Ancora una presentazione prestigiosa per “L’altra metà del jazz” il secondo libro di Gerlando Gatto, inserita tra gli eventi del festival JazzMi

Dopo le presentazioni al Salone del Libro di Torino, Udine, Catania e Roma, il secondo volume di Gerlando Gatto “L’altra metà del jazz – Voci di donne nella musica jazz” (KappaVu / Euritmica edizioni) è stato illustrato il 13 novembre a Milano, nell’ambito di “Compagni di viaggio: incontri con gli autori”, nei meravigliosi locali che ospitano la libreria di viaggio del Touring Club Italiano, nella sua storica sede di Corso Italia, nel cuore della città meneghina.
L’evento era inserito nel cartellone del Festival JazzMi, quest’anno quanto mai denso di concerti e appuntamenti (più di 200 in 13 giorni!).
Introdotto dal giornalista Pino Mantarro, ufficio stampa del T.C.I., l’autore ha dialogato con un interlocutore illustre, Claudio Sessa, già direttore di “Musica Jazz”, critico musicale del “Corriere della Sera”, docente di Storia del Jazz, nonché scrittore con all’attivo diverse pubblicazioni (Il marziano del jazz. Vita e musica di Eric Dolphy; Le età del jazz. I contemporanei; Improvviso singolare. Un secolo di jazz).

Tra il numeroso pubblico presente anche alcuni artisti molto noti: il compositore e band leader Dino Betti van der Noot, il sassofonista Claudio Fasoli e il fotografo Roberto Masotti, tra i più prestigiosi fotografi jazz di tutta Europa, cui si è aggiunto verso metà serata un altro importante fotografo, Pino Ninfa.

Sessa, nella sua esposizione iniziale, ha definito Gatto “un lavoratore del jazz” e ha sottolineato il valore particolare di questa raccolta di interviste, integralmente al femminile, soffermandosi sovente sul tema della “differenza di genere” nell’ambiente jazzistico.

Spesso si tratta di stereotipi consolidati, come quando, parlando di musiciste jazz, vi si abbini immediatamente la figura della cantante e quasi mai quella della strumentista. In certi “universi” – il jazz è uno di questi ma anche quello militare, ad esempio – esiste ancor’oggi un pregiudizio molto diffuso e difficile da divellere: la tendenza ad incasellare il jazz suonato dalle donne come se esistesse un modo maschile e un modo femminile di suonarlo. Da questa sorta di postulato, si è scatenata un’interessante discussione alla quale hanno partecipato parecchi spettatori. Io non ho mai pensato alle donne che fanno jazz in termini di genere e il mio giudizio si è sempre e solo basato su canoni di bravura, di capacità tecniche, di espressività, di gusto… insomma, su dei parametri oggettivi, e questo indifferentemente se a suonare, comporre, dirigere sia un maschio o una femmina. Ascoltando i vari interventi mi sono stupita: se nel 2018 si parla ancora di questo, evidentemente il problema non è, come credevo, superato.

La discussione si è ulteriormente ampliata, a seguito della domanda di una spettatrice, sulla matrice primigenia del linguaggio jazzistico e se sia possibile distinguere, al semplice ascolto, il jazz statunitense da quello europeo, quello italiano da quello scandinavo, solo per citare alcuni esempi.

Quasi tutti sono stati concordi nel sostenere la tesi che il jazz è un idioma universale diffusosi ovunque nel mondo, e pur riconoscendo che il suo epicentro era e rimane, per certi aspetti, l’America del Nord, ha saputo integrarsi nelle culture di altri paesi ritagliandosi spazi e sonorità completamente nuovi, tanto da contestualizzarsi, assumendo una precipua forma identitaria.

E’ stato piuttosto difficile per Claudio Sessa riportare il vivace scambio di opinioni sui binari dell’oggetto della presentazione: il bel libro di Gerlando Gatto!

Dopo tanto erudito disquisire (c’era molto da imparare nelle parole di alcuni relatori…) sono finalmente comparse le vere protagoniste di questa opera, da Enrica Bacchia (che Gerlando ha definito come l’esperienza più intensa), a Dora Musumeci, una della pioniere tra le musiciste jazz, parliamo degli anni Cinquanta, che diede del filo da torcere ai colleghi maschi e fu amica personale dell’autore (che si commuove ogni qualvolta se ne parli…), da Dee Dee Bridgewater a Sarah Jane Morris, queste ultime due interviste così diverse tra loro e dalle quali emergono con grande evidenza due diversi approcci: molto professionale e distaccato per la prima, empatico e pieno di calore umano per la seconda. Gatto ha ricordato con affetto anche la vocalist norvegese Radka Toneff, che si tolse la vita a soli 30 anni, per amore… si dice.

Alla domanda su quali siano i criteri che lo guidano verso la scelta delle musiciste da intervistare, Gatto ha risposto in modo semplice e diretto: “avendo la fortuna di poter scrivere di jazz per pura passione, l’unico criterio è di confrontarmi con gli artisti che più mi piacciono, quelli che musicalmente mi trasmettono qualcosa.”  (Gerlando è laureato in giurisprudenza e ha fatto per anni il giornalista professionista, specializzato in economia. N.d.A.)

Marina Tuni

 

La “Polis” della musica, ovvero l’orchestra di Dino Betti van der Noot

All’ incauto che gli porgeva il biglietto da visita recante la scritta “traduttor d’Orazio” Alessandro Manzoni, narra la leggenda, rispondeva piccato: “ Orazio si legge, non si traduce”. Non ostante i dissensi della questione, non si possono negare al Manzoni ragioni da vendere. Nell’arte di Dino Betti van der Noot io scorgo un atteggiamento manzoniano. Il musicista nato a Rapallo ci consegna da sempre un ‘jazz’ non etichettabile, concepito per ampi gruppi strumentali; ogni incisione è un progetto a sé, con una precipua ricerca nelle radici di questa musica. La sua scrittura, questa la mia impressione, non cerca di rappresentare la “natura” della musica afro-americana, come è forzato a fare chi, per esempio, intenda emulare solisti e stili.
Piuttosto, l’intento sembra quello di cavare dal ‘jazz’ un “bello ideale”, libero da condizionamenti.
Ne scaturisce una musica sensuale e stilizzata come il profilo di un’anfora egizia. È quella documentata in questo “Où sont les notes d’antan?” (Stradivarius). Si vedono spesso, associate al ‘jazz’, immagini di libertà sfrenata e non sempre controllata; libertà accomunata non di rado a un’idea di genio poco elaborata. Moltissimi, infatti, venerano la sciatteria scambiandola per libertà e non a caso questa parola, libertà, è, insieme alla consorella ‘diritto’, tra le più inflazionate del tempo nostro.
Il ‘jazz’, verissimo, è per antonomasia una musica libera. Ma che significa? Faremo un complimento a Dino Betti dicendogli che la sua musica non giunge in prima istanza ‘libera’, quanto elegante, necessaria, levigata al lume della ragione ed autorevole. L’autore, del resto, è un illuminista che sa come calare l’ascoltatore nel proprio universo facendolo sentire a proprio agio. Betti non è un iconoclasta, sa che distruggere non significa necessariamente ricostruire.
L’antica filosofia vedànta basava il proprio fondamento sulla non credenza dell’esistenza. Per quegli antichi filosofi indiani, i versetti dei loro libri metafisici avevano valore estetico, non già di ragionamento. Dino Betti è, solo in questo senso, un esteta: non nel naturalismo, non nel commercio, soltanto sull’Isola del Bello trova terreno sufficientemente buono da gettarvi l’ancora.
Se plurime possono dirsi le declinazioni del ‘jazz’, uno solo è il linguaggio, la cui profondità può giacere anche in superficie o, diremmo, nell’impronta. Quando Duke Ellington posa un accordo sul pianoforte, quando Pat Metheny arpeggia le corde del suo lisergico chitarrone, siamo già entrati nel loro universo… e ancora costoro debbono iniziare a suonare! Anche queste composizioni definiscono, da subito, un ‘loro’ mondo, ed è il più grande merito dell’autore.
Il titolo del disco richiama il poeta del quindicesimo secolo François Villon, una rievocazione serena, depurata da cascami malinconici.
Il linguaggio di Betti van der Noot compositore e arrangiatore è contraddistinto da quel processo di espansione della scrittura da un testo all’altro per cui, parafrasando Maria Bellonci, ogni nuovo disco è opera insieme chiusa e aperta, autonoma e tutta via legata da filo tenace alle precedenti e a quelle che verranno.
Ho particolarmente apprezzato i diversi riferimenti, timbrici più che motivici, all’arte musicale francese, cui evidentemente il compositore è legato: in particolare sono sgusciati dai miei altoparlanti, ispirando la stanza, i fantasmi di Debussy, di Messiaen ma anche dello Xenakis più esoterico. Un esempio tra i tanti si trova nel brano di apertura del CD, che dà il titolo al disco. Ma le citazioni, come spiega anche l’autore nelle note di copertina, sono molteplici. A ben pensarci, forse non mi va più di chiamare ‘orchestra’ la compagine di Dino Betti. La chiamerò ‘Polis’; lì dove regnano l’ordine e il piacere, i solisti sono i cittadini preclari, che reclamano e ottengono il proprio spazio per proferire parola senza prevaricarsi.
Ricordiamone i nomi: Gianpiero LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie; Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena; Gianfranco Marchesi; Sandro Cerino; Andrea Ciceri; Giulio Visibelli; Rudi Manzoli; Gilberto Tarocco; Luca Gusella; Emanuele Parrini; Niccolò Cattaneo; Filippo Rinaldo; Vincenzo Zitello; Gianluca Alberti; Stefano Bertoli, Tiziano Tononi.
Tutti meritevoli di lode per la misura e l’efficacia dei loro interventi.
Il disco è è impreziosito da un artwork dai colori caldi e festosi, opera di Allegra Betti van der Noot.
La resa del suono è chiara, ben intonata allo spirito della musica. Un passo avanti piazzato sul sentiero della migliore produzione contemporanea.

“OÙ SONT LES NOTES D’ANTAN” ?

 

Milano, Teatro No’hma, mercoledì 22 marzo 2017
OÙ SONT LES NOTES D’ANTAN , di Dino Betti Van der Noot

Direttore: Dino Betti Van der Noot

Orchestra
Trombe e flicorni: Gianpiero LoBello, Alberto Mandarini, Mario Mariotti, Paolo De Ceglie
Tromboni: Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena
Trombone basso: Gianfranco Marchesi
Flauti, clarinetto basso e sax alto: Sandro Cerino
Sax alto: Andrea Ciceri
Flauti e sax tenore: Giulio Visibelli
Sax tenore: Rudi Manzoli
Clarinetto e sax baritono: Gilberto Tarocco
Vibrafono: Luca Gusella
Violino: Emanuele Parrini
Pianoforte: Niccolò Cattaneo
Tastiere: Filippo Rinaldo
Arpa bardica: Vincenzo Zitello
Basso elettrico: Gianluca Alberti
Percussioni: Stefano Bertoli, Tiziano Tononi

Ho assistito, mercoledì 22 marzo, al concerto dell’orchestra di Dino Betti van der Noot al Teatro No’hma di Milano. Le musiche erano dello stesso Dino Betti, che ha anche diretto l’orchestra.

È stata una bellissima serata che mi ha stimolato alcune riflessioni. Quando si prova a tradurre il ‘jazz’, che è un lampo elettrico, nel linguaggio dell’orchestra, che è invece un libro aperto a squadernare linee e concetti stratificati, c’è il rischio di perdere qualcosa: l’essenziale. Spogliato della propria nudità, ossia dell’indicibile, al “jazz” orchestrale tocca rivestirsi di slancio nuovo. Violàti da violentatrice necessità, ai suoni ‘organizzati’ tocca così rifarsi una verginità, affinché possano fecondare il nostro interesse di ascoltatori e venire a loro volta resi fecondi dalle emozioni restituite, in un ciclo simile a quello delle piogge. È la ‘Big Band’, sia ben chiaro, un meccanismo di natura cardinale e non affatto ordinale: cioè a dire, non bastano la somma di ottimi solisti, un buon arrangiamento, astute mescolature di timbri a rappresentare lo spirito tormentato, ora giocoso ora schizofrenico, talvolta persino morbosamente sentimentale della musica ‘jazz’; va inserita la variabile umana, un ‘quid’ nel quale confluiscano quel corpo di forze vitali e irrazionali che dell’idioma afroamericano hanno costituito lo slancio e, diremmo, la protesta primigènia.

Dovessi racchiudere la musica di Dino Betti van der Noot in una qualità che la rappresenti, proromperebbe d’istinto una parola: freschezza. (Un’altra sarebbe: passione).

Oggigiorno è dato ascoltare numerosi giovani leoni della musica di matrice afroamericana, anche in terra europea benché il ‘jazz’, mi si consenta, rimanga indiscutibilmente un “black affair”. Dotatissimi, preparati, spesso addirittura laureati. Ma propongono con incrollabile convinzione la musica dei loro padri. “Come vuole la tradizione..”, sogghigna P. Favino nello spot della pasta Barilla. Quest’ultima – la tradizione, non la pasta- è alla base di tutto. Ma quando, oltre all’alfa, la tradizione giunge ad essere anche l’omega di un atto creativo, può accadere che il modo in cui si dicono le cose finisca col divenire più interessante delle cose dette in sé. Dino Betti è un giovane ragazzo che “dice” la musica in modo sempre nuovo, poiché essa sempre nuova è per lui. Dalle composizioni di questo artista trapela una luce vitale, divertita, che chiede solo di essere lasciata filtrare. Lo stile per lui, nato stiloso e non astretto ad una professione unica, è una sinecura.

Ho parlato prima di passione. Ma all’ordine del giorno, di qualità sue se ne potrebbero citare molte altre. Il senso dei colori, il gusto per un calligrafismo “totale”, alla Depero, capace di restituire l’idea di perfezione senza raggelare i molti elementi messi in campo, il grande rispetto per i ‘suoi’ solisti. Amassi la retorica mi spingerei persino a dire che si è innamorato della sua orchestra: come donna amata, essa ha cambiato fisionomia, nel tempo, senza mutare il proprio volto. E la musica che propone, del resto, non ha bisogno di categorie, di riferimenti: basta a se stessa.

Il programma si è svolto attraverso una scaletta composizioni felici, mutevoli come una giornata marzolìna, le quali andranno a costituire il materiale del nuovo album. Dino Betti, ben lo sappiamo , sforna dischi esclusivamente orchestrali con la cura del bravo pasticciere orgoglioso del proprio negozio, perpetuamente affollato di famiglie e bimbi festanti che non vedono l’ora di ricevere dalle sue mani le spumiglie, i bignè, le pastarelle. Il disco annunciato prenderà il titolo da un verso nostalgico di Villon “Où son les notes d’antan”. Uscirà in estate, e lo aspettiamo. Ai solisti, il cui elenco trovate in calce a questa memoria, sono stati tributati interminabili quanto meritati applausi da una sala piena. Tutti, senza distinzione alcuna, meritano lodi. Al maestro oltre agli applausi, è giunto un affetto particolare. Sicuro, armato di “charme”, simile ad un alato Mercurio, la sua performance ha testimoniato di una ispirazione così rifinita, di uno stile così pregiato che a riguardo si può provare solo la più sincera ammirazione.

Dino Betti Van Der Noot allo Spazio Teatro No’hma

 

Mercoledì 22 e giovedì 23 marzo Dino Betti Van Der Noot dirigerà la sua orchestra allo Spazio Teatro No’hma di Teresa  Pomodoro, via Orcagna 2, Milano, nell’ambito della Stagione 2016-2017, dedicata all’Energia.

Nei due concerti (che avranno lo stesso programma) saranno eseguite  le composizioni dell’artista di Rapallo che faranno parte di un album in uscita la prossima estate, oltre ad un paio di brani del passato.

Il titolo del disco sarà anche quello dei concerti: “Où sont les notes d’antan?”.

L’orchestra sarà ad organico completo e i principali solisti saranno (li citiamo in ordine strettamente alfabetico): Gianluca Alberti (contrabbasso), Luca Begonia, (trombone), Stefano Bertoli (batteria),  Niccolò Cattaneo (organo Hammond), Sandro Cerino (sax), Luca Gusella (vibrafono), Gianpiero LoBello (tromba), Alberto Mandarini (tromba), Tiziano Tononi (percussioni), Giulio Visibelli (sax e flauto), Vincenzo Zitello (arpa).

Vista l’importanza che Dino Betti riveste nel panorama jazzistico non solo nazionale, questi concerti si preannunciano di estremo interesse in quanto sarà possibile ascoltare , per la prima volta, i brani che formeranno il nuovo album che, come si accennava, uscirà in estate. Album che sicuramente sarà di eccellente livello in quanto nel corso della sua carriera Dino Betti mai ha sbagliato un colpo, immettendo sul mercato delle produzioni discografiche sempre originali e di grande impatto… e c’è da scommettere che anche questa volta la regola non conoscerà eccezioni.

I concerti inizieranno alle 21; l’ingresso sarà gratuito, ma necessaria la prenotazione

Nat Hentoff : così lo ricorda Dino Betti van der Noot

di Dino Betti van der Noot

Purtroppo un colpo di coda del nefasto 2016 per il mondo della musica: Nat Hentoff ci ha lasciati il 7 gennaio, a 91 anni compiuti. Non l’ho mai incontrato di persona, anche se nel 1985 ho avuto il privilegio delle sue note di copertina – dirette, precise, obiettive come sempre – per un mio album (“Here Comes Springtime ndr9 e, successivamente, ho avuto delle rapide conversazioni telefoniche mentre era nella redazione della sua creatura prediletta, il Village Voice.

In Italia lo conosciamo come critico e storico del jazz attento e acuto, aperto al nuovo anche se emotivamente ancorato alla musica a cavallo degli anni ’40. Tuttavia la sua importanza nel panorama pubblicistico americano va oltre, perché è stato attivo nel promuovere – anche con articoli estremamente polemici – il movimento per le libertà civili e, coerentemente con il suo pensiero, verso un miglioramento della società, ha scritto romanzi destinati ai giovani, oltre a ricordi delle sue frequentazioni in campo jazzistico.

La sua continua frequentazione e amicizia con i musicisti, il suo amore per questa musica, hanno improntato il suo stile di scrittura, basato su esperienze personali trasmesse in maniera piana ma colta. Le sue rubriche sul New Yorker, il Washington Post, il Washington Times, il New York Times, il Down Beat, il Jazz Times, oltre al Village Voice, rimarranno nella storia della saggistica sul jazz.

Il figlio Nick ha annunciato la sua scomparsa su Twitter, scrivendo che è mancato circondato dalla famiglia e ascoltando il canto di Billie Holiday, della quale, nel 1957, aveva organizzato la storica reunion con Lester Young. Una scelta precisa, legata alla coerenza intellettuale che ha caratterizzato tutta la sua vita, schiva ma attenta ai fenomeni del suo tempo, con scelte estetiche e di campo ben precise.

In un certo senso, questo addio chiude un’epoca. Una grande tristezza.

Grazie a Dino Betti van der Noot

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’apprezzamento di uno dei più grandi jazzisti italiani.

Caro Gerlando, partendo dal presupposto che scripta manent, ti scrivo per farti i complimenti.

Con l’ingresso della classica e l’apertura verso l’estero, il tuo giornale digitale diventa sempre più interessante.

Un abbraccio.

Dino Betti van der Noot.