.
Insomma Ted Gioia, dopo aver tracciato un quadro esauriente di cosa fosse la regione del Delta agli inizi del secolo scorso, con una agricoltura ridotta ai minimi termini per la concorrenza del cotone proveniente dall’Asia e senza speranza di sviluppo data anche la mancanza di rilevanti fermenti culturali, ci fa capire passo dopo passo come proprio in questa poverissima regione siano da ricercare le radici della musica nera, fosse la stessa chiamata jazz, funky o rock’n’roll.
Ancora una volta, comunque, almeno a mio avviso, il volume di Gioia si caratterizza oltre che per la competenza (ma su questo non credo ci sia bisogno di aggiungere altro) anche – e forse soprattutto – per lo stile di scrittura, uno stile assolutamente piano ma non banale, comprensibile a tutti, in cui le vite e le azioni dei vari artisti si inseriscono a perfezione nelle trame di un racconto tanto appassionante quanto di straordinaria vivacità. Ci sembra quasi di vedere con i nostri occhi il contesto socio-economico in cui si svolge la vicenda, le piantagioni in cui i primi bluesmen operavano, le prigioni in cui molti di essi trascorsero del tempo, i locali in cui accorreva una massa di povera gente per ascoltare i loro eroi. E in questo racconto trovano il loro posto anche le altre figure che hanno contribuito all’affermazione del blues: i produttori, i discografici, i ricercatori grazie ai quali si devono importanti scoperte, i musicologi che hanno cercato di interpretare i più reconditi anfratti di questa musica. E a questo punto è doverosa una precisazione: se lo stile di Gioia risulta tanto potente anche nella nostra lingua lo si deve all’ottima traduzione operata da Francesco Martinelli non nuovo ad operazioni del genere, e in questo caso “responsabile” anche di un prezioso glossario, pubblicato alla fine del volume, in cui si spiegano molti termini che ai più potrebbero risultare assolutamente incomprensibili.
Il volume è arricchito, infine, da un indice analitico sempre opportuno, una discografia selezionata (i 100 ascolti imprescindibili) e una ricca bibliografia, in cui gli appassionati troveranno pane per i loro denti.

Leonardo Lodato – “Cielo, la mia musica!” – Domenico Sanfilippo Editore e Compagnia Nuove Indye – pgg. 145 – € 20,00

Dal Mississippi alla Sicilia: il salto è notevole ma non privo di qualche suggestione. A condurci per mano in questo immaginario viaggio attraverso una delle isole più belle del mondo, è Leonardo Lodato,  giornalista e saggista ovviamente siciliano, capo servizio Cultura e Spettacolo del quotidiano “La Sicilia” di Catania, che oramai da tempo dedica la sua attenzione al mondo musicale nelle sue più svariate accezioni.
La genesi del libro, giunto alla seconda edizione, è spiegata assai bene dallo stesso Lodato nel corso di un’intervista: “guardavo il cielo stellato e ascoltavo la mia musica preferita. E’ nato un gioco. Ogni stella veniva associata ad un artista o ad una canzone che avesse a che fare con il cielo, con la luce, con i colori. All’improvviso mi è venuto un flash e ho pensato: ma perché non costruire una piccola costellazione di artisti siciliani? E questo è il risultato”.
In particolare, l’autore è partito da una serie di domande davvero originali che tendono a coniugare il cielo con la musica (da cui il titolo): quanto influiscono la luce del sole, il suo calore, nell’essere siciliani? E tutto ciò quanto in particolare se si è musicisti? E il cielo, soprattutto, come lo vede chi suona, chi canta, chi compone? Insomma come influiscono sulla musica due delle principali caratteristiche del mondo siculo quali il calore del sole e la bellezza del cielo? Per offrire esaurienti risposte a tali interrogativi Lodato ha intervistato dodici musicisti, fortemente legati all’Isola, che citiamo uno per uno: Bob Salmieri (Milagro Acustico e Erodoto Project), Andrea Cantieri, Caterina Anastasi (Babil On Suite), Compagnia d’Encelado Superbo, Giuseppina Torre, Lello Analfino, Marian Trapassi, Mario Venuti, Paolo Buonvino, Pupi di Surfaro, Roberta Finocchiaro e Rosalba Bentivoglio.
Questi artisti, appartenenti a diversi generi musicali (tra cui ovviamente anche il jazz) hanno risposto cercando di offrire una propria personalissima visione di quale può essere per un artista il rapporto con gli elementi naturali che ci accompagnano giorno dopo giorno. Di qui interviste che si distanziano dal classico cliché per rappresentarci non tanto e non solo l’artista quanto l’uomo, la donna che vivono compiutamente la propria vita ponendosi interrogativi non banali. Ecco quindi, ad esempio, la vocalist jazz Rosalba Bentivoglio che afferma:” Questo è il cielo che sogna la terra e mi domando: è il cielo di tutti o solo il mio a darmi questa vertigine e farmi presentire l’essere mortale? Il mondo materiale che appare così solido alla percezione dei nostri cinque sensi è un universo di energia in movimento. Il macrocosmo ripete se stesso nell’uomo e il microcosmo è a sua volta riflesso in tutti gli atomi minori”. Alla successiva domanda di Lodato se esiste un altrove dove cercare Dio, la Bentivoglio risponde semplicemente “Questo, forse, taumaturgicamente, è la ricerca di Dio”.
Questa nuova edizione di “Cielo, la mia musica” è arricchita da una playlist, ascoltabile su Spotify, con i brani scelti dall’autore per raccontare il cammino che ha portato alla stesura del libro, mentre la prefazione è firmata dal tastierista dei Rockets, Fabrice Quagliotti.

Gerlando Gatto

Sempre in primo piano “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

Procedono le presentazioni dell’ultimo volume del nostro direttore, Gerlando Gatto, “Il Jazz italiano in epoca Covid”.
L’ultima, in ordine di tempo, il 20 agosto presso la terrazza del Kursaal di Giulianova gentilmente messa a disposizione dall’assessore Di Carlo.
Ed è stata una serata davvero magica, al di là di ogni più rosea aspettativa. Gatto si è presentato con al suo fianco il celebre musicista Renzo Ruggieri, uno dei migliori fisarmonicisti jazz a livello europeo. Il tutto impreziosito da un pubblico numeroso ma, quel che più conta attento ed entusiasta.
Gatto ha introdotto la serata con poche ma esaurienti parole sul volume in oggetto, lasciando quindi campo libero a Ruggieri il quale ha affascinato e commosso il pubblico con una sua splendida composizione “Terre”.
La serata è proseguita, quindi, con un serrato dialogo tra Gatto e Ruggieri con quest’ultimo che, oltre ad essere un grandissimo musicista, ha evidenziato una squisita sensibilità nell’illustrare le motivazioni e le valenze del volume. Ma, com’era logico attendersi, il pubblico ha particolarmente gradito le performances solitarie del fisarmonicista che ha presentato, in successione, altre due sue composizioni, “Carnevale” e “La lettera” per chiudere con il celeberrimo “Libertango”. Dal canto suo Gatto ha spiegato perché ha inteso il volume come una testimonianza giornalistica avendo preferito non esporre proprie idee ma lasciar parlare i musicisti.
Alla fine della serata Gatto mi ha confessato che la sua più grade soddisfazione era stata la dichiarazione di una gentile signora che, dopo averlo ringraziato per la presentazione stringata, senza fronzoli, aveva esplicitamente dichiarato che dopo aver sentito Ruggieri, aveva cambiato idea sul jazz: “Prima dicevo che non mi piaceva, ma se questo è jazz adesso lo adoro”. (Redazione)

In precedenza il 2 luglio, nell’ambito del Festival jazz di Palermo di cui vi abbiamo ampiamente riferito, nella splendida cornice del “Ridotto dello Spasimo” appuntamento con Gerlando Gatto per la presentazione del volume in oggetto. All’evento hanno partecipato anche Ignazio Garsia anima pulsante del Brass, Rosanna Minafò instancabile addetto stampa presso la fondazione Brass Group nonché Responsabile Ufficio Stampa presso Sicilia Jazz Festival, e la cantante Kate Worker. La serata è stata vivacizzata da polemiche sollevate da alcuni partecipanti: in effetti mentre Gatto, limitandosi a riportare le opinioni dei musicisti, sottolineava come gli stessi non fossero rimasti particolarmente soddisfatti del comportamento del governo durante quel terribile periodo del lockdown generalizzato, alcuni tra il pubblico hanno fortemente contestato queste affermazioni sostenendo che il governo si era mosso assai bene. E si è arrivati a sostenere che l’Italia era stata la nazione che meglio era riuscita a tutelare i musicisti rimasti senza lavoro, affermazione che francamente si può accettare solo presupponendo una precisa e ben individuata militanza politica. Comunque la serata è ben presto rientrata nei limiti di una piacevole dialettica grazie ad un canto alle pregevoli performance canore della Worker, dall’altro dal sempre puntuale intervento di Garsia che ha riprodotto la sua tesi (per cui ha lanciato una petizione) affinché la produzione delle 58 orchestre pubbliche sia estesa al Jazz, creando 1200 posti di lavoro per un’offerta più rispondente ai bisogni di musica del Paese .

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Parallelamente a queste presentazioni, si susseguono anche le recensioni sulla stampa. Questa volta ne segnaliamo due. La prima è uscita sul quotidiano La Sicilia di Catania di qualche giorno fa a firma di Leonardo Lodato e ve la riproponiamo integralmente:
MUSICA
Gerlando Gatto e il mondo del jazz ai tempi (duri) del Coronavirus (LEONARDO LODATO)
Il silenzio si fa musica. E viceversa. Può sembrare banale (o, forse, anacronistico) ma il libro “Il jazz italiano in epoca Covid” (pp. 217) è occasione e spunto di riflessione/i per chi fa musica e per chi la ascolta, perché il Covid, e soprattutto i consequenziali
lockdown, hanno modificato, se non radicalmente cambiato, certi modi di interpretare le “pause”, generando il silenzio come “sinonimo di attesa”.
Lo sa bene Gerlando Gatto che non vuole ergersi a saccente risolutore di problematiche esistenziali ma che, da ottimo conoscitore della scena jazzistica italiana, ha voluto raccogliere e mettere in ordine “sentimenti” e sensazioni, lo state of mind del mondo del jazz ai tempi del Coronavirus. Quarantuno gli artisti interpellati. Undici domande indirizzate ai protagonisti, per entrare nella loro vita privata o, per meglio dire, come accaduto a tutti noi, “derubata” della routine, del contatto diretto con gli altri. Ed è emblematico che a rispondere per primo alle domande di Gerlando Gatto, sia stato chiamato Claudio Angeleri, pianista e compositore nato proprio in quella Bergamo divenuta tristemente simbolo del disagio e del terrificante scontro con la prima ondata di Covid (e chissà per quanto tempo ci porteremo dentro agli occhi e al cuore, quella sfilata funebre di carri militari).
Racconta Angeleri: «Ho cercato subito di essere vicino ai giovani facendo quello che so fare meglio. Cioè insegnando e suonando… Cambieremo modo di essere e anche di fruire della musica per almeno i prossimi due/tre anni…». Forte delle sue frequentazioni, Gerlando Gatto coinvolge nel progetto artisti di caratura internazionale, pensiamo ad Enrico Rava, Fabrizio Bosso, Franco D’Andrea. E tanti siciliani come lui (catanese di stanza a Roma), come Rosalba Bentivoglio, Francesco Branciamore, Cettina Donato, Pippo Guarnera e Stefano Maltese. Ma è con le parole della vocalist Enrica Bacchia che ci piace l’idea del ripartire da zero per ricostruire
il rapporto tra musica e musicisti, tra palco e spettatore. Da quelle «intuizioni ancora in fasce, campi positivi e negativi di energia con cui relazionarsi, filamenti di futuri astratti da condensare…».

La seconda è stata pubblicata su Alias (“Manifesto”) a firma di Luigi Onori già apprezzato collaboratore di “A Proposito di Jazz”.
UN LIBRO
Esce tre mesi dopo l’inizio del lockdown Il jazz italiano in epoca Covid. Parlano i jazzisti (pp. 218, GG edizioni), che il giornalista e critico musicale Gerlando Gatto pubblica nel giugno 2020. La sua è una delle «voci» jazzistiche più autorevoli: Gatto, attivo dagli anni Sessanta, esperienze dalla radio alla carta stampata, dalla tv al web, dal 2007 cura un blog-newsletter che nel ‘17 è diventato testata giornalistica:
A proposito di jazz. Ha realizzato, tra l’altro, due volumi di interviste nel 2017 e ’18 e
usa la forma-intervista nel nuovo testo per dialogare con 41 jazzisti di varie generazioni (E. Rava, L. Tucci), stili (S. Maltese, R. Ruggieri), strumenti (F. D’Andrea, F. Bosso), sesso (C. Donato, R. Bentivoglio).
Si serve di una griglia di undici domande modificandola quando possibile, a seconda
di come l’intervista sia stata raccolta, prevalentemente a distanza. I quesiti-base vanno dalla situazione economica alla mutazione delle relazioni umane e professionali, dai rapporti con istituzioni e organismi di rappresentanza al valore della musica e a cosa ascoltare durante l’isolamento.
Il pianista classico Massimo Giuseppe Bianchi, nella prefazione, specifica che l’autore «ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica (…). Gerlando capisce e ama la musica, rispetta i musicisti e da loro è rispettato nonché, come da qui traspare, riconosciuto quale interlocutore credibile (…). Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona (…). L’interesse del presente volume, ne sono convinto, non si esaurirà con l’estinzione del pericolo attuale».
Ha ragione il prefattore, perché se a una prima lettura si sente la mancanza di una
sintesi ragionata delle risposte, rileggendo Il jazz italiano in epoca Covid si apprezzano la varietà dei pareri e l’apertura delle idee. Ciò restituisce l’effetto traumatico, spiazzante del primo lockdown e fa capire, a distanza, come l’interpretazione del fenomeno e del suo impatto sia ancora «aperta». Ecco una breve antologia di risposte.
Francesco Cusa: «Ritengo che sarà molto difficile ripartire. Occorrerà approfittare di questo stallo per rivedere la politica dell’organizzazione musicale in Italia, liberarla dai gangli che la congestionano in clan e cordate, per una gestione e selezione più armoniche e meno elitarie. La parola d’ordine è comunque defiscalizzare».
Massimo De Mattia: «Credo che l’arte e la cultura siano il vero capitale, senza il quale oggi saremmo già tutti vittime della disperazione. Abbiamo bisogno
di assurgere a un nuovo stato emotivo di speranza e meraviglia, di folgorazione e
di sogno (…) Non vedo su quali altre forze contare. A parte l’amore».
Maria Pia De Vito: «Si stanno attivando moltissime catene di solidarietà, ed è una bella cosa. Per chi riesce a mettersi in ‘pausa’ nella pausa, è come un ritiro spirituale, una grande pulizia interna. Ma non ho molte illusioni sulle dinamiche dei ‘poteri’ che ritroveremo all’uscita da tutto questo».
Enzo Favata: «Ho deciso di riorganizzare il mio tempo, dando uno schema rigido alle mie lunghe giornate, suddivise con orari ed impegni precisi (…) 400 ore di registrazione, non voglio lasciarle in un cassetto e le cose più interessanti le sto rimasterizzando e mettendo online, sarà un lavoro che continuerò anche finiti i
tempi del coronavirus».
Paolo Fresu: «Seguo con attenzione le istanze del mondo dei lavoratori dello spettacolo che versano in condizioni di estremo disagio. Partecipo a una miriade di tavoli di discussione su questi temi e si sta tentando di mettere assieme tutti e di dialogare perché il nostro mondo è molto vasto ed altrettanto sfilacciato. Dirigo
anche le attività della Federazione Nazionale il Jazz Italiano, della quale sono il presidente».
Enrico Intra: «I rapporti tra persone si modificheranno per chi ha memoria del passato. Per chi non ha cura dei beni comuni che ci circondano e attenzione verso il prossimo non cambierà nulla. Lo dico per esperienza. Ho vissuto da bambino quel drammatico periodo della Seconda guerra mondiale, la povertà del dopoguerra
e certi avvenimenti tragici che hanno segnato la nostra Repubblica qualche decennio
dopo».
Nicola Mingo: «Cerco di reagire mantenendo un contatto diretto con il pubblico (…) attraverso i social. Organizzo dirette e video party con miei home concert, invitando i follower e gli appassionati per stare in compagnia e far ascoltare la mia musica. Il vantaggio dei social è che ti (…) consentono la comunicazione diretta con musicisti e appassionati da ogni parte del mondo».
Franco Piana: «Spero che (il Covid, ndr) ci faccia capire quanto è importante dare la
precedenza alle persone piuttosto che alle cose, siamo sempre troppo presi da noi stessi e abbiamo poco tempo da dedicare alle persone care o a quelle bisognose».