I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero

Dopo le numerose escursioni di Amedeo Furfaro intorno al jazz italiano, questa volta soffermiamo la nostra attenzione sulle novità che arrivano dall’estero.

Arild Andersen Group – “Affirmation” – ECM
Arild Andersen, contrabbassista norvegese, è uno di quei rari musicisti che non sbaglia un colpo. Ogni suo album è frutto di lunga meditazione quindi di sicura riuscita…almeno dal punto di vista artistico, ché come sappiamo il gradimento del pubblico è altra cosa. Ad accompagnarlo in questa nuova impresa musicisti quasi tutti molto più giovani: il pianista quarantasettenne Helge Lien, l’altro quarantasettenne Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. Il repertorio è suddiviso in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II; a chiudere l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, “Short Story”. A questo punto avrete già capito che l’album si basa su una lunga improvvisazione di gruppo che, però, nulla ha a che vedere con le infocate sedute del free storico. Qui l’atmosfera è completamente diversa, intimista, meditativa con i quattro musicisti che dimostrano di conoscersi assai bene, districandosi come meglio non potrebbero nelle pieghe di una tessitura tanto lieve quanto complessa, in cui le pause, il silenzio hanno un loro perché. L’ultimo brano, “Short Story”, si basa su una melodia splendidamente scritta dal leader e altrettanto splendidamente eseguita dai quattro, con sassofonista e pianista in primissimo piano.

Onur Aymergen Quintet – “Lunar” – Losen
E’ con vero piacere che vi presentiamo questo gruppo proveniente dalla Turchia e composto da Onur Aymergen leader alla chitarra, Can Çankaya piano, Tolga Bilgin tromba, Apostolos Sideris contrabbasso, Turgut Alp Bekoğlu batteria. Anche se ancora poco noto nel nostro Paese, Onur Aymergen può già vantare una solida preparazione: ha cominciato a studiare chitarra classica con Özhan Gölebatmaz approfondendo anche il flamenco classico con Suat Demirkıran, fino a quando ha deciso di convogliare i suoi interessi verso il rock, il funk e il jazz. In questo suo album d’esordio, Onur dimostra di avere le carte in regola per un futuro luminoso: intendiamoci, nulla di trascendentale, ma un musicista che conosce assai bene lo strumento, il linguaggio che adopera, il patrimonio musicale del suo Paese che ogni tanto fa capolino dalle linee esposte dal gruppo. E non a caso si è citato il gruppo in quanto, nei suoi sapidi arrangiamenti, il leader ha lasciato ad ogni compagno d’avventura lo spazio per porsi in evidenza. E quanto sin qui detto appare evidente sin dal primo brano in programma, “Yeditepe”, scritto, così come gli altri sette pezzi in repertorio, dal leader che evidenzia, in tal modo, una notevolissima capacità di scrittura.

Jakob Bro, Joe Lovano –“Once Around The Room” – A Tribute to Paul Motian” – ECM

Il chitarrista Jakob Bro e il tenorsassofonista Joe Lovano sono i cofirmatari di questo album esplicitamente dedicato a Paul Motian, già loro compagno in tante avventure. Ad assecondare i due, i contrabbassisti Larry Grenadier e Thomas Morgan, Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Un organico anomalo, quindi, per una musica che di anomalo nulla propone data la maestria dei singoli e quindi dell’intera formazione. Lovano e Motian hanno collaborato per una decina d’anni e personalmente ricordiamo di averli ascoltati, tra l’altro, a Stavanger in Norvegia nei primissimi anni ’80. E ciò potrebbe spiegare assai bene il perché di questo album. Quanto poi all’immediata ricerca del drumming di Motian nella musica dell’album, si tratta di operazione, come al solito, assai difficile anche perché soprattutto Lovano non ha alcuna intenzione di scrivere una pagina calligrafica. Anzi! Ed è lo stesso sassofonista a spiegare cosa per lui significhi questo album: “Con Motian suonavamo degli standard ma cercavamo in ogni modo di farli nostri. Ecco noi suonavamo con fiducia con attitudine, con un approccio che potesse rendere al massimo le nostre intenzioni. Ecco è proprio questo stesso feeling che ho tenuto durante la registrazione dell’album”. Diverso l’atteggiamento di Jakob Bro che ha scritto due brani di sapore quasi opposto in cui si avverte chiaramente una profonda malinconia, una tristezza di fondo per la scomparsa di Motian. Qui il gruppo abbandona lo spirito improvvisativo che ha caratterizzato i primi tre pezzi, per immergersi nella scrittura di Bro che trova sia in “Song To An Old Friend” sia in “Pause” una dolce melodia. Chitarra e sassofono dialogano soavemente ben sostenuti da bassi e batterie. Nel brano conclusivo particolarmente apprezzabile il lavoro del chitarrista che disegna con delicatezza una splendida e toccante linea melodica. Ad intervallare i due brani, l’unica composizione di Paul Motian, “Drum Music”, caratterizzata da una lunga intro disegnata dai due batteristi che lasciano il posto a sax e chitarra, quest’ultima con una sonorità assi vicina a quella del sax per effetto dell’elettronica.

Eik Trio – “Eik Trio” – Losen
Sempre prodotto dalla norvegese “Losen” ecco questo nuovo trio composto dal pianista Ole Fredrik Norbye, dalla vocalist Elisabeth Karsten e dal contrabbassista John Børge Askeland, cui si aggiungono alcuni dei migliori jazzisti norvegesi ed europei quali il sassofonista Bendik Hofseth al sax tenore in tre brani, il trombettista Nils Petter Molvaer nel celeberrimo “I Love Paris” e il fisarmonicista Heine Bugge in “For Once in My Life”, mentre quasi tutti gli arrangiamenti sono curati da Fredrik Norbye. Dai titoli citati avrete forse già capito che tutto l’album è incentrato sulla riproposizione di standard, dieci pezzi che davvero hanno fatto la storia della musica che ci piace, interpretati senza alcuna voglia di sperimentalismo ma con il massimo del rispetto che meritano. Ferma restando la capacità della cantante di rendere al massimo ogni linea melodica, ogni più piccolo risvolto di queste immortali melodie, tra i brani siamo rimasti particolarmente colpito dal già citato “I Love Paris” per il fraseggio del pianista Ole Fredrik Norbye e il maiuscolo apporto di Nils Petter Molvaer

Mette Henriette – “Drifting” – ECM
Trio di grande spessore quello che si ascolta in “Drifting”: a guidarlo è la sassofonista Mette Henriette coadiuvata da Johan Lindvall al pianoforte e Judith Hamann al violoncello. In repertorio quindici brani tutti scritti dalla sassofonista (l’ultimo in collaborazione con Lindvall). Dopo l’album d’esordio, registrato sempre per ECM nel 2013 ma pubblicato due anni dopo, la sassofonista norvegese torna sempre in compagnia del pianista ma con l’aggiunta della validissima violoncellista Judith Hamman. L’atmosfera è quanto mai rarefatta con i tre che letteralmente distillano ogni singola nota che acquista così un peso specifico. I brani si susseguono legati da un filo ben preciso che si snoda attraverso le sapienti mani dei tre musicisti. Così se l’impianto melodico è spesso affidato alla leader, il pianoforte si incarica di sottolinearne le parti salienti con il violoncello impegnato in una non facile operazione di ricucitura. Il tutto a disegnare un quadro difficilmente classificabile: certo non si tratta di jazz nell’accezione più usata del termine, né di musica classica tout court…piuttosto di una sorta di esplorazione sonora che induce anche l’ascoltare a guardarsi dentro, a lasciarsi andare alle sensazioni che la musica gli propone. Senza preoccuparsi di capire dove la pagina scritta lascia il posto all’improvvisazione. E se anche chi ci legge seguirà questa metodologia, siamo sicuri che l’album risulterà di notevole interesse.

Anders Jormin, Lena Willemark – “Pasado en claro” – ECM
Album molto impegnativo questo “Pasado en claro” in cui il contrabbassista svedese Anders Jormin, in collaborazione con la vocalist, violinista e violista Lena Willemark guida un quartetto completato da Karin Nakagawa al koto e Jon Fält alla batteria, già con il leader nel trio di Bobo Stenson. La complessità di cui in apertura è determinata dal fatto che il leader ha voluto trarre ispirazione da una serie di poeti tra i più diversi della letteratura mondiale: ecco quindi testi da antiche fonti cinesi e giapponesi, accanto a poeti scandinavi contemporanei, senza per questo trascurare lo scrittore messicano Octavio Paz (dalla cui opera è tratto il titolo dell’album) e il “nostro” Francesco Petrarca. Insomma un panorama di riferimento da far apparire impossibile una qualsivoglia unità dell’album E invece il quartetto ci riesce grazie soprattutto all’interpretazione della vocalist. Su un tappeto costituito da una valida struttura sonora ben scritta e altrettanto ben arrangiata, ricca di nuances, Lena Willemark si produce in una prova di grande maturità alternando l’uso della voce all’altro strumento a sua disposizione (il violino); esemplare al riguardo “Tho Woman of the Long Ice” musica e testo della stessa Willemark . Insomma è come se nella voce di Lena si ritrovasse allo stesso tempo, il passato, il presente e il futuro di una musica il cui flusso mai si interrompe.

Edi Köhldorfer – “The Riddance” – Ats Records
Personaggio sicuramente interessante questo chitarrista austriaco Edi Köhldorfer il quale, dopo aver studiato chitarra classica, ha intrapreso la strada del musicista professionista suonando nei contesti più vari, dalle orchestre classiche al folk, dal funk al pop…fino al jazz collaborando con alcuni artisti di fama mondiale come Biréli  Lagrène, Dee Dee Bridgewater, Stephane Grappelli. Di qui una personalità compiuta non solo a livello musicale, esplicitata appieno in questo album che risponde ad una grande esigenza di fondo: evidenziare quanto può accadere quando musicisti di provenienza diversa si riuniscono per un comune progetto, e soprattutto liberarsi dalla schiavitù di una pandemia che ha costretto all’immobilismo moltissimi artisti. Per raggiungere questo obbiettivo, Edi ha contattato 26 musicisti di 4 continenti e nessuno si è tirato indietro dando vita ad una produzione assai particolare. Ascoltando l’album, in effetti, non si può non rilevare la gioia, la forza, l’entusiasmo il dinamismo che promana da questi brani cosicché è davvero arduo sceglierne qualcuno in particolare. Tuttavia dobbiamo ammettere che ci hanno particolarmente colpiio “Goodbye Armando” un sentito omaggio a Chick Corea con un fantastico assolo del pianista Ui Datler richiamante “La Fiesta” e  “Midwest” impreziosito da un lungo e centrato assolo del bassista colombiano Juan Garcia-Herreros meglio noto come “The Snow Owl”, che suona un basso elettrico personalizzato a sei corde; all’età di  37 anni, Juan ha ottenuto una nomination, per il Latin Grammy Award nella categoria Best Latin Jazz Album, per il suo terzo CD intitolato “Normas”.

Benjamin Lackner – “Last decade” – ECM
Probabilmente il pianista tedesco Benjamin Lackner non è molto noto al pubblico italiano anche se può già vantare un’invidiabile carriera che lo porta ad esordire oggi in casa ECM. Lackner è tornato da poco a Berlino, dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti dove ha avuto modo di studiare con “maestri” quali Charlie Haden e Brad Mehldau. Per questo album il pianista è affiancato da tre grandi artisti: il trombettista Mathias Eick, il batterista Manu Katché e il contrabbassista Jérôme Regard, già con Lackner dal 2006. Il risultato c’è ed è a tutto tondo. In effetti appare chiaro sin dalla primissime note come l’intendimento principale del trio sia quello di proporre una musica caratterizzata dalla ricerca della linea melodica. Una linea che risulti dolce, fors’anche accattivante, ma non per questo banale o scontata. Di qui un repertorio di nove brani (tutti composti dal leader ad eccezione di “Emile” scritta da Jérôme Regard) in cui la musica scorre in perenne equilibrio fra i quattro, con nessuna voglia particolare del leader di mettersi in luce ché anzi molto spesso ascoltiamo in primo piano la bella voce della tromba di Eick sempre sorretta da una sezione ritmica assolutamente funzionale all’intento del leader. Tra i brani particolarmente suggestivo e sofisticato è “Hang Up on That Ghost” tutto giocato su un fitto dialogo tra pianoforte, batteria e contrabbasso mentre Mathias alterna la sua voce a quella della tromba con effetti di estrema delicatezza.

Ieremy Lirola – “Mock the Borders” –
Dopo “Uptown Desire” il contrabbassista francese si ripresenta al pubblico con questo “Mock the Borders” in cui è possibile ascoltare anche il piano di Maxime Sanchez, il sax di Denis Guivarc’h e la batteria di Nicolas Larmignat, questi ultimi due già presenti nel citato lavoro “Uptown Desire”.
Il titolo è quanto mai esplicativo: “Ridicolizza il confine” appare come una sorta di manifesto programmatico che dovrebbe informare il senso dell’album. Ma è davvero così? Francamente non ci sembra che l’artista abbia voluto andare oltre la lezione di Coleman; piuttosto la sua idea, conclamata in musica, è quella di una libertà che prescinda dalle etichette, dalle mode, per dare pieno diritto di cittadinanza ad ogni forma espressiva. Insomma per Lirola la musica tonale può coesistere con escursioni nel mondo del free. Di qui un album dai colori cangianti, dalle atmosfere variegate in cui si avverte l’urgenza di nulla trascurare delle passate esperienze: guadare avanti non significa necessariamente trascurare ciò che c’è stato e che continua ad esserci. Insomma una visione oserei dire filosofica e non solo musicale che informa questo interessante lavoro. Tra i vari brani eccellente l’apertura con “Mock the lines” impreziosito dal lavoro del sassofonista. Ma nello svolgimento dell’album il leader lascia ampio spazio ai compagni d’avventura che hanno così modo di esprimere appieno le proprie potenzialità.
                                                                 
Stephan Micus – “Thunder” – ECM
Nessuna sorpresa per questo ennesimo ottimo album di Stephan Micus, un vero ricercatore di note che abbiamo imparato ad ammirare oramai nel corso di lunghi anni. Questa volta il suo interesse si focalizza, come da lui stesso sottolineato, sulla musica dei monasteri tibetani, meta di molte visite da parte del musicista. Stephan rimane particolarmente colpito dal particolare strumento che si usa in queste cerimonie, il dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri, cui affianca il ki kun ki, uno strumento a fiato – ci spiega lo stesso Micus – molto semplice, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in alcune foreste siberiane del lontano Oriente e il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Mescolate questi straordinari elementi e la ricetta è pronta: una musica ancora una volta affascinante, dai suoni allo stesso tempo primordiali e di attualità che ci trasportano in un mondo virtuale apparentemente alla nostra portata ma che mai riusciamo ad abbracciare davvero. E credo sia questo il segreto di Micus: sintetizzare gli universi musicali più disparati per ricondurli ad una unità senza spazio, senza tempo ove solo il suo credo ha diritto di cittadinanza. Per tornare al contenuto dell’album è comunque lo stesso Micus a fornirci una chiave di lettura ove afferma che l’album è dedicato alla grande famiglia delle divinità dei tuoni cui hanno creduto intere popolazioni con la speranza che il loro distruttivo potere possa in qualche modo essere placato dalla musica.

Arvo Pärt – “Tintinnabuli” – Billant Corners
Con il termine “Tintinnabuli” ci si intende riferire allo stile compositivo creato dal compositore estone Arvo Pärt, introdotto nella sua “Für Alina” (1976) e riutilizzato in “Spiegel im Spiegel” (1978).  Caratteristiche che ritroviamo appieno in questo splendido album che vede come protagonisti Jeroen van Veen al piano, Joachim Eijlander al violoncello e in un brano la moglie di Jeroen, Sandra van Veen, anch’essa pianista. L’album è una sorta di summa delle caratteristiche che hanno sempre connotato la musica di Arvo Pärt, vale a dire la quiete estatica e il saper racchiudere lo spirito dei tempi grazie anche alle   esperienze mistiche con la musica dei canti religiosi. Risultato: composizioni senza tempo che appaiono in egual misura antiche e contemporanee, religiose e profane, non immuni da una marcata influenza da parte del movimento minimalista. L’album si apre con “Fratres” cui fa immediatamente seguito uno dei brani più importanti di Arvo, quel “Für Alina” cui si è già fatto cenno. “Ukuaru Valss” ci fa conoscere un lato più “leggero” della personalità di Pärt mentre il conclusivo lungo “Partomania” è preceduto da “Spiegel im Spiegel” anch’esso citato in precedenza quale pietra miliare nel percorso compositivo dell’artista estone: ascoltandolo ancora oggi, dopo tanto tempo, impressiona il modo in cui le note sono letteralmente distillate una dopo l’altra a conferma di una maestria compositiva difficilmente eguagliabile.

Sebastian Rochford, Kit Downes – “A Short Diary” – ECM

Ecco un album non facile da recensire in quanto gli usuali strumenti che si adoperano per illustrare una produzione discografica, in questo caso non sono sufficienti. In ballo ci sono, infatti, motivazioni che vanno ben al di là del fatto musicale e che coinvolgono direttamente i sentimenti più profondi di Rochford, non a caso compositore di tutti i brani in programma. In effetti l’album è una appassionata e sentita dedica che il cinquantenne batterista scozzese rivolge al padre, Gerard Rochford, grande poeta morto nel 2019.  Alla luce di questa realtà, la musica assume una valenza tutta particolare. E’ facile immaginare come l’autore, nello scrivere, si sia lasciato andare ai ricordi della sua infanzia, degli anni trascorsi con il padre e di ciò che questo ha voluto dire per la sua crescita. Di qui l’originalità di un discorso che ha una sua compiutezza dall’inizio alla fine, ben sorretto dal partner di Rochford, ovvero Kit Downes che in precedenti occasioni aveva evidenziato tutto il suo talento. Talento che qui si manifesta nell’aver saputo mirabilmente arrangiare il tutto costruendo un coinvolgente percorso melodico-armonico in cui non esageriamo affermando che sotto alcuni aspetti ascoltare questo album è come sfogliare un album le cui pagine sono costituite dai ricordi dolcemente custodite da Sebastian. Quanto ai brani particolarmente significativo “Our Time Is Still”: un pezzo essenziale, scarnificato fino al limite massimo, tutto giocato sulla sottrazione ma con una carica di tristezza, di emozionalità, di sentimento davvero toccante.

Rubber Soul Quartet – “Something” – Losen

E’ ancora possibile eseguire in chiave jazzistica un repertorio ‘beatlesiano’ senza scadere nel già sentito, nello scontato? Certo che sì, ma si tratta sicuramente di un’impresa estremamente complessa dato che i brani dei Beatles oramai da molti anni sono entrati nel repertorio di grandi jazzisti. A provarci, adesso, sono quattro musicisti norvegesi, Bård Helgerud chitarra e vocale, Håvard Fossum sax, flauto, clarinetto, Andreas Dreier contrabbasso e e vocale, Torstein Ellingsen batteria e percussioni. In cartellone, come già accenato, undici composizioni dei Beatles per un viaggio all’indietro che si preannuncia tanto entusiasmante quanto colmo di insidie. Il quartetto cerca di evitare gli scogli proponendo una chiave di lettura originale: combinare le melodie ben note con arrangiamenti che si rifanno espressamente alla lezione dei grandi jazzisti made in USA, il tutto condito da una forte carica di swing e una buona dose di improvvisazione. Obiettivo raggiunto? Francamente non del tutto in quanto, indipendentemente dall’arrangiamento, la carica melodica dei brani è troppo forte cosicché resta lì, a farla da padrona e quindi a spedire in secondo piano esecuzione e arrangiamento, a meno che non si tratti davvero di grandi musicisti quali, tanto per fare due soli nomi, Brad Mehldau e Sarah Vaughan

Salon Odjilà – “TangoRomaBalkanJazz” – ATS Records

Un’elegante mistura di oriente e occidente, di jazz e folk, di euforia e malinconia definisce il clima di questo album interpretato da un quartetto di assoluto livello: Wolfgang e Werner Weissengruber sono multistrumentisti che oramai da anni si dedicano con passione al jazz, Manuela Kloibmüller è fisarmonicista che frequenta con assiduità sia i terreni classici sia quelli jazz nonché vocalist di riconosciuto spessore, Matthias Eglseer  è batterista fantasioso e preciso (lo si ascolti, ad esempio, in “Cetvorno Sopsko Horo”). In repertorio tre classici di Piazzolla, un originale di Wolfgang Weissengruber e sei ‘traditional’. Ciò premesso la musica rispetta perfettamente le premesse contenute nel titolo vale a dire un tango ma con quel forte imprinting che caratterizza la musica balcanica. Ciò grazie ad arrangiamenti particolarmente indovinati che riescono a valorizzare appieno l’originalità del gruppo anche quando si avventura su pezzi non sempre consigliabili. E’ il caso dei tre brani di Piazzolla e in particolare di “Libertango” il brano forse più celebre del compositore argentino: introdotto dal contrabbasso, il brano prende man mano spessore con la Kloibmüller che si produce in un vibrante assolo ben sostenuta da tutto il gruppo per una interpretazione convincente.

Solis String Quartet & Sarah Jane Morris – “All You Need Is Love” – Irma
E dopo il cd del Rubber Soul Quartet ecco un altro album interamente dedicato ai Beatles. Ad interpretare le melodie di John Lennon e Paul McCartney è però questa volta una delle voci, a nostro avviso, più belle e convincenti dell’intero panorama vocale internazionale. Oramai sulla cresta dell’onda da molti anni, la Morris mai delude; chi scrive l’ha sentita in concerto svariate volte e ha sempre trovato un’artista straordinariamente generosa, capace di interpretare ogni brano alla sua maniera andando a visitare anche le più intime pieghe delle melodie senza trascurarne la valenza ritmica. E la stessa cosa accade anche questa volta: la vocalist affronta ogni tema con gande rispetto ma allo stesso tempo con la sicurezza che le deriva da tanti anni di carriera. Di qui interpretazioni che senza alcunché togliere all’originale fascino, rivestono i brani di una veste originale. Il che, non sarebbe stato possibile, se la vocalist non fosse stata adeguatamente supportata da uno straordinario Solis String Quartet, al secolo Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio, violini, Gerardo Morrone viola e Antonio Di Francia cello e chitarra, con quest’ultimo impegnato in una preziosa opera di ri-arrangiamento che non ha fatto sentire la mancanza di quella sezione ritmica, viceversa tanto importante nella produzione originale. Tra i brani particolarmente riuscita la versione di “The Fool on The Hill” che resta una delle più belle composizioni dei Beatles.

Gerlando Gatto

Stefania Tallini: la via maestra è la ricerca dell’espressività

Stefania Tallini è una delle più belle realtà del panorama jazzistico non solo nazionale. Davvero molta acqua è passata sotto i classici ponti da quando una sera, mentre discutevamo a casa mia, le chiesi del perché non si decidesse ad incidere un suo primo disco.
Ripeto molti anni sono passati ed eccoci ancora nel salotto di casa mia a festeggiare un evento straordinario, l’ultimo disco di Stefania, “Brasita”, registrato in duo con l’armonicista brasiliano Gabriel Grossi vero e proprio punto di riferimento per tutti gli armonicisti di oggi, cui si aggiunge con special guest il violoncellista Jaques Morelenbaum in quattro brani.
L’intervista scorre fluida e non potrebbe essere altrimenti fra persone che si conoscono e si stimano da parecchi anni.

-Stefania ci racconti come è nato questo per altro splendido album?
“Il disco racconta sostanzialmente dell’incontro con Gabriel Grossi, uno dei più grandi armonicisti al mondo, avvenuto in modo del tutto casuale nel 2019 e che ha dato vita al nostro progetto in duo. Un duo nato quasi per caso dal momento che Gabriel cercava un pianista per fare delle cose in Italia ed un amico comune ci ha messi in contatto. Da subito è nato un bellissimo feeling e quindi un progetto che, a partire dal primo concerto realizzato insieme, si è rivelato immediatamente importante. Nel 2020 avevamo diversi concerti da fare con in più la registrazione dell’album ma come ben sai la pandemia ha bloccato tutto. Però alla fine, dopo non esserci potuti vedere per due anni e mezzo, ce l’abbiamo fatta, e così è nato il nostro “Brasita” un disco in cui omaggiamo alcuni compositori anche classici che ci hanno ispirato”.

-Vale a dire?
“C’è un brano di Giacomo Puccini; un altro di Heitor Villa Lobos e ancora di Ennio Morricone, di Buarque-de Moraes-Jobim…e poi una serie di original scritti sia da me sia da Gabriel di cui due in collaborazione”.

-Come avete ovviato alla mancanza della sezione ritmica?
“Con la mia sinistra. Scherzi a parte in realtà non avvertiamo la mancanza cui tu alludi. Cerchiamo di suonare puntando molto sull’espressività, quindi lontani da qualsivoglia virtuosismo…anche so poi, qua e là, si ascolta qualche spunto strumentale davvero interessante. Al riguardo una notizia interessante e pertinente. Quasi pronti per l’uscita del disco ci è venuto in mente che sarebbe stato opportuno inserire un ospite e abbiamo immediatamente pensato a Jaques Morelenbaum, violoncellista di grandissimo spessore, ed esponente di quella fusione di lusso che da sempre caratterizza la mia cifra stilistica. Lui ha accettato con entusiasmo e così è possibile ascoltarlo in ben quattro brani”.

-Che cos’è per te oggi la musica e in particolare il jazz…ammesso che si possa ancora adoperare questo termine.
“Per me la musica oggi più che mai è la ricerca della melodia, dell’espressività. In certi concerti di jazz oggi io non sento molta melodia soprattutto da parte dei giovani. Li sento molto astratti, ma non c’è il corpo, non c’è il sangue… si ascoltano un sacco di robe molto complicate ma in cui manca la morbidezza, l’espressività”.

-A questo punto interviene Gabriel Grossi:
“Noi non ci leghiamo ad alcun genere, andiamo per la nostra strada. La nostra chiave di lettura resta la ricerca dell’espressività”.

-In quello che hai appena detto – e mi rivolgo a Stefania – qual è stata l’influenza delle scuole di musica?
“I ragazzi pensano che basta conoscere le scale per saper suonare il jazz. Ma non hanno capito che il jazz è un’altra cosa: è suonare sui dischi, è ascoltare moltissima musica. Ecco io credo che questo modo di intende il jazz ci abbia fatto perdere per strada qualcosa di molto importante. Ma chissà, forse ci si arriva con il tempo, con l’età…o forse non ci si arriva. Vedremo”.

-Però gli anni passano ed io in giro di enormi talenti non ne vedo…
“No, no, i talenti ci sono. Diciamo che ci sono dei grossi talenti di cui però non condivido l’estetica”.

-Come valuti il rapporto che oggi si è creato tra critici e musicisti?
“Una cosa che non capisco è il perché non si recensiscono più i concerti: i giornalisti che assistono ai concerti sono davvero pochissimi e chi li recensisce ancora meno. Ecco, lo chiedo a te: perché accade tutto ciò?”.

-Io i concerti li recensisco come ben sai quindi non lo chiedere a me. Ma, se vuoi una mia opinione al riguardo posso dirti che il jazz è praticamente scomparso dai mass media importanti, giornali, radio e televisioni.
“Comunque, venendo alla tua domanda, io ho sempre avuto ottimi rapporti con i critici di jazz”.

-Però, specie negli ultimi tempi, molti tendono a snobbare il giudizio dei critici considerandolo nella migliore delle ipotesi superfluo…
“E fanno male perché quando il recensore è davvero libero e non condizionato dalle case discografiche è lui che fotografa il polso della situazione”.

A questo punto Stefania gira la domanda a Gabriel il quale ci dice che personalmente ha sempre avuto un buon rapporto con i critici e che la stessa cosa può rivelarsi su scala più grande quando si parla di musica brasiliana e dei relativi osservatori. Tenendo conto di un fatto: in Brasile i critici musicali sono una specie in estinzione per cui non è facile trovare qualcuno che si interessi veramente, con passione e competenza, alla tua musica. Insomma i critici degni di questo nome sono davvero pochi, pochissimi oserei dire.
-Sempre rivolto a Gabriel: che differenza hai trovato tra l’ambiente musicale italiano e quello brasiliano?
“In Italia il pubblico ascolta i concerti con molta più attenzione, il Brasile è un Paese molto musicale ma non c ‘è molto la cultura dell’ascolto…anche se le cose stanno migliorando. A San Paulo le cose vanno meglio perché c’è più una cultura europea mentre a Rio de Janeiro occorre che la musica si accompagni sempre ad un evento importante”.

-Stefania tu non sei certo alla prima esperienza con la musica brasiliana. Qual è la differenza tra questo album e ciò che hai vissuto negli anni scorsi?
“Io per anni ho cercato quello che poi ho trovato nella musica brasiliana vale a dire un rapporto profondo, quasi fisico con la musica… insomma un insieme di elementi che nel jazz mai ho trovato e quando ho fatto un viaggio in Brasile e ho cominciato a conoscere la vera musica brasiliana – non solo quella che arriva qui da noi – mi ha fatto capire che era ciò che cercavo, non tanto a livello di estetica quanto al modo di rapportarsi con la musica. Lì i musicisti si incontrano per stare assieme, per ascoltare musica, per suonare… questa è una cosa bellissima che da noi non accade … è il modo in cui loro stanno dentro la musica che mi ha particolarmente impressionato”.

-E qui da noi non c’è?
“Credo proprio di no. Onestamente l’ho cercata per tanto tempo ma non l’ho trovata”.

E come darle torto.

Gerlando Gatto

Aurora, Fortuna, Naima e Isabel Con “LEI SI CHIAMERA’” Giusi Mitrano canta di donne migranti e violenza di genere

Quattro nomi di donne, quattro possibili vite. In “Lei si chiamerà”, Giusi MITRANO, racconta, cantando, la speranza di vivere in un modo senza più violenza sulle donne: quelle subite da chi fugge da terre martoriate alla ricerca di una vita migliore o da chi le subisce nel silenzio delle mure domestiche. Il brano uscirà il 25 novembre in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ad accompagnare le note della canzone, il video realizzato da Daniele Chariello – Zork Digital Planet di Buccino, dove alle immagini dei musicisti si alternano quelle di bambini intenti a giocare sulla battigia con l’acqua del mare, altro simbolo forte di libertà. Bambini nei quali la Mitrano ripone la speranza di un futuro migliore. A fare da corona alla voce della Mitrano i musicisti del Sincretico, formazione nata nel 2011, composta da Bruno Salicone al pianoforte, Aldo Vigorito al contrabbasso, Giulio Martino al sassofono soprano e Luca Mignano alla batteria.

E’ un brano scritto di getto durante il primo lockdown – spiega Giusi MITRANOE’ la storia di questa giovane donna fuggita da un campo profughi in Libico dopo aver subito ripetute violenze fisiche e psicologiche. Riuscita a scappare dai suoi aguzzini, raggiunge Lampedusa. E qui, dopo aver partorito, muore. Ascoltai questa storia durante un telegiornale e ne rimasi scossa. Tanto che scrissi il testo di getto e ora finalmente è pronta per essere cantata”.

Nel testo, quattro nomi di donna: Aurora, Fortuna, Naima e Isabel scandiscono i passaggi e diventano significato e significante della narrazione del brano scritto dalla Mitrano. Aurora rappresenta l’alba, la speranza riposta in un domani migliore. E questo nome è dedicato a tutte quelle donne fuggite dai loro paesi alla ricerca di una vita dignitosa. Il velo che benda la Dea e la casualità di essere nate libere, ecco il significato di Fortuna. Naima, straordinaria ballad che John Coltrane dedicò alla moglie e sulle cui note, anni dopo, Jon Hendricks scrisse un testo dedicato alla donna come simbolo di amore, bellezza e vita, è dedicato alla giovane madre morta dopo il parto a Lampedusa. Infine Isabel è dedicato a tutte quelle giovani bimbe costrette a diventare troppo presto mogli e donne.

I NOSTRI CD: ANCHE NEL JAZZ IN “DUO” VIENE MEGLIO

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.

Franco D’Andrea, DJ Rocca – “Franco D’Andrea Meets DJ Rocca” – Parco della Musica Records 3 CD
Conosciamo Franco D’Andrea da tanti, tanti anni e quelle non poche volte in cui ci siamo confrontati sulla sua arte, sul futuro della musica, sulle possibilità insite nel jazz abbiamo sempre trovato un musicista, un artista, un uomo mai appagato ma sempre rivolto al futuro, alla ricerca di nuove situazioni che gli permettano di esprimersi al meglio. Ecco, quindi, questo triplo album registrato alla fine del 2021, in cui D’Andrea si confronta con Luca Roccatagliati (in arte Dj Rocca) musicista con il quale aveva già avuto modo di collaborare in due precedenti occasioni ma non in duo. Ovviamente in quest’ultimo lavoro le cose cambiano in modo radicale. D’Andrea si trova a dover connettere il proprio strumento con un suo “pari” che disegna paesaggi sonori in maniera totalmente diversa, mai dando tregua al compagno d’avventura in un rimpallo costante. Di qui un’incessante ricerca soprattutto sul suono, sulle combinazioni timbriche, cosa tutt’altro che banale dati gli strumenti in azione. Quasi inutile sottolineare come in questa registrazione così come in ogni concerto dei due, non esista alcuna scaletta ma tutto nasca spontaneamente nel momento stesso in cui gli artisti decidono di intervenire. Insomma questa realizzazione discografica ci consegna due artisti impegnati al massimo e particolarmente attratti da questo lavoro. Prova ne sia che l’album, verrà ripresentato in alcuni concerti che, se avete la possibilità, vi consiglio vivamente di andare a sentire.

Giovanni Falzone, Glauco Venier – “Dialogo espressivo” – Parco della Musica Records
All’insegna della melodia questo album che vede come protagonisti il trombettista Giovanni Falzone e Glauco Venier in una sorta di incontro che congiunge l’Italia dal momento che Glauco è friulano mentre Falzone è cresciuto in Sicilia. Ma a parte questa curiosità geografica, l’album, registrato il 3 agosto del 2020, si segnala per ben altre particolarità. Innanzitutto la qualità artistica dei due musicisti che oramai da tempo si caratterizzano non solo per le capacità strumentali ma anche per quelle interpretative; in secondo luogo la gradevolezza del repertorio: undici brani tutti composti dal trombettista il quale sottolinea come fosse suo preciso obiettivo mettere al centro del progetto la ricerca melodica, il suono acustico e l’essenzialità del duo. Obiettivo perfettamente centrato in quanto sin dal primo brano si percepisce compiutamente quella che sarà la cifra stilistica dell’intero album tutto giocato per l’appunto su un dialogo spontaneo, naturale, che pone in primo piano l’espressività: di qui il titolo “Dialogo espressivo” quanto mai centrato, cosa che raramente accade. I pezzi sono tutti godibili anche se personalmente preferisco “Il poeta del silenzio” anche questo titolo assai significativo dal momento che il brano è dedicato a Enrico Rava; particolarmente suggestivi anche gli altri due omaggi rivolti a Kenny Wheeler e Tomasz Stanko, come a dire tre trombettisti che hanno contribuito a forgiare lo stile del musicista siciliano.

Biagio Marino, Zeno De Rossi – “Break Seal Gently” – Fonterossa
Biagio Marino (chitarra elettrica, effetti) e Zeno De Rossi (batteria, percussioni) sono gli autori di questo “Break Seal Gently” uscito il 6 settembre per Fonterossa Records, l’etichetta fondata dalla contrabbassista Silvia Bolognesi. Il duo, al debutto discografico, si muove su quel territorio di confine che lambisce jazz, rock e free improvisation, ma lo fa sempre con grande lucidità e proprietà di linguaggio. D’altro canto si tratta di due musicisti che possono vantare un curriculum di assoluta eccellenza. In particolare Biagio Marino, nato a Eboli nel 1972 e residente a Bologna, ha alle spalle lunghi anni di approfonditi studi e sperimentazioni che l’hanno portato ad elaborare particolari tecniche chitarristiche basate sull’uso di accordature anomale, tecniche poi impiegate nei suoi progetti sempre caratterizzati da un sound affatto particolare come nel caso dell’album in oggetto. Zeno De Rossi (Verona – 1970) è artista completo sotto ogni punti di vista prova ne sia che attualmente è uno dei batteristi-percussionisti più richiesti sulla scena. Le sue collaborazioni davvero non si contano; in questa sede basti citare quelle con Hank Roberts, Wayne Horvitz, Bill Frisell, Greg Cohen, Ralph Alessi, , David Murray… In questo album i due hanno la possibilità di esplicitare appieno il proprio talento. Sei brani tutti scritti dal chitarrista in cui sognanti ambientazioni (“La grande pellicola effimera”) si incrociano con atmosfere in cui aleggia l’influenza del grande Frisell. Si tenga presente come il disco arrivi dopo una fase di maturazione iniziata nel 2021 e cementata attraverso tutta una serie di concerti.

Roberto Ottaviano, Alexander Hawkins – “Charlie’s Blue Skylight” – Dodicilune

Roberto Ottaviano al sax soprano e Alexander Hawkins al pianoforte acustico ed elettrico sono i superlativi interpreti di questo omaggio alla musica di Charles Mingus nel centenario della sua nascita (Nogales, 22 aprile 1922). Dedicare a Mingus un qualcosa è impresa da far tremare le vene ai polsi ma i due l’affrontano con il piglio e la determinazione giuste…per non parlare della classe e dell’originalità che costituiscono elementi fondamentali della poetica dei due artisti. Di qui un album assolutamente convincente declinato attraverso undici composizioni di Mingus tra cui brani arcinoti come “Pithecanthropus Erectus”, “Self Portrait In Three Colors” e “Haitian Fight Song” e pezzi meno eseguiti come “Canon” o “Hobo Ho”. Ma, a prescindere dai brani, i due si muovono sorretti da una intesa perfettamente, dialogando strettamente per tutta la durata dell’album, senza un solo attimo in cui si avverta un benché minimo calo di tensione. Il sax di Ottaviano appare lucido, preciso, timbricamente superbo come sempre mentre il pianismo di Hawkins è perfettamente a suo agio con le non semplici partiture del contrabbassista. In definitiva i due artisti, pur rimanendo rispettosi delle strutture architettoniche e delle trame narrative mingusiane, non rinunciano ad aggiungere un quid di originalità che conferisce al lavoro una propria pregnanza. Assolutamente inutile evidenziare un brano rispetto all’altro: vanno tutti ascoltati con la massima attenzione e la soddisfazione sarà massima.

Barre Phillips, György Kurtag jr. – “Face à Face” – ECM
Barre Phillips, Daniele Roccato – “Confluence” – Parco della Musica Records
Una doverosa avvertenza: qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto ma in un terreno quasi di confine tra la musica moderna europea e una certa forma di sperimentalismo, basato totalmente sull’improvvisazione, pratica che i tre musicisti conoscono assai bene. Per cui se volete ascoltare questi album – per altro assai interessanti– è d’obbligo una buona dose di concentrazione che vi consenta di seguire le evoluzioni degli artisti. L’iniziativa per la registrazione del primo album parte dal contrabbassista che dopo aver ascoltato lo specialista di effetti elettronici ungherese lo vuole al suo fianco. Nasce così questo “Face à Face” registrato a Pernes-les Fontaines tra il settembre del 2020 e il settembre del 2021.  Come sottolinea lo stesso Kurtag, i due si sono trovati in piena sintonia nel mantenere l’intensità del dialogo. Inutile, quindi, cercare una qualsivoglia traccia di linea melodica, occorre lasciarsi andare totalmente al flusso sonoro che scaturisce dai due artisti. I quali sono impegnati a disegnare cangianti atmosfere a seconda di chi, in quel momento, detiene le redini dell’incontro. Di qui un universo sonoro che nasconde grandi sorprese come l’incalzante “Stand Alone” a parere di chi scrive il pezzo migliore dell’album, seguito da un altro brano di grande spessore, il conclusivo Forest Shout, un brevissimo, suggestivo bozzetto. Interessante sottolineare come i due artisti riescono a far convivere il sound di uno strumento acustico e tradizionale come il contrabbasso con le sonorità ultra moderne della strumentazione di Kurtag, davvero un esempio di come in musica quasi nulla sia impossibile.
In “Confluence”, registrato live nella Sala accademica del Conservatorio Santa Cecilia, a Roma, il primo marzo del 2020 il contrabbassista statunitense si trova a collaborare con un altro contrabbassista, Daniele Roccato, musicista che da anni si dedica all’interazione fra più contrabbassi, essendo tra l’altro il fondatore dell’ensemble Ludus Gravis, un gruppo di soli contrabbassisti (spesso nove) che si è affermato nel mono della musica moderna eseguendo partiture, fra gli altri, di Hans Werner Henze, Sofia Gubaidulina, Terry Riley, Gavin Bryars, Stefano Scodanibbio. Come evidenziato in apertura, i due contrabbassisti si incontrano sul terreno dell’improvvisazione libera e dal convergere di questi due percorsi musicali, totalmente diversi, emergono nuovi paesaggi che siamo sicuri saranno ancora nuovi e diversi se i due avranno modo di incidere un altro album. Insomma un’immersione totale in una sorta di università sonora per chi ama questo strumento. Un’ultima notazione: davvero belle le foto che accompagnano l’album.

Enrico Rava, Fred Hersch – “The song s You” – ECM
Registrato a Lugano nel novembre 2021, “The Song is You” è il frutto di un incontro tra due straordinari musicisti che pur partendo da situazioni piuttosto differenziate, trovano un magnifico punto di intesa negli otto brani presentati nell’album. In effetti il repertorio comprende oltre a due brani con la loro firma “Child’s Song” di (Hersch) e “The Trial” (Rava), alcuni standard come “Misterioso” e “‘Round Midnight” di Thelonious Monk, “The Song Is You” di Jerome Kern, “Retrato em Branco e Preto” di Jobim -Chico Buarque   e “I’m Getting Sentimental Over You” di George Bassman-Ned Washington. Per chi conosce anche se non approfonditamente questi due artisti, è facile capire come l’improvvisazione sia la chiave di lettura più appropriata per entrare nel mood dell’album. Sia Rava sia Hersch evidenziano una certa predilezione per linee melodiche riconoscibili e affascinanti e da questo idem sentire iniziano il loro discorso che li porterà a ridare nuova linfa a brani già iper noti come “Round Midnight” o “Retrato em Branco e Preto”. Ma anche nei due original la cifra stilistica dell’album non si discosta da quanto detto in precedenza. I due continuano a narrare le loro storie senza nulla sacrificare del proprio bagaglio ma facendo confluire l’uno nell’altro le capacità improvvisative ed esplorative. Insomma un album che tiene fede a quanto ci si poteva attendere da due giganti del jazz quali Enrico Rava e Fred Hersch.

Gerlando Gatto

Ciao Franco

La mattina, appena sveglio – maledetta abitudine – per prima cosa do uno sguardo alla rassegna stampa che mi arriva sul telefonino. E così ho fatto anche stamane; ad un certo punto, ancora non del tutto sveglio, noto la foto di un bell’uomo, giovane. Tra me e me penso: ma questo lo conosco. A poco a poco i neuroni si mettono in moto e lo riconosco, è lui, è Franco e capisco immediatamente: Franco Fayenz se ne è andato in un luogo, per chi ci crede, sicuramente migliore di questa terra.

La notizia è di quelle che si fatica a digerire anche se l’età di Franco (92 anni) ci aveva messo tutti in preallarme. Ma, come al solito, una cosa è immaginare altra cosa è vivere una determinata realtà.

Cercherò in questo breve ricordo di non lasciarmi andare a quell’ondata di tristezza che mi ha avvolto questa mattina anche se lo confesso non è facile. Conoscevo Franco non so bene se da 40 o 50 anni. Il nostro era un bel rapporto sempre improntato al sorriso, allo scherzo, al comune amore per il jazz.

Quando ci incontravamo o ci sentivamo per telefono lui amava prendersi gioco di me, inventando giochi di parole sui miei nome e cognome, ma lo faceva in modo così amorevole, col sorriso sulle labbra che sembrava voler dire “non badare alle mie parole, ti voglio bene” che era impossibile arrabbiarsi.

 

Ovviamente c’erano anche momenti più seri, quelli in cui si parlava di musica ed era un piacere ascoltarlo anche perché lui ti raccontava eventi, episodi vissuti in prima persona. Eventi che lo hanno visto protagonista della scena jazzistica almeno per trent’anni di fila in cui Franco si è segnalato come un grande divulgatore grazie ai suoi articoli, ai suoi libri e alle sue apparizioni in TV. Non dimentichiamo che negli anni Settanta Fayenz, assieme a Franco Cerri, collabora a “Jazz in Italia”, un programma di Carlo Bonazzi declinato attraverso una serie di interviste ai jazzisti le cui performances in giro per i jazz club della Penisola venivano mandati in onda. La sua brillante carriera è stata costellata da molti riconoscimenti che riteniamo superfluo ricordare in questa sede. Basti solo considerare il fatto che la stima da parte dei musicisti mai è venuta meno nei suoi confronti anche quando, per lunghi anni, ha lavorato per un quotidiano che mai è stato in cima alle preferenze dell’ambiente jazzistico globalmente considerato.

L’ultima volta che ci siam visti è stato nel 2015 durante il Festival Udine Jazz e non è stato un bel vedere dal momento che si vedeva come Franco, purtroppo, accusasse il peso dell’età anche se l’arguzia e la voglia di scherzare erano quelle di sempre.

Adesso non scherza più… almeno su questa terra. Ciao Franco, vai ad ascoltare altre melodie!

 

Gerlando Gatto

Phil Markowitz: è fondamentale suonare creativamente

Pianista e compositore raffinato ma anche uomo di rara disponibilità e gentilezza, Phil Markowitz – classe 1952 – è a mio avviso uno dei tanti musicisti ancora sottovalutato. E dire che nella sua vita di cose ne ha fatte tante. Basti al riguardo scorrere la sua ricca discografia e lo troviamo sia alla testa di proprie indimenticabili formazioni, sia come sideman accanto ad altri veri e propri giganti del jazz quali Chet Baker, Dave Liebman e Bob Mintzer.
Di recente abbiamo ascoltato il doppio album inciso in solitaria durante un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma il 9 maggio del 2006. Ne siamo rimasti particolarmente colpiti e abbiamo avuto il desiderio di intervistarlo. Ci siamo rivolti all’amico Giorgio Enea, dell’ufficio stampa dell’Auditorium, il quale ci ha fornito un contatto mail. Così ci siamo scritti e Phil ci ha risposto immediatamente. Di qui l’intervista che pubblichiamo di seguito.

-Partiamo da un doppio album registrato live a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, il 9 maggio del 2006 ma pubblicato solo poche settimane fa. Ricorda qual era il suo stato d’animo quando suonò questa splendida musica?

“Ero davvero felice di suonare in concerto da solo e ovviamente anche un po’ nervoso prima di salire sul palco, cosa assolutamente normale. Ricordo di essermi molto concentrato per questa performance, considerato che si trattava di una scaletta parecchio impegnativa, e di essere stato infine molto soddisfatto grazie alla magnifica risposta del pubblico, cosa molto incoraggiante. I tre bis, poi, sono stati semplicemente meravigliosi”.

-Nel frattempo, sono trascorsi ben 16 anni; come è cambiato Phil Markowitz in questo lasso di tempo?
“Penso che quando uno arriva ai 50 anni più o meno sa chi è, ergo ci sono stati degli sviluppi da quel giorno ma essenzialmente il mio cammino musicale ha seguito la stessa strada eclettica che ho sempre intrapreso”.

– Qual è attualmente il suo approccio verso la musica?
“Da un punto di vista compositivo il mio approccio è quello di creare strutture in ambienti molto ben definiti e di suonare creativamente e inventivamente all’interno di esse. Per quanto riguarda le performance in gruppo è ed è sempre stato lo stesso: supportare la band, essere preparati e saper giocare di squadra”.

– Adesso riandiamo indietro nel tempo: un po’ come tutti i musicisti di jazz, anche lei prima di guidare propri gruppi ha militato come sideman in formazioni guidate da altri. Quanto ciò è importante nella formazione di un musicista?
“Se sei un musicista che si occupa del ritmo, che sia il pianoforte, il basso, la batteria o altri strumenti a corda, è cruciale per il tuo sviluppo musicale. Si deve saper valutare ogni situazione musicale e ogni musicista che si accompagna; ciò affina le tue abilità musicali e devi essere un artista maturo per avere successo. Io dico sempre ai miei studenti che le abilità di accompagnatore sono la parte più importante della disciplina di ognuno: una cosa è essere un gran solista, altra cosa è saper accompagnare. È la capacità di accompagnare che ti permette di far suonare bene la musica e di farti conservare il lavoro dato che così facendo metti il tuo leader nelle condizioni migliori!”.

– C’è stato un momento nella sua vita, nel suo percorso artistico che le ha fatto capire di essere in grado di affrontare una sua personalissima carriera?
“Non sono sicuro di aver capito la domanda ma in sintesi è stato il mio amore per la musica improvvisata che suoniamo e ovviamente i numerosi e incredibili maestri che ho avuto durante il mio percorso a spingermi verso una carriera fatta di musica. Inoltre, ho capito molto presto che è assolutamente importante essere un compositore con una propria, ben specifica unicità che ti consente di creare quegli ambienti nei quali s’innesta il panorama sonoro che ti rende immediatamente riconoscibile”.

– Lei ha ottenuto, per l’appunto, una straordinaria visibilità anche come compositore quando ha suonato con Toots Thielemans a NYC. Come ricorda quel periodo?
“New York negli anni Ottanta era magnifica, c’era un sacco di lavoro. Suonavo con Chet Baker, Toots, la Mel Lewis Big Band e, poco prima, con Joe Chambers; mi guadagnavo da vivere suonando nella downtown, in concerti con diversi gruppi. In sintesi, è stato un periodo molto fertile. Ovviamente sono molto grato a Toots, con il quale ho lavorato per quattro anni e che fu anche uno dei miei primi mentori quando studiavo al College nella Eastman School of Music. C’era questa meravigliosa confluenza di circostanze: ad esempio Bill Evans veniva al nostro concerto a N.Y. e noi suonavamo “Sno’ Peas”, un pezzo che Toots eseguiva ogni sera”.

Tra gli artisti con i quali ha suonato a lungo figurano Chet Baker e Dave Liebman, musicisti differenti quasi da ogni punto di vista. Qual è stato il suo rapporto con i due?
“Con Chet avevo un bellissimo rapporto anche se era più anziano di noi. In quel tempo – quando ero più vicino ai trenta che ai vent’anni – suonavo con la band. Lui era molto paziente con noi e dava il buon esempio a tutti. Ho certamente imparato l’arte dell’accompagnamento durante questo periodo; se qualcuno suonava un accordo sbagliato dietro a Chet rovinava le sue meravigliose e incontaminate sortite solistiche degne di Mozart. Quando mi sono trasferito a New York negli ultimi anni Settanta, conoscevo già Dave Liebman dalle sue registrazioni con Miles ed Elvin Jones e la band “Quest”, che aveva con Richie Beirach. Quando ero in città andavo quasi ad ogni concerto in cui c’erano loro; era sempre stato il sogno della mia vita suonare con Dave e nei primi anni Novanta il mio desiderio venne esaudito. Lui è sempre stato per me un assiduo e sincero maestro, mi ha sempre appoggiato ed ha avuto una grande e meravigliosamente positiva influenza nella mia vita. Penso che l’aver avuto, sin da giovanissimo, un interesse molto forte per la musica del XX secolo e per l’armonia cromatica mi abbia reso più pronto per i suoi concerti. La  “Saxophone Summit” è stata senza dubbio la miglior band con cui abbia suonato e quell’esperienza ventennale rimane la più entusiasmante che abbia vissuto nel mondo del jazz. Ci sono moltissime registrazioni meravigliose con quel gruppo e aver suonato con Joe Lovano, Michael Brecker, Ravi Coltrane, Greg Osby e naturalmente Dave Liebman è stata un’esperienza formativa dal valore incommensurabile. Per non parlare di Billy Hart che è senza ombra di dubbio il miglior batterista con cui abbia avuto il piacere di suonare”.

– Lei suona da solo, in combo e in big band. In quale situazione preferisce esprimersi?
“Adoro il piano trio perché come leader ti dà la maggior flessibilità mentre plasmi la musica. Anche il duo è estremamente gratificante, sebbene sia più difficile: devi accompagnare, essere tutta la band e suonare da solo. È un ambiente meraviglioso. D’altro canto, suonare con la sezione fiati è stato molto bello; in effetti per la big band è una lunga storia ma basti sapere che se si è pianisti in quel contesto è necessario sapere tutto ciò che l’arrangiatore ha messo in ogni spartito. La mia band con il violinista Zach Brock (jazzista statunitense, classe 1974, membro degli Snarky Puppy dal 2007 n.d.a.) è stata molto gratificante; ho sempre voluto lavorare con un violinista e ho sempre creduto che piano e violino siano un perfetto abbinamento sonoro”.

– Oggi il jazz è diventato materia di insegnamento e Lei se ne occupa appieno. A suo avviso, quanto è importante per il futuro della ‘nostra’ musica questo tipo di formazione?
“L’educazione jazz è una sorta di spada a doppio taglio. Ritengo che in questo momento sia importante perché la scena è molto più ristretta adesso rispetto a quanto lo fosse negli anni ’70 e ’80. Sono grato per la mia esperienza universitaria alla Eastman School of Music, dove ho incontrato Gordon Johnson (contrabbassista e chitarrista statunitense classe 1952 n.d.a) e il batterista Ted Moore con i quali ho fondato una band chiamata “Petrus” che vinse un concorso nazionale per il miglior gruppo jazz giovane con in palio una performance al Newport Jazz Festival del 1973. Nei prossimi mesi rilasceremo finalmente le nostre registrazioni in studio, che avevo conservato nel mio armadio… suonano come se fossero di oggi. Tutto ciò non sarebbe mai successo se non ci fossimo incontrati in Conservatorio. Le connessioni che si creano in ambito musicale con le persone che incontri, gli insegnamenti che puoi ricevere da grandi musicisti che normalmente non avresti opportunità di incontrare e la musica che crei, durano per la vita. E sono cose che non si dimenticano. È chiaro che per avere una preparazione più approfondita si deve studiare in Conservatorio, e ciò prevede dei costi; certo, si possono trovare insegnanti anche tra i musicisti di strada, ma non è la stessa cosa; tuttavia, nella scena attuale ognuno deve avere la consapevolezza di ciò cui va incontro: non tutti diventano star o super star, spesso i migliori musicisti non sono i più famosi, e spesso i più famosi non sono i migliori. Io ritengo che la pedagogia, come io l’ho sviluppata nei numerosi anni in cui sono stato educatore, specie negli ultimi 20 anni nel programma di laurea e dottorato nella “Manhattan School of Music”, mi abbia aiutato a definire il mio stile. Imparare ad insegnare può agevolare notevolmente il proprio sviluppo”.

– C’è qualche musicista che ritiene particolarmente importante per la Sua di formazione?
“Tutta la gente che ho menzionato in precedenza è molto importante: Chet Baker, Dave Liebman e posso aggiungere Bob Mintzer e Maurizio Giammarco in Italia. Queste sono le persone principali con cui ho avuto lunghe collaborazioni. Ma ovviamente ce ne sono state tante altre lungo il cammino dalle quali, ogni qualvolta si suoni assieme, si impara qualcosa”.

– Quando pensa di tornare in Italia?

“Si spera il prima possibile: È il mio posto preferito dove suonare”.

E noi ce lo auguriamo di tutto cuore; a presto Phil…

Gerlando Gatto