I nostri CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Pierluigi Balducci – “L’equilibrista” – Dodicilune
Una prima notazione tutt’altro che secondaria: “questo lavoro – afferma lo stesso Balducci – vede la luce ad otto anni dal mio precedente disco, “Blue from Heaven”, e a tre anni da “Evansiana”, pubblicato nel 2017. Lo dedico a John Taylor, che in questi due dischi è presente: punto di riferimento sia per me che per tanti altri musicisti europei, John mi ha onorato della sua presenza nel mio quartetto fino alla sua scomparsa, nel 2014”. Ebbene, nell’intento di omaggiare cotanto artista, il bassista/compositore pugliese Pierluigi Balducci, ben coadiuvato da Robert Bonisolo (sax tenore), Fabrizio Savino (chitarra) e Dario Congedo (batteria) ha realizzato questo eccellente album con sette brani originali tutti composti dal leader. Inquadrato l’album nelle sue linee generali, occorre aggiungere che il titolo rispecchia appieno la musica che si ascolta. Un equilibrio tra forma e contenuto, un bilanciamento apprezzabile tra parti scritte e improvvisate, un giusto alternarsi di atmosfere tra energico groove e avvolgente melodia, il tutto condito da una ricerca sul sound che ha dato frutti copiosi. In particolare si fa apprezzare il dialogo a più voci che vede impegnati alle volte Balducci e sezione ritmica, altre volte Balducci e Bonisolo; ciò senza trascurare il peso degli assolo che si ascoltano nei vari brani: particolarmente apprezzabile, ad esempio, il chitarrista nella title-track con il suo incedere elegantemente descrittivo mentre il sax di Bonisolo s’impone alla generale attenzione già a partire dalle primissime note del brano d’apertura “Blackarera” caratterizzato da un coinvolgente andamento ritmico.
Dal canto suo il leader, oltre a fornire un irrinunciabile supporto armonico per tutta la durata dell’album (si ascolti a mò di esempio “Kosmos and Chaos”) si produce anche in notevoli assolo come nel caso di “Monet” probabilmente il pezzo migliore dell’album. Fra gli altri brani più significativi “Fino a prova contraria”, una lunga ballad esposta con sapienza narrativa da Robert Bonisolo e con i notevoli assolo della chitarra di Savino e del basso elettrico del leader.

Luiz Bonfà – “Plays & Sings Bossa Nova + The Gentle Rain” – Aquarela do Brasil
Siamo nei primissimi anni ’60, per la precisione nel 1962, quando viene registrato un lp dal sassofonista Stan Getz con il chitarrista Charlie Byrd: è l’inizio del fenomeno ‘jazz samba’ (più tardi inteso come ‘bossa nova’) che tanto successo ebbe nel mondo del jazz. Tra i sacerdoti di questa nuova musica figura certamente il chitarrista e vocalist Luiz Bonfà (Rio de Janeiro, 17 ottobre 1922 – Rio de Janeiro, 12 gennaio 2001) che nello stesso 1962 fu tra i protagonisti dello storico spettacolo di bossa nova che si tenne alla Carnegie Hall. A testimonianza delle sue frequentazioni con il mondo del jazz restano le incisioni con Stan Getz, Quincy Jones, Frank Sinatra, Eumir Deodato. Moltissime le composizioni di Bonfà – oltre un centinaio – molte celebri, tra cui ricordiamo innanzitutto “Manhã de Carnaval” e “Samba de Orfeu” entrambi tratti dalla colonna sonora del film “Orfeo Negro”. In questo album si ascoltano due lp risalenti agli anni ’60. Nel primo, registrato a New York nel 1962, troviamo Bonfà a capo di un sestetto e una sezione d’archi arrangiata da Lalo Schifrin; il secondo – “The Gentle Rain” – è la colonna sonora dell’omonimo film in cui il chitarrista suona con un’orchestra arrangiata e diretta dall’amico Eumir Deodato, realizzata a Rio De Janiero nel 1966. Naturalmente in repertorio figurano altre perle targate Bonfà come il già citato “Manhã de Carnaval” e ancora “Samba de Duas Notas”, “Silencio do amor”, “Perdido de amor” registrato a Rio de Janeiro nel 1959 e porto come “bonus track”. Fornire un quadro esauriente dell’arte di Bonfà è opera davvero ardua dato l’enorme numero di registrazioni effettuate dall’artista tuttavia dall’ascolto di questo album si può ricavare un ritratto soddisfacente di quel che Bonfà ha rappresentato nel mondo della musica.

Jakob Bro – “Uma Elmo” – ECM 2702
E’ un trio di caratura internazionale quello che il chitarrista danese Jakob Bro, al suo quinto disco da leader per la ECM, presenta in questa occasione: al suo fianco sono, infatti, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Ad onta del fatto che i tre mai avevano inciso prima, la formazione si dimostra assolutamente compatta, ben guidata dal leader e perfettamente in grado di svolgere la musica che Bro aveva immaginato. Nove brani tutti composti dal chitarrista caratterizzati da un’atmosfera profonda, intimista, fortemente evocativa, ricca di echi, di riverberi, con chitarra e tromba che dialogano continuamente e la batteria di Rossy a punteggiare e sostenere il tutto, pur concedendo davvero poco all’impianto ritmico. Nell’ambito del repertorio figurano tre espliciti omaggi, in cui, però, Bro continua ad evidenziare la sua poetica mantenendosi ad una certa distanza dagli artisti evocati. Non a caso l’album si apre con “Reconstructing a Dream” in ricordo di quel periodo (2007) in cui collaborava con la Paul Motian’s Electric Bebop Band. “To Stanko” è un tributo al trombettista polacco Tomasz Stanko con il quale Bro aveva collaborato per ben cinque anni incidendo, tra l’altro, nel 2009 l’album ECM “Dark Eyes” unitamente a Alexi Tuomarila piano, Anders Christensen chitarra basso e Olavi Louhivuori batteria; la linea melodica è dolcemente suggestiva ben lontana, quindi, dal clima arroventato proprio dell’artista polacco. L’altro jazzista omaggiato è Lee Konitz per il quale Bro ha scritto ed eseguito “Music For Black Pigeons”; nei confronti del sassofonista Bro dichiara una sorta di sincera devozione sorta negli anni in cui hanno suonato assieme durante le tournée effettuate in Islanda, Groenlandia, Norvegia, Danimarca. Il brano più interessante? Difficile da enucleare anche se mi ha particolarmente colpito “Housework” sia per il sound affatto particolare della tromba, sia perché è piuttosto complicato enucleare le parti improvvisate dall’intelligente scrittura.

James Booker – “The Ivory Emperor” – Soul Jam 806188
Album da non perdere per gli appassionati di un certo tipo di jazz, molto vicino al blues. In effetti vi sono contenuti tutti i singoli che James Booker realizzò come leader all’inizio della sua carriera, tra il 1954 e il 1962, quando incideva per diverse etichette tra cui Imperial, Chess, Ace e Peacock. Il cd contiene inoltre brani di altri artisti in cui James Booker appare come sideman. E’ il caso, ad esempio, di “You’re On My Mind” e “The Nex Time” in cui suona accanto a Junior Parker (voce) e Arnett Cobb (sax tenore), e delle due tracce conclusive in cui collabora con il bluesman Earl King. Ma chi era James Booker domanda che probabilmente si staranno facendo i nostri più giovani lettori. Ebbene James Booker, (New Orleans, 17 dicembre 1939 – 8 novembre 1983), conosciuto come il Principe del piano di New Orleans, è stato uno dei musicisti più amati di Crescent City. Era un pianista eccellente, organista di livello (lo si ascolti ad esempio in “Cross My Heart”), vocalist e compositore che si era creato uno stile del tutto personale fondendo R&B, gospel, blues, boogie-woogie, jazz tradizionale e moderno attraverso un suono originale. Ma le sue conoscenze musicali andavano ben al di là rivolgendosi anche alla musica classica europea, così rivisitò in chiave blues il “Valzer del minuto” di Chopin e inserì una composizione dello stesso autore polacco in un brano boogie-woogie. Data l’importanza della sua musica nell’ambito della scena jazz-blues di New Orleans, la sua produzione fa parte dal 2008 degli archivi della Biblioteca del Congresso.

Sam Cooke – “Wonderful World – The Hits” – Hoo Doo
Questo è un album chiaramente divisivo: in effetti se amate il soul jazz e più in generale la soul music allora l’ascolto sarà più che gradevole; esattamente il contrario se vi sentite lontani da questo particolare genere. Il protagonista è un vocalist di assoluto rilievo, Sam Cooke, che può essere considerato uno dei padri fondatori della soul music essendo stato tra i primi a coniugare le tematiche gospel con input provenienti dalla vita reale. Nato a Clarksdale il 22 gennaio 1931 e scomparso a Los Angeles l’11 dicembre 1964, Sam sulla spinta del padre – il Reverendo Charles Cook della Chiesa Battista – si era già affermato da giovanissimo come leader del famoso gruppo gospel “teenage” “The Highway QC” che abbandonerà all’età di 19 anni per dedicarsi ad una musica “profana”. Nel corso della sua non lunga carriera, Sam collezionò una serie incredibile di successi, grazie ad un incredibile senso del ritmo e a straordinarie capacità vocali che gli consentivano di passare con disinvoltura da Gershwin (lo si ascolti in “Summertime” a classici del pop quale “Youn Send Me”, anch’esso presente in questa raccolta. E il pregio principale di questo CD consiste proprio nel fatto che nell’ambito delle 30 tracce, registrate tra il 1956 e il 1962, possiamo ascoltare tutti i più grandi successi del vocalist, da “Wonderful World” che apre la compilation a “Bring It On Home to Me”, da “Chain Gang” a “Twistin’ the Night Away” da “A Change Is Gonna Come” fino al conclusivo “Having a Party” per circa 78 minuti di musica. In queste numerose performances Sam Cooke è accompagnato anche da alcuni eccellenti jazzisti quali il pianista Hank Jones, Mike Pacheco (conga), Red Callender (basso).

Chick Corea – “Plays” – Concord 2 CD
E’ di poche settimane fa la dipartita di Chick Corea un artista che ha segnato la storia del jazz negli ultimi cinquant’anni. Ecco, quindi, questo pregevole doppio album della Concord che lumeggia uno dei tanti lati della complessa personalità artistica di Corea: quella del piano solo. Piano solo declinato attraverso una varietà di situazioni che testimonia, meglio di mille parole, da un lato l’incredibile conoscenza del repertorio pianistico, dall’altro la capacità di ben interpretarlo. Eccolo quindi alle prese con Mozart, con Gershwin, con Scarlatti, con Bill Evans, con Scriabin, con Antonio Carlos Jobim, con Monk, per chiudere con una serie di brani tratti da quell’inesauribile scrigno costituito dalle sue composizioni. In particolare il primo CD è dedicato a prezzi celebri che tutti conoscono mentre nel secondo è possibile ascoltare tutti brani di Corea eccezion fatta per “Pastime Paradise” di Stevie Wonder. I brani sono tratti da una serie di concerti svolti in vari Paesi europei e statunitensi e ovunque, dinnanzi ad un pubblico che lo acclama, Chick non si risparmia e affronta con disinvoltura i non facili confronti con gli autori su citati. Ma non basta ché Corea si lascia andare anche ad improvvisazioni che testimoniano la valenza di un artista che mai ha fatto ricorso al banale, al facile ascolto, ai cliché spesso di moda. Insomma ancora una volta Corea si concede senza limiti al suo pubblico, senza particolari modalità, fedele al suo motto più volte espresso secondo cui “a me piace – afferma il pianista – che il pubblico ai miei concerti si senta come se stessimo nel mio salotto a discutere del più e del meno”.
Così il suo pianismo conserva intatta la sua originalità e soprattutto quel tocco che lo ha reso celebre. Come ho molte volte sottolineato, quello che trasforma un buon musicista in un grande artista è la riconoscibilità e in un pianista detta riconoscibilità si sostanzia nella originalità del tocco, nel caso di Corea un tocco sublime e straordinariamente controllato.

Daniele Germani – “A Congregation of Folks” – Gleam Records 7004
Album d’esordio per questo alto-sassofonista originario di Frosinone ma di stanza a Brooklyn, NY, ben coadiuvato dal pianista originario dell’Oregon Justin Salisbury, dal bassista Giuseppe Cucchiara e dal batterista sudcoreano Jongkuk Kim. In programma tredici composizioni tutte scritte dal sassofonista che si è fatto le ossa suonando al Wally’s Jazz Cafe, il leggendario jazz club di Boston; in questa città Germani si è trasferito nel 2013 avendo ottenuto una borsa di studio per frequentare il Berklee College of Music. Mentre era lì, è stato ammesso al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Danilo Perez, dove ha studiato sotto la guida di Terri Lyne Carrington, Joe Lovano e del suo mentore, George Garzone. Avendo alle spalle tanti anni di studio e con maestri talmente prestigiosi, Germani si presenta al pubblico italiano come musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi e in grado di guidare un ensemble ben equilibrato e affiatato grazie al fatto che i quattro si sono conosciuti al Berklee. Di qui una perfetta spaziatura tra gli strumentisti e il giusto tempo dato ad ognuno per esprimere le proprie potenzialità. Così ad esempio in “One Moment To Monet” è il piano di Salisbury a mettersi in particolare evidenza mentre in “Hal Believe It” è l’intera sezione ritmica ad evidenziare la sua bravura nel sostenere magnificamente il solismo del leader. Il quale dà un’impronta all’intero album già nelle primissime note del brano d’apertura quando su un tappeto disegnato dal basso introduce e sviluppa il tema, portandolo dolcemente a conclusione Comunque ad avviso di chi scrive il brano meglio riuscito è “Eres luz”, una suggestiva melodia disegnata anche dal contrabbasso di Cucchiara e che vede l’intero quartetto esprimersi al meglio.

Andrea Goretti – A Light in The Darkness – Dodicilune 503
Undici composizioni originali che il pianista-compositore Andrea Goretti affronta in solitudine. Di qui una duplice fatica: da compositore e da esecutore. E la valutazione non può che essere positiva. Le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da introspezione e sincera meditazione, mentre le esecuzioni risultano perfettamente aderenti alle idee dell’artista. Quindi nessuno sfoggio virtuosistico ma un uso intelligente delle dinamiche, una accurata ricerca armonica nell’ambito di un pianismo tecnicamente ineccepibile. Il tutto supportato da una profonda conoscenza della letteratura sia classica sia jazzistica, con specifico riferimento alle tendenze più attuali. Non a caso in repertorio figura anche un brano, “T.T.T. X – Twelve Tone Tune X” costruito con una linea melodica di dodici suoni, ad omaggiare il celebre “Twelve Tone Tune” di Bill Evans. Altra dote di Andrea Goretti la capacità di saper bilanciare scrittura e improvvisazione, pratica quest’ultima, che pur evidenziandosi in tutto l’album si palesa particolarmente in “Neptune’s Blues” e “I giganti”. L’album si chiude con tre pezzi registrati dal vivo durante un concerto a Roma nel novembre del 2018: “Impro I”, “Lamento”, ispirato al blues e “Il Grinch 2”, dedicato, non senza un tocco d’ironia, al periodo natalizio, in particolare a quel personaggio – Grinch per l’appunto – inventato nel 1957 dal Dr. Seuss, che odia il Natale, non ne sopporta l’atmosfera allegra, i canti, i regali e le luci. L’album è impreziosito da una poesia di Umberto Petrin, “Question”, ispirata dalla musica di Goretti.

Pietro Lazazzara – “My Art of Gypsy Jazz” – Stradivarius
Chiarezza esemplare nel titolo dell’album: siano nel campo di un certo ben preciso tipo di jazz che il chitarrista e compositore Pietro Lazazzara frequenta con disinvoltura. Ma sarebbe un errore confinare l’album nell’ambito del “Gipsy Jazz”: in effetti, restando questo la fonte principale da cui trae ispirazione, il percorso di Pietro è più complesso e completo. Eccolo quindi studente di chitarra classico, appassionato conoscitore del flamenco, laureato in musica jazz e infaticabile appassionato ricercatore nell’ambito di uno sconfinato universo musicale. Di qui una musica in cui tutti questi input sono ben amalgamati e condotti ad unità grazie ad una buona verve compositiva e ad una eccellente tecnica esecutiva che si palesa soprattutto nei due brani per chitarra-solo “Passion d’Amour” ed “Echi d’Infanzia”. Nell’album Lazazzara è, in effetti, coadiuvato da Antonio Solazzo al basso e in un brano, “Relax”, da Emanuele Maggiore al flicorno. In cartellone quattordici pezzi scritti dallo stesso chitarrista con l’eccezione di “Douce Ambiance” di Django Reinhardt, “Joseph Joseph” di Kahn, Chaplin, Nellie e “Bistrot Fada” di Stephane Wrembel. Alla fine di un duplice attento ascolto dell’album, si può ben dire che la figura di Lazazzara quale compositore ed esecutore si colloca su livelli più che buoni. Le composizioni appaiono tutte ben scritte, equilibrate, caratterizzate da una sapiente ricerca armonica e si fanno ammirare anche per il notevole bilanciamento tra parti scritte ed improvvisate. L’esecuzione, poi, è raffinata, elegante ad evidenziare un chitarrista sensibile, ispirato, dalla tecnica ineccepibile per quanto misurata e lontana dalla volontà di stupire l’ascoltatore cosicché ogni nota ha il suo preciso perché.

Peggy Lee – The Hits of – All Anglow Again!” – Essential Jazz11443
Peggy Lee (Jamestown, 26 maggio 1920 – Bel Air, 21 gennaio 2002) è stata artista di squisita sensibilità che ha incantato le platee di tutto il mondo. Dotata di una voce non potentissima ma di grande fascino, suggestiva, capace di portare l’ascoltatore in una dimensione “altra”, Peggy ottenne grande popolarità durante l’era dello swing quando lavorò e incise con grandi orchestre dirette, tra gli altri, da Benny Goodman, Nelson Riddle, Billy May. Questo album contiene l’edizione integrale dell’lp “All Aglow Again”; si tratta di una compilation realizzata nel 1960 con in repertorio dodici brani tratti dalle varie registrazioni effettuate sino a quel momento ivi comprese alcune hit come la celebre “Fever” canzone di Eddie Cooley e Otis Blackwell (usando lo pseudonimo di John Davenport) del 1956; incisa per la prima volta da Little Willie John nello stesso anno, diventò di grande successo grazie alla cover di Peggy Lee del 1958 che raggiunse la quinta posizione nel Regno Unito e l’ottava negli Stati Uniti ed in Olanda, vincendo il Grammy Hall of Fame Award 1998. In aggiunta al già citato “All Anglow Again!” il cd in oggetto presenta altri 17 brani scelti tra i maggiori hit della cantante come “Black Coffee”, “Sugar”, “Ain’t We Got Fun” e “La La Lu”. In buona sostanza per chi come il sottoscritto conosce già da qualche decennio l’arte di Peggy Lee nessuna sorpresa ma il piacere di ascoltare alcune delle sue più convincenti interpretazioni; per i più giovani un’occasione da cogliere per fare la conoscenza di una delle migliori cantanti jazz.

Joe Lovano – “Garden of Expression” – ECM 2685
Conosco personalmente Lovano dall’oramai lontano 1982 e l’ho sempre considerato uno straordinario musicista oltre che una bella persona, cosa che mai guasta. Quest’ultimo album ci restituisce un Lovano in forma smagliante, alla testa di quel Trio Tapestry con cui lo avevamo apprezzato nell’omonimo album del 2019, quindi ancora con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Registrato nel novembre del 2019, l’album è dedicato a quanti sono rimasti vittime del Covid 19. Di qui otto brani tutti scritti dallo stesso Lovano che conducono l’ascoltatore in atmosfere rarefatte disegnate dal leader ma ben supportate da pianoforte e batteria che non fanno assolutamente rimpiangere la mancanza del contrabbasso. Si ascolti quindi con quale e quanta delicatezza il pianismo di Marilyn avvolge il sax del leader, quasi a tessere un intricata trama su cui quasi si adagia la voce di Lovano, mentre la batteria di Carmen segue con grande intelligenza e intuito gli intenti del leader. Una musica, quindi, che si sostanzia nell’empatia che i tre evidenziano sin dalle primissime note a conferma di un “idem sentire” tutt’altro che banale. Esemplare al riguardo il suadente “Night Creatures” in cui la Crispell sembra quasi volersi espandere nel comune territorio pronta, però, a cedere il passo all’entrata del sassofono, il tutto porto con estrema delicatezza. Appare quasi come uno standard il successivo “West of the Moon” mentre nella title- track il trio abbandona le melodie disegnate in precedenza per avventurarsi su terreni diversi, quasi vicini ad un certo free, ma che comunque mette in luce un abilissimo e lucido Castaldi il quale non si lascia sfuggire l’occasione per evidenziare il suo, d’altronde ben noto, talento. L’album si chiude con un lungo (oltre 10 minuti) “Zen Like” scandito da campane tibetane che si stacca nettamente da tutto ciò che si è ascoltato sinora.

Shai Maestro – “Human” ECM 2688
Coinvolgente la musica di questo quartetto la cui leadership si potrebbe tranquillamente spartire tra il pianista Shai Maestro e il trombettista statunitense Philip Dizack, coadiuvati da una puntuale sezione ritmica composta dal batterista israeliano Ofri Nehemya e dal contrabbassista peruviano Jorge Roeder. Certo la maestria del pianista israeliano non la scopriamo certo adesso dato che Shai è già al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM, e può vantare anche quattro album di spessore incisi con l’Avishai Cohen Trio. Ma in questo album c’è forse qualcosa di più. Innanzitutto una piena maturità compositiva declinata attraverso un repertorio di undici composizioni tutte sue ad eccezione di “In a Sentimental Mood”. In secondo luogo la piena conferma di uno stile pianistico che nulla aggiunge a ciò che è strettamente necessario ad esprimere la propria individualità, il proprio essere più profondo (si ascolti al riguardo soprattutto “Compassion” e “Hank and Charlie” il commovente omaggio porto a Hank Jones e Charlie Haden, con il contrabbasso di Jorge Roeder in bella evidenza). In terzo luogo la capacità di eseguire al meglio, in modo originale, composizioni non proprie come la su citata pagina ellingtoniana, pezzo tanto affascinante quanto difficile da riprodurre visto l’inevitabile confronto con l’originale. Infine la straordinaria facilità con cui riesce a rapportarsi con i compagni di viaggio; semplicemente perfetta l’intesa con il trombettista assai evidente soprattutto in “Human” e in “They Went to War” mentre la sezione ritmica è sempre lì, presente e discreta, a puntualizzare le linee disegnate da pianoforte e tromba.

Angelo Mastronardi – “Rough Line” – GleamRecords7003
Con questo terzo album da leader, il pianista si ripresenta con la formula preferita del trio assieme al batterista palermitano Melo Miceli e al contrabbassista americano Rogers Anning. In programma 6 composizioni originali scritte dal leader e due standard, “All Things You Are” (J.Kern / O. Hammerstein II) e “Oleo” (S. Rollins). Il terreno è quello di un jazz caratterizzato da una forte carica ritmica e da spiccate individualità che emergono nel corso delle varie esecuzioni; il tutto impreziosito da una accurata ricerca sul suono che si evidenzia ancora più chiaramente quando Mastronardi si produce non solo al pianoforte ma anche al Fender Rhodes. Come si accennava notevole l’apporto solistico di tutti i membri del trio: così ecco il basso di Rogers Anning particolarmente in evidenza in “Everything I Need” mentre la batteria di Melo Miceli si fa apprezzare in “Away From The Scene”. E il leader? A parte la sapienza con cui guida il trio, si ritaglia spazi per convincenti assolo: in particolare nei due brani eseguiti in solitudine, “All The Things You Are” e “7 H-Our”, Mastronardi evidenzia una assoluta padronanza della tastiera che sa utilizzare in maniera completa evidenziando tra l’altro una ottima diteggiatura e una eccellente indipendenza tra le due mani. In particolare il brano di Kern e Hammerstein è porto in maniera originale con l’intento da un canto di preservare la bellezza del tema dall’altro di osare qualcosa di nuovo, alla costante ricerca di quell’equilibrio fra tradizione e sperimentazione che caratterizza tutto l’album ; in “7H-Our” Mastronardi, avendo a che fare con una propria composizione, si muove con sicurezza nel dichiarato intento di sperimentare le possibilità timbriche del Fender.

Lucio Miele – “Kalpa” – Creative Sources Record
Album assolutamente atipico in cui Lucio Miele, percussionista di tradizione classica, dedito alla ricerca e alla sperimentazione, si racconta attraverso sei sue composizioni, affiancato da Simona Fredella alla voce recitata in due brani e da Anacleto Vitolo al mastering. Chi conosce il musicista salernitano troverà in questo album una perfetta continuità con le sue realizzazioni in cui ha sempre cercato di condensare la molteplicità delle sue esperienze. Viceversa per chi questo album rappresenta il primo approccio con la musica di Miele, sicuramente ne resterà sorpreso, nel bene o nel male non spetta certo allo scrivente deciderlo. In ogni caso è opportuno sottolineare che Miele è artista sincero, intellettualmente onesto, che ha sempre seguito la sua strada per quanto ostica fosse la stessa. Certo, fare musica basandosi solo su percussioni ed elettronica non è impresa facile, anche quando si è perfettamente padroni degli strumenti utilizzati (si ascolti ad esempio il convincente uso dell’elettronica in “Mbombo”). Mancano i riferimenti usuali, la linea melodica, l’andamento ritmico è assolutamente frastagliato e imprevedibile, ma quando si approccia una realizzazione di questo tipo i vecchi parametri vanno messi da parte e occorre lasciarsi andare al flusso sonoro. Aprire la mente il cuore, l’anima e lasciare che la musica ci attraversi fin nel profondo alla ricerca di emozioni sopite che forse solo in questo modo saremo in grado di apprezzare. Insomma un album, come si accennava, di non facile ascolto ma che vale la pena fruire ma, ripetiamo, con disponibilità e attenzione…altrimenti è meglio lasciar perdere.

Roberto Ottaviano – “Resonance & Rapsodies” – Dodicilune
Doppio album del sassofonista (soprano) e compositore pugliese Roberto Ottaviano, affiancato in “Resonance” dal quartetto Eternal Love composto da Marco Colonna (clarinetti), Giorgio Pacorig (piano, rodhes), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), ampliato dalla presenza di Alexander Hawkins (piano), Danilo Gallo (contrabbasso e basso acustico) e Hamid Drake (batteria), mentre nel secondo CD, “Rapsodies” solo dal quartetto Eternal Love. Una realizzazione, quindi, particolarmente impegnativa che non a caso ha vinto l’annuale referendum come miglior disco italiano del 2020. Ora, a prescindere dal valore che valutazioni del genere possono avere o non avere, resta il fatto che a mio avviso raramente una produzione discografica è stata così meritevole di tali considerazioni. In effetti Roberto Ottaviano è artista di grandissimo livello, tra i migliori che l’attuale scena jazzistica, non solo italiana, possa annoverare. La sua mente compositiva è sempre lucida, attuale, capace di cogliere i fermenti più significativi che attraversano l’universo musicale senza distinzione di genere mentre le modalità esecutive evidenziano un bagaglio tecnico molto profondo, talmente ben assorbito da non necessitare di alcuna palese esposizione e che, di conseguenza, si sostanzia in uno stile asciutto, senza fronzoli, che nulla lascia all’esibizionismo. L’intento che sta alla base dell’opera è, come afferma lo stesso Ottaviano, “una sorta di omaggio alla ricerca di quella sofferta poetica che fa parte della condizione umana”. Per dare forza e concretezza a questi concetti, Roberto fa ricorso ad una musica declinata attraverso ventitré brani in larga misura da lui stesso scritti in cui non mancano i riferimenti alla musica classica contemporanea. Ma è la pratica collettiva il dato fondamentale di questo doppio CD, una pratica che consente una sorta di doppione del sax di Ottaviano con i clarinetti di Marco Colonna, che risultano essenziali per allargare a dismisura il concetto di suono. Se volessimo sintetizzare in poche parole il significato più profondo di questo “Resonance & Rapsodies” si potrebbe forse dire che nel momento in cui rievoca le esperienze del passato Ottaviano non rinuncia a guardare oltre, non rinuncia ad una ricerca che costituisce una delle cifre fondamentali del suo essere artista.

Dino Piana – “Al gir dal bughi” – PMR, Jando Music
90 anni e non sentirli…o meglio che bel sentire ci procura questo nuovo album del trombonista Dino Piana. Conosco oramai da molti anni la premiata ditta composta da Dino e Franco Piana e ne ho sempre ricavato una bella impressione e non solo dal punto di vista squisitamente musicale, visata la gentilezza, la signorilità con cui i due amano rapportarsi con noi critici e giornalisti. Ma è il versante artistico su cui tocca concentrarsi in questa sede e allora dico, immediatamente, che l’album si colloca su quegli alti livelli cui Dino e Franco Piana ci hanno abituati oramai da decenni. Con in più un elemento di notevole importanza: il CD è stato fortemente voluto da Enrico Rava (storico amico di Dino Piana) e da Franco Piana per festeggiare i 90 anni (a luglio 91) del trombonista piemontese. Di qui la strutturazione di un organico d’eccellenza in cui accanto ai senatori Rava al flicorno e Dino Piana al trombone figurano Franco Piana al flicorno, Julian Oliver Mazzariello al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Di qui la scelta di un repertorio oggi non di moda: nove standard celeberrimi – “Bernie’s Tune”, “Dear Old Stockholm”, “Everythings Happens To Me”, “I’ll Close My Eyes”, “Line For Lions”, “Rhythm A Ning”, “Polka Dotz and Moonbeams”, “When Light Are Low”, “When Will The Blues Leave” – che tutti, più o meno, si richiamano a quell’hard bop da cui in buona sostanza è poi derivato tutto il jazz moderno. Il gruppo si esprime con bella compattezza impreziosito dal fitto dialogo tra i fiati e dagli assolo di Dino che non si risparmia anzi fa sentire ben nitida la voce del suo strumento in ogni brano. Gli standard fluiscono genuinamente ‘freschi’ come se il tempo non fosse trascorso e l’ascolto è sempre gradevole anche se occorre attenzione per catturare le mille sottigliezze dell’esecuzione. Una precisazione: lo strano titolo deriva dal fatto che durante il primissimo incontro tra Rava e Piana, quest’ultimo associò al blues in fa il giro armonico del boogie-woogie per l’appunto “Al gir dal bughi”.

Marcello Rosa – “The World On A Slide” – Alfa Music 236
Straordinario viaggio nel mondo del trombone. A fungere da gran cerimoniere è Marcello Rosa, uno dei personaggi più rilevanti dell’universo jazzistico nazionale. Conosco Marcello personalmente oramai da tanti anni e so perfettamente quanto ami la sua musica e quanta passione metta in ogni cosa che fa. Ovviamente a quest’aurea regola non sfugge “The World On A Slide” una raccolta di ben sedici brani –molti originali, altri scelti tra le più belle melodie del repertorio jazzistico del XX secolo – ma tutti suonati e arrangiati da Rosa nel corso della sua vita. Ebbene per questa sua ultima fatica discografica, Marcello ha voluto coronare un bel sogno: incidere un disco di soli e tanti tromboni. Ha così chiamato accanto a sé alcuni specialisti non solo del jazz ma anche della musica colta. Ed eccoli tutti i nomi dei temerari che hanno partecipato all’impresa: dalla musica colta Andrea Conti I trombone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Luigino Leonardi trombonista presso la Banda musicale dell’Aeronautica Militare, Gianfranco Marchesi trombone basso dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Quartetto italiano di tromboni, formato da Devid Ceste secondo trombone dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, Matteo De Luca I trombone dell’orchestra della Suisse Romande di Ginevra, Diego Di Mario I trombone presso l’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e Vincent Lepape I trombone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Dal mondo del jazz sono arrivati i già ‘collaudati’ Andrea Andreoli, Mario Corvini, Massimo Morganti e Roberto Rossi; accanto a loro i giovanissimi e brillanti Stefano Coccia, Elisabetta Mattei, Federico Proietti e il G.E.F.F. Trombone Quartet, composto da Giovanni Dominicis, Francesco Piersanti, Eugenio Renzetti e Gabriele Sapora. In taluni pezzi c’è pura una sezione ritmica composta da Paolo Tombolesi al pianoforte, Luca Berardi e Roy Panebianco alla chitarra, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni. Il risultato è semplicemente entusiasmante: come si diceva una volta ‘dove peschi peschi bene’ ed in effetti tutte le esecuzioni contengono una carica tale da mai lasciarti indifferente. Qualche titolo? “Autumn Leaves” con Massimo Morganti in veste di solista, la suadente “Southern Ballad” che ad onta delle difficoltà di realizzazione narrate da Rosa è venuta molto bene con Roberto Rossi solista, il sempre toccante “What Are You Doing the Rest of Your Life” affidato al Quartetto Italiano di Tromboni con Gianfranco Marchesi. Da segnalare infine che come bonus track figurano “Miss Magnolia Lee” del giugno 1974 con Enrico Pieranunzi piano, Alessio Urso basso e Gegè Munari batteria e “Il ladro di noccioline” del 1980 con Daniele Cestana piano, Nanni Civitenga chitarra e chitarra basso e Enzo Restuccia batteria.

Bob Salmieri – “…and Mama Was a Belly Dancer” – Cultural Bridge
Il sassofonista tenore romano Bob Salmieri si è già fatto conoscere da quando, nel 2016, costituì l’Erodoto Project, i cui album sono stati recensiti su questi stessi spazi. E’ di pochi mesi fa la costituzione del ‘Bob Salmieri Bastarduna Quintet’ con Giancarlo Romani alla tromba, Vincenzo Lucarelli organo e piano, Maurizio Perrone contrabbasso e Massimiliano de Lucia alla batteria, ospite in tre brani il vibrafonista e pianista polacco Mateusz Nawrot. In piena pandemia il gruppo incide il disco “…and Mama was a belly dancer” per Cultural Bridge, declinato attraverso otto composizioni tutte del leader che anche come strumentista non si risparmia di certo per tutta la durata dell’album. Due le necessarie premesse: nell’intento di Salmieri si tratta di un concept album in quanto rivede e rivive i sogni di un uomo-bambino che costruisce i suoni, i sapori, i colori di un tempo lontano e di un mondo sognato. In secondo luogo il termine Bastarduna con cui si è voluto caratterizzare il gruppo indica una varietà pregiata di fichi d’India a voler indicare la strada ‘mediterranea’ che il gruppo intende perseguire. Ora se, more solito, almeno per me è assai difficile stabilire se la musica coincide con l’impianto concettuale che dovrebbe sostenerla, non c‘è invece dubbio alcuno sul fatto che il jazz proposto si inserisca nel solco di un’ispirazione di impronta chiaramente mediterranea, particolarmente evidente in “Madame oculus” e “Men With The Painted Faces” impreziosito da un bell’assolo di Lucarelli all’organo. Dal punto di vista della linea melodica, particolarmente apprezzabile “The Flying Devils”. Comunque è tutto l’album che si snoda attraverso un filo rosso che vede in primo piano il fitto colloquio tra i due fiati ben sostenuti dalla sezione ritmica con l’ospite polacco in grado di ben inserirsi nel discorso collettivo con assoli di pregevole fattura (lo si ascolti in “The Balinese Dancer (Reprise)”.

Roberto Spadoni – “Mah” – Sword Records
Anche Roberto Spadoni fa parte delle mie oramai lunghe amicizie musicali ed è proprio partendo da questa base che mi sento di affermare la valenza dello stesso quale musicista assai ben preparato e che, tutto sommato, non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita. Adesso, dopo lunghi anni in cui ha suonato la sua fida chitarra, diretto organici di varie dimensioni, composto, insegnato, si cimenta con qualcosa di nuovo: produrre, promuovere e diffondere la sua musica seguendola in tutta la sua lunga filiera, dalla composizione alla registrazione, dal progetto grafico alla stampa e alla diffusione. Di qui la creazione di una label che – con una venatura di ironia – sottolinea Spadoni ha chiamato ‘Sword Records’. “Mah” è per l’appunto la prima realizzazione targata ‘Sword Records’ per cui il leader-chitarrista si esibisce con Fabio Petretti (sax tenore & soprano), Paolo Ghetti (contrabbasso) e Massimo Manzi (batteria). In programma nove composizioni originali tutte scritte dal leader a conferma di quanto su accennato a proposito della poliedricità di Roberto. L’album è sicuramente apprezzabile sia per l’originalità della scrittura così ben equilibrata sia per la bravura dei singoli notevoli nella parti d’insieme così come nei vari assolo. Ecco quindi il contrabbasso di Paolo Ghetti farsi apprezzare in “Remore morali” un brano non nuovo ma sempre affascinante. In “Girotondo” è la batteria di Massimo Manzi in primo piano, impegnata in un fitto dialogo con i compagni di viaggio mentre in “Borgo antico” si apprezza Fabio Petretti impegnato a disegnare una fluida linea melodica. Dal canto suo il leader non fa mancare il suo apporto solistico in ognuno dei brani apparendo, almeno a chi scrive, particolarmente convincente in “Buonanotte”. Ottima anche la chiusura con “Ce la posso fare” un pezzo che, evidenzia ancora Spadoni, egli ha diretto molte volte e che comunque rappresenta una sorta di mantra, un augurio, “una carica di energia positiva”, impreziosito nell’occasione dagli assolo di Petretti e di Spadoni.

Barney Wilen & Alain Jean-Marie – “Montreal Duets” – Elemental 2 CD
Vi piace la “buona” musica senza distinzione di stili, di epoca, di messaggi più o meno espliciti…insomma senza se e senza ma? Se la risposta è affermativa allora dovete ascoltare questo doppio album. Siamo nella Chiesa di Gesù, a Montreal (Canada) il 4 luglio del 1993 in occasione dell’annuale Festival del jazz. In programma per un doppio concerto pianificato alle 20 e alle 22,30 un duo d’eccezione composto da Barney Wilen al sax tenore e dal pianista martinicano Alain Jean-Marie. Già a quell’epoca i due avevano lungamente suonato assieme sin dagli anni ’80 potendo vantare una propria ben solida reputazione. In particolare Barney era considerato uno dei più prestigiosi sassofonisti francesi avendo, tra l’altro, collaborato con Miles Davis per la colonna sonora del film “Ascenseur pour l’Échafaud” nel 1957 mentre Alain a conferma di una carriera prestigiosa aveva ricevuto il “Prix Django Reinhardt” e nel 2000 il “Django d’Or”. Ora se è vero che nel mondo della musica e del jazz in particolare non sempre uno più uno fa due, questa volta si potrebbe ben dire che invece fa tre. Ascoltarli nelle loro evoluzioni è davvero un piacere tale e tanta è la fluidità del loro linguaggio. I due si intendono a meraviglia, si inseguono, si interrompono, si passano la palla senza soluzione di continuità nel rispetto di soluzioni ritmiche che guardano da vicino alla grande tradizione del bop. Non a caso Alain Jean-Marie agli inizi della carriera era stato avvicinato stilisticamente a Bud Powell. Nell’ampio programma enucleare qualche brano è davvero difficile anche se una menzione particolare la merita la splendida ballad di Gordon Jenkins, “Good Bye”, pezzo con cui Barney Wylen chiuse la sua performance a Caen il 14 marzo 1996 in quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Ascoltando “Good Bye” non ci si può non lasciar prendere da una ondata di malinconia nel ricordo di un grande artista che anche nell’esecuzione presente in questo album evidenzia una classe e una musicalità senza pari. E vorrei chiudere citando le parole di Jean-Paul Sartre riportate da Pascal Anquetil nel booklet del disco: “il y a un gros homme qui s’époumone à suivre son trombone dans ses évolutions, il y a un pianiste sans merci, un contrebassiste qui gratte ses cordes sans écouter les autres. Ils s’adressent à la meilleure part de vous-même, à la plus sèche, à la plus libre, à celle qui ne veut ni mélancolie ni ritournelle, mais l’éclat étourdissant d’un instant. Ils vous réclament, ils ne vous bercent pas”.

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Ferenc Snétberger, Keller Quartett – Hallgató – ECM New Series 2653
Com’è nostra consuetudine, consentiteci una tantum qualche digressione al di fuori degli ambiti prettamente jazzistici. Questa volta lo facciamo per segnalarvi questo album targato ECM New Series, dedicato al dolore vissuto da molti nel corso dei secoli senza motivo alcuno, che vede come protagonisti il chitarrista ungherese Ferenc Snetberger, il terzo pubblicato da ECM, e il Keller Quartet, anch’esso costituito da musicisti ungheresi. L’album, registrato in concerto nella Grand Hall della Liszt Academy di Budapest nel dicembre 2018, presenta un programma interamente dedicato alla musica classica. L’apertura e la chiusura sono dedicati a brani dello stesso Snétberger, inframmezzati da composizioni di Dimitri Shostakovich (il Quartetto per archi N. 8 in Do minore dedicato alle vittime della guerra e del fascismo), John Dowland ( “I Saw My Lady Weep” per chitarra e quartetto d’archi, e “Flow, My Tears” per chitarra e violoncello), Samuel Barber (lo struggente “Adagio for strings” interpretato dal solo “Keller Quartet”. Dal canto suo Ferenc Snetberger presenta alcune sue composizioni che non sfigurano al cospetto di contati autori. Così il “Concerto In Memory of My People,” in tre movimenti, composto da Snétberger nel 1994 per chitarra e orchestra, e qui riproposto in un arrangiamento per chitarra e quintetto d’archi, coglie perfettamente nel segno riuscendo a trasmettere l’ispirazione dell’autore che ricorda e dedica questa musica alla memoria dei suoi antenati gitani Roma e Sinti (cui il chitarrista appartiene) perseguitati e uccisi nei secoli. L’album si chiude con due composizioni del chitarrista, “Your Smile” per chitarra solo, unico brano in cui ci si distacca dalla sensazione di tristezza e dolore che domina tutto il CD e “Rhapsody No.1, for Guitar and Orchestra” qui però nella versione per chitarra e quintetto d’archi.
Che altro aggiungere se non che alla bellezza dei brani si aggiunge la valenza di Ferenc Snétberger che si conferma esecutore e compositore di sicuro livello.

I NOSTRI CD. Miatto, Piccioni, Scandroglio, Bardoscia: quando il basso vola alto.

Lorenzo Miatto – “Civico 19” – Caligola Records
Si può dire “il volare del basso” se un basso “vola alto”? Sì, probabilmente.
È quando, in altri termini, uno strumento come il basso elettrico rifugge dal ruolo di mero accompagnatore per librarsi improvvisativo e liberarsi in canto solistico per, appunto, “volare alto”. Questo espediente retorico è utile per meglio connotare il debutto discografico del giovane bassista veneto Lorenzo Miatto con l’album “Civico 19” (Caligola). Gli è a fianco il chitarrista Nicola Privato nell’attuare una coppia aperta agli scambi di ruolo, melodico e di sfondo armonico, per una sezione bass/guitar sorretta dalla bacchetta-misurino di Niccolò Romanin.  L’atmosfera, all’inizio di fusion sericea, si fa man mano più pastosamente sostanziosa. Il contesto è di un jazz non scevro da echi pop e rock in cui le composizioni del leader sono arrangiate in modo da esaltare la cantabilità tipica del basso elettrico, in un certo senso più opalescente rispetto allo strumento che ne è il fratello maggiore, quantomeno per stazza, il contrabbasso. Oltretutto un mirato uso di reverberi e vibrati ne rafforza l’affinità elettiva con la chitarra in una giostra di suoni variopinti e tempi sempre cangianti quasi uscissero imprevisti e insoliti dal compact, porta girevole di dodici tracce, emotive prima ancor che musicali.

Dario Piccioni – “Limesnauta” – Caligola Records
Ancora un debutto a marchio label Caligola col contrabbassista Dario Piccioni.
Il suo disco,”Limesnauta” è un neologismo che riassume un’autodefinizione della personalità del Nostro, cioè un navigatore del confine; verrebbe da aggiungere che è un esploratore del suono, un ‘traversatore’ di stili (nel cd appaiono le tablas di Daniele Di Pentima e l’oud di Stefano Saletti) un condensatore di ricami e richiami (a Renaud Garcia-Fons, per i sapori spanish dell’orchestrare e forse a Gary Peacock per il gusto nel ‘modaleggiare’). La bellezza del jazz è anche questa: il divagare dell’immaginazione di chi ascolta e intravede legami col proprio archivio mnemonico per confrontarli con chi oggi li maneggia e rimaneggia il processo di trasformazione e fusione di materiali preesistenti e nuovi, da solista o in gruppo. Già perché la fucina di Vulcano ha propri aiutanti! E così Piccioni si avvale del timone pianistico di Vittorio Solimene e col motore ritmico del batterista Ivan Liuzzo veleggia su una musica between/on/no borders in cui il contrabbasso si installa senza brontolii contando fra gli altri dell’ausilio “navigato” di Eugenio Colombo al sax e della voce, carezzevolmente erratica, di Veronica Marini.

Michelangelo Scandroglio – “In The Eyes of the Whale” – Auand
La Auand ci regala, con “In The Eyes Of The Whale”, ancora un contrabbassista in bella evidenza. Si tratta del ventitreenne toscano Michelangelo Scandroglio, reduce dall’affermazione del Conad Jazz Contest ad Umbria Jazz 2019 e vincitore del bando Mibac “Nuova generazione jazz” che si propone, prima facie, in veste di compositore dei 7 brani originali in scaletta oltre che come virtuoso. Verrebbe da capovolgere il motto “dimmi con chi suoni e di dirò chi sei” in “dimmi chi sei e ti dirò con chi suoni” nel senso che la scelta dei partners è quanto mai in linea con l’amalgama sonoro prefigurato da Scandroglio dalla sua collodiana “balena” che accoglie e lascia passar fuori, dal proprio grembo, elettrici spruzzi di energia.  Militano infatti nella formazione il pianista Alessandro Lanzoni, il trombettista Hermon Mehari e il batterista Bernardo Guerra. Come dire un fior fiore di musicisti di nuova generazione, in tutto (magnifici) sette se vi si considerano gli ospiti Michele Tinto e Logan Richardson (alto sax) unitamente al londinese Peter Wilson (chitarra). Si avverte, nel suo background, la mano del didatta Ares Tavolazzi in un collocarsi fra rock pop e jazz contemporaneo che ne costituisce la specifica distintiva cifra artistica. In Scandroglio Mente (compositiva) e Cervello (bandlearistico) si coniugano alla Technè ovvero ad un tocco sapiente e sicuro sullo strumento. Cosa che nel jazz non guasta mai!

Marco Bardoscia – “The Future is A Tree” – Tûk Music
“The Future Is A Tree” (Tûk Musik) è l’interessante album del contrabbassista salentino Marco Bardoscia inciso con il collaudato trio completato dai corregionali William Greco al pianoforte e Dario Congedo alla batteria. Il lavoro si incentra sul Tempo inteso come cronologia ma anche frazione, scansione, struttura organizzata per lo zampillio dell’espressione musicale. La suite iniziale, divisa in Estate-Autunno-Inverno-Primavera, pur non essendo una rivisitazione vivaldiana, presta il fianco a possibili analogie: il respiro dell’atmosfera estiva, le mezze tinte autunnali, la chiusa pensosità invernale, la leggerezza primaverile. Ma la sua “quattro stagioni” non è né bucolica né arcadica a causa della costante contaminazione di terra mare e natura nel mondo odierno.L’artista scevera in jazz le proprie preoccupazioni sull’emergenza climatica del pianeta mentre guarda alle prospettive future delle nostre comunità, dei nostri figli. È dunque il suo un non-viaggio che lo porta ad enucleare, da fermo, i propri moti d’animo attraverso la musica, che è lirica, ispirata all’albero, quello che nella cover è costruito con rustiche matite dalla punta rossa, una pianta che rinvia idealmente a quella di Tranströmer che “prende vita dalla pioggia come un merlo in un frutteto”. I successivi cinque brani sviluppano in varietà di note la riflessione sulla gravità degli effetti del cambiamento climatico che l’uomo, dopo averli causati, non intende anzi non riesce ad arginare, come lo stregone che non sa esorcizzare gli spiriti del male che ha evocato.
Un jazz dunque impregnato di contenuti, quello di Bardoscia, che è anche un’ulteriore rivendicazione ed “espropriazione” del ruolo di prim’attore che il contrabbasso si è saputo conquistare sulla scia di Mingus, Pastorius ed altri capostipiti.
Insomma jazz bass e doublebass, dopo decenni in retrovia, son sempre più alla ribalta anche nel contemporary jazz di casa nostra. Come l’anatroccolo che finalmente può brillare di luce propria e pavoneggiarsi con gli altri per la propria avvenenza.

I NOSTRI CD

Emanuele Coluccia – “Birthplace” – Workin Label
Emanuele Coluccia, pianista e multistrumentista, presenta “Birthplace”, cd edito da Workin Label in collaborazione con Puglia Sound.  Un disco in cui si relaziona ai validi Luca Alemanno al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria, che ha come idea di partenza anzi di ritorno il rientro a casa dopo lo smarrimento del viaggio, l’approdo al luogo di nascita, inteso come proprio presente emotivo, vita interiore, come culla di sentimenti ed espressione creativa. Sono otto suoi brani, a parte “Azzurro” di Paolo Conte, che all’origine si configurano come semplici appunti, idee melodiche affiorate nei momenti più imprevedibili della giornata, non dunque come ci si potrebbe aspettare sollecitate davanti ad un pianoforte, un sax, una chitarra, ma fuori, in movimento, fissate in genere sul cellulare.  Schizzi che poi al momento opportuno vengono organizzati sul piano armonico e inquadrati seguendo una sintassi jazzistica all’interno di una cornice che è appunto quella stilistica del mondo musicale d’appartenenza, formatasi anche tramite la pluriennale esperienza artistica in Europa ed a New York.
L’album si presenta come note di un diario di note, genius loci di storia umana e artistica, in una narrazione fatta di temi (in uno dei quali, “Eagle’s Wish”, c’ė l’apporto della vocalist Carolina Bubbico) costruiti con attenzione al suono, al suo scorrere, resi con un pianismo immediato, dai riflessi coloristici mutevoli, fluido, come la placenta di un grembo materno, sia detto metaforicamente, per indicare quel luogo di provenienza e d’arrivo a cui l’album, tutto, protende.

Double Cut – “Mappe” – Parco della Musica Records
Il quartetto Double cut presenta “Mappe”, secondo album pubblicato da Parco della Musica Records. La formazione, abbastanza inusuale, annovera i due sassofoni di Tino Tracanna e Massimiliano Milesi, con una sezione ritmica composta Giulio Corini al contrabbasso e Filippo Sala alla batteria e affini. Ma perché mai Mappe? Proviamo ad immaginare un navigatore satellitare che non sia ben aggiornato e che porti, si, a destinazione ma attraverso un percorso frastagliato, più lungo, certamente più panoramico e variegato. È così che si passa da un brano alla Ornette Coleman (“Spiritual Legacy”) ad un omaggio a Jimmy Giuffre con la riproposizione della sua “The Train and The River” a mò di boogie-shuffle; dall’omaggio divertito a Tom Waits in “Love and Love Again” ai giochi infantili dell’onirico “Biglie e Castelli di Sabbia”, scritto dal batterista (le altre composizioni sono in alternanza di Milesi e Tracanna). Il sat nav ci porta su e giù per la carta geomusicale, fra esplosioni ritmiche (“Olii esausti”) e contrasti armonici (“Triads”), twist (“Charivari”) e improvvisazioni corali (“Settepersette”) fino a “Pow How”, l’indianino animato dei Caroselli di una volta che diventa titolo per un brano basato su una nota sola (no, la samba omonima non c’entra!) legata ad una sequenza ben ritmicizzata. Buon per Tracanna aver trovato un alter ego ideale in Milesi. C’era gente, nel jazz, come Roland Kirk che i due sax se li suonava da solo! I due musicisti, per quanto di personalità differente, lavorano, è il caso di dire, di concerto, impiegando energia e voglia di sperimentazione in congiunzione. Double Cut, Doppio taglio, allora, per I Due Tenori (ma anche soprano e strumentario vario) sta per questo approccio duplice al materiale da segnare durante il percorso: put on the map.

Marco Magnelli – “Dress Code” – Nusica.org
In diverso modo legata allo stato d’animo degli artisti è la proposta discografica del chitarrista trentaseienne Marco Magnelli, cosentino di nascita, bolognese d’adozione, che licenzia in Trio, per i tipi musicali di Nusica.org, l’album “Dress Code”. Titolo che dà l’idea di una musica che “veste” la nudità del vuoto, con una chitarra struccata che abbiglia il suono in modo circolare, lo avvolge di accessori funk e rock, lo avviluppa entro collane di note e si mostra, come in un fashion show, su una pedana dove una compiacente sezione ritmica ne sostiene il passo a volte felpato altre volte calcato con decisione. I modelli, in senso musicale, sono Brill Frisell e Esbjörn Svensson ma la trama del tessuto è di conio artigianale, preparata in team con Federico Gueci al contrabbasso e Simone Sferruzza alla batteria. Il “Dress Code” di Magnelli and partners è casual, nelle parti improvvisate; sofisticato, nei momenti più soft dell’esecuzione; a tratti di taglio semiformale. La scaletta si alterna fra “Ironic Smile” e “Piccoli Idilli” per trasformarsi infine in “Wild”, che è il brano in cui partecipa l’ospite Mariolino Stancati, musicista sperimentale conterraneo di Magnelli. Quasi come se il cerchio si facesse quadrato per occupare integralmente l’habitus entro cui i musicisti si son mossi fino a qualche momento prima.

Federica Michisanti – “Silent Rides“ – Filibusta Records
Stefano Bonnot di Condillac riconduceva le facoltà attive dell’anima alle sensazioni.
Le quali, secondo il filosofo, si trasformavano in azione attraverso fibre nervose e movimenti non essendo l’anima, senza il corpo, in grado di generare alcuno sviluppo. Questo è quanto ricordava, nel 1832, lo storico della filosofia Guglielmo Tennenmann nel suo manuale storico-filosofico. E questo è quanto è venuto in mente al cospetto dell’album “Silent Rides”, del Federica Michisanti Horn Trio, edito da Filibusta Records. In effetti la giovane contrabbassista romana potrebbe esser vista come una ideale continuatrice di Condillac per il rilievo che l’impulso delle sensazioni assume nella sua pratica musicale. Fatta di un jazz molto “a pelle” in cui lo strumento ė funzionale ad “animare” armonie attraverso contrappunti, fraseggi in sequenza, linee improvvisative… qualità che si vanno sempre più riscontrando nella consolidanda tradizione del contrabbassismo femminile. In questa direzione l’essere affiancata, nella suite in otto tracce, dal sax e clarinetto di Francesco Bigoni e dalla tromba di Francesco Lento, la affranca ulteriormente da quei compiti canonici che di norma vengono assegnati ai bassisti. Per girare o meglio viaggiare (Rides) verso territori espressivi già silenti, senza ostruzioni e paletti stilistici e, con tono discorsivo e tocco leggero, cesellare il proprio percorso ricucendone le trame creative unificandoci gli interessanti spunti dei due fiati, spesso intersecati, protagonisti per niente complementari del progetto.

Emanuele Coluccia in concerto a Parma con “Birthplace”

Venerdì 23 novembre Emanuele Coluccia torna sul palco nell’ambito del tour dedicato al suo album “Birthplace” prodotto da Workin’ Label con il sostegno di Puglia Sounds Records 2018. Alle 21.30 sarà difatti in concerto a Parma presso il Circolo Giovane Italia (via John Fitzgerald Kennedy, 7) in trio con il contrabbassista Giampaolo Laurentaci e il batterista Dario Congedo: info e prenotazioni al 320.1992273.
Emanuele Coluccia, che ha trascorso molti anni della sua carriera negli Stai Uniti, è una delle figure più talentuose e eclettiche del panorama musicale italiano: pianista, sassofonista, polistrumentista, arrangiatore, compositore, direttore d’orchestra, didatta, Coluccia ha condotto il suo percorso artistico parallelamente tra Europa e States, facendo definitivamente ritorno in Italia qualche anno fa.
Gli 8 brani originali di “Birthplace” (disponibili su Spotify al link http://bit.ly/spotifyBIRTHPLACE) segnano proprio la ricapitolazione di un percorso, un ritorno al luogo di origine, dove il potenziale è al massimo e le possibilità infinite, punto di partenza di una nuova vita. Nella tracklist anche la rivisitazione del celebre brano di Paolo Conte “Azzurro”:
“Il brano appartiene al mio immaginario infantile. Da piccolo lo ascoltavo su 45 giri e ci ballavo sopra. L’originale è musicalmente molto semplice e mi sono divertito molto a riarmonizzarlo, cambiandone il colore, che da azzurro diventa un colore molto misterioso.”
Nel disco, registrato con Luca Alemanno e Dario Congedo, anche un cameo della cantante Carolina Bubbico che ha prestato la sua voce in “Eagle’s Wish” per riportare il tema del brano alla sua natura originaria di canto libero, immediato, espressione del desiderio di un essere che conosce il volo come propria condizione naturale e quotidiana.
Improvvisatore, sempre teso alla sintesi delle esperienze e ispirato da una visione sincretica della vita e delle arti, Emanuele Coluccia è un musicista sui generis. Al centro della sua raffinata ricerca vi è il desiderio di cogliere il cuore delle cose: del suono, dell’ascolto, dell’azione musicale.
Le parti tematiche delle composizioni nascono da “appunti di viaggio”: note vocali prese al volo durante i frequenti viaggi o da momenti di ispirazione, in cui sembra che il canto e il suono siano una perfetta opportunità di relazione e conoscenza con se stessi. La parte armonica è realizzata con una tecnica mista (tonale, modale, atonale) nello sforzo costante di tenere vicini i rispettivi piani espressivi in una danza sempre più complessa e, allo stesso tempo, concreta.

BIO
Pianista e polistrumentista eclettico, Emanuele Coluccia conduce la sua carriera parallelamente tra Europa e Stati Uniti. Nel suoperiodo newyorkese, iniziato nel 1999, ha intrapreso un percorso molto attivo sia per quanto riguarda l’attività concertistica (Brooklyn Film Festival, Lincoln Center, University of Stoneybrook, WAX Studios, Consolato Tedesco, Brooklyn Museum of Art, Università di Princeton) sia per l’attività discografica. Negli USA ha collaborato con la cantautrice americana Myla Hardie, l’artista afro-jazz Alain Kodjovi, la cantante italiana Greta Panettieri, il trombettista/compositore tedesco Volker Goetze, il cantautore francese Chris Combette, e ha partecipato ai tour europei del trombettista newyorkese Greg Glassman e al tour in Andalusia con il trio Malesciana Folk.
Rientrato in Italia ha fondato con Claudio Prima e Redi Hasa Bandadriatica, progetto con cui ha all’attivo 4 lavori discografici, numerosi tour in Italia e all’estero e prestigiose collaborazioni (King Naat Veliov e la Kocani Orkestra, Eva Quartet). Negli anni ha condiviso il palco con moltissimi artisti, tra cui Fabrizio Bosso, Carolina Bubbico, Gabriele Mirabassi, Javier Girotto e Silvia Manco, e nel 2005 e nel 2006 è stato membro dell’Orchestra della Notte Della Taranta.
Collabora a diversi progetti multidisciplinari caratterizzati dall’interazione fra musica, danza, pittura e letteratura, prendendo parte a spettacoli, residenze artistiche e gruppi di ricerca con attori, pittori danzatori e performer. Affianca la sua attività di compositore con quella di arrangiatore e orchestratore per Bandadriatica e per la Giovane Orchestra del Salento.
Nella sua formazione spiccano le lezioni e i workshop di Joe Lovano, Joe Zawinul, Paul Motian, Bill Frisell, John MacLaughlin, George Garzone nell’ambito delle clinics del Berklee College of Music a Umbria Jazz. Proprio nell’edizione del 1999 del grande Festival umbro, ha partecipato a performance improvvisate con Jason Moran, Taurus Mateen, Eric Harland e Pat Metheny.

CONTATTI
Facebook: https://www.facebook.com/emacoluccia/
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Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei  tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

I nostri CD. Tutti suonano Verdi

I NOSTRI CD

Le incursioni di jazzisti in territorio classico-sinfonico sono sempre state molteplici; meno numerose quelle nell’ambito della musica lirica. Ciò, probabilmente, perché il melodramma trae origine da poche realtà culturali ben identificate tra cui il nostro Paese. In quest’ambito Giuseppe Verdi rappresenta un’icona intoccabile, la sua musica una sorta di mausoleo in cui è arduo addentrarsi senza avere alle spalle una precisa cognizione di ciò che la sua musica ha rappresentato per tutto un popolo. Probabilmente è anche per questo che solo pochi jazzisti stranieri si sono cimentati con la sua musica (ricordiamo il “Coro di zingari” dal Trovatore rivisitato da Glenn Miller, Uri Caine che dedica la sua attenzione all’Otello e il sassofonista e leader Bo van de Graaf alle prese con l’Aida e , come fa rilevare Valentina Pettinelli andando più indietro nel tempo, in un titolo di King Oliver del 1923 compare un’ampia sequenza della Vergine degli Angeli dalla Forza del Destino di Verdi). Il discorso cambia completamente quando ci si riporta dentro i nostri confini ove troviamo molti jazzisti che si sono presi la briga di rivisitare le partiture verdiane. Da menzionare, tra gli altri, Marco Gotti, Danilo Rea, Salvatore Bonafede, Max De Aloe, Gianluigi Trovesi, Furio Di Castri in duo con Antonello Salis, Roberto Bonati, Massimo Faraò, Attilio Zanchi, Marco Castelli … Di recente sono usciti due CD dedicati a Verdi, ambedue di eccellente fattura nella loro diversità.

Cinzia Tedesco – “Verdi’s Mood” – Sony Classical
Verdi's moodL’album in oggetto vede protagonista la vocalist Cinzia Tedesco attorniata da un gruppo di eccellenti musicisti quali Stefano Sabatini al piano, Luca Pirozzi al contrabbasso, Giovanna Famulari al violoncello e Pietro Iodice alla batteria. In scaletta alcune delle melodie più note del compositore da “La donna è mobile” (dal Rigoletto) a “Tacea la notte placida” (da Il Trovatore), da “Addio del passato” e “Amami Alfredo” ( ambedue da La Traviata), a “Va, Pensiero” (dal Nabucco), da “Mercé dilette amiche” (dai Vespri Siciliani) a chiudere con la toccante “Ave Maria” (dall’Otello) e “Sempre libera” (ancora da La Traviata). Insomma un repertorio da far tremare le vene dei polsi a chiunque: ebbene il quintetto l’ha affrontato con grande umiltà, partecipazione e intelligenza guidati dalla capacità di Sabatini di arrangiare partiture ben lontane dal jazz. In effetti Stefano si va sempre più imponendo alla generale attenzione come uno degli arrangiatori più originali della scena nazionale soprattutto per saper volgere in chiave jazzistica brani nati in contesti del tutto diversi. Ne avevamo già avuto una prova con quell’ “Essenze Jazz” di Eduardo De Crescenzo di cui vi abbiamo riparlato poco tempo fa; adesso ne abbiamo l’ennesima conferma con questo album in cui la sfida è stata ancora più difficile. Sfida vinta alla grande dal momento che i brani del “Cigno di Busseto”, così come vestiti da Sabatini, sono stati interpretati magnificamente dalla vocalist alla sua migliore prestazione: la Tedesco è infatti riuscita perfettamente a piegare i suoi notevoli mezzi vocali alle necessità dell’interpretazione nulla concedendo alla spettacolarità e cercando di rimanere fedele allo spirito originario. E al riguardo bisogna evidenziare come l’impresa sia stata resa possibile dall’intero gruppo che, oltre ad avvalersi dei già citati arrangiamenti di Sabatini, ha potuto contare sulla maestria strumentale dei singoli con la sezione ritmica impegnata a tessere il giusto impianto timbrico-cromatico impreziosito dagli assolo della Famulari.

Play Vardi 4tet – “Play Verdi” – Terre Sommerse edizioni
Play VerdiDi impianto completamento diverso questo secondo CD significativamente sottotitolato “Un viaggio tra i Preludi del Grande Maestro”. Le opere prese in considerazione sono “Aida”, “Luisa Miller”, “Ernani”, “Macbeth”, “Attila”, “Simon Boccanegra”, “Stiffelio”, “Un ballo in maschera”, “La forza del destino”, “La traviata”. Il quartetto con Andrea Pace al sax tenore, Nicola Puglielli alla chitarra, Piero Simoncini al contrabbasso e Massimo D’Agostino alla batteria, ha scelto di misurarsi con le partiture verdiane seguendo un approccio diversificato: così, in qualche caso (leggi Attila) si è preferito rispettare il tema, in altri brani si è cercata una jazzificazione della melodia, in altri ancora si è intervenuto sul ritmo cercando, comunque, come afferma Andrea Pace, di “rispettare il più possibile la polifonia e l’impianto verdiani, aprendo, dove si pensava possibile, a delle improvvisazioni”. Ed in effetti l’equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione è raggiunto senza sforzo apparente, grazie anche agli arrangiamenti di Pace e di Nicola Puglielli vero ispiratore del progetto. I due si sono mossi nell’ottica di trasformare in standard alcune pagine operistiche, procedimento, questo, adottato in passato dal jazz con brani tratti dal musical. Una fatica, quindi, ardua, complessa, una fatica che presuppone da un lato una grande conoscenza del materiale tematico, dall’altro una vera, genuina passione per questa musica; non a caso l’album risulta ben curato in ogni singola parte con il quartetto che si muove con competenza e affiatamento. Tutti e quattro i musicisti riescono ad esprimere appieno le proprie potenzialità transitando, con disinvoltura, da un’atmosfera all’altra senza che l’album perda in omogeneità e coerenza. Così l’ascolto risulta godibile dalla prima all’ultima nota. (altro…)

I nostri CD. Le confessioni in musica di Kekko Fornarelli

Il pianista barese Kekko Fornarelli giunge al suo quarto album con quello che può essere considerato il suo miglior progetto; la formula è sempre quella del trio completato, questa volta , da Giorgio Vendola al contrabbasso e Dario Congedo alla batteria. Dopo aver ascoltato attentamente questo album, devo dare atto a Kekko di una profonda coerenza: il pianista va avanti lungo la sua strada, seguendo un percorso che gli è ben chiaro e che intende affinare, modellare, perfezionare attraverso le diverse esperienze. Così anche i modelli di riferimento non variano: come dichiarato nel corso dell’intervista che potrete leggere qui accanto, un pensiero vola sempre verso l’inimitabile Michel Petrucciani; probabilmente Kekko neanche questa volta dimentica il migliore Esbjorn Svensson con il gruppo E.S.T. … ma, ed è forse questa la maggiore novità dell’album, si evidenzia un certo minimalismo cameristico – se mi consentite l’espressione – (“Reasons”) che nei precedenti album non appariva così ben definito. In effetti più che mai in questo album Kekko sembra aver interiorizzato l’espressività dei jazzisti nord-europei, con le loro lunghe linee melodiche, pervase da grande dolcezza e malinconia, echeggianti spazi ampi e profondi.

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