Roberto Ottaviano mai delude

Non sono certo moltissimi, oggi, i musicisti che mai deludono, gli artisti che non sbagliano un colpo sia nelle produzioni discografiche sia negli eventi live. Bene, tra questi pochi c’è sicuramente il sassofonista Roberto Ottaviano il quale giorni fa si è esibito alla Casa del Jazz di Roma alla testa del suo quintetto ‘Eternal Love’ con Marco Colonna al clarinetto basso, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Ermanno Baron alla batteria in sostituzione di Zeno De Rossi.

L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti europei, un sassofonista e un band-leader che non ha ancora raccolto tutto ciò che effettivamente merita. In effetti Ottaviano ha sviluppato un linguaggio del tutto personale in cui il gusto per l’improvvisazione si coniuga da un lato con la profonda conoscenza delle tradizioni jazzistiche dall’altro con la ferrea volontà di guardare sempre avanti. Il tutto impreziosito da una tecnica che gli consente di esprimere compiutamente i sentimenti, le sensazioni del momento che, proprio per questo, riescono a smuovere nell’ascoltatore un mondo di emozioni.

Il concerto di Roma è stato salutato dalla folta partecipazione di un pubblico numeroso che ha seguito con entusiasmo la musica eseguita da Ottaviano e compagni. Musica che come recita il titolo del suo ultimo cd – “People” – è una sorta di inno alla pace, alla tolleranza, alla concordia universale. Ma non solo ché il musicista ci tiene a lumeggiare un altro elemento della sua poetica: la necessità sociale di denunciare ciò che non va. Dall’osservazione dell’umanità, con tutti i suoi pregi e difatti, nasce questo album in cui Roberto ha voluto raccogliere alcuni dei momenti salienti del gruppo durante le sue esibizioni nel tentativo di “disegnare ritratti di questa umanità fatta di persone incontrate realmente e virtualmente, persone che ci hanno dato qualcosa, i loro luoghi ed i loro respiri».

Nelle circa due ore di concerto, Ottaviano ha presentato quasi per intero il contenuto del disco vale a dire quattro delle sue cinque composizioni originali (Mong’s Speakin’, Hariprasad, Homo Sum e Ohnedaruth) e i brani At The Wheel Well di Nikos Kypourgos, Gare Guillemans di Misha Mengelberg e come bis, Caminho Das Águas di Rodrigo Manhero e African Marketplace di Abdullah Ibrahim.

Ora, a prescindere dai contenuti sociali sopra esposti, la musica in sé è semplicemente superlativa. L’intesa tra i cinque è perfetta e anche l’apporto singolo è in linea con la cifra generale del gruppo. E l’empatia che si respira all’interno di “Eternal Love” è dimostrata dal fatto che a Roma la mancanza del batterista titolare Zeno De Rossi non è stata avvertita più di tanto data la facilità, la spontaneità con cui Ermanno Baron si è inserito. Insomma un quintetto davvero straordinario in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente disegnato dal leader.

Gerlando Gatto

Casa del Jazz gremita per Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti, con Gerlando Gatto per “L’altra metà del Jazz”

Se mi si consente l’espressione, si è chiuso con il classico “botto” il secondo ciclo de “L’Altra Metà del Jazz” ideato e condotto da Gerlando Gatto alla Casa del Jazz di Roma.
Martedì scorso, per la serata conclusiva che ha visto come ospiti Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti, sala praticamente piena e pubblico sinceramente entusiasta ad applaudire sia le interviste sia le performance delle due straordinarie vocalist.
Questi appuntamenti avevano un preciso obiettivo: prendendo spunto dal libro di Gatto “L’Altra Metà del Jazz”, si voleva portare a conoscenza del pubblico il fatto che oramai la scena jazzistica è frequentata da un gran numero di jazziste che sul piano artistico nulla hanno da invidiare ai colleghi “maschi”. Di qui la scelta di 22 musiciste, due per ciascuna serata, una già affermata, l’altra in sicura crescita.
Ebbene, a conti fatti, si può ben affermare che tutte le musiciste invitate hanno dato prova di un talento indiscusso che ha letteralmente affascinato il pubblico accorso, sempre numeroso.
Per corroborare il presupposto di tutta l’iniziativa, alla fine dell’ultima serata mi sono divertito a chiedere il parere di alcuni spettatori e le risposte sono state pressoché unanimi: “Ottimo format e ottima la scelta delle artiste”, “Strepitosa Cinzia, suadente Laura, elegante l’intervistatore”, “Bella la formula che tende a far conoscere chi c’è oltre l’artista”.
In effetti Gatto, con le sue interviste, ha sempre inteso mostrare al pubblico chi sono i personaggi da lui intervistati al di là del profilo pubblico facilmente rintracciabile dai dischi e sui social. E ovviamente anche l’ultima serata si è dipanata lungo questo filo conduttore con una specificità: Gatto ha sempre dichiarato di conoscere bene le musiciste da lui intervistate tranne qualche eccezione tra cui la vocalist che ha chiuso la serata vale a dire Laura Sciocchetti.
Ma procediamo con ordine.

Come accennato, la vocalist Cinzia Tedesco ha aperto la serata raccontando la sua storia, confermando l’intuizione di Gatto che voluto mettere in luce il suo lato umano, al di là del suo nutrito curriculum artistico. Cinzia, per una forma di pudore interiore, tende a non far trasparire il suo essere, la sua anima. Ciononostante, vuoi per l’atmosfera creatasi nell’incontro, vuoi per la consapevolezza che l’intento di Gatto era unicamente quello di farla sentire a proprio agio, la vocalist parla a ruota libera ripercorrendo con partecipazione e non senza una punta di orgoglio i vari stadi della sua vita: dall’infanzia vissuta in un aeroporto militare, ai suoi studi e ai traguardi conseguiti grazie al duro lavoro e all’impegno: si dichiara infatti soddisfatta e talvolta anche sorpresa di quello che è riuscita ad ottenere, oltre che curiosa di quanto ancora può raggiungere. Parlando più specificatamente della sua carriera, racconta di aver iniziato a cantare con la band del padre, polistrumentista autodidatta ed ex cantante, che organizzava dei concerti in aeroporto, alle feste di matrimonio ed anche alle feste patronali; per quanto riguarda invece la formazione esterna alla musica, Cinzia ha studiato informatica all’università e si è laureata a pieni voti, laurea che la porterà a lavorare per alcune aziende di alto profilo soprattutto nel campo della direzione commerciale e, proprio per questo, a trasferirsi a Roma.
Alla ormai consueta domanda di Gatto sulle eventuali difficoltà riscontrate nell’ambiente dovute al suo essere donna, Cinzia risponde parlando delle iniziative a cui prende parte che si occupano proprio di questo tema, dando particolare spazio al suo lavoro come ambasciatrice della rete Inclusione Donna, che si occupa di portare avanti istanze a livello istituzionale riguardo alla prevalenza di uomini, negli organi direzionali di numerose aziende, uomini con i quali, puntualizza Cinzia, non ha alcun malvolere, così come verso i numerosi musicisti con cui ha lavorato. Ciò non toglie, comunque, che sia necessario un lavoro più incisivo per avere una presenza maggiore di donne, ad esempio nelle direzioni artistiche dei vari festival, dominate da uomini che spesso guardano con titubanza le artiste, in primis le vocalist; Cinzia ci tiene tuttavia a precisare la sua posizione contro i festival cosiddetti “al femminile”, colpevoli a suo dire di attuare una ghettizzazione delle artiste, e un loro confinamento in un recinto ad esse riservato.
Virando invece sul lato più intimo della sua vita, parla del suo matrimonio che resiste da tanti anni, affermando che nonostante la difficoltà di mantenere un rapporto così duraturo, data la sua professione, qualcosa di bello si può costruire, e a questo proposito spende delle bellissime parole per il giovane figlio presente in prima fila.
Riguardo alla sua carriera, si parla maggiormente della pubblicazione dei due ultimi lavori, Verdi’s Mood e Mister Puccini, ambedue frutto di una rivisitazione in chiave jazzistica di brani tratti dai due capolavori.
Verdi’s Mood del 2015 è, al di là dell’indiscusso valore artistico, nasce anche dall’intraprendenza dell’artista che racconta di come, a disco finito, si sia recata al quartier generale della Sony Italia a Milano ottenendo un colloquio con Luciano Rebeggiani. Alla di lui domanda sul perché proprio quel disco tra tanti dovesse essere pubblicato, lei diede una risposta tanto semplice quanto incisiva e decisa: “Perché questo disco merita.” Tale affermazione venne confermata da Rebeggiani quando, tre mesi dopo, le comunicò la sua decisione di pubblicare il disco e di inserirlo nel catalogo jazz della Sony Italia. Sui meriti del disco, Cinzia afferma che essi risiedono nella capacità di costituire un ponte tra il grande passato di Verdi e il presente. Inoltre, un elemento distintivo del disco è la pertinenza delle sue rielaborazioni con il materiale originale. Questo principio le fu inculcato da Pippo Baudo, con il quale ha avuto il piacere di lavorare, ovvero il rispetto per il materiale di base durante qualsivoglia rivisitazione.
Dedica infine due parole all’uso dello scat e a ciò che esso rappresenta per lei, vale a dire un senso di libertà, di “lancio” di note che provengono dai sentimenti più profondi provati in quel preciso momento e fa giustamente notare come lo scat di una performance dal vivo difficilmente venga replicato in tutta la sua interezza in un’altra occasione, donando ad ogni esibizione un’unicità altrimenti non così facilmente raggiungibile.
I brani eseguiti da Cinzia, in coppia con il celeberrimo pianista Pino Jodice, sono stati Sailing di Christopher Cross, riarrangiata da Jodice, Celeste Aida e In quelle trine morbide rispettivamente tratte dall’Aida di Verdi e dalla Manon Lescaut di Puccini, e RiTe TiMe, tratto dall’omonimo disco del 2004 registrato insieme a Jodice.

Il secondo tempo ha visto come protagonista la vocalist Laura Sciocchetti, accompagnata da Danilo Blaiotta, già al fianco della cantante Chiara Viola. Laura racconta di aver iniziato a cantare molto presto e che poi, da adolescente, ha cominciato a studiare da autodidatta pianoforte e chitarra per accompagnare le sue canzoni: il suo primo contatto con il jazz invece avverrà a 20 anni, ma in questo caso si può parlare più che altro di una “riscoperta”; infatti il primissimo incontro con il jazz lo aveva avuto, seppure in maniera inconsapevole, durante la sua infanzia grazie al fratello, sassofonista, grande appassionato del genere; quindi, oltre a suonare il suo strumento, ascoltava molti dischi dei grandi dell’olimpo jazzistico quali Davis, Parker o Coltrane. Laura spiega come la sua carriera sia iniziata sostituendo un’altra vocalist in un concerto, e come sia continuata studiando al Conservatorio Santa Cecilia con Elisabetta Antonini, Maria Pia de Vito e Carla Marcotulli – come suoi modelli, cita artiste quali Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald, Carmen McRae e Gretchen Parlato, ma anche vocalist al di fuori del genere e più vicine al mondo del folk come Joni Mitchell.
Parlando più approfonditamente della sua carriera, racconta con affetto sia la sua esperienza come voce solista nell’Orchestra Nazionale di  Jazz dei Conservatori italiani, diretta da Pino Jodice, le selezioni svolte tra tutti i conservatori d’Italia e dei due tour fatti con l’orchestra (uno basato su rivisitazioni in chiave jazz di colonne sonore di cartoni animati, l’altro un tributo alla canzone napoletana), sia la registrazione nel 2020 del suo primo e finora unico disco Characters, in cui sono contenuti sette brani originali e due cover di Joni Mitchell e Thelonious Monk. Infine racconta della sua passione per la tecnica vocale dello scat, da lei definito “croce e delizia, cruccio di ogni cantante jazz” a cui ha dedicato la propria tesi di laurea e di come, sebbene all’inizio avesse cercato di imitare le grandi cantanti del passato e copiare le vocali e i fonemi da loro usati, col tempo sia riuscita a trovare la propria strada.
I primi tre brani presentati sono state composizioni originali di Laura: Emily, adattamento in musica di una poesia di Emily Dickinson, Medo con testo di Chiara Viola e The Witch, con testo di  Chiara Morucci; come ultimo brano lei e Danilo hanno scelto di interpretare una toccante cover di The Circle Game di Joni Mitchell.
Una considerazione finale: ascoltate queste interpretazioni abbiamo lasciato la Casa del Jazz con la consapevolezza di un talento che non ha ancora trovato la giusta dimensione ma che sicuramente c’è. Speriamo quindi che Laura – lei per prima – se ne renda conto e che intensifichi la sua attività: ne varrà sicuramente la pena… per lei… ma soprattutto per noi.

Beniamino Gatto

Greta Panettieri ed Elena Paparusso: ancora due grandi artiste a “L’altra Metà del Jazz””

Anche il penultimo incontro del ciclo “L’altra Metà del Jazz”, ideato e condotto da Gerlando Gatto, ha confermato le premesse da cui la serie ha preso avvio. Rifacendosi al secondo libro di Gatto, “L’altra Metà del Jazz”, il giornalista ha voluto presentare uno spaccato di quanto ricco sia il panorama delle musiciste jazz nel nostro Paese. Di qui una carrellata di artiste notissime, conosciute e meno conosciute che hanno tutte evidenziato un livello artistico di qualità assoluta e che forse, almeno in molti casi, meriterebbero maggiore considerazione.
Ma, rimandando alla prossima, conclusiva puntata del ciclo (martedì 12 marzo, con  Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti) un bilancio più approfondito, veniamo alla serata di martedì scorso.

La prima musicista intervistata da Gatto è stata Greta Panettieri, che esordisce raccontando la sua infanzia a dir poco peculiare: cresciuta facendo vita rurale in una comune in Umbria, ovvero in un casale abbandonato e occupato dai suoi genitori e un gruppo di stretti amici, Greta racconta che questa vita, oltre ad insegnarle ad affrontare con coraggio le difficoltà del momento e a crescere in maniera organica con la natura, è stata fondamentale per avvicinarla al macrocosmo musicale in cui vive oggi. Infatti erano molto comuni le esibizioni musicali e gli ascolti in comunità di numerosi dischi, soprattutto di Frank Zappa, ed è proprio da questo ascolto che nascerà la sua passione per la musica, passione che si concretizzerà tramite lo studio del violino dall’età di sei anni, proseguito a sedici anni con l’ingresso al conservatorio.
A questo proposito viene evidenziato un particolare anno nella vita della cantante, ovvero il 1994: infatti quello sarà l’anno in cui inizierà a studiare canto sotto la maestra Cinzia Spata, prima e unica insegnante di canto – per il resto Greta racconta di essere autodidatta – della quale ricorda con affetto il fatto di essere stata la prima sia ad instillare in lei la concezione della voce come vero e proprio strumento, sia ad approfondire la forma del canto jazz; narra inoltre un simpatico aneddoto secondo cui la passione di Greta per il canto e la sua foga fossero tali da far esclamare alla maestra, l’ultimo giorno di lezione: “Non so nemmeno cosa ti ho insegnato!”. E alla constatazione di Gatto sulle radici siciliane della maestra Spata, come del resto di altre insegnanti – vocalist già menzionate nelle scorse serate – Greta risponde lodando la generosità della gente di Sicilia e la loro voglia di condividere la propria conoscenza.
Altro anno cruciale per la carriera di Greta sarà il 1998, anno in cui vincerà una borsa di studio per andare al Berkeley College of Music di Boston; tuttavia, a differenza di sue altre colleghe, lei non studierà veramente lì: infatti, per una questione di sostenibilità dei costi, non coperti del tutto dalla borsa di studio, si fermerà a New York City per un periodo,  che a conti fatti si dimostrerà molto fruttuoso.
Nel 2004 forma una band, i Greta’s Bakery, con il pianista, produttore e arrangiatore Andrea Sanmartino, suo accompagnatore per la serata nonché compagno nella vita, e il bassista Mike LaValle; con questa band firmerà nel 2007 un contratto con la prestigiosa casa discografica Decca Records, da cui uscirà nel 2010 l’album The Edge of Everything, che comprende sia composizioni originali del trio sia cover di altri celeberrimi artisti come Diane Warren, Mina o gli Outkast. Se da un lato Greta descrive quest’esperienza come estremamente formativa per conoscere meglio il mestiere sia del cantante che del discografico, d’altra parte riconosce le profonde difficoltà riscontrate durante quel periodo: infatti le era stato chiesto dalla casa un cambiamento radicale, sia d’immagine sia dal punto di vista musicale. Di qui la necessità – nonché la voglia – di un cambiamento che la porterà, nel 2011, a rescindere il contratto con la Decca per ritornare ad essere un’artista completamente indipendente. Da questa svolta nascerà nel 2011 l’album Brazilian Nights, in collaborazione con il pianista Cidinho Teixeira, il sassofonista Rodrigo Ursaia,  il batterista Mauricio Zottarelli e il bassista Itaiguara Brandão, disco nel quale, a suo dire, ha ritrovato quell’integrità artistica smarrita durante il periodo con la Decca.
Infine Greta racconta della sua attività secondaria, ovvero la scrittura di libri: infatti a repertorio ha una graphic novel intitolata Viaggio di Jazz, narrazione della sua storia fino a quel momento, e La voce nel pop e nel jazz, un testo universitario in cui si analizzano cento canzoni tratte dal repertorio del pop classico americano degli anni ‘20-‘60. Certo è piuttosto sorprendente scoprire una musicista che scrive libri, ma a ben vedere la cosa non è poi così strana.  Al riguardo, prendendo spunto anche dall’intervista della serata scorsa ad Ottavia Parrilla, che raccontava del suo ruolo di storyteller, non appare particolarmente bizzarro che un compositore, già avvezzo a raccontare storie per mezzo della musica, si trovi nel suo elemento cimentandosi in quelle che in fondo sono altre forme di espressione artistica. È il caso per esempio del rapper spagnolo Rayden, al secolo David Martínez Álvarez, che ha sempre coltivato una passione per la letteratura tale da arrivare non solo a scrivere romanzi durante la carriera, ma addirittura a ritirarsi l’anno scorso, proprio all’apice del suo successo, per dedicarsi in toto alla letteratura e alla scrittura.
I brani presentati live dai due artisti sono stati Don’t know (Sammartino, Panettieri) The Sabiá di Chico Buarque e Tom Jobim, e Strangers In the Night, tratto dal songbook di Frank Sinatra, cui sarà dedicato il prossimo album della Panettieri in uscita a breve.

La serata prosegue con Elena Paparusso, artista poliedrica che nonostante i suoi legami con numerose forme d’arte, tra cui la danza, si sente prima di tutto musicista; di lei Gatto nota subito il curriculum zeppo di eventi cui ha partecipato, ed Elena risponde affermando che questa è una passione nata fin da quando lei era piccola: condividere e far conoscere degli artisti da lei stimati attraverso l’organizzazione di eventi, concerti e rappresentazioni. Inoltre, interrogata riguardo la scarsa produzione discografica da parte sua, spiega come la sua attività non si fermi alla musica, ma si estenda anche ad altre branche dell’arte – e di conseguenza la maggior parte delle sue idee non trova concretizzazione in dischi (ad esempio la danza contemporanea).
Parla poi della sua storia personale: nata a Noci, cittadina in provincia di Bari, dopo aver finito le superiori si trasferisce a Roma – inizialmente per studiare economia, ma poco dopo si iscrive al Conservatorio di Santa Cecilia studiando con Maria Pia de Vito, laureandosi e specializzandosi in canto jazz ma proseguendo comunque i suoi studi di canto con il contralto lirico Lucia Cossu; a questo proposito racconta che, dato il suo timbro da mezzosoprano, ha sempre avuto una particolare attenzione alla tecnica vocale, notando la difficoltà da parte delle persone con il suo stesso timbro vocale nel cambiare registro.
A proposito della sua discografia e delle sue opere, parlando del suo primo album Inner Nature del 2016, l’artista afferma il legame profondo con la tradizione jazz presente in esso; a questo proposito cita i suoi modelli di riferimento: in quanto a cantanti Carmen McRae, Jeanne Lee, Becca Stevens, Sarah Vaughan, Abbey Lincoln ed Ella Fitzgerald. Inoltre, riguardo alle sue composizioni, la cantante spiega come il testo di una canzone e scrivere quello che si canta siano visti da lei come elementi di estrema importanza nei suoi lavori, nonostante questo non le impedisca di musicare alcune poesie già esistenti: a questo proposito, oltre a citare tra i suoi lavori un adattamento di Dark August di Derek Walcott, racconta di come abbia messo in musica una raccolta di poesie dello scrittore Vittorio Tinelli. A proposito interviene Gatto che racconta un gustoso episodio di come molti anni addietro, prima del Nobel,  conobbe Walcott in una splendida spiaggia caraibica, trovandolo un uomo molto colto ma allo stesso tempo gentile e affabile.
Riguardo alla sua carriera, nel 2015 vince il premio come Miglior Compositrice nel Women in Jazz Competition, vittoria che le permetterà di suonare sia a Londra sia  ala Casa del Jazz; a questo proposito, rispondendo alla consueta domanda di Gatto sulle discriminazioni a stampo sessista nell’ambito jazzistico e musicale, lei risponde che non molti uomini, fortunatamente, mettono in atto comportamenti di questo genere, esistono tuttavia ancora discriminazioni in questo ambito: in sostanza, si sono fatti passi avanti ma c’è ancora molto da fare.
Nel 2018 partecipa al progetto della sua insegnante Maria Pia de Vito, Moresche e altre invenzioni, realizzato in collaborazione con l’Ensemble Burnogualà: di questa collaborazione Elena ricorda divertita le sessioni di registrazione a Ventotene, le esibizioni sulle Dolomiti e a Ravello e in generale l’atmosfera cameratesca che si respirava in quell’ambiente.
Accenna infine alle sue altre attività, sia parlando dell’evento Cantiere Infinito nel 2019 in collaborazione con la coreografa Mariagiovanna Esposito, descritto come una collaborazione tra il conservatorio e l’accademia nazionale di danza e come un momento di sperimentazione tra musicisti e ballerini, sia raccontando della sua attività didattica come docente di canto jazz al conservatorio. Dell’entusiasta racconto che Elena fa di questa sua esperienza, ormai quinquennale, due sono i punti su cui focalizza maggiormente la sua attenzione: la soddisfazione ottenuta dal buon feedback ricevuto dai suoi alunni e l’aver capito la necessità da parte loro di lavorare con persone attive e appassionate.
I pezzi presentati dalla cantante e dal suo accompagnatore Francesco Poeti, alla chitarra-basso, sono stati Labile, sua composizione originale eseguita originariamente in quintetto con Francesco Poeti, Domenico Sanna al piano, Luca Fattorini al basso e Fabio Sasso alla batteria, My First Dance With You come anteprima del suo nuovo album Anatomy of the Sun di prossima uscita, In attesa e Poor Butterfly.

Beniamino Gatto

Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla: grande riscontro di pubblico per gli incontri curati da Gerlando Gatto alla Casa del Jazz:

Una giornata grigia ha fatto da cornice alla serata di martedì scorso, sia letteralmente, data la pioggia battente su Roma in quel momento, sia metaforicamente parlando, a causa della prematura scomparsa del giornalista musicale Ernesto Assante, che il direttore della Casa del Jazz Luciano Linzi ha ricordato con un breve discorso all’inizio della serata, dedicata al terzo incontro del ciclo “L’altra metà del Jazz“ ideato e curato da Gerlando Gatto.
La prima protagonista della serata è stata la vocalist Sara Jane Ceccarelli, accompagnata dall’eccellente pianista tedesco Christian Pabst e dal fratello Paolo Ceccarelli alla chitarra elettrica.

Gatto, come di prammatica, le ha  chiesto se e come l’essere donna avesse influito sulla sua carriera; Sara Jane ha risposto raccontando la sua storia familiare: figlia maggiore di 4 figli, di cui tre maschi, non ricorda di aver mai sofferto di privazioni o discriminazioni di alcun tipo, grazie all’educazione egualitaria ricevuta in famiglia e, a suo dire, ciò le ha anche fortificato il carattere. Passando invece alla questione femminile in generale, ammette di aver compreso solo di recente il disagio provato dalle sue colleghe con le quali si è confrontata, disagio di cui, a suo dire, è necessario rendere consapevoli soprattutto gli uomini. Tale stato di cose è accentuato dal fatto che molti gruppi attuali, nonostante abbiano come leader una donna, siano formati quasi esclusivamente da uomini. D’altro canto corre l’obbligo di constatare che i gruppi formati da sole donne hanno la tendenza a sciogliersi più facilmente dei gruppi maschili, anche a causa di piccole rivalità tra le componenti. Infine sulla questione delle quote rosa, la Ceccarelli non esita a dichiarare che possono essere considerate come una forzatura nei confronti sia di uomini sia di donne; di qui la  fiducia che arriverà un momento in cui la presenza delle donne nel panorama jazz verrà considerata normale, senza forzature di alcun tipo.
Tornando alla sua storia personale, parla di come si sia avvicinata alla musica: suo padre, pianista, l’ha indirizzata a quell’ambiente fin dalla tenera età di tre anni (ci tiene a specificare, tuttavia, che per quanto riguarda l’ingresso nel mondo della musica si è trattato di un processo naturale, senza obblighi di alcun tipo da parte della famiglia). All’inizio studia con una maestra di pianoforte giapponese, di cui ricorda con affetto il complesso rituale di attese e respiri che precedevano l’esercizio vero e proprio: in seguito ecco l’avvicinamento con il fratello Paolo, con il quale è cresciuta musicalmente: tra i tanti possibili esempi, ha citato il fatto che insieme hanno diretto il Correnti Jazz Festival, svoltosi l’estate scorsa a Sigillo, in provincia di Perugia.
Parlando della sua musica, Sara afferma di essere ancora una compositrice in erba, ha infatti iniziato a scrivere solo una volta trasferitasi a Roma dalla natia Gubbio; riguardo al metodo compositivo lo stesso varia da brano a brano, ovvero può partire sia da un testo che da un giro di accordi proposto da un altro musicista. Riferendosi in particolare ai testi, non si può non convenire sul fatto che gli stessi rappresentino un po’ l’anello debole del jazz; incalzata da una domanda del conduttore su quali siano i suoi autori di testi preferiti nel mondo del jazz, la Ceccarelli cita i fratelli Gershwin.
Ad una nuova domanda da parte di Gatto sulla scena contemporanea italiana, Sara risponde con una riflessione molto interessante riguardo alla diversa concezione degli spettacoli per i giovani: a suo avviso, ormai il concerto è diventato un’esperienza visiva tanto quanto auditiva, se non di più; tuttavia si possono notare alcuni eventi dove la dimensione dell’ascolto prende completamente il sopravvento su quella dello spettacolo visivo. É il caso, ad esempio, del tanto criticato listening party organizzato da Kanye West e Ty Dolla Sign al Forum di Assago per promuovere il loro nuovo album ‘Vultures’; evento dal prezzo simile a quello di un concerto (dai 115 ai 207 euro circa), ma in cui non c’è stata alcuna esibizione dal vivo: infatti West e Ty Dolla Sign si sono limitati a saltare sullo scarno e semplice palco e a riprodurre i loro brani preregistrati, lasciando spazio al puro ascolto delle tracce – e personalmente chi vi scrive spera che questi non siano i concerti del futuro. A questo proposito, Sara propone un programma di educazione musicale fin dai più piccoli (come già enunciato la volta scorsa da Chiara Viola) per insegnar loro a distinguere la musica di sostanza da quella meramente superficiale. A questo punto Gatto ha espresso una critica molto dura sia nei confronti della RAI – dove in passato c’erano numerosi programmi dedicati al jazz mentre oggi, viceversa, è del tutto scomparso dalle onde sonore – sia nei confronti della scena contemporanea pop italiana e sull’uso dell’autotune nelle canzoni; Sara risponde  facendo notare come i musicisti jazz portino meno ascolti alle radio rispetto ad altri generi musicali, e come l’autotune sia uno strumento di cui si può fare un buon uso o abusare, come dimostrato da artisti come Kanye West, i Bon Iver, i Daft Punk o T-Pain.
Sempre riguardo alla sua musica, la Ceccarelli afferma che cantare ciò che si scrive sia una sfida maggiore rispetto a quando si interpretano standard jazzistici, ma che al tempo stesso, se il brano è gradito dal pubblico vi è una soddisfazione ben maggiore del normale.  Inoltre, sempre parlando delle sue composizioni, afferma di essere affascinata dalle varie lingue del mondo e dai vari colori che esse possono dare alla voce (Sara canta infatti in ben 10 lingue diverse, nonostante non le capisca tutte), ma di non avere il talento necessario a sentire naturale invece lo scat mentre improvvisa. Infine, a proposito del suo rapporto con la musica a livello professionale, racconta come all’inizio questa non fosse la sua occupazione primaria, essendo laureata in comunicazione aziendale, e prima di diventare musicista a tempo pieno lavorava in un’azienda di cibi di lusso; a seguito di un incontro con il compositore Bruno de Franceschi nel 2009 e di una crisi personale decide di mollare tutto per trasferirsi a Roma e studiare al conservatorio di Santa Cecilia: qui gli studi con Maria Pia de Vito e Paolo Damiani, fondamentali per la sua crescita umana e professionale.
I brani eseguiti sono stati I Forgot Love della stessa Sara, contenuto nell’album “Milky Way” della Parco della Musica; A Fior di Labbra, traduzione in italiano del brano Du bout des lèvres della cantante francese Barbara a cura di Sara e David Riondino; una rielaborazione di Children’s Song no. 3 di Chick Corea; il testo è della stessa Ceccarelli la quale aveva scritto all’Universal proprio per proporre questa elaborazione; contrariamente a quanto accade di solito, Corea pochi giorni prima di morire rispose alla mail della Ceccarelli approvando i suoi testi; di qui la comprensibile gioia dell’artista e la decisione di inserire il brano nel già citato album  “Milky Way” con arrangiamento di Edoardo Petretti e la scelta di omettere il pianoforte dalla registrazione.  A chiudere la prima parte della serata Lush Life, uno degli standard più conosciuti ma più difficili del song-book statunitense, letteralmente amato da Tony Scott che si definiva il migliore interprete di questo brano.
La seconda parte della serata è dedicata alla cantante calabrese Veronica Parrilla, accompagnata da Carlo Manna, pianista cosentino che il pubblico della Casa del Jazz aveva già avuto modo di apprezzare come accompagnatore di Marilena Paradisi, ospite di Gatto nella prima sezione del ciclo.

Veronica esordisce parlando della sua vita musicale e descrivendo il canto come una modalità di espressione in lei insita, tanto che i genitori la iscrivono a concorsi di canto per gioco, le organizzano un concerto nel suo paese di Cirò Marina, in provincia di Crotone, a soli dieci anni (concerto che racconta di averla influenzata molto nel superamento della paura del pubblico e dell’ansia da palcoscenico); soddisfatti dei risultati, la incoraggiano ad iscriversi ad una scuola di canto gestita dalla maestra Erica Mistretta, che ricorda con molto affetto: infatti è stata quest’esperienza ad insegnarle ad apprezzare i suoi successi come i suoi fallimenti, a rilevare i suoi punti di forza come le sue lacune. Non solo: è stata la stessa maestra ad indirizzarla verso il canto jazz, dopo aver notato una sua tendenza a personalizzare le melodie cantate mentre eseguiva i brani del repertorio di Mina, e ad iscriversi al conservatorio jazz di Vibo Valentia, che inizia a frequentare a partire dall’ultimo anno del liceo scientifico e a cui decide di dedicarsi in toto a seguito della sua decisione di non iscriversi alla facoltà di Logopedia dopo aver superato il test. Si laureerà in canto jazz frequentando il triennio a Vibo, studiando con Daniela Spalletta, e il biennio a Messina con Rosalba Bentivoglio: due eccellenti vocalist e didatte siciliane. Riconosce a questo proposito che l’aver studiato sotto più insegnanti con scuole di pensiero così diverse l’ha arricchita molto.
Riguardo alla sua musica, illustra il suo intento stilistico, ovvero la ricerca di una commistione tra le tradizioni del jazz e le sonorità moderne. Questa concezione si vede anche nelle sue stesse composizioni: infatti racconta che ogni testo che scrive è autobiografico, che quando scrive assume anche una funzione da storyteller e che ogni brano musicale è una sorta di lezione da cui si può imparare qualcosa. Proprio parlando di messaggi Veronica illustra il suo progetto, il quartetto Above All nato circa un anno fa: il titolo non è un caso, infatti esso vuole comunicare un messaggio per cui nella società moderna dovrebbero sempre prevalere valori come lealtà, rispetto della diversità e amore. Infine cita come sue muse ispiratrici due cantanti: una del passato, Ella Fitzgerald, e una del presente, Samara Joy.
Ricollegandosi al discorso sulle tradizioni, esprime la sua opinione riguardo agli standard jazz, dichiarandosi contraria a quanti ritengono che gli stessi non andrebbero più suonati in quanto obsoleti.
Parlando del suo essere donna con specifico riferimento alla sua carriera, dice, un po’ in virtù della sua giovane età, e un po’ per il suo carattere che tende a non considerare il genere di una persona ma il suo carattere in sé, di non avere mai avuto problemi – inoltre considera che per quanto riguarda la scrittura sia le donne che gli uomini possono avere una stessa sensibilità, posizione condivisa anche da Susanna Stivali in uno degli scorsi appuntamenti.
Di fronte alla domanda di Gatto sul suo sentimento riguardo alla scena musicale italiana attuale, che il giornalista non manca mai di criticare, Veronica si mostra ottimista, illustrando come questo sia secondo lei solo un momento, ed esprime la speranza di tempi migliori. Infine, partendo dal brano Above All, omonimo del quartetto precedente menzionato, viene dedicato spazio alla relazione personale, oltre che professionale, tra Carlo e Veronica: entrambi esprimono fiducia nel loro rapporto e nella sua saldezza nonostante la separazione di coppie sia oggi all’ordine del giorno, e personalmente chi vi scrive non può che augurare loro il meglio per il futuro.
I brani scelti dai due artisti sono stati Infant Eyes di Wayne Shorter, I Can’t Give You Anything But Love, Above All, una loro composizione originale, e What Are You Doing With the Rest Of Your Life, una struggente melodia di Michel Legrand interpretata dalla Parrilla con sincera partecipazione tanto da non lasciare indifferente il numeroso pubblico che l’ha salutata con un intenso applauso.

Beniamino Gatto

Gatto alla Casa del Jazz: secondo ciclo di incontri per “L’altra metà del Jazz”

Com’era facilmente prevedibile, visto l’ottimo risultato del primo ciclo, il nostro direttore Gerlando Gatto il 13 febbraio torna alla Casa del Jazz di Roma con “L’altra metà del Jazz”, cinque ulteriori serate da lui ideate e condotte.   Il format è sempre lo stesso: ogni martedì sera interviste a due musiciste jazz, una che ha raggiunto un livello di fama ormai consolidato e un astro nascente ancora non così conosciuto.
Scopo di questo ciclo, come dichiarato dallo stesso Gatto, è quello di dare, da una parte un contributo, per quanto minimo, all’abbattimento delle barriere di genere all’interno del sistema jazzistico, e dall’altra di offrire un trampolino di lancio ad alcune giovani musiciste talentuose, ma non ancora note al grande pubblico.
E veniamo al calendario di questo secondo ciclo.

Martedì 13 febbraio Cinzia Gizzi e Noemi Nuti
Cinzia Gizzi pianista, compositrice, arrangiatrice, ha iniziato lo studio del pianoforte classico all’età di otto anni. Si avvicina al jazz durante gli anni di università, quando si trasferisce da Pescara, sua città natia, a Roma. Qui suona per lungo tempo nei jazz club avendo l’opportunità di accompagnare moltissimi musicisti italiani e americani. Nell’anno accademico 1995-96 ricopre la cattedra di “Jazz” presso il Conservatorio di Reggio Calabria.
Noemi Nuti. Nata e cresciuta a New York fino all’età di otto anni, inizia il suo viaggio musicale da bambina studiando l’arpa celtica in Italia per poi conseguire una laurea in arpa classica presso la Brunel University a Londra.  Nel 2012 si diploma con un master in jazz al “Trinity College of Music” di Londra. Il suo album di debutto “Nice to Meet You” (2015) è stato prodotto dal trombettista Quentin Collins. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 20 febbraio Susanna Stivali e Chiara Viola

Susanna Stivali. Studia pianoforte, canto classico e jazz, perfezionandosi con Bob Stoloff e Murk Murphy; si specializza presso il Berklee College of Music di Boston. Affianca ad una intensa attività concertistica, quella di docente di canto jazz presso alcuni Conservatori. Particolarmente interessata alle collaborazioni con musicisti della nuova scena brasiliana.
Chiara Viola. Nata a Roma, si avvicina alla musica dopo aver visto “Sister Act”. Così studia dapprima chitarra classica e poi canto jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nel 2019 la prima realizzazione discografica, dopo di che si trasferisce a Parigi dove attualmente vive e lavora. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 27 febbraio  Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla

Sara Jane Ceccarelli. Italo canadese nasce a Gubbio ma vive a Roma. A 3 anni comincia a studiare pianoforte classico; a 16 anni canta e si diploma al Corso Jazz del Conservatorio Santa Cecilia. Si esibisce con il fratello chitarrista Paolo. Nel 2012 inizia il suo percorso di studio e interpretazione di musica proveniente dalle culture più diverse: canta nelle lingue originali (più di dieci) ampliando così il suo straordinario repertorio.
Veronica Parrilla. Nasce a Cirò Marina e consegue il diploma accademico di I Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia e il diploma accademico di II Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “A. Corelli” di Messina. Attualmente prosegue il triennio accademico in Pianoforte Jazz e il triennio accademico in canto Pop/Rock. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 5 marzo Greta Panettieri e Elena Paparusso

Greta Panettieri. Vocalist e scrittrice. La sua storia musicale parte da giovanissima, con lo studio del violino e del pianoforte al Conservatorio di Perugia; quindi, la vita a New York documentata anche dal libro a fumetti “Viaggio in Jazz”, dove le doti vocali di Greta vengono notate dalla Universal/DECCA che pubblica il suo primo disco “The Edge of Everything”. Seguono il tour europeo come opening di Joe Jackson, le collaborazioni con grandi della musica mondiale, il ritorno in Italia dove continua a mietere successi.
Elena Paparusso. Cantante e compositrice, nel 2015 ha terminato il Biennio di specializzazione in Jazz con il massimo dei voti e lode, presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. “Anatomy Of The Sun” è il suo ultimo lavoro discografico prodotto per la Parco della Musica Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 12 marzo Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti

Cinzia Tedesco. Artista pugliese, riesce con il suo stile a superare le barriere tra i generi musicali. Cantante, compositrice, interprete di musical, rappresenta appieno l’artista completa, la cui cifra musicale si situa tra il jazz ed il soul. Numerosi i riconoscimenti all’Italia e all’estero così come le produzioni discografiche tutte di eccellente livello.
Laura Sciocchetti. Nata a Roma, inizia da adolescente lo studio di canto, chitarra e pianoforte, coltivando nel contempo la passione per il teatro. Studia il linguaggio Jazz con Elisabetta Antonini e successivamente si perfeziona al Conservatorio S. Cecilia di Roma, dove si laurea cum Laude in canto. Nel 2020 esce il suo primo disco di composizioni originali dal titolo “Characters”, per Filibusta Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

(MT – Redazione)

Info utili:
È anche possibile acquistare i biglietti attraverso:
Prevendita Telefonica TicketOne: tel. 892.101
Lun – Ven 9:00 – 21:00 / Sab 9:00 – 17:30
La biglietteria è aperta al pubblico nei giorni di spettacolo dalle ore 19 fino a 40 minuti dopo l’inizio degli eventi

Info.
tel. 0680241281

Viale di Porta Ardeatina 55
00154 Roma

I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto