ALBA JAZZ 12′ Edizione: The Art of Quartet

Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

Il sabato, terzo giorno di Festival, è destinato tradizionalmente qui ad Alba alla “serata evento”, se così si può dire, e comincia sempre nel pomeriggio con la marchin’ band che fa ballare tutta la città. E’ un appuntamento, quello con P – Funkin Band irrinunciabile, contagioso, che crea l’atmosfera giusta e coinvolge anche chi il Jazz non lo segue, non lo conosce, e non lo aveva preventivato nella sua giornata.

Il concerto obiettivamente più atteso è quello previsto alle 21:30 in piazza Michele Ferrero, che vede protagonisti The Art of the Quartet, ovvero Kenny Werner, Peter Erskine, Benjamin Koppel e Johannes Weidenmuller.
La sera è fresca e tersa, la piazza gremita e il direttore artistico Fabio Barbero piuttosto emozionato annuncia l’inizio del concerto.

The Art of the Quartet

Kenny Werner, pianoforte
Benjamin Koppel, sax
Johannes Weidenmuller, contrabbasso
e
Peter Erskine, batteria


Il concerto si apre con Iago, di Werner. Un brano fluido, in forma di bossa, imperniato sul dialogo gentile tra sax e piano, in cui la batteria è essenziale, morbida, il flusso sonoro uniforme. L’assolo di batteria di Erskine avviene soltanto sul rullante, da sommesso si intensifica fino a tornare alla bossa iniziale.

Si procede con Haway. Un latin veloce, in cui Werner al pianoforte esprime tutto il suo potenziale ritmico, oltre che melodico, ripartendoli rispettivamente sulla mano sinistra e sulla mano destra, specialmente durante l’assolo.
Quando si arriva alla Fuga (Fugue) parte il contrabbasso di Weidenmuller, segue la batteria percossa con i mallet ed il tema viene introdotto dal sax di Koppel: il pianoforte lo segue quasi parallelamente, contrappuntisticamente, come avviene nelle fughe: ma la valenza è anche lirica, il tema ha una sua intensità melodica che viene esaltata da un crescendo di intensità in cui prevale il clima generale sugli intrecci tra le voci: Erksine passa alle bacchette, il contrabbasso diventa ribollente, il sax lacerante, fino a quando non si arriva al solo di batteria leggero, quasi un frullio di ali. E’ un brano molto teso, quasi una suite, con sospensioni armoniche, episodi in pianissimo che disgregano il rigoroso disegno del contrappunto per poi ritornarvi.


Sukiyaki è una melodia semplice, dolce, cantabile, che viene presentata da Kenny Werner, cui segue all’unisono il sax. E’ tutto essenziale, il contrabbasso che segna i quarti, la batteria al minimo con le bacchette solo sul charleston ottavi e sedicesimi, il pianoforte che accenna senza affondare: la resa è tutt’altro che volatile, l’intensità notevole, l’effetto inaspettato.
I brani si susseguono uno dopo l’altro con la piazza incantata, in silenzio, ad ascoltare un concerto intenso e allo stesso tempo denso di sottigliezze tutt’altro che “ornamentali”. Fino al bis, Easy to Love di Cole Porter: il tema parte all’unisono tra sax e pianoforte, poi si tramuta nelle frasi spezzate del sax, con il pianoforte che è quasi una eco. La continuità di sottofondo è garantita da Erksine, e il tema riemerge sul walkin bass di Weidenmuller.
Un attimo di silenzio dopo l’ultima nota e la piazza torna a terra con un applauso fragoroso: e anche io.


L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto incantevole, uno di quei concerti in cui i musicisti decidono di stupire il pubblico non con esibizioni muscolari di tecnica (e dire che i numeri li avrebbero), gigioneggiamenti per attrarre l’attenzione, trovate ad effetto per accalappiare la piazza, che, essendo il concerto ad ingresso libero, non è necessariamente esperta o appassionata di Jazz.
La musica di Werner, Erskine, Koppel e Weidenmuller ha letteralmente avviluppato il pubblico con un poetico  sottrarre, scegliere l’essenza, presentare la delicatezza e allo stesso tempo l’intensità in un range di colori scelti per mostrare la bellezza dei particolari con la pennellata quella incisiva, quella unica che però significa, colpisce, emoziona. E che è quella, nelle arti figurative, dei grandi pittori, che scelgono e ti regalano IL tratto che poi innesta una reazione emotiva che ti fa immaginare e sognare il resto: tu partecipi a quell’opera d’arte.
Ognuno di questi musicisti lavora per esaltare ciò che fanno gli altri sul palco.

Devo dire che io amo molto lo strumento batteria. Ascoltare Peter Erskine dal vivo è una esperienza emozionante.
Il suo assolo di batteria su Hawai è uno dei più belli che io abbia ascoltato: cassa, charleston e rullante, dolci, ipnotici, senza strafare ma talmente poetici da attirarti irrimediabilmente per andare a cercare, istintivamente, il segreto di quella attrazione.
“Sembra che stia prendendo un tè” mi dice piano Franco Truscello, il fotografo ufficiale del festival, stupito, come me, da tanta leggerezza: ma non è una leggerezza che abbia valore in sé.  Non c’è una legge per cui nel Jazz abbia valore assoluto la leggerezza. E’ che Erksine ha una tale padronanza (e un tale amore) per il suo strumento, e per i suoni che immagina, da riuscire a fare cose difficilissime facendole sembrare semplici. Non ha bisogno di attirare l’attenzione dicendo “guardate quanto sono bravo” ma la attira dicendo “ascoltate cosa voglio dire con la mia musica. Ascoltate quante cose belle esistono nei suoni, passando da zero a cento per tutte le sfumature possibili”. Ascoltarne i fraseggi, l’andamento, è benefico, è curativo per l’animo.

La batteria è uno strumento facile da suonare… male” mi ha detto una volta un eccellente batterista, Lorenzo Tucci.
Ha ragione. Ed è veramente raro vederla suonata in un modo così poetico, espressivo, emozionante.

Qui sotto il sound check di un concerto memorabile, negli scatti di Daniela Crevena.

ALBA JAZZ 12′ Edizione: TRIO ELF

Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

Piazza Michele Ferrero, ore 21:15

TRIO ELF
Walter Lang: piano,
Peter Cudek, contrabbasso
Gerwin Eisenhauer, batteria

Già al sound check ci rendiamo conto che il concerto sarà particolare: il pianoforte è posizionato in modo che il pianista dia le spalle alla batteria. Walter Lang spiega che lui mentre suona vuole sentire sulla schiena le vibrazioni della batteria.

Il concerto comincia e la nostra sensazione viene confermata da un sound che ad un Festival del Jazz non è usuale incontrare. La batteria simula una drum machine: sequenze ritmiche seriali, metronomiche, che si dipanano in linee piuttosto lunghe.

Il pianoforte è modificato elettronicamente e presenta un tema semplice, un po’ world music, un po’ hip hop, un po’ new age. Il contrabbasso è a dir poco essenziale. Sembrerebbe a dirla così un’atmosfera quadrata, definita, e invece un po’ di tensione sonora c’è. Piano piano i suoni si sciolgono e da seriali diventano più liberi: la batteria diventa batteria acustica, il contrabbasso moltiplica le note e complica il disegno melodico ritmico, il pianoforte diventa acustico,  si improvvisa. Poi gradatamente si ritorna allo schema iniziale, quello seriale, elettronico, ripetitivo, ipnotico.

Si passa ad un brano ispirato al rap, ma seza rap: MC Wrec. L’intro è della batteria, cadenzata, seriale anche in questo caso, quadrata, leggera. Gli stop time appaiono ad intervalli regolari,
Eisenhauer stoppa i ride con decisione matematica. Fino a quando non entrano pianoforte e contrabbasso e l’atmosfera si scioglie, si entra in un mood più jazzistico e improvvisato, in cui il pianoforte si espande liberamente, la batteria produce non più schemi rigidi ma dialoga con il pianoforte, mentre il contrabbasso rimane strenuamente lì a reggimentare quella momentanea dissennatezza. Gradatamente si ritorna a volumi più tenui, e a quella delicata drum machine con cui si era aperto il pezzo.



Dança da Fita è una danza in 5: il pianoforte comincia nel registro acuto e quasi sembrerebbe un carillon, fino a quando la batteria inusuale di Eisenhauer non entra in scena. Il carillon si tramuta in una piccola orchestra da ballo, gioiosa, divertente, dal pianoforte leggiadro e deflagrante a un tempo: la danza si conclude ad alto volume con un imponente fill di batteria finale.

Con Tripolis ecco ancora il pianoforte dai suoni distorti, la batteria ridiventa “digitale”, il contrabbasso viene suonato con l’archetto.
Si delinea e si intraprende una linea ritmico timbrica ben definita, la si persegue, la si sfrutta. Glli incisi si distaccano formalmente dalle strofe, assestandosi su una timbrica acustica, per poi tornare alla drum machine e al pianoforte dai suoni elettronici. Fino ad un finale che prende il via con un crescendo in progressione cromatica ascendente: la batteria continua ostinatamente nel suo mood seriale: l’effetto è a dir poco straniante.


Si prosegue con 746: e gli stessi ELF ci spiegano che il titolo è dovuto che il ritmo è in 7/4 ma la melodia in 6. Io ve lo dico per dovere di cronaca!
La batteria produce dei frullii d’ala, con i mallet sui piatti. Il contrabbasso suona un ostinato in 7/4. Il pianoforte produce rumori di strofinio sulle corde della meccanica e poi piccoli grappoli di note, fino a che non appare un piccolo tema melodico. Segue un secondo episodio con l’unisono del pianoforte e del contrabbasso che prelude alla destrutturazione, in pochi battiti, dell’andamento precedente. Si improvvisa. Si va avanti così. Si termina.

Un brano di sapore brasiliano, dal ritmo di bossanova sotteso, dalle armonie accennate, essenziale e giocoso, non senza momenti intensi per volume ed armonia, crea una piccola isola sonora esotica. Alla batteria si aggiunge il tamburello del pianista, Walter Lang.

E ancora Hammer Baby Hammer, un alternarsi continuo di pianoforte martellante fitto, sul registro grave, granitico di ottave parallele, e momenti più fluidi, leggeri timbricamente .
Il bis è una cover: The man machine dei Kraftwerk. Il tema al pianoforte, il contrabbasso e la batteria omoritmici, un andamento rigoroso cadenzato, irregimentato, momenti di improvvisazione, niente silenzi, poche pause, quasi ipnotici.

L’ IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Divertenti, inusuali, coinvolgenti, simpatici, comunicativi. Musica acustica che riproduce musica elettronica. Il Jazz che appare all’improvviso dopo lunghe sequenze seriali ripetitive che stupiscono perché davanti hai uomini e non apparecchiature. Un concerto finalmente nuovo e inaspettato: si dia atto al direttore artistico Fabio Barbero del coraggio di aver portato sul palco un gruppo sconosciuto qui in Italia e assolutamente non allineato: scelta ripagata dal pubblico in piazza. Divertirsi con musica di ottimo livello si può!

Qui sotto, gli scatti di Daniela Crevena dal sound check in piazza Michele Ferrero




 

ALBA JAZZ 12′ EDIZIONE: Diego Pinera 4tet


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA
La foto della mostra fotografica è di FABRIZIO CIRULLI

Assisto a molti concerti, un po’ ovunque, bellissimi, meno belli, in posti prestigiosi e meno battuti. Ma ci sono Festival in cui io, che scrivo di musica per passione, mi trovo con gente che organizza quattro giorni di eventi mossa dalla stessa mia passione. Il mio fine è scrivere. Il loro fine è portare il piazza il Jazz. Uno di questi festival è Alba Jazz.
Assisto ad un “dietro le quinte” che non è poi così “dietro le quinte”, perché tutto avviene davanti agli occhi di tutti: il direttore artistico Fabio Barbero, gli amici dell’associazione Alba Jazz, i volontari, i figli dei volontari, per quattro giorni ma in realtà da molto prima, sono in fermento e organizzano tutto, ma proprio tutto, rimediano agli imprevisti, corrono a prendere cose che mancano all’ultimo momento, recuperano gli artisti all’aeroporto con le proprie macchine, allestiscono i banchetti con i gadget che permettono di autofinanziarsi, cercano e trovano gli sponsor, che evidentemente, se da anni intervengono, è perché Alba Jazz è ritenuto un evento positivo per la città.
Alba Jazz non fa guadagnare un euro agli organizzatori: ma di certo fa guadagnare la città in cultura.
Destinare le proprie risorse personali sulla musica senza avere nient’altro in cambio oltre che la gioia di veder realizzato il sogno che ci si proponeva è ammirevole, e mostra che a volte, a muovere le cose, non sono solo gli interessi economici.
Il sogno degli appassionati di Alba Jazz è questo festival in piazza, aperto a tutti, veramente a tutti, a ingresso libero, con musica scelta dopo un anno di ascolti attenti e condivisi. E bisogna dare atto a Fabio Barbero che sul palco di Alba Jazz praticamente sempre abbiamo incontrato sul palco almeno un gruppo che in Italia non aveva mai suonato prima, almeno un nome internazionale, almeno un gruppo italiano. Progetti diversi per diversi gusti, con la volontà oltre che di divertirsi anche, rischiando, di far conoscere, apprezzare, incontrare artisti di ogni genere.

Quest’ anno ad Alba, all’Oratorio della Maddalena è stata anche organizzata una mostra fotografica, in collaborazione con l’associazione Alec. Obiettivo: Alba e il Jazz è una mostra importante, che racchiude dieci anni di Alba Jazz visti da cinque fotografi che questo festival lo conoscono bene e lo hanno seguito, ognuno con il suo obiettivo, con la propria sensibilità, e, anche in questo caso, con la propria passione. I fotografi sono Roberto Cifarelli, Fabrizio Cirulli, Daniela Crevena, Carlo Mogavero e Franco Truscello. Cinque foto a testa e la storia di Alba Jazz in un percorso affascinante nella percezione della musica in immagini. Venticinque foto dalle quali trapela l’atmosfera che si respira qui ad Alba, attraverso gli artisti ritratti. Il vero protagonista ritratto è il Festival in questi 12 anni.

Alba Jazz 2018 si apre con un concerto inedito in Italia.

Piazza Cagnasso, Mercato Coperto, ore 21

DIEGO PINERA 4TET Despertando

Diego Pinera, batteria
Tino Derado, pianoforte
Omar Rodriguez Calvo, contrabbasso
Julian Wasserfurh, flicorno

Diego Pinera è un giovane batterista uruguaiano che vive in Germania da anni, e che ha un nutrito curriculum artistico e anche un prestigioso premio all’attivo come miglior batterista in Germania. Dunque a salire sul palco è uno strumentista eccellente, con una padronanza tecnica assoluta del suo strumento. Con lui tre musicisti altrettanto performanti, che volentieri si prestano, già dai primi minuti, ad assecondarne l’energia, esplosiva, e l’innegabile comunicativa.
Il gruppo esegue standard e anche musica originale, con varianti ritmiche spesso previste in tempi dispari e con un sottofondo latin che trapela senza mai prendere il sopravvento.
Il concerto comincia con assolo di batteria di Pinera: un ostinato della cassa sul quale si sovrappongono e si sommano via via, in sequenza altre cellule ritmiche ostinate, poliritmiche, in contrasto. Si moltiplicano e si sovrappongono, come mattoncini sonori, fino ad arrivare naturalmente ad uno spessore massimo, che da quel momento ricomincia a destrutturarsi fino a riassottigliarsi e tornare al solo ostinato della cassa. Un piccolo capolavoro tecnico, ispirato a Max Roach, che prelude al primo brano in trio.

Il brano è Last tango in Paris, di Gato Barbieri, ed è il contrabbasso (con arco) di Rodriguez Calvo ad introdurlo, non senza lirismo: poi tocca al pianoforte di Derado ereditare questa melodia così intensa, e Derado da quel momento non la molla mai, pur destrutturandola, nemmeno durante il solo di contrabbasso, nemmeno durante la progressiva trasformazione del linguaggio verso un latin sempre più esplicito, non solo ritmicamente, ma anche dal punto di vista del linguaggio, soprattutto pianistico.

Si passa a Caravan, in 11/8: adrenalinico, velocissimo, ricco di frasi (ritmiche – melodiche) ripetute a loop, anche contemporaneamente tra tutti gli strumenti. Il flicorno di Wasserfuhr è tanto fedele nell’esporre i temi quanto torrenziale nell’improvvisazione. Le sue note ribattute diventano battiti incalzanti della batteria.


Si prosegue con un brano coltraniano, poi si approda a St.Thomas, di Sonny Rollins, eseguito in 9/4. Il quartetto procede coinvolgendo il pubblico, anche perché il suono di ognuno è potente ma la coesione è innegabile.
Gli obbligati sono ad effetto, si ascolta più di un eco afrocubano, gli stop con ripresa improvvisa di una precisione quasi disarmante.

Non mancano le ballad, delicatamente rese con una particolare cura per i temi melodici, per una timbrica complessiva morbida ma sonora per il tessuto armonico pieno e soffuso: in questo senso Vulnerability è particolare, con quella oscillazione tra un accordo di maggiore e quello costruito al semitono sotto ma in modo minore, il tutto a ritmo quasi di milonga.
Il bis è dedicato a Wayne Shorter e al suo Footprint, in chiave afrocubana, in un crescendo di energia, applauditissimo.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto divertente, coinvolgente ed energico.
Diego Pinera possiede una creatività notevolissima. Sa modulare molto bene il potenziale deflagrante dei suoi battiti e dello strumento, qualità che io ritengo fondamentale per poter definire davvero bravo un batterista. Si diverte, è comunicativo, e tiene perfettamente le fila di un quartetto composto di musicisti che hanno una spiccata personalità: in questo caso sono sidemen, ma si percepisce in ogni momento il loro spessore di solisti.
Il tocco del pianista Tino Derado, infatti, mi è parso particolare. Mi è piaciuto molto il modo cristallino di esporre i temi, ma anche la nettezza dei suoni, degli accordi, della definizione ritmica, oltre che la capacità di essere duttile e fluido in un dipanarsi veloce di episodi anche completamente contrastanti tra loro.
Omar Rodriguez Calvo ha un suono tondo, pieno, e sa essere granitico nei momenti più adrenalinici e ritmici e melodico, cantabile, a volte persino poetico nelle ballad e nei (pochi) momenti meno “tecnici” della performance.
C’è un ma. Nonostante Pinera sia giovane, talentuoso, ferratissimo tecnicamente, il suo Jazz non potrei definirlo davvero innovativo, a meno di non ritenere che l’eseguire St. Thomas in 9/4 sia un’innovazione: è uno sfizio, è anche divertente ascoltare quel quarto in più, è una sfida che i suoi musicisti accolgono con bravura, è interessante seguire lo spostamento di tutti gli accenti o quella battuta in più che ti fa attendere la ripresa del tema lasciandoti in tensione. Ma questo non esprime nulla di più che il saper attuare l’idea di eseguire uno standard in 9 invece che in 4. Forse (ed è l’unico appunto che posso fare ad un gruppo pressoché ineccepibile) dovremo aspettare che Pinera si liberi della voglia di mostrare tutta la sua bravura perché emergano le sue doti di musicista, che ci sono, e si intravedono: e che prima o poi supereranno quelle, strepitose, di strumentista.


Vicenza Jazz: Randy Weston e Billy Harper duo (in esclusiva)


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ
Teatro Olimpico, 19 maggio, ore 22

Randy Weston e Billy Harper duo

Randy Weston, pianoforte
Billy Harper: sax tenore

Il secondo concerto in programma al Teatro Olimpico vede un gigante (in tutti i sensi) del pianoforte Jazz in duo con un grande protagonista del sax: Randy Weston e Billy Harper entrano sorridenti, prendono posto sul palco e il concerto comincia con un’intro di pianoforte tutt’altro che morbida e rassicurante. Dissonanze, frasi spezzate, un piccolo ma veramente volatile accenno all’incipit di ‘Round Midnight fino all’entrata del sax, che comincia da subito a raccogliere i suggerimenti del pianoforte.

Da quel momento comincia un’improvvisazione libera e un flusso da Weston e Harper, un’interazione fatta di idee lanciate, sviluppate, momentaneamente tralasciate e riprese inaspettatamente, flusso che persiste per tutto il concerto e che ha una sua forma stilistica precisa.
Se affrontano un Blues, quel Blues si percepisce fortemente. Il piano ed il sax ne toccano i cardini, e che siamo in presenza di un Blues lo capiamo da quei cardini: si sceglie la sintesi dei punti di riferimento. La batteria, assente, viene evocata dai pochissimi accenti necessari e ridotti al minimo. Una volta evocato il pulsare ritmico in modo che il nostro cervello possa immaginarlo in sottofondo, il pianoforte si può permettere di virare libero e addirittura ridondante: tu però sai che sei in un Blues. A dire il vero le ridondanze sono poche, prevale l’essenzialità. Il contrabbasso, assente, viene evocato da pochissime note che si comprende che sarebbero inscritte in un walkin’bass.


Il ritmo, le pulsazioni, sono sempre appena accennate e sottintese. Il pianoforte di Randy Weston e il sax di Billy Harper interagiscono ma più giustapponendosi che sovrapponendosi, quasi in un continuo “domanda e risposta”, dialogando ad armi pari. Ovvero, il pianoforte non è accompagnamento armonico alle digressioni del sax. Sono due entità distinte che dialogano, due personaggi di una storia che parlano fra loro ognuno con la sua voce.
Nei piccoli momenti in cui i due ritornano ad un andamento più mainstream si ha la decodifica per viaggiare nei minuti successivi.
Fraseggi compiuti, sapiente uso di staccati e legati, energia e una presenza sul palco notevole. Sorridenti, comunicativi, felici di suonare insieme, felici di suonare al Teatro Olimpico: il direttore artistico Riccardo Brazzale rivela che il novantaduenne Randy Weston è venuto in Italia solo e soltanto per Vicenza Jazz. Innovativi.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto pulsante di energia e carica creativa. Un Jazz originale, che dimostra ciò che ho sempre pensato e cioè che il parametro anagrafico non è quello giusto per valutare la freschezza del modo di fare Jazz di un artista: conta la musica. Per non parlare della presenza scenica di entrambi gli artisti e la loro capacità di comunicare la gioia di suonare insieme. Una sensazione dunque più che positiva di un concerto di altissimo livello.

In questo mio piccolo spazio in cui descrivo sensazioni soggettive posso dire che l’andamento quasi sempre alternato dei due strumenti, questo rincorrersi continuo con pochi momenti di raccordo, il linguaggio spesso frammentato delle frasi, al mio ascolto è risultato in alcuni tratti spigoloso e dunque un po’ allontanante. Il pubblico del Teatro Olimpico, però, in questo non è sembrato d’accordo con me!

Qui sotto, il backstage!


Gli altri concerti che abbiamo seguito a VICENZA JAZZ!
Manhattan Transfer
Gavino Murgia e Cantar Lontano
Tigran Hamasyan

 

VICENZA JAZZ: Tigran Hamasyan al Teatro Olimpico


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ, 19 maggio 2018
Teatro Olimpico, ore 21:00

Tigran Hamasyan, pianoforte

Tigran Hamasyan appare sull’incredibile palco palladiano del Teatro Olimpico, e davanti a quelle quinte cinquecentesche in prospettiva sembra ancora più minuto di quanto non sia in realtà. Si siede al piano, cerca per qualche secondo la concentrazione e parte quasi in sordina con note ribattute alla mano sinistra. Su quelle parte poi un tema vagamente classicheggiante, non scevro da abbellimenti come trilli, o mordenti.
Non fai in tempo quasi a cullarti in quel piccolo incanto che all’improvviso appaiono accordi dissonanti e in contrasto ritmico, un delicato disturbo che smuove le acque. Le note ribattute, a bordone non smettono mai, nemmeno quando il tempo raddoppia, nemmeno quando la mano sinistra produce accordi, nemmeno quando appaiono piccole reminiscenze di danze popolari: quello scorrere del tempo è costante, quasi martellante, nonostante il brano rimanga in un ambito che si potrebbe definire introspettivo.

Introspettivo appare anche il brano successivo. Hamasyan parte con un pianissimo, tonalmente pressoché indefinito. Introduce un piccolo tema che traspone, creando tensione: tutto il materiale tematico, dalla cellula melodica al riff ritmico all’artifizio armonico, viene curato e mantenuto e mai buttato via.
Il pezzo è in quattro, ma in realtà si percepisce una serie quadripartita di battute in uno, in cui il ritmo di danza riappare, anche se solo accennato. Grappoli cromatici di note, arpeggi diminuiti si materializzano nel registro acuto del pianoforte. Anche in questo caso la mano sinistra tiene bordone con note ribattute.

Quando entrano in scena l’elettronica, la loop station, i suoni distorti, l’effetto non è avveniristico, spaziale, o underground: è mistico, sospeso, fino a quando il pianoforte non si inserisce in un impianto armonico semplice, tonica minore – settima di dominante – tonica minore, e con una melodia che sembrerebbe antica, lontana, tradizionale.
Hamasyan privilegia la parte centrale della tastiera. Il bordone alla mano sinistra persiste per gran parte del tempo. Il concerto termina con un bis più esplicito del resto dei brani tra gli applausi di un pubblico affascinato, quasi irretito.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un’ora abbondante di musica intensa, affascinante. Niente di cerebrale, un flusso interiore reso con rara efficacia emotiva.
Il reiterarsi di cellule melodiche e ritmiche, il bordone spesso presente tenuto dalla mano sinistra, l’insistere sulla parte centrale della tastiera e l’improvviso apparire di cromatismi ed arpeggi nel registro acuto creano un’atmosfera sospesa onirica, sulla quale vengono ricamate reminiscenze di musica armena: quasi sicuramente, non ne sono sicura, perché di tutto si può parlare fuorché di “contaminazioni”. Hamasyan ha su di sé tutto il carico delle sue origini ma le trasfigura in un modo di fare musica che è al di là di Jazz, musica classica, musica popolare. E’ malinconico, nostalgico, introspettivo ma a modo suo anche assertivo e incisivo. E possiede una creatività inusuale e inarrestabile.
Posso affermare senza timore in questo piccolo spazio della recensione dedicato alle mie convinzioni, che Tigran Hamasyan è un grande pianista contemporaneo.

Gli altri concerti che abbiamo seguito a VICENZA JAZZ
Manhattan Transfer
Gavino Murgia e Cantar Lontano
Randy Weston and Billy Harper Duo

VICENZA JAZZ: Gavino Murgia e Cantar Lontano Officium Divinum


Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ, Cimitero Maggiore, ore 00:00

Gavino Murgia e Cantar Lontano – Officium Divinum

Gavino Murgia (sax soprano)
Marco Mencoboni (direttore)
Cantar Lontano (ensemble)
Alessandro Carmignani (controtenore)
Paolo Borgonovo (tenore)
Riccardo Pisani (tenore)
Guglielmo Buonsanti (basso)
Musiche di Guillaume Dufay, Pierre de La Rue, Cristobal de Morales, Perotin

E’ mezzanotte al Cimitero Maggiore di Vicenza. Le poche luci accese sono suggestive. Si ode una campanella da lontano e dal buio compaiono quattro uomini in giacca scura che prendono posto sul palco ed intonano un antico canto sacro a quattro voci. Dopo poco, sempre in lontananza risuona, avviluppandosi a quel canto polifonico, la voce di un sax soprano.

I quattro uomini compongono l’ensemble vocale “Cantar Lontano”, e sono diretti da Marco Mencoboni. Il sax soprano è quello di Gavino Murgia. L’ensemble esegue brani composti da Guillaume Dufay, Pierre de La Rue, Perotin ed altri giganti della musica polifonica dal 1200 al 1500, Gavino Murgia compie incursioni con il suo sax soprano ma anche con la sua voce da basso del tradizionale canto a boche sardo, che non è poi così dissimile dal canto mistico tibetano.

Le incursioni di Murgia non contraddicono l’impianto armonico dei pezzi sacri. Vi si intreccia aggiungendo le sue voci (strumentale o vocale) in contrasto timbrico e melodico, ma non armonicamente dissonante. La volontà è quella di fondersi con le voci perfette, trasfigurate, quasi sovrumane di quel quartetto, salendo raramente sul palco ma facendovi giungere i suoni da luoghi e distanze diverse, per movimentare suggestivamente timbri, dinamiche, e rendere tutto ancora più inaspettato.
Sulle note lunghe delle composizioni vocali Murgia ricama. Oppure carpisce cellule melodiche che diventano l’incipit dei suoi fraseggi, o la loro chiusura. O ancora esegue un’introduzione che racchiude in sé le note iniziali del brano che seguirà.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Difficilmente potrò dimenticare la sensazione incomprensibile, quasi estatica, del trovarmi in un luogo così definito, in maniera anche convenzionale dalla letteratura, come può essere un cimitero a mezzanotte, e nello stesso istante in luogo così lontano dallo spazio e dal tempo, così terrestre, così ancestrale, e anche allo stesso tempo così sacrale come quel cimitero in quella mezzanotte con quella musica. Niente di tetro, niente di spaventoso, uno stato di ritorno alla terra ma anche al mistero che ne regola le leggi della vita e della morte, morte che, per una notte, quasi è tornata alla vita.
L’incredibile, straniante legame che si è materializzato in un’ ora tra la voce del sax di Gavino Murgia e quell’unico flusso sonoro di quattro voci ha fatto risuonare persino il silenzio nei quali i presenti erano immersi poiché incantati da ciò che accadeva sul palco e intorno al palco.
La voce da basso di Murgia intrecciata alla voce acutissima e perfetta del controtenore Alessandro Carmignani, il contrasto tra il tacere denso dell’attimo che precede gli attacchi e l’esplodere polifonico delle voci, l’armonia inaspettata che può sorgere tra le frasi potenti e libere di un sax soprano e l’andamento strutturato nei minimi particolari di una musica che per l’intenzione stessa di chi l’ha scritta vuole tendere al divino fanno del progetto Officium Divinum un’esperienza unica per chi deciderà di viverla dal vivo. Magari non accadrà più in un cimitero a mezzanotte, ma io ve la consiglio, a prescindere. Meglio se di notte e all’aria aperta.


Gli altri concerti che abbiamo seguito a Vicenza:
Manhattan Transfer