Il trio di Giovanni Tommaso a Latina il 18 febbraio

Prosegue intensa l’attività del Latina Jazz Club con la sua stagione concertistica. Giovedì 18 febbraio in programma uno di quegli appuntamenti da non perdere. Di scena il trio di Giovanni Tommaso con Cinzia Gizzi al pianoforte e Marco Valeri alla batteria.

Giovanni Tommaso è uno dei “grandi” del jazz italiano avendo contribuito in maniera determinante al suo sviluppo e conseguente affermazione a livello internazionale. Lucchese, classe 1941, Tommaso si è ben presto affermato come contrabbassista e bassista di grande livello. Al suo attivo una carriera superlativa che l’ha ben presto posto ai vertici della musica jazz non solo nazionale. Tantissimi i riconoscimenti ottenuti che non vale la pena riassumere in questo spazio. Basti solo sottolineare la felicissima intuizione che nei primissimi anni ’70 lo portò alla costituzione del Perigeo assieme a Claudio Fasoli al sax, Tony Sidney alla chitarra, Franco D’Andrea alle tastiere e Bruno Biriaco alla batteria. Importante anche l’attività didattica dal momento che Tommaso è anche titolare della cattedra di musica jazz al Conservatorio di Perugia. Ultime, ma non certo in ordine d’importanza, la piacevolezza e la gentilezza dell’uomo doti che purtroppo oramai facciamo fatica a trovare anche nel nostro microcosmo jazz.

Cinzia Gizzi è pianista che non ha ottenuto, a nostro avviso, i meriti che il suo talento meriterebbe. Nella sua oramai lunga carriera figura, tra l’altro, un diploma in pianoforte e arrangiamento ottenuto nel 1990 negli Stati Uniti con il massimo dei voti; in questa occasione ha avuto modo di studiare anche con alcuni grandi della tastiera quali Jakie Byard e Charlie Banacos. Oltre a guidare propri gruppi, come sidewoman ha presto parte, nell’arco di una carriera lunga qualche decennio, a molti avvenimenti jazzistici con musicisti italiani e stranieri.

Marco Valeri viene unanimemente considerato uno dei migliori batteristi oggi sulla scena. Romano, classe 1978, si è definitivamente imposto all’attenzione di pubblico e critica nell’ultimo decennio grazie ad una squisita sensibilità ben coniugata con una solida preparazione tecnica acquisita durante gli anni di impegnativi studi. Dopo una parentesi negli States (2002-2003), al ritorno in Italia entra a far parte della band di Sandro Deidda. Anche per lui molte le partecipazioni a festival anche internazionali e assai numerose le collaborazioni con artisti quali Jd Allen, Amedeo Tommasi, Gary Smulian , Andy Gravish, Dado Moroni, Dave Liebman, Eddie Gomez, Benny Golson, Rick Margitza, George Garzone, Franco Ambrosetti, Steve Grossman…

Gerlando Gatto

Roberto Gatto presenta la masterclass online “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming” nell’ambito di Celano Jazz Convention

Sabato 8 maggio 2021, dalle ore 16 alle 19, Celano Jazz Convention presenta “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming”, una masterclass online condotta da Roberto Gatto: nel corso dell’incontro, il grande batterista romano ripercorrerà la storia della batteria e, in generale, delle soluzioni ritmiche che hanno caratterizzato il jazz, fino ad arrivare alle esperienze dei più importanti batteristi di oggi.

La masterclass si svolgerà sulla piattaforma Zoom: la partecipazione costa 20€ e per iscriversi occorre prenotarsi con una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com con oggetto, obbligatorio, ”Prenotazione Seminario” e utilizzando un indirizzo mail valido, al quale poi sarà inviato il link di partecipazione al seminario.

Roberto Gatto è sicuramente il più rinomato batterista Italiano all’estero e vanta importanti partnerships con artisti del mondo del jazz e non solo. Nato a Roma il 6 ottobre 1958, il suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli) e da allora ha suonato in tutta Europa e nel mondo con i suoi gruppi e a fianco di artisti internazionali. Oltre ad una ricerca timbrica raffinata e a una tecnica esecutiva perfetta, i gruppi a suo nome sono caratterizzati dal calore tipico della cultura Mediterranea: questo rende senza dubbio Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel mondo.

Nella sua carriera musicale, Roberto Gatto ha collaborato come sideman con i più importanti interpreti della storia e dell’attualità del jazz internazionale: da Chet Baker a Freddie Hubbard e Lester Bowie, da Gato Barbieri a Kenny Wheeler e Randy Brecker e poi con Enrico Rava, Ivan Lins, Vince Mendoza, Kurt Rosenwinkel, Joey Calderazzo, Bob Berg, Steve Lacy, Johnny Griffin, George Coleman, Dave Liebman, Phil Woods, James Moody, Steve Grossman, Lee Konitz, Barney Wilen, Ronnie Cuber, Sal Nastico, Michael Brecker, Jed Levy, George Garzone, Tony Scott, Paul Jeffrey, Bill Smith, Joe Lovano, Curtis Fuller, Kay Winding, Albert Mangeldorff, Cedar Walton, Tommy Flanagan, Kenny Kirkland, Stefano Bollani, Mal Waldron, Ben Sidran, Enrico Pieranunzi, Dave Kikosky, Franco D’Andrea, John Scofield, John Abercrombie, Billy Cobham, Bobby Hutcherson, Didier Lockwood, Richard Galliano, Christian Escoude, Joe Zawinul, Bireli Lagrene, Palle Danielsonn, Scott Colley, Eddie Gomez, Giovanni Tommaso, Paolo Damiani, Emmanuel Bex, Pat Metheny, Adam Rogers, Rita Marcotulli, Niels Henning Pedersen, Mark Turner, Lew Tabackin, Chris Potter, Mike Moreno, Dado Moroni.

Come leader ha registrato molti album: Notes, Fare, Luna, Jungle Three, Improvvisi, Sing Sing Sing, Roberto Gatto plays Rugantino, Deep, Traps, Gatto-Stefano Bollani Gershwin and more, A Tribute to Miles Davis Quintet, Omaggio al Progressive, The Music Next Door, Roberto Gatto Lysergic Band, Remebering Shelly, fino ai più recenti Sixth Sense e Now.

Nel corso degli anni ha composto musica per il cinema, in particolare insieme a Maurizio Giammarco la colonna sonora di “Nudo di donna” per la regia di Nino Manfredi, e, in collaborazione con Battista Lena, le colonne sonore di “Mignon e Partita”, che ha ottenuto cinque David di Donatello, “Verso Sera” e “Il grande cocomero”, tutti diretti da Francesca Archibugi.

Nel 1983, è stato eletto il primo batterista Italiano dal sondaggio della rivista mensile Fare Musica. Nel 1983 e nel 1987 con il gruppo Lingomania ha vinto il referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz nella categoria miglior gruppo. Nel 1988, 1989, 1990 è stato al primo posto della categoria batteristi dei “vostri preferiti” di Guitar Club. Nel 2007, 2009 e 2010 è stato votato come il miglior batterista dal referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz.

Nel 1993, ha realizzato due video didattici “Batteria vol. 1 e 2”. È stato il direttore artistico di Jazz in progress presso il Teatro dell’Angelo a Roma. Per oltre dodici anni ha insegnato batteria e musica d’insieme presso i seminari di Siena Jazz. Ha frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e il Conservatorio de L’Aquila.

Nel 1997, il direttore Laurent Cugny della francese Orchestre National de Jazz lo chiama per un tour in Francia ed alcune date in Italia. Ultimamente si dedica all’attività solistica e suona spesso con la formazione del trombettista Enrico Rava.

Roberto Gatto è titolare della cattedra di batteria jazz al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.

Il percorso didattico online di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, prosegue nelle prossime settimane con i seminari condotti da alcuni tra i musicisti più importanti del panorama jazzistico italiano. Dopo gli appuntamenti dedicati alla voce (condotto da Ada Montellanico, sabato 24 aprile) e alla batteria (questo con Roberto Gatto, in programma sabato 8 maggio), i prossimi incontri sarano tenuti dal pianista Claudio Filippini (sabato 15 maggio), dal chitarrista Umberto Fiorentino (sabato 22 maggio) e dal sassofonista Tino Tracanna (sabato 29 maggio).

Manu Dibango, Bill Smith e Ray Mantilla: in pochi giorni il jazz perde tre grandi artisti

Continuano i lutti anche nel mondo del jazz, a ulteriore conferma di un inizio d’anno che definire traumatico è semplicemente eufemistico. Mentre il Coronavirus colpisce duramente in tutto il pianeta, ovviamente si continua a morire anche per altre cause; ed ecco quindi che dalla Francia e dagli States ci arrivano le ferali notizie della scomparsa di tre grandi musicisti: il sassofonista Manu Dibango, il clarinettista e compositore Bill Smith e il percussionista Ray Mantilla.

Manu Dibango con Enzo Avitabile

Contrariamente a molte altre occasioni si tratta di tre jazzisti che ho avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo ma con i quali non avevo intessuto alcun rapporto personale neanche di “buon giorno e buona sera”. Ve ne parlo, quindi, da semplice cronista e appassionato. Ma procediamo con ordine.

La notizia della scomparsa di Manu Dibango, sassofonista, compositore, vibrafonista e cantante, mi è giunta pochi minuti prima di pubblicare il ricordo di Bill Smith e Ray Mantilla, rendendo, se possibile, la mia giornata più pesante.

Manu Dibango è uno di quegli artisti la cui fama aveva superato i confini del jazz,  grazie al successo internazionale dell’album “Soul Makossa” del 1972, e detiene il non invidiabile primato di essere stato il primo jazzista di fama internazionale ad essersene andato a causa di questa sconvolgente pandemia: era stato ricoverato la scorsa settimana in un ospedale parigino dopo essere stato trovato positivo al test per il coronavirus.

Manu Dibango, affettuosamente soprannominato “Papy Groove”, nasce in Camerun, a Douala il 12 dicembre 1933 per spegnersi a Parigi questa mattina (24 marzo 2020). Evidenzia una grande predisposizione per la musica sin da bambino cosicché, all’età di 15 anni, i suoi lo mandano a studiare musica a Parigi. Qui viene affascinato soprattutto dal jazz e dalla musica della sua terra che mai ha dimenticato. Studia quindi con interesse questi due linguaggi e negli anni sessanta, mentre si sviluppa il movimento africano per l’indipendenza, entra a far parte degli “African Jazz”. In quest’ambito nasce quello stile che lo renderà famoso in tutto il mondo, uno stile che mescola jazz, soul, musica del Congo e dello Zaire, e che trova la sua più esemplare declinazione in quel brano “Makossa” accennato in precedenza. E’ l’inizio di una strepitosa carriera che lo porta a collaborare con moltissimi musicisti e a incidere innumerevoli album. Tra queste collaborazioni ricordiamo quella con il sassofonista napoletano Enzo Avitabile per l’album “Black Tarantella”, e all’annuncio della dipartita dell’amico camerunense, addolorato è stato il suo commento «Purtroppo il mio grande amico Manu Dibango si é spento stamane a causa di questo maledetto virus. Quanti concerti insieme, quanti ricordi. Sono addolorato!». Cordoglio che in queste ore viene manifestato da tanti musicisti e appassionati che hanno avuto modo di apprezzare la carica innovativa insita nella sua musica, quella straordinaria intuizione di capire, ben prima della world music, che la musica africana potesse ben essere esportata negli altri continenti senza alcunché perdere della sia originaria valenza. A conferma di tutto ciò le molteplici nomination al Grammy, le nomine di Ambasciatore dell’Unesco e di Cavaliere delle Arti in Francia, nonché la pubblicazione della sua autobiografia “Tre chili di caffè – vita del padre dell’afro music” per i tipi in Italia della Edt.

*****

Bill Smith

William Overton Smith, detto “Bill”, nasce il 22 settembre del 1926 a Sacramento ma cresce a Oakland, California. Scompare nella sua casa di Seattle, all’età di 93 anni, per le complicazioni di un tumore alla prostata, dopo una lunga e straordinaria carriera che l’ha visto tra i protagonisti assoluti del jazz contemporaneo.

Comincia a studiare il clarinetto all’età di 10 anni, a 13 costituisce un gruppo di musica da ballo, a 15 fa parte della Oakland Symphony. A seguito di approfonditi studi, diversifica i suoi interessi occupandosi sia di jazz sia di musica colta. Così negli anni ’50 si afferma sulle scene del West Coast Jazz accanto al pianista Dave Brubeck del cui gruppo è una colonna importante. Contemporaneamente il suo ‘Five Pieces for Clarinet Alone’ diviene nel 1959 la prima composizione, mai registrata, con uso di suoni multipli per clarinetto. Nello stesso anno realizza presso i Columbia-Princeton Electronic Music Studios di New York il primo lavoro che integra una esecuzione del clarinetto dal vivo con un nastro registrato composto da suoni dello stesso clarinetto trasformati. Alcuni anni dopo partecipa, con Paul Ketoff a Roma, allo sviluppo del primo sintetizzatore elettronico portatile e del primo microfono per clarinetto. Nel 1960 completa il suo catalogo di oltre 200 suoni multifonici per clarinetto. All’attività di musicista affianca quella di didatta: dal 1966 dirige presso l’Università di Washington il Contemporary Music Ensemble.

Oltre cinquanta i dischi incisi con le etichette Columbia, Rca, New World, Contemporary Crystal e Edipan. A conferma della sua straordinaria statura di musicista da segnalare che Luigi Nono gli ha dedicato il suo concerto per clarinetto.

*****

Ray Mantilla – ph Arturo Di Vita

Completamente diverso il percorso artistico di Ray Mantilla, batterista e percussionista di origine cubana molto conosciuto in Italia per aver inciso a lungo con la Red Record di Sergio Veschi e aver lavorato sia con il M’Boom Re Percussion fondato da Max Roach, sia con altri grandissimi jazzisti quali, tanto per fare qualche nome, Tito Puente, Art Blakey, Max Roach, Gato Barbieri, Charles Mingus, Herbie Mann, Bobby Watson, Cedar Walton, Muhal Richard Abrams, Ray Barretto…Negli anni ’80 costituisce la sua Ray Mantilla Space Station, con cui raggiunge risultati di assoluto livello. Insomma un vero e proprio gigante delle percussioni amato e apprezzato in tutto il mondo.

Ray Mantilla nasce nel 1934, nel South Bronx, e già all’età di vent’anni, si esibisce a New York, con uno stile del tutto personale che riesce a fondere le sue radici afro-cubane con il linguaggio jazz contemporaneo dell’epoca. Il successo come side-man arriva quando comincia a collaborare con Art Blakey ed i Jazz Messengers, con cui rimane per diverso tempo negli anni ’70. Debutta come solista nel 1978 con ‘Mantilla’ per la Inner City (con Eddie Gomez al basso, Joe Chambers alla batteria, Car Ratzer alle chitarre e Jeremy Steig nella duplice veste di flautista e produttore) ma bisognerà attendere il 1984, quando viene pubblicato “Hands of Fire” (Red Records), perché la carriera da solista acquisti definitivo slancio. Da questo momento Mantilla si dedica quasi esclusivamente a gruppi da lui guidati tra cui la “European Space Station” formata da musicisti italiani

Nel 2017 il suo ultimo album, “High Voltage” per Savant Records con Jorge Castro al sax baritono e flauto, Cucho Martinez al basso, Diego Lopez alla batteria, Edy Martinez al piano, Ivan Renta al sax tenore e soprano e Guido Gonzalez alla tromba e flicorno.

*****

Jimmy Heath

E consentitemi in questa sede di ricordare un altro grande scomparso il 19 gennaio scorso a 93 anni, per cause naturali: il sassofonista Jimmy Heath, vera e propria leggenda del jazz americano. Conosciuto nell’ambiente come ‘Little Bird’ per l’influenza che Charlie ‘Bird’ Parker ebbe sul suo passaggio al sassofono tenore, Jimmy nasce il 25 ottobre 1926 a Filadelfia, Pennsylvania, in una famiglia evidentemente baciata dalla dea dell’arte dal momento che la sorella diventa pianista e i due fratelli Percy e Albert rispettivamente bassista e batterista.

Jimmy si interessa alla musica sin da giovanissimo e a 13 anni ha in dono il suo primo sassofono da cui mai si separerà. Negli anni ‘50 anch’egli ha problemi con la droga e viene condannato a quattro anni e mezzo di prigione per spaccio. Fortunatamente si libera dalla dipendenza e impara a suonare il flauto, approfondendo gli studi di composizione e arrangiamento. Il suo primo album, «The Thumper», risale al 1959 e accanto al sassofonista ci sono il fratello Albert, Paul Chambers al basso, Nat Adderley alla cornetta, Wynton Kelly al piano, Curtis Fuller al trombone. A partire dai primissimi anni ’60, Jimmy Heatyh rimane sulla cresta dell’onda lavorando con nomi come Miles Davis, John Coltrane e Dizzy Gillespie. In particolare nel 1975, forma con i fratelli il gruppo “Heath Brothers”, comprendente anche il pianista Stanley Cowell.

Nel corso della sua lunga carriera Heath partecipa sia come side-man sia come leader ad oltre 100 album, ottenendo tre Grammy Nomination e un dottorato onorario in Lettere Umanistiche presso il “Queens College, City University of New York”.

 Gerlando Gatto

CORINALDO JAZZ FESTIVAL 2019

Tutto pronto per la ventunesima edizione del “CORINALDO JAZZ FESTIVAL” che si terrà dall’1 al 3 Agosto a Corinaldo (An).
In 20 anni di attività,l’associazione culturale Round jazz,con la collaborazione del Comune di Corinaldo – Assessorato alla Cultura , si è ritagliato un importante ruolo culturale e artistico nella regione Marche realizzando un significativo programma di concerti.
Lunga è la lista dei musicisti italiani e internazionali che vi hanno partecipato ed anche la nuova edizione assicurerà la qualità di sempre con la promessa di mantenere il meraviglioso stile e la magica atmosfera che ormai caratterizza il festival del nostro pittoresco borgo.

Il programma :

GIOVEDI 1 AGOSTO Piazza Il Terreno ore 21:45

KURT ROSENWINKEL 4tet

Kurt Rosenwinkel – chitarra
Aaron Parks – piano
Eric Revis – C.basso
Jeff “tain” Watts – batteria

VENERDI 2 AGOSTO Piazza Il Terreno ore 21:45

EGM (Erskine-Gomez-Moroni)

Peter Erskine – batteria
Eddie Gomez – C.basso
Dado Moroni – piano

SABATO 3 AGOSTO Piazza Il Terreno ore 21:45

HORACIO ‘el negro’ HERNANDEZ “ITALUBA 4tet”

Horacio “el Negro” Hernandez – batteria
Ivan Bridon – piano
Daniel Martinez – basso el.
Amik Guerra – tromba

Dopo ogni concerto, Jam Session presso il “I 9 Tarocchi”: ingresso libero
Mostra Fotografica di VIVIANA FALCIONI.

INFO & BIGLIETTI:
Posto unico € 15,00
Abbonamento per tre concerti € 30

E’ possibile assicurarsi un posto numerato acquistando preventivamente il singolo biglietto/abbonamento nel sito LiveTickets o direttamente su questo link https://www.liveticket.it/corinaldojazz.

In prevendita saranno venduti SOLAMENTE 150 POSTI.

I restanti biglietti potranno essere acquistati la sera del concerto, a partire dalle ore 20:00 direttamente nella biglietteria della Piazza il terreno.

In caso di cattivo tempo i concerti si terranno presso il Teatro Goldoni di Corinaldo

Informazioni: tel. 071-7978636 (Uff. turistico iat) – 329 4295102
Associazione Culturale ‘ROUND JAZZ : roundjazz@gmail.com
Sito ufficiale :www.corinaldojazz.com
Facebook : www.facebook.com/pages/Corinaldo-Jazz-Aspettando-il-festival

 

( Cinzia Sabbatini – Responsabile della Comunicazione Corinaldo Jazz Festival )

L’Estate alla Casa del Jazz, ricca di splendida musica

Una splendida giornata di caldo e di sole ha fatto da cornice alla conferenza stampa di presentazione di “Summertime 2019“, la rassegna estiva della Casa del Jazz di Roma, che si aprirà il 24 giugno per concludersi il 1° agosto con oltre 30 concerti. Approfittando del clima finalmente favorevole, l’incontro si è tenuto all’esterno della palazzina di viale di Porta Ardeatina; al tavolo delle autorità Aurelio Regina, presidente di Fondazione Musica per Roma, Josè R. Dosal, amministratore delegato di Fondazione Musica per Roma, Teresa Azzaro, direttore artistico de “I concerti nel parco” e Luca Bergamo, vicesindaco e assessore alla Crescita culturale di Roma; in prima fila, tra il pubblico,  tre artisti di assoluto rilievo come Enrico Pieranunzi, Sergio Cammariere e Javier Girotto.

È toccato al vicesindaco rompere il ghiaccio; Bergamo ha illustrato gli ottimi risultati ottenuti dal suo assessorato nel Comune di Roma: nei primi tre mesi dell’anno, sono stati organizzati dalle istituzioni culturali partecipate dal Comune di Roma, esclusi i musei, duemilanovecento eventi con circa cinquecentomila presenze. Ora senza voler minimamente contestare tali numeri, chi avesse ascoltato le parole di Bergamo non abitando a Roma, avrebbe potuto credere che la Capitale stia vivendo un momento di particolare fulgore. Purtroppo non è così, ché gli eventi cui Bergamo accennava si sono svolti all’interno di un contesto cittadino non proprio ottimale, per usare un eufemismo. Nessun accenno, quindi, ai molti guai che continuano ad affliggere Roma e che solo molto, molto parzialmente possono essere leniti da quei successi cui il vice sindaco ha fatto riferimento.

Ma veniamo alla musica. Aurelio Regina ha sottolineato il valore sociale e civico che ha la Casa del Jazz, luogo tolto alla malavita organizzata e restituito alla città per cui “fare musica qui ha un valore doppio rispetto ad altri luoghi”. Fare musica che, anche quest’anno, si svolge sotto l’egida di Musica per Roma, dopo che lo scorso anno la manifestazione si era chiusa con un bilancio gratificante di oltre ventimila presenze. E tutto lascia supporre che anche quest’anno si potranno raggiungere risultati altrettanto positivi, vista la qualità del programma che comprende jazz, blues, soul, tango, swing, funky, acid jazz e musiche del Mediterraneo.

Come al solito ci soffermiamo sugli appuntamenti a nostro avviso più interessanti. In quest’ambito si inserisce l’apertura del 24 giugno con il Quinteto Astor Piazzolla, formazione di virtuosi sotto la direzione di Laura Escalada Piazzolla creata per proteggere e diffondere l’enorme lascito del musicista argentino.

L’8 luglio toccherà agli Incognito che riproporranno il loro inconfondibile mix di groove, soul e funk. Tanto atteso, poi, il ritorno del chitarrista Bill Frisell, che si esibirà in trio con Thomas Morgan e Rudy Royston il 10 luglio. Il 15 luglio ecco la Band guidata da Steve Gadd uno dei più influenti batteristi dell’intera storia della musica contemporanea; il 17 sarà la volta di un duo d’eccezione composto dal pianista belga Eric Legnini e da uno dei più talentuosi interpreti della New Jazz Generation italiana Raffaele Casarano. Il 19 luglio, a nostro avviso l’appuntamento più importante dell’intera rassegna: arriva Charles Lloyd, uno dei più grandi sassofonisti viventi, una vera leggenda, noto tra l’altro per alcune incisioni storiche (“Forest Flower” tanto per citarne una) e per aver lanciato le carriere di molteplici pianisti, tra cui Keith Jarrett e Michel Petrucciani. Il 21 luglio sarà la volta del trio composto da Peter Erskine, Eddie Gomez e Dado Moroni.

Il 30 luglio, grande festa per i 25 anni di uno dei gruppi più noti per aver reinterpretato il tango argentino in chiave jazz: Javier Girotto & Aires Tango “25 anos”. Come al solito “robusta” e di assoluta qualità la presenza del jazz italiano.

Il 26 giugno prima serata con la Roma Sinfonietta che eseguirà Trouble in Tahiti, opera nata nel 2018 in occasione del centenario della nascita di Leonard Bernstein, mentre la seconda serata – in programma il 4 luglio – sarà dedicata al genio compositivo di George Gershwin.  Il 29 giugno sarà il turno del poliedrico vocalist Gegè Telesforo mentre il 6 luglio ritorna la NTIO New Talent Jazz Orchestra, formata da giovani talenti del jazz italiano diretta da Mario Corvini che, per l’occasione, interpreterà le composizioni e la musica di Enrico Pieranunzi, egli stesso sul palco come ‘special guest’ (progetto che diverrà presto un disco per Parco della Musica Records).

Il 25 luglio troviamo la tromba di Paolo Fresu unita al bandoneon di Daniele di Bonaventura che incontreranno il violoncellista carioca Jacques Morelenbaum per gettare un ponte tra Mediterraneo e Brasile.  Il 26 luglio Sergio Cammariere presenterà al pubblico romano il suo ultimo disco “La fine di tutti i guai” pubblicato dalla Parco Musica Records; il 29 luglio Antonello Salis e Simone Zachini, virtuosi della fisarmonica e improvvisatori totali, si incontreranno per sperimentare una musica senza confini. Il 31 luglio l’eccezionale duo Fabrizio Bosso (alla tromba) e Julian Mazzarielo (al pianoforte) presenterà il nuovo disco ‘Tandem Live’.

Ma “Summertime 2019 – L’estate a Casa del Jazz” non finisce qui e prosegue anche con la 29esima edizione de “I concerti nel parco” – per la quarta volta nella location in via di Porta Ardeatina – con la direzione artistica di Teresa Azzaro. Vera e propria anima della manifestazione, la Azzaro è persona sicuramente capace, competente… peccato che non possieda il dono della sintesi. Il suo intervento, davvero lungo… molto lungo, ha reso impossibile seguirla con attenzione sino alla fine. Comunque, scorrendo il ricco programma, ci sono alcuni appuntamenti di rilievo anche per gli appassionati di jazz.

In particolare, l’11 luglio sarà di scena Sarah Jane Morris, una delle vocalist più carismatiche e interessanti dell’intero panorama musicale al di là di qualsivoglia etichetta mentre il 16 luglio il fisarmonicista di statura mondiale, Richard Galliano, e il flautista Massimo Mercelli si incontreranno con i Solisti Aquilani.

Il 27 luglio il duo Omar Sosa (pianoforte) e Yilian Canizares (violino e voce) si esibiranno con il percussionista Gustavo Ovalles nelle vesti di special guest. Infine, il 1° agosto, il graditissimo ricorso dell’Orchestra di Piazza Vittorio con la direzione artistica e musicale di Mario Tronco.

Gerlando Gatto

 

Il jazz in Sicilia: intervista con uno dei più interessanti musicisti italiani Francesco Branciamore

Lo conosco dai primissimi anni novanta quando suonava in trio con Giorgio Occhipinti al piano e Giuseppe Guarrella al basso e già in quegli anni lo consideravo uno dei migliori, più innovativi batteristi italiani. Nel corso degli anni questa mia considerazione si è vieppiù rafforzata tanto da non temere alcuna smentita quando affermo che Francesco Branciamore ha oramai un suo ruolo ben preciso nella musica jazz italiana. Siciliano di Ragusa ma residente a Siracusa, classe 1956, può vantare una solida preparazione di base avendo conseguito il Diploma di Laurea di I Livello in Discipline Musicali Scuola di Musica Jazz al Conservatorio “A. Scontrino” di Trapani e il Diploma di II Livello in Discipline Musicali Indirizzo Interpretativo – Compositivo Jazz al Conservatorio “A. Corelli” di Messina. In questi ultimi anni ha intrapreso un approfondito studio sul pianoforte ottenendo anche in questo caso straordinari risultati. La sua carriera è ricca di riconoscimenti, di collaborazioni prestigiose, di album straordinari, elementi tutti che sarebbe inutile citare in questa sede anche se mi pare importante ricordare come nel marzo del 2000, vince il concorso nazionale Targa Mazars, premio assegnato nell’ambito del festival Jazz in Bocconi, in Milano, quale miglior progetto sul tema “Il jazz oltre il 2000, tradizione e improvvisazione incontrano la tecnologia” assieme ad un altro importante traguardo come compositore di “Lisistrata” nel 2010 per il ciclo delle rappresentazioni classiche dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa.

Come accennato su questi stessi spazi poco settimane addietro, trovandomi in Sicilia l’ho contattato e l’ho intervistato nella “sua” Siracusa nel corso di una mattinata caratterizzata da un gran caldo.

Tu sei uno di quei musicisti che trasferendoti sul Continente avresti probabilmente avuto molta più notorietà rispetto a quella che già hai. Perché hai scelto di restare in Sicilia, nella tua Siracusa?

“Innanzitutto perché amo la mia terra e poi ho fatto un semplice ragionamento: io sono un artista e quindi, ad esempio, se fossi stato uno scrittore avrei potuto produrre qui, stampare e poi far conoscere il mio lavoro anche al di fuori dell’Isola. Allora perché non applicare lo stesso ragionamento alla musica? Quindi prima di tutto pensare alla musica, progettare, incidere, pubblicare e da lì avere l’opportunità di portare il mio lavoro fuori ma senza cambiare la mia residenza”.

-Quanto la vita privata ha inciso sulle tue scelte artistiche ivi compresa, ovviamente, la decisione di restare in Sicilia?

“Il fatto di avere una famiglia, un figlio di diciannove anni, una moglie che lavora e il vivere in una città dove tutto è a misura d’uomo, il che rende possibile gestire i propri tempi, i propri spazi anche per quanto concerne la professione, sicuramente hanno avuto un peso non secondario”.

-Professione. Consideri quella del musicista una professione?

“Sì, non è logorante come altre professioni ma ritengo che sia una professione a tutto tondo che richiede molto impegno, molto studio ed una profonda determinazione che ti spinga ad agire, ad operare. Per me è stato una sorta di necessità in quanto avevo delle cose da esprimere, prima come singolo musicista e poi, ampliando le mie competenze, come compositore e adesso anche come didatta”.

-Quindi tu hai una triplice veste: esecutore, compositore, didatta. Quale ti si attaglia meglio?

“L’una non esclude l’altra. Quando fai il musicista sei alla costante ricerca di un tuo equilibrio; è come se fossi sopra una corda per cui se sbagli puoi anche farti male. Non ci deve essere, quindi alcuna distrazione ed una piena consapevolezza del linguaggio che stai adoperando il che è il frutto di una grande preparazione personale raggiunta attraverso lo studio, l’esperienza, l’interplay con altri musicisti anche più bravi di te. Fare il docente è una cosa che mi gratifica molto perché comunque io insegno senza perdere di vista il fatto che sono un musicista; la cosa che mi interessa di più è trasmettere ai ragazzi che studiano con me una grande passione e una profonda motivazione per aver scelto questa musica jazz che non è una musica semplice”.

-Tu hai studiato anche composizione. Cosa ti ha spinto verso questi lidi?

Io prima di studiare composizione e di conseguire il titolo accademico avevo già alle spalle una carriera di circa 35 anni; quindi solo in tarda età mi sono dedicato ad uno studio filologico del linguaggio jazz il che nulla ha a che vedere con la composizione classica. Questo ci tengo a dirlo: la composizione classica nasce, si sviluppa e si chiude sempre eguale in quanto le varie esecuzioni sono, devono essere, sempre uguali…certo con qualche differente sfumatura interpretativa, ma sostanzialmente sempre uguali. Nel jazz no, c’è sempre l’elemento dell’improvvisazione per cui devi pensare, nella parte obbligata di scrittura, anche al ruolo che devi dare al solista improvvisatore che dovrai scegliere in base alle tue esigenze di scrittura. Come ti dicevo arrivo a questo traguardo piuttosto tardi; prima, da autodidatta, ero giunto a scrivere alcuni pezzi che poi ho inserito nel mio primo album “Flash In Four” registrato per la Splasc(H) Records con Carlo Actis Dato, Piero Ponzo e Marco Mazzola nel 1988 e posso dire che ho avuto la grossa soddisfazione di registrare la mia prima opera in vinile che adesso può costituire una sorta di eccezionalità ma in quegli anni era la normalità. Insomma già verso la fine degli anni ’80 mi ero avvicinato alla composizione ma poi ho ritenuto di approfondire la problematica ed ecco il titolo accademico”.

-Come si svolge il tuo processo creativo?

“Come sai il mio primo strumento è stato la batteria, ma in questi ultimi anni ho studiato approfonditamente anche il pianoforte che quindi per me oggi ha un ruolo quasi paritario rispetto a pelli e tamburi. Quindi quello che tu chiami processo creativo spesso prende le mosse dal pianoforte. Può ispirarmi una sequenza armonica da cui poi si sviluppa la melodia, a volte parto da una intuizione ritmica, da alcune cellule che metto insieme… il mio obiettivo è comunque sempre quello di non lasciare scontato il divenire di una cosa che può essere ascoltata, che può lasciar prevedere quanto accadrà successivamente: c’è sempre l’elemento sorpresa che fa parte del mio stile compositivo; quindi, ad esempio, brani, composizioni che si avvicendano a piccole sezioni multi-metriche per cui possono esserci dei temi che partono con un ritmo molto rilassato ma che cambiano nel corso dell’esecuzione”.

-Ma il tuo primo input ti viene dall’osservazione del mare, da uno sguardo di tuo figlio, una passeggiata con tua moglie… o cos’altro?

“E’ il classico momento ispirativo che per ogni musicista è diverso. Per me il momento buono è la mattina, a mente fresca… se ho dormito bene ancora meglio. Mi seggo al pianoforte, cerco di tracciare in testa qualcosa che vorrei diventasse materia musicale e poi cerco di trasportarla sulla tastiera. Ovviamente tra il dire e il fare c’è di mezzo tutto un processo di analisi, di approfondimento, di messa a punto delle direzioni da prendere che vanno filtrate attraverso un primo abbozzo al piano e poi man mano sino alla fine”.

-Tornando all’attività didattica non pensi che questo fiorire di tante scuole di jazz finisca con lo sfornare tutta una pletora di ottimi musicisti che però ben difficilmente potranno trovare un lavoro soddisfacente? A ciò si aggiunge, a mio avviso, il rischio di una certa omologazione stilistica. Cosa pensi al riguardo?

“Noi abbiamo osannato per anni la scuola della Berkeley ove effettivamente il rischio della omologazione stilistica è ben presente; in Italia il corpo docente varia dai 40 ai 70 anni, molti fanno parte della generazione che ha fatto la storia del jazz italiano e questi si fanno forte di alcuni dettami della cultura occidentale. Cosa intendo dire? Che tutti questi artisti hanno evidenziato nel loro percorso musicale una grande onestà intellettuale ed è proprio questo il principio fondamentale che hanno cercato di infondere nelle nuove leve di jazzisti per cui io non la vedo così pessimisticamente come te: la situazione italiana non può essere paragonata a quella americana, la nostra è una scuola europea, con principi fermi, forti delle bellissime melodie che contraddistinguono il jazz italiano. Ecco, le scuole italiane cercano di portare avanti questi principi filtrati da tre pilastri fondamentali cha la cultura jazz ci ha lasciato: il blues, gli standards e gli originals”.

-E quanto alle possibilità di lavoro?

“Si tratta di un percorso assolutamente personale. Non basta un percorso per quanto lungo e completo – scuola, conservatorio – per diventare un artista. Occorre ben altro! Occorre ricercare una propria estetica musicale. Viceversa se ti vuoi uniformare ad una estetica che potremo definire mainstream, ad una estetica americana, tanto per essere più chiari, la strada sarà impervia”.

-Da quanto mi dici mi pare di capire che tu credi fermamente in un jazz molto diverso dal jazz americano di matrice europea, e all’interno di esso in un jazz italiano.

“La grande lezione che ci viene dal jazz americano è imprescindibile: ci ha dato alcune forme che nel jazz possono essere raggruppate in due gruppi, il blues e le songs, Un’altra componente fondamentale che ci viene, questa, dalla cultura afroamericana è  il senso del ritmo, dello swing, della pronuncia che noi in Europa non abbiamo … o meglio abbiamo di tutt’altra natura. Il jazz europeo ha dato una grande spinta a quelli che possono essere prerequisiti di un certo stile. Il primo a delineare compiutamente tali elementi è stato Manfred Eicher con la sua ECM; questa casa discografica è stata un ottimo trampolino di lancio di cui si sono serviti anche musicisti italiani che sono andati a ripescare fonti di ispirazione nel passato tradizionale sia classico sia folkloristico, da Gesualdo da Venosa a Monteverdi, a Rossini … Quindi il recupero della tradizione ma con una pronuncia jazz da non perdere”.

-Come si diceva, ci sono moltissimi giovani musicisti. Quali differenze noti tra questi e i jazzisti della tua generazione?

“Ai miei tempi non c’era internet, non c’era facebook, non c’erano i social network che hanno permesso una fortissima accelerata nella promozione della propria immagine, dei propri progetti. Adesso ti racconto qualcosa che sembrerebbe una sorta di favola ma ti assicuro è la verità. Quando incisi il mio primo disco – di cui abbiamo parlato – era una coproduzione con la Splasc(H) per cui io dovevo comprare un certo numero di copie. Io ero un batterista, di estrazione sociale media, sicuramente i miei avevano altre aspettative che non la musica, quindi dovevo pensare a produrmi da solo per cui in quella occasione ho dovuto vendermi la macchina e comprare trecento copie. Sono rimasto a piedi un anno e ti assicuro che non è stato facile… pensa che dovevo andare in giro con la batteria e non avevo un mezzo di trasporto! Oggi una cosa del genere non accade: puoi produrti, andare su una piattaforma digitale e con poco prezzo puoi far veicolare la tua musica. Adesso i mezzi di promozione sono tanti, anche troppi forse, per cui ci può essere una certa dispersione nel cercare e trovare le cose che veramente ti interessano. Il livello è cresciuto molto rispetto alla mia generazione; i giovani hanno un buon livello, sono molto più determinati rispetto alla loro età, sono molto più precoci in quanto arrivano ad un buon livello di maturità a 25, 28 anni”.

-Questo discorso riguarda anche l’espressività?

“Questo, in effetti, è un altro discorso. I giovani sono ammaliati da miti che riguardano anche un certo modo di apparire, di presentarsi per cui registro una certa omologazione al riguardo e poche voci fuori dal coro”.

Vorrei tornare al discorso che facevamo prima con riguardo alle nuove tecnologie. Quanto dici è vero ma è altrettanto vero che ancora oggi quasi tutti i jazzisti quando incidono un album devono pagare sempre con l’acquisto di copie. Come te lo spieghi?

“Ti rispondo citando un testo noto di Ashley Kahn “Kind Of Blue” New York 1959: storia e fortuna del capolavoro di Miles Davis. Leggendo il libro, fonte preziosa di vari documenti, come foto, rendiconti economici, fogli del libro paga dei musicisti etc….

ma soprattutto la campagna pubblicitaria messa in campo dalla Columbia Records. Un marketing ineccepibile, se pensiamo che non esisteva ancora il mondo del web. E’ chiaro dietro c’era una star, ma c’era la voglia di vendere la musica prodotta. Oggi è diverso, il mondo discografico si è centuplicato dando spazio a major, medium e a indian labels, con mezzi di promozione a volte limitati. Quindi un musicista che vuole pubblicare con un’etichetta di media portata, come ce ne sono tante valide in Italia e in Europa, deve sottostare ad una coproduzione e acquistare un tot numero di cd, che comunque serve ai concerti perché rimane ancora il solo luogo dove si vendono”.

-Io conosco abbastanza bene la tua discografia; in quest’ambito c’è un album che mi ha sempre molto impressionato anche perché tu evidenzi tutta la tua complessa personalità pur senza suonare alcuno strumento: quello dedicato a Bill Evans. Ce ne puoi parlare?

“Il progetto dedicato alla musica del leggendario pianista jazz Bill Evans, interamente ideato da me come compositore e arrangiatore, comprende flauto, clarinetto, violino, violoncello, pianoforte, contrabbasso. Può dirsi, senz’altro, che per la prima volta la musica del pianista americano viene pensata per un ensemble di questo tipo. L’ultimo esperimento di rilievo è stato fatto dal Kronos Quartet con il contrabbassista Eddie Gomez circa venti anni fa. Per questo progetto quindi ho lavorato sull’anima classica di Bill Evans esaltando l’influenza di Chopin, Ravel, Debussy e Satie. I brani orchestrati e arrangiati per l’ensemble non comprendono soltanto composizioni di Bill Evans, ma anche noti standard jazz da lui frequentemente suonati che nelle sue mani sono diventate vere e proprie composizioni del suo repertorio oltre a due brani inediti che ho voluto dedicare al grande pianista. La parte del pianoforte è interamente tratta da trascrizioni originali di Bill Evans, tutto ciò che si sovrappone a questa (le parti per gli altri 5strumenti) è stato composto e arrangiato ad hoc per questo progetto”.

-Entriamo adesso nell’album dei ricordi; c’è un concerto, una collaborazione che ricordi particolarmente? E c’è un tuo disco che rifaresti e un altro che non rifaresti?

“Io sono stato molto fortunato in quanto ho avuto modo di suonare con grandissimi musicisti; dico spesso che non ho avuto la necessità di andare alla Berkeley in quanto ho suonato in tre concerti con Lee Konitz e tu sai benissimo cosa ciò significhi. Mi ricordo in particolare un concerto a Salerno, eravamo in quartetto e Konitz, come suo solito, quando salivamo sul palco non ti diceva mai la scaletta: cominciava a suonare ed eri tu a dover capire dove andava; in quell’occasione abbiamo suonato una bellissima “Stella By Starlight” durata circa una trentina di minuti, caratterizzata da una splendida introduzione suonata da lui e da me che giravamo attorno al chorus: è stato un momento di grande, grandissima crescita e ti assicuro che quando ho ascoltato la registrazione, ho fatto fatica a riconoscermi. Un’altra persona a cui devo molto è Enrico Intra con il quale ho collaborato diverse volte. Alcune cose dei miei dischi che non rifarei…beh, penso proprio di no: ho sempre fatto cose di cui ero molto convinto; in ogni caso mi onoro del fatto di non aver mai registrato uno standard verso cui ho avuto sempre la giusta devozione ma ascoltato dai grandi”.

-Progetti?

“Il prossimo è piuttosto ambizioso in quanto vorrei registrare un album di piano compositions in cui sarò compositore e interprete. Sto mettendo a punto i brani e il disco sarà pubblicato dalla mia etichetta, la ACK records distribuita dalla Believe Digital, una piattaforma digitale riconosciuta in tutto il mondo”.

Gerlando Gatto