Sempre in primo piano il jazz italiano ad “Iseo Jazz”

 

Da ben ventisette anni il festival “Iseo Jazz” organizza le sue serate e articola il suo spazio sulla musica prodotta in Italia da jazzisti del Bel Paese. Con coerenza, rigore, divulgazione, ricerca gli organizzatori (la direzione artistica è di Maurizio Franco) propongono numerosi progetti speciali e artisti di varie generazioni, fornendo di anno in anno uno spaccato significativo delle ultime tendenze. Non a caso la rassegna si fregia del sottotitolo “La casa del jazz italiano” ed ha il patrocinio di MIDJ (l’associazione Musicisti Italiani di Jazz); in più, da sempre, la programmazione interagisce con un territorio di rara bellezza e suggestione, rinnovando quel rapporto tra musica e “luoghi” (anche nella loro dimensione amministrativa) che caratterizza le migliori rassegne della penisola.

“Iseo Jazz” inizia il 7 luglio a Palazzolo sull’Oglio (Palazzo comunale) con il trio del pianista Donatello D’Attoma (con Alberto Fidone ed Enrico Morello); completa la serata un progetto speciale intitolato “Il jazz a Milano negli anni cinquanta e sessanta”, epoca e repertorio proposto da Paolo Recchia, Andrea Dulbecco e Nicola Angelucci (sax, vibrafono, batteria).

Il 9 si prosegue a Sale Marasino (chiesa di San Giacomo di Maspiano) con un solo piano di Michele Di Toro, ispirato alle musiche di Nat Cole, George Shearing, Herbie Nichols e Lennie Tristano; anche questo è un progetto speciale della rassegna. Il 10 ci si sposta nell’Azienda Agricola Barone Pizzini (a Provaglio d’Iseo) per uno dei momenti clou del festival: “L’importanza di chiamarsi Enrico”, ovvero solo, duo e trio con i pianisti Enrico Intra ed Enrico Pieranunzi ed il trombettista-flicornista Enrico Rava (sempre progetto speciale dei “Iseo Jazz).

Le serate dell’11 e del 12 propongono le nuove generazioni di jazzisti: nella prima si approda ad Iseo (Sagrato della Pieve di Sant’Andrea) per il Francesco Diodati Trio (Laila Martial, Stefano Tamborrino) ed il Tony Arco Quartetto (Greg Burk, Sandro Cerino, Mauro Battisti) in “Colors of the soul”. Il 12 l’appuntamento è a Pratico (Parco delle erbe danzanti) per l’eversivo trio del trombonista Filippo Vignato (Yannick Lestra, Attila Gyarfas) arricchito dall’eclettica vocalist Marta Raviglia; la serata si completa con Simone Graziano, Francesco Ponticelli ed Enrico Morello.

Il fine settimana conclusivo è tutto ad Iseo e vede artisti di notevole caratura ed esperienza. Sabato 13 al Lido di Sassabanek c’è la Riccardo Fassi Florence Pocket Orchestra; Fassi (piano, composizione, direzione) coinvolge i fiatisti Mirco Rubegni, Stefano Scalzi, Nico Gori e Dario Cecchini e la sezione ritmica composta da Guido Zorn e Bernardo Guerra. Nello stesso spazio si esibisce il gruppo Double Cut guidato da Tino Tracanna, con il “doppio” sassofonista Massimiliamo Milesi e i ritmi Giulio Corini e Filippo Sala. Domenica 14 il gran finale si sposta al Sagrato della Pieve di Sant’Andrea dove riceveranno il “Premio Iseo” alla carriera il contrabbassista-compositore Giovanni Tommaso ed il critico musicale e storico del jazz (in particolare italiano) (nonché nostro validissimo collaboratore) Luigi Onori; Onori anticiperà al pubblico i contenuti del suo libro sul Perigeo, in uscita per Stampa Alternativa in novembre. Tommaso si esibirà in trio con Claudio Filippini ed Alessandro Paternesi. Ultimo concerto per l’Emanuele Cisi Quartet (Dino Rubino, Rosario Bonaccorso, Adam Pache) che omaggerà l’arte sassofonistica di Prez in “No Eyes – Looking at Lester Young”.

 

I nostri CD. Curiosando tra le etichette (parte 1)

Il mondo del jazz, oramai da anni, vive un paradosso difficile da risolvere: se da un lato i dischi si vendono sempre meno (non a caso trovare un negozio ben fornito è una sorta di mission impossible), dall’altro il mercato è costantemente rifornito di CD molti di buona qualità, ma altrettanti francamente inutili. Il fatto è, come ammettono gli stessi artisti, che il CD è divenuto una sorta di biglietto da visita e un modo di documentare la propria attività in un dato momento storico.
Partendo da queste considerazioni, abbiamo deciso, con l’ausilio di Amedeo Furfaro, di proporvi questa puntata della rubrica “I nostri CD” prendendo le mosse non dai singoli album ma dalle case discografiche più attive nei settori di nostro interesse.

“abeat” sempre all’avanguardia

E partiamo quindi, in rigorosissimo ordine alfabetico, dalla italianissima “abeat” .
Fondata nel 2001 da Mario Caccia a Solbiate Olona (VA), ABEAT RECORDS ha da sempre prodotto dischi che interpretassero le nuove tendenze della musica jazz. Da allora sono numerosi gli artisti del panorama nazionale ed internazionale che hanno realizzato i loro dischi con questa etichetta. Tratte dalle ultimissime produzioni della “abeat records”, vi presentiamo quattro album firmati rispettivamente da Luigi Di Nunzio (“The Game”), Andrea Domenici Trio (“Playing who i am”), Guido Manusardi (“Swingin”) e Michele Perruggini (“In volo”).

Luigi Di Nunzio è un giovane sassofonista napoletano che può vantare una solida preparazione di base avendo conseguito nel 2010 il diploma di sassofono classico con il massimo dei voti con il maestro Andrea Pace. Successivamente inizia una carriera che lo porta ad esibirsi accanto a musicisti di vaglia quali Antonio Faraò, Massimo Nunzi, Francesco Cafiso, David Liebman, Michael Bublé. Il 10 ottobre 2014 esce il suo album d’ esordio dal titolo “Inexistent” sempre per abeat. Nel settembre del 2018 registra “The Game” unitamente a Marco Fiorenzano, synth e piano rhodes, Umberto Lepore, basso e bass synth, e Marco Castaldo, alla batteria, con l’aggiunta di ospiti in alcuni brani L’album è di sicuro interesse dando all’ascoltatore la possibilità di scoprire non solo le capacità esecutive di Di Nunzio ma anche le sue qualità compositive dal momento che tutte le dieci tracce sono sue composizioni. La caratteristica principale del CD va ricercata nel fatto che il sassofonista ha voluto mettere assieme una serie di esperienze e collaborazioni, vissute negli ultimi quattro anni, in generi musicali a lui sconosciuti come l’hip hop, rap, musica elettronica. Di qui un sound abbastanza originale in cui stilemi propri del jazz canonico si fondono con suggestioni provenienti dall’elettronica. Certo, per chi ama il jazz alla Coltrane o alla Gillespie l’album farà storcere il naso, ma, viceversa, per chi ascolta la musica con mente aperta e rivolta al futuro sicuramente troverà nell’album in oggetto parecchi motivi di interesse.

“Playing Who I Am” è il disco d’esordio come leader del pianista Andrea Domenici, classe 1992. Già allievo, tra gli altri, di Mario Rusca, Dado Moroni, Kenny Barron si è diplomato presso The New School for Jazz and Contemporary Music e dal 2012 si è trasferito negli States. Da allora ha cominciato a collaborare con alcuni veri e propri giganti del jazz quali Wynton Marsalis, Gary Bartz, Billy Harper e Dave Douglas. A supportarlo in questo CD Billy Drummond al basso e Peter Washington alla batteria. In repertorio nove brani che spaziano dal jazz canonico (Thelonious Monk) a standard quali “It’ Easy To Remember” di Rodgers cui si aggiungono tre original del leader, a dimostrazione di come Andrea da un lato abbia saputo interiorizzare il linguaggio dei grandi del jazz, dall’altro sia riuscito a sintetizzare le diverse influenze in uno stile del tutto personale. L’album, almeno per chi scrive, rappresenta, quindi, una bella sorpresa. Il linguaggio di Domenici è fluido, sempre pertinente, con una armonizzazione mai banale e un tasso di improvvisazione elevato. L’interazione con i compagni d’avventura è assoluta ad evidenziare un’intesa che va ben oltre il fatto squisitamente musicale. Insomma un artista di cui sentiremo parlare molto e bene.

Swingin” è il titolo del CD inciso dal trio del pianista Guido Manusardi con Roberto Piccolo al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria nell’ottobre del 2017. Mai titolo fu più azzeccato nel senso che uno swing straordinario, trascinante, profondamente sentito da tutti e tre i musicisti pervade l’album dalla prima all’ultima nota. In repertorio undici brani tra cui un solo original del pianista. Da quanto sin qui detto è facile dedurre che il trio si muove in estrema scioltezza, guidati da quel grande artista che è Guido Manusardi. In effetti Manusardi è sulla cresta dell’onda da tanti anni e mai ha deluso i suoi numerosi ammiratori grazie ad una tecnica sopraffina, ad una squisita sensibilità che gli consente di coniugare rispetto per la tradizione e modernità espressiva, ad un senso della misura che mai lo porta ad esagerare in virtuosismi che pure sarebbero alla sua portata. E questo album è l’ennesima riprova di tutto ciò: si ascolti con attenzione con quanta delicatezza l’ottantaduenne pianista disegna il celeberrimo “Love For Sale” o la carica di swing (per restare in tema) che caratterizza “I’ll Remember April”. Come si diceva in precedenza, è tutto il trio che funziona bene…ciò per sottolineare come i partners scelti da Manusardi, vale a dire il giovane Piccolo e il meno giovane Cazzola (classe 1938), siano stati perfettamente all’altezza della situazione contribuendo in maniera determinante alla bella riuscita dell’impresa. Non a caso l’unico original di Manusardi presente nell’album, “Mister G”, è dedicato proprio al batterista.

Il compositore e arrangiatore Michele Perruggini è il protagonista del quarto album significativamente intitolato “In volo”. Avevamo già avuto modo di apprezzare il talento di questo musicista nel precedente album “Attraverso la nebbia” – sempre per abeat – in cui Michele si presentava anche nella veste di batterista. In questo nuovo CD l’artista abbandona il ruolo di strumentista e si sottopone al giudizio degli ascoltatori come compositore e arrangiatore (coadiuvato da Leo Gadaleta che ha curato gli arrangiamenti degli archi). E il giudizio non può che essere positivo data la bellezza della linea melodica che viene sviluppata in ogni singolo brano. La musica ha un andamento quasi filmico, come se volesse accompagnare alcuni attimi – chissà forse i più significativi – della nostra esistenza, vissuta celebrandone, suggerisce lo stesso Perruggini, “ogni istante, assaporando profondamente con lentezza”. Di qui una musica introspettiva, spesso malinconica, ben resa da tutti i musicisti, a partire da Mirko Signorile sempre presente con il suo pianoforte per finire con la sezione archi composta da Leo Gadaleta e Serena Soccoia ai violini, Teresa Laera alla viola e Luciano Tarantino al violoncello. Il ritmo è sostenuto dall’ottimo contrabbassista Giorgio Vendola e il tutto funziona così bene che mai si avverte la mancanza della batteria.

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Con “ACT” uno sguardo sul Nord-Europa.

L’etichetta tedesca, fondata nel 1992 da Siggi Loch, già per venti anni ai vertici della Warner International, nell’arco di pochi decenni è riuscita ad ottenere una posizione di assoluto prestigio nel panorama musicale internazionale. Ciò perché nel suo catalogo figurano alcuni degli artisti – specie del Nord Europa – più significativi quali, tanto per fare qualche nome, Joachim Kühn, Nils Landgren, Michael Wollny, Jon Christensen…e grosse formazioni come l’Hannover NDR Radio Philharmonic Orchestra. Per non parlare della scoperta e del lancio di uno degli artisti che hanno profondamente segnato gli ultimi anni del pianismo jazz, quell’Esbjörn Svensson scomparso nel 2008 a 44 anni in un incidente mentre effettuava pesca subacquea. Non mancano, ovviamente, artisti fuori dagli immaginari confini del Nord Europa come Rudresh Mahanthappa, Youn Sun Nah e il ‘nostro’ Paolo Fresu. E proprio il trombettista di Berchidda è il protagonista di una vera e propria perla: Danielsson-Fresu, “Summerwind”. Il contrabbassista svedese e il trombettista sardo evidenziano un’intesa straordinaria, come se avessero da sempre suonato assieme mentre questo è in realtà il loro primo progetto in duo. E l’intesa si instaura immediatamente al punto tale che –come sottolineato nelle note di copertina – il brano “Dardusò” viene creato spontaneamente in studio durante le registrazioni. La loro è una musica raffinata, elegante, che si sviluppa quasi per sottrazione, nel senso che il linguaggio è essenziale, scarno, senza che mai si avverta una nota fuori posto, un qualcosa che avrebbe potuto essere eliminato. I due disegnano linee melodiche dalla struggente bellezza e poco importa l’assenza di una carica ritmica qualche avrebbe potuto essere assicurata da una batteria. Insomma poesia allo stato puro che traspare da ogni brano, interpretato con sincera partecipazione e assoluta onestà intellettuale. I due non si schermano dietro la loro arte, ma lasciano fluire il suono così come ‘ispirato’ dalle sensazioni del momento, dalle emozioni che avvertono nell’eseguire un repertorio caratterizzato da brani originali scritti dai due (singolarmente o a quattro mani) cui si aggiunge il celeberrimo “Autumn Leaves” porto con originalità, un brano della tradizione svedese e una composizione di Bach arrangiata dal contrabbassista.

Tra le altre recenti produzioni vi ricordiamo altri due album che ci sembrano particolarmente interessanti.

Il pianista Joachim Kühn è una delle punte di diamante del catalogo ACT. In questo “Love & Peace” appare in trio con Chris Jennings al basso e Eric Schafer alla batteria, impegnato su un repertorio di undici brani con ben sei pezzi scritti dallo stesso pianista, uno per parte dal batterista e dal bassista, cui si affiancano “Night Plans” di Ornette Coleman, un pezzo dei Doors e una composizione di Mussorgsky a ricordarci la sua formazione classica. La formazione è la stessa del precedente “Beauty & Truth” del 2016 e l’album in oggetto non aggiunge alcunché a quanto già non si conosca sulla statura artistica del pianista tedesco: un musicista completo, che fonda la sua arte su una solida preparazione di base e che ha percorso una luminosa e lunga carriera avendo costituito il suo primo trio già nel 1964. Ciò non toglie, comunque, che nel corso degli anni il settantacinquenne pianista di Lipsia abbia cambiato pelle nel senso che ad un pianismo strabordante, spesso virtuosistico ha sostituito un linguaggio più asciutto, un fraseggio meno funambolico e più attento all’espressività. Ne abbiamo molti esempi in alcuni brani di questo album come nel già citato pezzo di Coleman a conferma della grande stima che lega i due artisti. Coleman e Kuhn si incontrarono per la prima volta a Parigi nei primi anni 90, e fu l’inizio di una straordinaria relazione artistica; dopo il loro primo concerto in duo a Verona, Kuhn divenne l’unico pianista con il quale il sassofonista si esibiva regolarmente in duo. Altre esecuzioni di grande interesse la rilettura di “The Crystal Ship” dei Doors e la “lussureggiante” versione di “Le Vieux Chateau” da “Pictures From An Exhibition” di Modest Mussorgsky. Come Al solito eccellente il lavoro della sezione ritmica.

Unbreakable” della Nils Landgren Funk Unit vede la storica formazione del trombonista e vocalist Nils Landgren ‘rinforzata’ dall’innesto di solisti di livello quali il leggendario chitarrista di Detroit Ray Parker Jr., conosciuto ai più per il suo indimenticabile brano per il film Ghostbusters del 1984, e i trombettisti Randy Brecker e Tim Hagans. L’album, presentato in anteprima all’”XJazz Festival” del 2017, si colloca nel solco delle precedenti registrazioni effettuate dal gruppo, quindi un massiccio groove, una travolgente miscela di jazz e funk, nel segno di un esplosivo mix sonoro con una fortissima e trascinante carica ritmica. Il tutto declinato attraverso dieci brani tra cui “Stars In Your Eyes” di Herbie Hancock e “Rockin´After Midnight” di Marvin Gaye impreziosito dall’assolo di Randy Brecker. Il gruppo si muove con una intesa perfetta, cementata attraverso la lunga militanza, e more solito la mano del leader dal trombone rosso si fa sentire sia nella conduzione dell’ensemble, sia nella ripartizione tra pagina scritta e improvvisazione e quindi nel lasciare ai vari solisti un adeguato spazio per i relativi assolo. Un’ultima considerazione: ad evidenziare l’importanza dell’etichetta nella carriera di Nils Landgren, anche in questo album l’artista rivolge uno speciale ringraziamento a Siggi Loch e a tutto lo staff ACT per credere e supportare la sua musica.

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“Alfa Music” da oltre vent’anni sulla scena

Alfa Music ha ormai alle spalle ventiquattro anni di attività. L’ etichetta nasce nel 1990 per volontà di Fabrizio Salvatore e di Alessandro Guardia, soci fondatori. Inizialmente era solo uno studio di registrazione focalizzato verso il circuito romano. Successivamente, verso la metà degli anni ’90, la situazione si evolve e Alfa Music diventa vera e propria etichetta discografica che ad oggi vanta un catalogo particolarmente ricco ed importante. In quest’ambito si inseriscono le nuove produzioni che qui di seguito segnaliamo.

Le Valentine (al secolo Valentina Cesarini accordeon, bandoneon e Valentina Rossi voce) hanno registrato il cd “Recuerdo” dedicato al tango. Quanti seguono questa rubrica conosceranno la nostra passione per il tango, un genere che presenta una caratteristica peculiare: la capacità di raccontare delle storie, spesso amare, ma storie assai vicine alla realtà. A tutto ciò la rivoluzione di Astor Piazzolla ha aggiunto una carica di intenso pathos assai difficile da riprodurre. Di qui, a nostro avviso, una conseguenza logica: nell’esecuzione del tango la bravura nell’interpretazione, nel trasmettere un’emozione fa premio – e di gran lunga – sulla mera abilità, strumentale o vocale che sia. Ecco, partendo da questi parametri, il CD in oggetto non ci ha convinti appieno, ed è un peccato in quanto di elementi positivi ce ne sono. Innanzitutto la scelta del repertorio: undici tracce tra brani originali e riletture di grandi classici tra cui “Por una cabeza” di Carlo Gardel e il celeberrimo “Jealousy”, scritto da Jagob Gade nel 1925, fino ad arrivare ad Astor Piazzolla di cui vengono presentati “Yo soy Maria” con i testi di Horacio Arturo Ferrer, “Oblivion” con parole di Alba Fossati e “Che tango che music” con testi di Angela Denia Tarenzi. E poi la struttura dell’organico incentrata sul duo delle Valentine (Valentina Cesarini accordeon, bandoneon e Valentina Rossi voce) cui si affiancano Pierluca Cesarini, chitarra e Alessandro Aureli, flauto, cajon, percussioni. Ferma restando la bravura tecnica dei musicisti manca però qualcosa, manca quella capacità di trasmettere emozioni, pathos cui prima si faceva riferimento. E’ come se le due protagoniste si fossero preoccupate più di evidenziare le rispettive indubbie capacità che scavare nei brani proposti per carpirne l’intima essenza e restituircela irrorata dalla propria personalissima lettura.

E’ con vero piacere che vi presentiamo questo album inciso a quattro mani da Stefania Tallini e Cettina Donato e quindi giustamente intitolato “Piano 4Hands”. Spesso quando ci troviamo a recensire album di musicisti che conosciamo molto bene e con i quali c’è anche un rapporto di amicizia proviamo un certo imbarazzo e ci poniamo il problema se motivazioni di altro genere possano far premio su un giudizio equilibrato e il più possibile obiettivo. Bene, nel caso in oggetto non abbiamo alcuna difficoltà a dirvi che si tratta di un disco superlativo inciso da due artiste di grandi qualità dal punto di vista tecnico, esecutivo e compositivo. In programma undici pezzi di cui quattro di Cettina, sei di Stefania e uno di ambedue. I motivi che ci inducono a definire questo album “superlativo” sono molteplici. Innanzitutto il coraggio nell’incidere un CD composto da undici originali tutti suonati a quattro mani sulla stessa tastiera, organico tanto insolito quanto scivoloso (anche se ad onor del vero in un brano si ascolta il sempre straordinario clarinetto di Gabriele Mirabassi e in un altro la suadente voce di Ninni Bruschetta). Poi la straordinaria intesa che si è sviluppata tra queste due pianiste, compositrici, arrangiatrici, intesa cementata da un anno di studio, di concerti all’insegna di quell’idem sentire che costituisce una delle principali caratteristiche dell’album. Infine la grande “sapienza” musicale evidenziata dalle due. In questo album, senza che ne venga minimamente intaccata l’omogeneità, c’è davvero di tutto: un certo swing alla Bach (ci si perdoni l’accostamento), un richiamo pertinente al tango (“Minor Tango” e “Duotango”), la giocondità di fare musica (“Danza dei suoni” e “Ditty Duo”), la classe di Mirabassi che si appalesa cristallina e malinconica in “A Veva” di Stefania Tallini, l’irrequieto swing di “Tempus Fugit”, la delicatezza di “Amuri Miu” dolcemente cesellato in siciliano dall’attore Ninni Bruschetta che già da qualche tempo ha instaurato una felice collaborazione artistica con Cettina Donato, c’è la dolce chiusura di “Bluesy Prayer” che ci riconduce al jazz propriamente inteso…ma c’è soprattutto la piena consapevolezza di due artiste cha hanno voluto incontrarsi e fondere la loro arte in un unicum che, ne siamo sicuri, non mancherà di stupirvi.

Ancora diversa l’atmosfera che si respira con il Trio Filante di “Granchio senza scampo”. Non c’è dubbio, infatti, che questo trio sia ‘filante’ di nome e di fatto. ‘Filante’ nel senso che la musica scorre fluida, gradevole, dal primo all’ultimo istante, declinata sull’onda di una consolidata intesa (i tre suonano assieme da una decina d’anni), di melodie ben costruite (grazie alla penna di Francesco Mazzeo, chitarrista nonché autore di tutti i pezzi eccezion fatta per due standard “All The Things You Are” di Jerome Kern e “Someday my prince will come” di Frank Churchill proposta in una versione piuttosto originale) e di una forte pulsione ritmica tanto più stupefacente ove si tenga conto che nel trio mancano batteria e contrabbasso. In effetti Mazzeo è coadiuvato da altri due grandi musicisti che rispondono al nome di Davide Grottelli ai sax e Alessandro Gwis anch’egli compositore ma soprattutto pianista del famoso gruppo “Aires Tango”. Così i tre si ritrovano con estrema facilità lanciandosi in improvvisazioni che non è facile distinguere dalla pagina scritta. E ciò sia che il gruppo affronti brani sostenuti sia che ci si muova su atmosfere più intime, rarefatte. Si ascolti il brano d’apertura “Alici fritte dorate”, un tango finemente cesellato da Francesco Mazzeo e “Tutti i bambini dormono”, dall’andamento ondeggiante, in cui Gwis dà l’ennesima dimostrazione della sua versatilità con Grottelli e Mazzeo anch’essi impegnati in un centrato assolo. Il tutto comunque condito da una sottile ironia che si manifesta nei titoli sia dell’intero album sia dei vari brani, da “Alici fritte dorate” a “Telline affogate”, da “L’ora del vino” a “Gricia” fino al conclusivo “Tisana Live”.

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“Artesuono” valorizza i musicisti friulani

Negli ultimi decenni è successo di rado che una etichetta si identificasse, totalmente, con il suo creatore. E’ stato il caso della ECM (di cui parleremo nella prossima puntata) mentre in Italia l’unico caso è accaduto solo con “Artesuono”. Pronunciare questa parola significa, infatti, richiamare immediatamente la figura di Stefano Amerio, prestigioso artefice di suoni che venti anni fa lanciava l’ ”Artesuono Recording Studio” cui oggi si rivolgono i principali artisti e le più importanti etichette italiane e non solo dato che da alcuni anni è uno degli studi di riferimento della prestigiosa etichetta tedesca ECM. Da questa realtà è poi nata la casa discografica in oggetto. Oltre 170 album di artisti nati e cresciuti in Friuli, pubblicati per diffondere la grande tradizione musicale e artistica di questa Regione ed esportarla al di fuori dei confini regionali e nazionali. Tra le ultimissime produzioni ne abbiamo scelte tre che qui di seguito vi presentiamo.

Mauro Costantini Bus Horn Band – Volume 1” evidenzia come taluni strumenti siano strettamente legati ad un mood; così parlando dell’organo Hammond il pensiero corre immediatamente ad artisti come Keith Emerson, Booker T. Jones, Brian Auger, Tony Banks (Genesis), Billy Preston, Steve Winwood, Joey DeFrancesco, John Medeski e soprattutto James Oscar “Jimmy” Smith, musicisti assai diversi tra di loro ma tutti accomunati dalla fortissima carica ritmica, dal travolgente swing. Ovviamente anche questo album, non sfugge alla regola: Costantini è organista di eccellente livello, padrone dello strumento e perfettamente in grado di piegarlo alle sue esigenze espressive. Esigenze che si manifestano nel rileggere un repertorio del tutto originale, frutto del leader, in cui tuttavia si avvertono echi più disparati: dall’hard-bop, al soul, dal gospel al latin, dal funky allo swing…al pop il tutto porto con apparente semplicità senza alcuna pretesa né di sperimentazione né tanto meno di voler stupire alcuno. Ecco, probabilmente l’apparente semplicità è la miglior chiave di lettura per apprezzare questo album in cui tutti i musicisti sono perfettamente convinti della strada scelta riuscendo così ad assecondare il leader nelle sue scelte. Si ascolti, al riguardo, con quanta partecipazione venga eseguita la conclusiva delicata “After We’ve Gone” dedicata, come illustra lo stesso Mauro Costantini a “Rosanna e Oscar, genitori di un bambino autistico e alle loro dolorose riflessioni sul futuro”. E in chiusura pensiamo valga la pena citare i musicisti che suonano con Costantini: Luca Calabrese alla tromba,
Piero Cozzi sax alto e baritono, Miodrag Ragovic batteria e Federico Luciani percussioni.

Polyphonies” è l’album d’esordio del pianista e compositore friulano Emanuele Filippi alla testa di un nonetto in cui spiccano i nomi di Mirko Cisilino alla tromba e Filippo Orefice al sax tenore. Anche Filippi può vantare una solida preparazione di base avendo iniziato lo studio del pianoforte all’età di otto anni, e ottenuto i diplomi in pianoforte classico e jazz con il massimo dei voti al conservatorio “Jacopo Tomadini” di Udine. Successivamente si è trasferito a New York, dove attualmente vive e studia. Negli anni ha avuto modo di studiare e perfezionarsi con alcuni grandi del panorama internazionale tra cui: Glauco Venier, Michele Corcella, Fred Hersch, Kevin Hays, Bruce Barth. In questo suo primo album, Filippi evidenzia la sua discendenza dal mondo classico dal momento che, come evidenzia lo stesso titolo, le nove composizioni, di cui otto originali (composte in massima parte prima del trasferimento negli States), si rifanno alla musica corale polifonica, in particolare quella di Johann Sebastian Bach. Di qui una musica non facilissima ma ben costruita, ben arrangiata anche se alcuni passaggi avrebbero forse meritato un ulteriore approfondimento. Ma si tratta di peccati veniali tenendo conto che, come si diceva in apertura, si tratta dell’album d’esordio di Emanuele Filippi. Album che, non a caso, è uscito per l’etichetta “Artesuono Sketches”, la nuova linea di Stefano Amerio dedicata proprio alla giovane generazione di talenti locali e non.

In “Meraki” il contrabbassista trevigiano Marco Trabucco si presenta in quartetto con Federico Casagrande alla chitarra, Giulio Scaramella al pianoforte e Luca Colussi alla batteria. Ciò che caratterizza l’album è un’eleganza di fondo declinata attraverso sei composizioni originali del leader cui si affianca un brano della tradizione spagnola. Sin dalle primissime battute si avverte una profonda intesa tra i componenti il quartetto: in particolare se è Trabucco a dettare il clima generale con i suoi interventi sempre ottimamente calibrati (si ascolti il modo in cui introduce l’intero album) sono poi i suoi compagni d’avventura a completare l’opera. Ecco quindi la chitarra di Casagrande salire in cattedra e dialogare magnificamente con il contrabbasso di Trabucco; ecco Scaramella sciorinare un pianismo affascinante nella sua essenzialità (lo si ascolti tra l’altro in “Open Space”) mentre Luca Colussi è batterista completo sotto ogni punto di vista, colonna portante di molte delle sezioni ritmiche che si possono ascoltare nel nostro Paese. Così nella musica del gruppo – come sottolinea nelle note che accompagnano il CD, Enzo Pietropaoli – melodia, armonia e ritmo fluiscono liberamente, grazie al fatto che i quattro artisti posseggono allo stesso tempo esperienza e buon gusto che mettono al servizio della narrazione musicale

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“Auand”, il coraggio del Sud

La Auand Records è un’etichetta discografica di Bisceglie, in Puglia, fondata nel 2001 da Marco Valente. Il significato del nome vuol dire “agguanta” e “attento”; il logo, che è di colore verde e nero, rappresenta una mano con un buco nero in mezzo. Fin dagli inizi l’etichetta si è caratterizzata per la volontà di non seguire strade precostituite e di scovare nuovi talenti. E il risultato è stato ampiamente raggiunto: basti, al riguardo, ricordare il nome di Gianluca Petrella. Della Auand vi proponiamo tre produzioni.

Giovanni Guidi è oramai, a ben ragione, considerato uno degli artisti più rappresentativi del jazz made in Italy e questo “Drive” lo conferma appieno. Guidi suona in trio con Joe Rehmer al basso e Federico Scettri alla batteria, due musicisti di assoluto rilievo: Rehmer si è fatto le ossa suonando con musicisti come Gianluca Petrella, Fabrizio Sferra e Dan Kinzelman, mentre Federico Scettri può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Paolo Fresu, William Parker e Francesco Bearzatti. Insomma tre personalità molto spiccate che si sono riunite dando vita ad un album la cui cifra stilistica è costituita da un’improvvisazione che si evidenzia nel modo in cui i tre interagiscono. Basta un soffio, una nota, un accordo lanciati lì e da quel punto si riparte per una nuova avventura, una nuova esplorazione verso terreni prima sconosciuti. Ma c’è un altro elemento che connota fortemente l’album: la voglia di Guidi di abbandonare quelle concezioni estetiche che si riscontrano, ad esempio, nei suoi lavori targati ECM, per cercare un suono più aspro, magmatico, meno ovattato. Di qui la scelta di abbandonare il pianoforte acustico a favore del piano elettrico e tastiere e di ricorrere ad un particolare montaggio dei suoni in fase di postproduzione. Risultato: come si accennava eccellente Anche perché Guidi e compagni, pur evidenziando una profonda conoscenza di quel jazz elettrico degli anni’70 che li ha sicuramente influenzati, sono riusciti ad andare avanti per una strada che è tutta loro, affatto personale.

Right Away” è un album in trio con il reggino Giampiero Locatelli al pianoforte (anch’egli al disco d’esordio), Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria. In programma otto originali del leader (classe 1976) che evidenzia una buona maturità sia esecutiva sia compositiva. In effetti l’album si fa ascoltare per più di un motivo; innanzitutto la valenza delle composizioni, tutte piuttosto ben strutturate con un giusto equilibrio tra scrittura e improvvisazione e un’armonizzazione complessa a sottolineare la buona preparazione di Locatelli, musicista di estrazione prevalentemente classica, con significative esperienze anche in campo concertistico. In secondo luogo il trio evidenzia un sound del tutto particolare, assai moderno, declinato attraverso un mutare di atmosfere per cui si passa dal clima energetico, materico di forte tensione (si ascolti “Fizzle, Deed Slow, Whistle” e “Right Away”) a pezzi più meditativi come “Path” (splendido nell’occasione il fraseggio di Locatelli), a brani decisamente inquietanti ma coinvolgenti (“Toward Backward” impreziosito da un assolo di Evangelista) fino alla struggente delicatezza di “From The Last Frame”, probabilmente il brano meglio riuscito dell’intero album. Da sottolineare ancora il gran lavoro svolto da Evangelista e Morello che sono risultati determinanti per la riuscita dell’album che in ultima analisi soddisferà non solo gli passionati di jazz.

Frank Martino, Level2 Chaotic Swing”. Il chitarrista Frank Martino si presenta con il suo Disorgan Trio, pianista Claudio Vignali, batterista Niccolò Romanin. Un cognome, il suo, che ricalca quello del grande Pat Martino, ma lo si ricorda solo per un calembour: Pat è jazzista cool, Frank è cool nel senso che è di tendenza, con la sua innovante musica “disorganica”. Sentendolo eseguire “Magnificient Stumble2” di Venetian Snares si potrebbe semmai pensare a certi esperimenti avanzati di Robert Fripp e della sua Lega di chitarristi…Sará/è l’uso di una otto corde, con contorno di live electronics, strumento che consente di ottenere armonizzazioni più ampie, accordi più pieni, arpeggi più estesi, melodie più espanse, echi più ridondanti, ed il brano T”he Glass Half” ne è forse l’esempio più palese! Altra cosa da rimarcare è quella di una formazione abbastanza “classica” ma che esprime suoni neo/postmoderni quasi a voler immettere un proprio DisOrdine nel caos across the universe. Sono sette su nove (l’altro brano non originale è Waltz For Debbie di Evans) composizioni a firma Vignali-Martino a dare saggio di cosa si intenda per Chaotic Swing: un approccio ad elevato tasso elettronico, per come già traspariva nel precedente cd ‘Revert’, che punta ad un sound “trattato”, proiettato verso possibili traiettorie di un jazz futuribile, per uno swing avvolto dal flusso di rumori e sonorità di una società mutante. Dove la musica non può che esserne parziale rappresentazione. (recensione di Amedeo Furfarto)

Grande Jazz alle pendici dell’Etna

Pochi giorni fa sottolineavamo come durante l’estate l’Italia si trasforma, magicamente, in una sorta di patria del jazz con festival che si svolgono lungo tutto l’arco dello stivale, dalle Alpi fino alla Sicilia. Ed è proprio su un festival siciliano che desideriamo focalizzare la nostra attenzione. Si tratta del “Puntalazzo Jazz Festival” giunto alla sua quarta edizione, in programma dal 24 luglio al 9 agosto.

Lo scenario è davvero straordinario, da mozzare il fiato: siamo alle pendici dell’Etna, in una grotta lavica nel territorio di Puntalazzo di Mascali, in provincia di Catania. Anche questa rassegna presenta quelle caratteristiche che ne fanno un evento di grande interesse vale a dire la valorizzazione di artisti siciliani che si alterneranno con grandi firme del jazz internazionale, e l’invito a conoscere ed apprezzare le bellezze naturali e culturali di un territorio quanto mai ricco di suggestioni non solo musicali.

Tra gli appuntamenti di maggior rilievo il 28 luglio un progetto molto significativo dal titolo suggestivo: “Gli affreschi del mio Giardino” spettacolo di multi progettualità con

musica di Rosalba Bentivoglio, la vocalist catanese conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo, poesia e danza su liriche di Emily Dickinson, ideato dalla stessa Bentivoglio, prodotto e diretto da Enrico Guarrera. Assieme alla Bentivoglio sul palco Valerio Rizzo, pianoforte, Samyr Guarrera sax soprano, samflute, sax midi, Andrea Liotta tamburi, Valeria Geremia danza Butho, Emanuele Primavera batteria, Carmelo Venuto contrabbasso.

La rassegna jazz, vedrà al suo interno, nei giorni 3/4/5 agosto un workshop di Canto Jazz, organizzato dalla stessa associazione che cura il festival la “Puntalazzo Open Art”

sotto la guida di Gigi Monterosso, il quale per l’occasione ha invitato a tenere il corso alla Lady del Jazz siciliano, la già citata Rosalba Bentivoglio che detiene la cattedra di Canto Jazz nello storico Conservatorio “A. Corelli” di Messina e già al Conservatorio “V. Bellini” di Palermo, e il “D. Cimarosa” di Avellino.

Ma diamo uno sguardo più da vicino al cartellone

Si parte il 24 luglio con l’Orchestra Jazz del Conservatorio A. Corelli di Messina diretta da Giovanni Mazzarino con la voce di Rosalba Bentivoglio.

Il 26 luglio il trio del pianista Giampiero Locatelli con Gabriele Evangelista contrabbasso e Enrico Morello batteria

Il 28 luglio il già citato spettacolo “Gli affreschi del mio Giardino”, preceduto da un dibattito sulla situazione del jazz, in particolare al femminile, determinato dalla presentazione del volume del sottoscritto “L’altra metà del jazz”.

Il 30 luglio il Perfect Trio del batterista Roberto Gatto con Alfonso Santimone pianoforte, piano elettrico ed elettronica e Pierpaolo Ranieri basso elettrico.

I1 agosto “Espresso Roma-Catania”, un progetto di musicisti siciliani nato nel 2006 da un’idea del sassofonista Cristiano Giardini e del pianista Andrea Beneventano, con Carmelo Venuto al contrabbasso e Ruggero Rotolo alla batteria, feat. Mattia Cigalini, al sax.

Il 4 agosto “My Jazzy Accordion”, il nuovo spettacolo del fisarmonicista siciliano Roberto Gervasi, il cui intento è omaggiare questo strumento nel Jazz, ispirandosi a grandi maestri come Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Bud Powell e il mentore fisarmonicista Frank Marocco. Il trio è completato da Gabriele Lomonte alla chitarra e Davide Inguaggiato al contrabbasso.

Il 7 agosto “Remembering Art Blakey & The Jazz Messengers” progetto con cui il sestetto del batterista Paolo Vicari rende omaggio al celebre batterista americano, bandleader, e icona dell’hard bop e alla sua storica formazione dei “Jazz Messengers”. Assieme a Vicari, Giacomo Tantillo alla tromba, Francesco Patti al sax tenore, Salvatore Nania al trombone, Valerio Rizzo al pianoforte e Stefano India al contrabbasso.

Il 9 agosto chiusura d’eccezione con un duo di gran classe: Mauro Schiavone al pianoforte e Francesco Cafiso al sax.

I NOSTRI CD. Tanta buona musica da ascoltare in vacanza

Aca Seca Trio – “Trino” – Sud 019

Sotto l’insegna di “Aca Trio” ecco tre straordinari musicisti argentini: Juan Quintero (chitarra, voce), Andrés Beeuwsaert (piano, tastiere, voce) e Mariano Cantero (batteria, percussioni, voce). I tre suonano assieme da quando nel 1998 si incontrarono all’Università de La Plata. Dal 2000 iniziano ad esibirsi in varie località dell’Argentina e del Brasile, ma anche in Cile, Cina, Ecuador, Spagna, Stati Uniti, Francia, Giappone, Italia, Uruguay e Venezuela, dividendo la scena con importanti artisti quali, a mo’ di esempio, Pedro Aznar, Ivan Lins e Javier Malosetti. I loro successi di carattere internazionale si devono, soprattutto, ad alcune caratteristiche ben precise: innanzitutto la valenza di tutti e tre i musicisti, in secondo luogo la felicissima scelta del repertorio. In effetti oggi quando si parla di musica argentina si pensa immediatamente al tango, senza considerare che viceversa nel grande Paese sudamericano ci sono ben altre musiche. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che si rivolge il Trio Aca Seca; ma non basta ché la loro musica spazia anche al di fuori dell’Argentina passando attraverso il Brasile e l’Uruguay, ovvero il jazz, la bossa nova, il folklore più autentico Il risultato è un repertorio molto vasto e di grande fascino che è stato sufficientemente declinato nei precedenti album e che trova, in quest’ultimo “Trino”, probabilmente la sua migliore espressione. Dieci brani che confermano appieno l’originale cifra stilistica del trio che evidenzia una perfetta empatia ovvero la capacità di ogni singolo musicista di ascoltare chi gli sta accanto e soprattutto di saper sviluppare qualsivoglia impulso ritmico, melodico, armonico che gli venga fornito. Una musica alle volte dal sapore antico declinata però con modernità grazie, soprattutto, all’incredibile sostegno ritmico di Mariano Cantero, probabilmente la punta di diamante della formazione. Tra i brani, tutti gradevoli, la nostra personalissima preferenza va a “Formas” dell’uruguaiano Hugo Fattoruso, riletto in modo assai personale.

Julian Cannonball Adderley – “Them Dirty Blues” – Jazz Images 24738

Siamo tra gli anni ’50 e ’60 e Julian Cannonball Adderley attraversa uno dei periodi più felici della sua vita artistica: ha appena inciso “Milestones” e lo storico “Kind of Blue” nel super gruppo di Miles Davis regalando alla storia del jazz il memorabile assolo di “So What”; contemporaneamente incrementa la sua attività di band leader costituendo gruppi di assoluta eccellenza. L’album in oggetto testimonia proprio questa attività di leader facendoci riascoltare l’alto sassofonista alla testa di due differenti gruppi: il primo con il fratello Nat alla cornetta, Barry Harris o Bobby Timmons al pianoforte, Sam Jones al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria, il secondo con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers o Percy Heath al basso, Jimmy Cobb o Albert Heath alla batteria. E già questa semplice elencazione di nomi credo la dica lunga su che tipo di musica si ascolta. Siamo nell’ambito di un jazz che più canonico non si può, impreziosito sia dalla bellezza dei temi sia dalla bravura di ogni singolo musicista, con il leader in testa capace di inanellare una serie di splendidi assolo, uno più convincente dell’altro, sempre sorretti da una estrema fluidità, da un suono allo stesso tempo leggero ed energico, di assoluta originalità che poneva Cannonball su un piano già diverso rispetto ai sassofonisti che avevano dato vita alla rivoluzione del bop. Quanto al repertorio ecco alcune perle oramai considerate classici del jazz: intendo riferirmi soprattutto a “Work Song” di Nat Adderley e “Dat Dere” di Bobby Timmons, pianista che nello stesso periodo stava ottenendo uno strepitoso successo con il brano “Moanin” inciso con i Jazz Messengers di Art Blakey. Ma è tutto l’album che si ascolta con estremo piacere; tra gli altri brani in programma una particolarissima menzione per “Serenata” il suggestivo brano scritto da Leroy Anderson che ebbe l’onore di essere eseguito in prima assoluta il 10 maggio del 1947 dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler.

Chico Buarque – “Caravanas” – Biscoito Fino 248

E siamo a quota quarantotto: tanti sono gli album inciso da Chico Buarque nell’arco di una lunga e prestigiosa carriera che lo ha visto spesso in prima linea anche dal punto di vista sociale e politico. All’età di 73 anni sfodera questo “Caravanas” che si impone immediatamente per la delicatezza con cui il cantautore brasiliano presenta la sua musica anche quando, come suo solito, affronta tematiche non proprio semplici. E’, ad esempio, il caso della title track in cui la “caravana” è costituita dai molti giovani neri che, a bordo di autobus ricolmi, si riversano nelle zone della classe media a Rio de Janeiro; splendida la musica, significativo il testo impreziosito da una frase – “Filha do medo a raiva é mãe da covardia”, “figlia della paura, la rabbia è la madre della codardia” che ci fornisce un’iea abbastanza precisa di quale sia il clima che si respira oggi in Brasile. Ma è tutto l’album intriso di riferimenti al sociale: così nella parte finale di “Dueto”, canzone già registrata nel 1980 da Chico Buarque con Nara Leão, e qui eseguita con la nipote Clara con un nuovo arrangiamento più vicino al jazz, viene inserito un esplicito riferimento alle varie app su cui si costruiscono i nuovi amori, da Tinder a Whatsapp fino a Telegram; ancora in “Jogo de bola” il gioco del calcio, da sempre passione di Chico, viene evocato come metafora per invitare il mondo ad una maggiore concordia mentre in “Blues pra Bia” viene trattato quasi in punta di piedi, con grande delicatezza, l’amore omosessuale. Ma, se tutto questo concerne i testi, ciò non significa che la musica passi in secondo piano. Buarque rimane un grandissimo musicista e la sua voce, in unicum con la chitarra, riesce ad essere sempre moderna, attuale, per non parlare della raffinatezza insita in taluni arrangiamenti come quello di
“A Moça do Sonho”, composto a quattro mani con Edu Lobo, in cui la scena è lasciata a una chitarra classica e a qualche contrappunto di violoncello sì da lasciare campo libero al canto ispirato di Buarque. Ciò detto resta comunque un appunto da muovere all’album: è troppo breve e lascia l’ascoltatore come insoddisfatto, desideroso di qualcos’altro che purtroppo non arriva…. Ma forse è meglio questa brevità che l’insulso sbrodolarsi di chi ha poco o nulla da dire.

Francesco Cafiso Nonet – “We Play For Tips” – EFLAT

Quello del rapporto tra musicisti e case discografiche è un problema che va assumendo toni sempre più preoccupanti: da un canto i jazzisti lamentano il fatto che incidere un disco viene a costare troppo, dall’altro le case discografiche rispondono che oramai i dischi non si vendono. Insomma un bel ginepraio che non escludiamo di approfondire prossimamente. Intanto, tornando all’attualità alcuni musicisti preferiscono creare una propria etichetta indipendente: è il caso del sassofonista siciliano Francesco Cafiso che ha creato una propria etichetta, la “E FLAT”. Questo “We play for tips” (distribuito da Egea Music) ne è la prima realizzazione e se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino allora è facile prevedere per la nuova arrivata un futuro più che roseo.
Cafiso si presenta alla testa della sua nuova formazione, un nonetto completato da Marco Ferri sax tenore, clarinetto; Sebastiano Ragusa sax baritono, clarinetto basso; Francesco Lento e Alessandro Presti tromba, flicorno; Humberto Amésquita trombone; Mauro Schiavone pianoforte; Pietro Ciancaglini contrabbasso; Adam Pache batteria. In programma dieci composizioni dello stesso Cafiso registrate live nel giugno del 2017 durante il Vittoria Jazz Festival di cui Cafiso è direttore artistico. Come afferma lo stesso sassofonista nelle note che accompagnano l’album, questo CD rappresenta un’estensione del precedente album “20 Cents Per Note” (2015) e racconta alcune delle esperienze vissute tra cui un viaggio di un mese a New Orleans. In effetti il titolo del disco fa riferimento alla scritta che i musicisti di strada di New Orleans portavano sul loro cappello per chiedere la mancia. Insomma la musica che si ascolta è fortemente ancorata al jazz nella sua accezione più completa del termine, quindi, swing, blues, arrangiamento, improvvisazione. Non a caso due brani – “Blo-Wyn’” e “Pops’ Character” – sono dedicati rispettivamente a Wynton Marsalis (artista legato a Cafiso da una profonda amicizia) e Louis Armstrong. Insomma una vera manna per chi ama un certo tipo di jazz lontano dagli sperimentalismi ma non per questo banale, tutt’altro! Si ascolti con quanta perizia tutti i musicisti eseguano i loro assolo e si apprezzi la qualità degli arrangiamenti curati da Cafiso e Schiavone che fanno suonare il nonetto come una vera e propria big band memori delle lezioni di alcuni grandi del passato.

Emanuele Cisi – “No Eyes” – Warner Music

Come recita il sottotitolo “Looking at Lester Young” l’album è un omaggio che il sassofonista italiano ha voluto tributare ad uno dei grandi geni del jazz, Lester Young.
Ad accompagnarlo in questa non facile impresa il pianista e trombettista Dino Rubino, il contrabbassista Rosario Bonaccorso, il batterista Greg Hutchinson e la vocalist Roberta Gambarini. Il repertorio si articola su undici brani di cui tre a firma di Cisi e otto tratti dal grande songbook statunitense. Impresa difficile, si diceva, sia perché Lester è stato artista fondamentale per l’evoluzione del jazz sia perché, assieme a Coleman Hawkins, può a ben ragione essere considerato l’inventore del sax tenore nel jazz; suonava, quindi, lo stesso strumento di Cisi per cui il raffronto è ravvicinato e inevitabile. Fermo restando che l’arte di Young risulta ancora oggi ineguagliabile (né credo che Cisi abbia per un solo attimo pensato di eguagliare il maestro) l’album risulta apprezzabile e per più di un motivo. Innanzitutto il sincero trasporto con cui Cisi ha voluto rendere omaggio a “Prez” evidenziato sia nelle modalità esecutive, sia nel far ricorso prevalentemente a brani o scritti e portati al successo dallo stesso Young o a lui dedicati, sia, infine, nella scelta dei testi tratti liberamente da un poema di David Meltzer. In effetti “No Eyes” ha un triplice significato: nel particolare linguaggio adoperato da Lester significava “non mi interessa”, è il titolo di un celebre blues inciso dal sassofonista nel 1946 ed infine, come accennato, è il titolo di un poema scritto da David Meltzer e ispirato all’ultimo anno di vita di Young che morì a soli 50 anni nel 1959. E crediamo non a caso Cisi abbia scelto di aprire l’album con questo brano da lui composto, particolarmente significativo per i motivi suddetti. Di qui il CD si sviluppa lungo le direttrici dettate dal leader che non si risparmia di certo prendendo significativi assolo in ogni brano sempre sorretto dal pianismo discreto ma essenziale di Rubino (che si esprime benissimo anche al flicorno in “Tickle Toe” e soprattutto in “Jumpin’ With Symphony Sid”) e da una sezione ritmica semplicemente magistrale con un Bonaccorso che sa far cantare il suo strumento come pochi e con un Hutchinson in grado di conferire ad ogni brano una precisa ed originale carica ritmica non disgiunta da una timbrica ricercata (lo si ascolti con quanta e quale dovizia dialoga con il sax di Cisi in “Jumpin’ at the Woodside”). Roberta Gambarini si conferma vocalist di squisita sensibilità ben adatta a tradurre in musica le intuizioni di Cisi il quale con questo album crediamo abbia raggiunto uno dei punti più significativi della sua poetica.

Elina Duni – “Partir” – ECM 2587

Conoscevamo Elina Duni per i due precedenti album incisi sempre per la ECM con il suo quartetto, “Matanë Malit” (Beyond the Mountain), un omaggio musicale al suo Paese natale l’Albania del 2012 e “Dallëndyshe” (The Swallow) del 2015. Per questo terzo album – registrato negli Studios La Buissone nel sud della Francia nel luglio 2017 – la vocalist ha cambiato decisamente strada e si presenta da sola accompagnandosi con il pianoforte, la chitarra e le percussioni. Qui il terreno prettamente jazzistico è abbandonato per approdare su sponde più intimistiche, alla riscoperta di un patrimonio musicale che affonda le sue radici nelle tradizioni di diversi Paesi. Ecco, quindi musica tradizionale dell’Albania, del Kosovo, dell’Armenia, della Macedonia, della Svizzera e dell’Andalusia cui si affiancano brani cantautorali quali “Je ne sais pas” di Jacques Brel, “Meu Amor” di Alain Oulman, “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno e un originale della stessa Duni. Insomma un repertorio quanto mai variegato e difficile da eseguire mantenendone una certa omogeneità, tanto più che l’artista lo presenta in nove differenti lingue. Ebbene la Duni è riuscita nell’intento grazie ad alcune doti di fondo che in questa occasione è riuscita ad esprimere appieno: innanzitutto una grande sensibilità musicale che le consente di transitare da un brano all’altro, seppur differenti, con estrema naturalezza senza denotare sforzo alcuno; in secondo luogo un’eccellente preparazione tecnica sia vocale sia strumentale per cui l’interpretazione appare sempre ben calibrata, grazie anche agli arrangiamenti essenziali ma funzionali. Scegliere qualche brano da segnalare in modo particolare è piuttosto difficile, tuttavia vi invitiamo ad ascoltare con particolare attenzione il brano di Modugno in quanto sicuramente lo conoscete e potrete quindi meglio apprezzare la valenza interpretativa della Duni.

Duke Ellington – “Due Ellington meets Coleman Hawkins” – Poll Winners Records 27365

Siamo nei primissimi anni ’60, per l’esattezza nel 1962 e Duke Ellington macina musica straordinaria sia alla testa della sua celebre big band sia a capo di piccole formazioni com’è il caso di questo splendido album. Questa volta a coadiuvare il Duca c’è un quintetto di straordinari musicisti quali Aaron Bell contrabbasso, Harry Carney clarinetto basso e sax baritono, Johnny Hodges sax alto, Ray Nance violino e cornetta,
Sam Woodyard batteria. Tutti insieme incontrano un altro grande del jazz quale il tenorsassofonista Coleman Hawkins per dar vita ad uno splendido album che a ben ragione è stato adesso ristampato con l’aggiunta di cinque bonus tracks registrati da diverse band tra il 1955 e il 1962 in cui il sassofonista si misura con alcuni brani di Ellington inclusa “The Star Crossed Lovers” dalla suite Shakesperiana “Such Sweet Thunder” raramente sentita – come spiega Arnold Marcus nelle note di copertina – nell’interpretazione di Coleman Hawkins Inutile negarlo: ascoltando questi brani, a chi come il sottoscritto ha superato gli ‘anta’ (quali fate un po’ voi) un attacco di nostalgia è inevitabile. Ma è solo un momento ché subito dopo ci si riprende e si ascolta il tutto con la solita attenzione. E alla fine dell’album resta impressa la sensazione di aver ascoltato qualcosa di formidabile. Merito di Coleman Hawkins che ha saputo integrarsi magnificamente nelle atmosfere disegnate da Ellington, ma egualmente merito del Duca che ancora una volta riesce a far suonare i “suoi” musicisti al meglio delle loro possibilità: si ascolti il puntuale sostegno ritmico di Sam Woodyard, si ascolti il sofisticato dialogo tra gli altri due sassofoni partecipanti alla registrazione, Johnny Hodges e Harry Carney. Insomma se ancora non possedete questo album, è il caso che corriate a comprarlo.

Claudio Fasoli Samadhi Quintet – “Haiku Time” – abeat 178

Che Claudio Fasoli sia uomo di vasta cultura, al di là del fatto squisitamente musicale, lo dimostra anche la particolare sensibilità che pone nell’intitolare i suoi album. Così per quest’ultimo ha fatto ricorso al termine giapponese “Haiku” – componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo di particolare brevità – ad indicare lo specifico intendimento di presentare undici brani caratterizzati da estrema sobrietà non solo nella dimensione temporale ma anche nella durata degli assolo e negli stessi titoli. Di qui un comunicare emozioni che risulta diretto, senza orpelli, tutto affidato alla valenza della musica e alla bravura dei musicisti. Questi, grazie alla sapiente scrittura del leader, hanno la possibilità di esprimersi pienamente sia in assolo sia negli episodi d’assieme evidenziando un grado d’affiatamento davvero notevole. D’altro canto la formazione è ben rodata: Michael Gassmann tromba e flicorno, Michelangelo Decorato piano, Andrea Lamacchia contrabbasso e Marco Zanoli batteria li avevamo già incontrati nel precedente album di Fasoli “Inner Sounds” del 2016. La musica, quindi, può dipanarsi facilmente transitando dalle semplici enunciazioni dei brani allo sviluppo degli stessi affidato soprattutto ai due fiati con Decorato impegnato a cucire il tutto, portando ad unità i mille dettagli, le mille sfaccettature contenute nella musica di Fasoli. Ed è questa una sensazione che si coglie evidente sin dalle primissime note dell’album, quando il tema di “Fit” viene introdotto dalla tromba di Gassmann e poi sviluppato dal sax del leader. Ma come si accennava c’è spazio davvero per tutti: si ascolti, ad esempio, con quanta musicalità Andrea Lamacchia fa vibrare il suo strumento nell’assolo di “Bag” mentre la batteria di Zanoli si pone in particolare evidenza nell’introdurre il tema di “Dim”. Dal canto suo Fasoli non si risparmia facendosi apprezzare in ogni singolo brano sia come autore sia come interprete. Ma non scopriamo certo l’acqua calda affermando che Claudio oramai da tempo è da considerare uno dei migliori sassofonisti che il jazz internazionale possa vantare.

Maurizio Giammarco Syncotribe – “So To Speak” – 2plet Records

“Syncotribe” è la formazione varata dal sassofonista Maurizio Giammarco con Luca Mannutza all’organo e Enrico Morello alla batteria e live elctronics. La formula del trio sax, organo, batteria non è certo nuova nell’ambito del jazz internazionale e nazionale: così ricordiamo il trio del sassofonista James Carter con Alex White batteria e Gerard Gibbs organo, mentre, per restare nell’ambito dei nostri confini vanno citate le esperienze di Nevio Zaninotto (sax tenore, soprano) con Renato Chicco (organo Hammond) e Andy Watson (batteria) e dell’altro sassofonista Max Ionata con Luca Mannutza all’organo e Adam Pache alla batteria. Ma Giammarco è musicista troppo intelligente, personale ed inventivo per ripercorrere strade già battute. Ecco quindi una scrittura (i brani sono tutti suoi ad eccezione di “Decoy” di R. Irwing III) che declina il trio nell’ambito di un jazz moderno molto, molto lontano dalle classiche sonorità dell’organ trio solitamente vicine al funky e/o al soul. Ecco quindi il sassofono di Giammarco librarsi con la solita levità e sicurezza a disegnare ampie volute sempre caratterizzate da un sound robusto, asciutto, personale mentre i compagni d’avventura
si rendono essi stessi protagonisti del progetto. Si ascolti con quanta maestria la batteria di Morello dialoga con il sax di Giammarco nel già citato “Decoy” mentre Mannutza dimostra di conoscere appieno le potenzialità dello strumento sia che accompagni sia che si produca in assolo: lo si ascolti, ad esempio, in “Nueva vista”… ma si può ben dire che il suo apporto si avverte distintamente in ogni singolo brano. Un’ultima notazione non secondaria: i tre musicisti che si ascoltano nell’album appartengono a tre diverse generazioni eppure riescono a dialogare con la massima libertà ed empatia a dimostrazione di come davvero il jazz sia un linguaggio universale, che non conosce barriera alcuna.

Simone Graziano – “SnailSpace” – Auand 9073

Periodo decisamente positivo per il pianista fiorentino Simone Graziano che nell’aprile del 2017 ha inciso questo album e il 2 maggio del 2018 è stato eletto presidente del MIDJ, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz. Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire l’album. Per questa sua quinta fatica discografica, Simone Graziano (pianoforte, synth e fender rhodes) si ripresenta in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e sintetizzatore e Tommy Crane alla batteria. E’ lo stesso leader ad illustrare, nelle poche note di presentazione, il significato del titolo “A passo di lumaca”: non una lentezza in quanto tale ma una concezione secondo cui la lentezza non si riferisce tanto ad uno spazio temporale quanto al tempo necessario per capire dove si vuole andare, per scoprire la propria creatività, per coltivarla e condurla a risultati importanti. Ed in questo senso l’album appare perfettamente coerente: il trio si muove lungo coordinate non nuovissime ma di certo non banali. Intendo riferirmi all’uso intelligente e misurato dell’elettronica, alla ricerca di una timbrica particolare, alla raffinatezza della linea melodica, all’attenzione per i dettagli, alle modalità sempre misurate con cui si esprime la sezione ritmica. Tutte queste caratteristiche si evidenziano lungo tutto l’album (nove brani di cui ben otto a firma del leader) ma trovano forse la loro più completa estrinsecazione in “Aleph 3”: il brano si apre in territorio d’ispirazione hip-hop dopo di che entra in gioco l’elettronica per trasportare il pezzo in territori più arditi grazie anche alla batteria di Tommy Crane; dopo qualche minuto le atmosfere si fanno più rarefatte, quasi un jazz da camera, con in evidenza piano e synth che ci conducono verso un epilogo non scontato.

Pino Jodice – “Infinite Space” – Cose Sonore 18024

Pino Jodice è artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, di assoluto livello sia che si esprima come pianista, come compositore, come arrangiatore, come direttore d’orchestra o come docente di Composizione jazz presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. In questo ‘concept’ album lo ritroviamo nella classica formazione del trio coadiuvato da Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, con l’aggiunta di Andrea Centrella al live electronics. Una formazione, quindi, di eccellenza su cui non c’è bisogno di ulteriori parole. Di parole ne merita, invece, e tante la musica dell’album, nove brani tutti dovuti alla penna del leader. Il titolo del CD richiama, esplicitamente, una certa visione dell’artista che rivolge il suo sguardo verso l’alto come a volersi distaccare dalle miserie, dalle angosce che affliggono l’esistenza umana. Insomma la musica come una sorta di redenzione ma nello stesso tempo di ricerca: non a caso lo stesso Jodice dedica l’album a Stephen Hawking e Margherita Hack il cui approccio e passione per la ricerca e le relative capacità di divulgazione rappresentano per Jodice un modello da seguire nella ricerca musicale, nella composizione e nella divulgazione di questa materia. Ecco, quindi, che Pino ci prende per mano e partendo dal decollo dell’Apollo 1 ci invita a seguirlo in questo fantastico viaggio. Ora, quando un album parte da un enunciato così esplicito, la musica non sempre riesce ad essere coerente con le parole. Bisogna, in questo caso, dare atto a Jodice di aver saputo declinare la sua ansia di “osservare lo straordinario spettacolo del cosmo” (per usare le sue parole) con una musica che effettivamente richiama questi concetti. Una musica, quindi, di ampio respiro che scorre fluida in tutti e nove i brani, tutti composti dal leader, in cui Jodice evidenzia da un lato la sua sapienza compositiva, mai banale e sempre originale, dall’altro le grandi, grandissime capacità esecutive che a mio avviso lo collocano tra i più grandi pianisti jazz non solo italiani. Il tutto impreziosito dal lavoro di Pirozzi e Pietro Iodice a costituire una delle più affiatate formazioni che il jazz italiano possa vantare, e la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che questi tre musicisti suonano assieme oramai da più di vent’anni. Tutt’altro che marginale, infine, il ruolo di Andrea Centrella.

Reis Demuth Wiltgen – “Once In A Blue Moon” – Cam Jazz7926-2

E’ un trio jazz senza se e senza ma quello che ascoltiamo in questa nuova produzione targata Cam Jazz: Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria si misurano su un terreno usato (e fors’anche abusato) qual è quello del trio pianoforte più sezione ritmica. Di qui da un lato l’impossibilità di attendersi qualcosa di trascendentale dati gli illustri precedenti, dall’altro, però, la possibilità di ben valutare l’artista proprio perché i termini di paragone sono innumerevoli. Ebbene, partendo da questa duplice considerazione, occorre sottolineare come questo trio lussemburghese se la cavi più che bene grazie soprattutto alla bravura di ogni singolo musicista. Reis è pianista ben preparato, che si muove con agilità lungo tutta la tastiera evidenziando una spiccata propensione per la linea melodica senza però disdegnare momenti di più forte incisività come in “Push”. Demuth è batterista musicale e raffinato (si ascolti il suo gioco di spazzole in “22 May 15”) che riesce a dialogare sempre con estrema pertinenza con i colleghi di viaggio mentre Wiltgen è bassista poco appariscente ma solido nel sottolineare i momenti fondamentali del disegno armonico. Il tutto condito da una profonda empatia che lega i tre musicisti e che si respira lungo tutto l’arco del CD declinato su 13 brani di cui 12 originali cui si affianca “Both Sides Now” di Joni Mitchell. E proprio il rifacimento di questo brano rappresenta uno dei momenti clou dell’album: introdotto da un centrato assolo del bassista, cui si affianca dopo quaranta secondi la batteria, il brano viene sviluppato da un intenso dialogo tra contrabbasso e pianoforte, quest’ultimo impegnato in un assolo di rara poesia, tutto giocato su note singole a voler evidenziare la bellezza del tema. Altra esecuzione particolarmente riuscita è quella di “Dante” caratterizzata da un originale andamento ritmico,

Antonio Sanchez – “Bad Hombre” – CamJazz 7919-2

“Channels of Energy” – CamJazz 79922-2

Non si può certo dire che il batterista Antonio Sanchez si risparmi: eccolo infatti protagonista di un singolo -“Bad Hombre”- e di un doppio CD -“Channels of Energy”- ambedue pubblicati da CamJazz. I due album sono molto diversi dal momento che mentre nel primo Sanchez è il vero e proprio ‘deus ex machina’ essendo l’unico protagonista (scrive la musica, l’arrangia, la esegue con batteria, tastiere, electronics e voce), nel secondo è inserito in un contesto assai più vasto rappresentato dalla WDR Big Band arrangiata e condotta da Vince Mendoza. Ma procediamo con ordine; dopo la felice esperienza di autore ed esecutore della colonna sonora di “Birdman” film che tutti ricorderanno per la sua particolarità e per la straordinaria interpretazione di Michael Keaton, Sanchez si cimenta con questo “Bad Hombre”, che, come confessato dallo stesso artista, rappresenta “un progetto sperimentale nel senso che si distacca completamente da tutto ciò che ho fatto in precedenza come batterista, compositore, produttore”. Ma non è il solo obiettivo dal momento che Sanchez si prefigge altresì da un canto di rispondere in qualche modo al senso di frustrazione che cresce in lui a causa dell’attuale situazione politica degli States, dall’altro di rappresentare in musica le sue origini messicane. Di qui un pastiche di batteria, strumenti elettronici, fondali creati a posteriori, suoni alterati che volutamente non frequentano i territori della superficiale godibilità addentrandosi piuttosto in quelli ostili, del non facile ascolto che richiedono una particolare attenzione per essere valutati sotto una giusta luce. Completamente diverso il secondo doppio album: smessi i panni del contestatore, Sanchez torna a suonare la batteria come sa fare, al servizio di un disegno complessivo condotto da Vince Mendoza a capo della WDR Big Band. In repertorio otto brani tutti scritti dallo stesso Sanchez. Il risultato è superlativo. Sotto la sapiente regia di Mendoza l’orchestra si muove con compattezza eseguendo alla perfezione i non semplici arrangiamenti. Di qui un sound, che pur mantenendo una propria specificità, richiama comunque alcune grandi orchestre del passato come, ad esempio, quelle di Duke Ellington e di Gil Evans. Il tutto impreziosito da alcuni elementi della band che si pongono in particolare evidenza come, tanto per fare qualche nome, il pianista Omer Klein (lo si ascolti in “Grids and Patterns”), Johan Hörlen (sax) e Shannon Barnett (trombone) particolarmente brillanti nel brano conclusivo che dà il titolo all’album. Superlativa la prova di Sanchez che dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in qualsivoglia contesto. Nel caso specifico il suo drumming è allo stesso tempo possente ma non invadente sì da sposarsi magnificamente sia con i pieni orchestrali sia con quei momenti in cui il sound si fa più delicato, prezioso.

Bobo Stenson – “Contra la indecisiòn” – ECM 2582

Il pianista Bobo Stenson (classe 1944) è una delle personalità più importanti del jazz scandinavo, uno dei pochissimi in grado di non far rimpiangere quel Esbjorn Svensson di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica. In “Contra la indecision” Stenson si ripresenta con il suo abituale trio completato da Anders Jormin al basso e Jon Fält alla batteria. Il repertorio è piuttosto vario ed esplica appieno le molteplici sfaccettature del leader. Così dello Stenson compositore abbiamo qui due soli esempi, “Alice”, e “Kalimba Impressions” composto da tutti e tre i membri del combo; la maggior parte dei brani sono a firma di Anders Jormin, la title track è opera del cantautore cubano Silvio Rodríguez mentre gli altri tre pezzi – rispettivamente di Béla Bartok, Erik Satie e Frederic Mompou – illustrano l’abilità di Stenson nell’affrontare anche la musica classica. Ferma restando la statura artistica del leader, ogni brano fa quasi storia a sé dal momento che il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione dà la stura, di volta in volta, ad interventi solistici di squisita fattura che mai mettono in pericolo l’equilibrio globale del trio. Così, tanto per fare qualche esempio, in “Doubt Thou The Stars” ascoltiamo una splendida improvvisazione di Jormin che adopera anche l’archetto ben sorretto dalla batteria prima dell’entrata in scena del pianoforte che illustra il tema in tutta la sua bellezza; in “Kalimba Impressions” è Jon Fält a salire alla ribalta suonando la marimba in un fitto dialogo con i compagni d’avventura; in “Alice” i tre disegnano un percorso quasi a zig-zag, sghembo, straniante ma di indubbio misterioso fascino; in “Elégie” , come accennato, riscopriamo il coté classico di Stenson che affronta la partitura di Satie con pertinenza, eleganza ed originalità; “Stilla” è un blues, sempre di Jormin, che evidenzia come tutti e tre questi musicisti conoscano bene la storia della musica afro-americana; in “Oktoberhavet” ancora una splendida intro della batteria dopo di che il tema è sviluppato da Jormin all’archetto con il pianoforte di Stenson che si limita a punteggiare prima di prendere in mano le fila del discorso.

John Surman – “Invisible Threads” – ECM 2588

“Invisibili fili” è il titolo, tradotto in italiano, di questa nuova fatica discografica di John Surman ai sax soprano e baritono e al clarinetto basso. Ed in effetti di fili invisibili è fatta la musica di questo album, una ragnatela di straordinaria eleganza che Surman tesse ben coadiuvato dai due compagni d’avventura, il pianista di San Paolo, Nelson Ayres, jazzista ma anche frequentatore di terreni vicini al pop brasiliano e Rob Waring, docente “classico” al conservatorio di Oslo, al vibrafono e alla marimba. Quindi una formazione del tutto inconsueta mancando, contemporaneamente, di contrabbasso e batteria. Ma i tre suppliscono egregiamente con un affiatamento ed un’empatia che si evidenzia in ogni momento: così quando è Surman a disegnare la linea melodica gli altri due fungono da contrappunto e da sostegno ritmico; ma la stessa cosa accade quando il pallino passa nelle sapienti mani di Ayres: Surman lo contrappunta a meraviglia e Waring si assume il difficile compito di organizzare da solo una sezione ritmica. Questo idem sentire si manifesta altresì nelle reciproche influenze che i tre non nascondono: così se è vero che nella poetica di Surman è sempre presente quel riferimento alle vecchie melodie inglesi e più in generale alla musica del Nord Europa, in questo album non mancano specifici richiami alla musica brasiliana come si può apprezzare in “Summer Song” unico brano non scritto da Surman ma per l’appunto da Nelson Ayres, in “Pitanga Pitomba” introdotto da un centrato assolo di Rob Waring e sviluppato da un fitto dialogo tra Surman e Ayres mentre “Autumn Nocturne” e “The Admiral” si fanno apprezzare per la delicatezza della linea melodica; da segnalare in quest’ultimo brano l’introduzione affidata ad un dialogo tra clarinetto basso e marimba, forse uno dei momenti più belli dell’intero album.

Esbjörn Svensson Trio – “E.S.T. live in London” – ACT 9042-2

Sono trascorsi dieci anni dal quel 14 giugno 2008 quando il pianista svedese Esbjörn Svensson scomparve improvvisamente a causa di un incidente subacqueo, proprio quando la sua fama aveva oramai raggiunto appassionati e critici di tutto il mondo. La formazione proposta in questa realizzazione discografica è quella storica che prese le mosse nel 1990 quando il pianista fondò il suo primo gruppo con l’amico di infanzia Magnus Öström alle percussioni; nel 1993 si aggiunse il bassista Dan Berglund a costituire quell’Esbjörn Svensson Trio (o E.S.T. Trio) che nell’arco di pochi anni ottenne un successo planetario. Non a caso sono stati la prima band europea ad apparire nel 2006 sulla copertina di Downbeat e sempre non a caso il doppio cd “Live in Hamburg”, registrato nella città tedesca nel novembre del 2006, è stato definito “L’album jazz del decennio 2000-2010” dal Times. Il perché di tanto successo si capisce facilmente ascoltando questo doppio album registrato live al Barbican Centre di Londra il 20 maggio del 2005. La performance, articolata su dieci brani piuttosto lunghi, testimonia in modo inequivocabile la trascinante forza del gruppo che in quell’anno era in tournée per promuovere l’album “Viaticum” (e ben cinque pezzi eseguiti a Londra facevano parte di quest’album). La musica è superlativa, ricca di forza, energia, caratterizzata da una profonda carica innovativa che coniugava un linguaggio prettamente jazzistico con atmosfere tipiche del rock. Anche da qui la grande influenza che il gruppo ha esercitato specialmente sulle nuove generazioni nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza. Un vuoto di cui si avverte ancora la gravità e che non sarà banale colmare.

Gianluigi Trovesi – “Mediterraneamente” – Dodicilune

Titolo quanto mai esplicativo questo “Mediterraneamente” con cui il “nordico” Trovesi ha voluto chiamare questa sua ultima creatura. Conosciamo Gianluigi da molti anni e contrariamente a tanti che hanno sempre visto in lui lo spericolato sperimentatore multistrumentista, capace di mandare in visibilio le platee di tutto il mondo, abbiamo sempre riscontrato nel suo stile, nella sua poetica un coté lirico che in questo album viene prepotentemente alla ribalta. Ben coadiuvato dal suo ‘Quintetto Orobico’ composto da Paolo Manzolini (chitarre), Marco Esposito (basso), Vittorio Marinoni (batteria) e Fulvio Maras (percussioni), Trovesi presenta un repertorio di dodici brani in cui a composizioni originali (“Gargantella”, “Cadenze Orfiche”, “Rina e Virgilio”, “Materiali”, “Siparietto”), si alternano pezzi della tradizione (“Carpinese”), brani del pop italiano (“Le Mille bolle blu”) e della canzone napoletana (“Tu ca nun chiagne”, “Tammurriata Nera”), nonché standard internazionali (“Yesterdays”, “In your Own Sweet Way”) e un pezzo (“La Suave Melodia”) del compositore barocco Andrea Falconieri (1585-1656). Il tutto trattato con grande delicatezza, dolcezza, ad evidenziare sempre la linea melodica della composizione ed è lo stesso Trovesi a sottolineare questo aspetto quando afferma che “per me molti di questi brani sono come delle serenate”. Serenate eseguite con trasporto, senza alcun timore di evidenziare quel coté lirico cui si faceva riferimento in apertura. Ma, ovviamente, non è il solo Trovesi a seguire questa linea: si ascolti, ad esempio, con quanta modernità espressiva la chitarra di Manzolini dialoga con i fiati del leader che in questo album predilige, comunque il sax contralto. Per non parlare della sezione ritmica che asseconda alla perfezione le idee del leader quando affronta, in modo originale, sia grandi classici del jazz sia brani pop ben noti come “Le mille bolle blu”.

Gaetano Valli – “Thirty Years” – artesuono 139

Quello di Chet Baker è davvero un caso unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Nonostante per buona parte della sua vita artistica Chet sia stato afflitto da numerosi problemi che lo hanno portato, tra l’altro, a doversi reinventare un modo di suonare la tromba, non conosciamo un solo jazzista che non adori Baker, non abbiamo incontrato un solo musicista che non ci abbia parlato in termini entusiastici del trombettista di Yale; di qui una serie di tributi, di omaggi a lui rivolti con sincera partecipazione. In questo clima si inserisce l’album in oggetto che vuole essere un ricordo di Chet a trent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 13 maggio del 1988. Il progetto è del chitarrista Gaetano Valli che ha chiamato accanto a sé il trombettista Fulvio Sigurtà e il contrabbassista Riccardo Fioravanti. Quindi un trio senza batteria, senza cioè quello strumento con cui Baker incontrava spesso problemi di sintonia. Valli è da sempre un profondo estimatore di Baker tanto da dedicargli già nel 1998 un lavoro intitolato “Tre per Chet”, pubblicato dalla Splasc(h) records, con Mario Brioschi alla tromba e ancora Riccardo Fioravanti al contrabbasso. Adesso Valli ritorna sull’argomento con un repertorio che tende in qualche modo a legare il Chet delle origini con il Chet degli ultimi tempi quando il tasso tecnico era inferiore ma quello poetico superiore. Così accanto a “Bea’s Flat” scritto da Russ Freeman all’inizio degli anni’50 e all’inedito dello stesso Valli “Thirty Years” caratterizzati da notevoli difficoltà esecutive, ascoltiamo altri brani in cui la tecnica è ridimensionata a tutto vantaggio dell’espressività quali, tanto per citare qualche titolo, “My Funny Valentine”, “I remember You, “Beatiful Black Eyes”. Ciò detto, occorre sottolineare come l’album sia eccellente: assolutamente pertinenti i brani scritti da Valle per l’occasione che si conferma altresì chitarrista dal tocco morbido, dal linguaggio personale e soprattutto dal gusto delicato; perfetto il modo in cui Sigurtà interpreta questi brani nel segno di Chet; notevole come sempre l’apporto di Fioravanti che si è caricato il peso dell’intera sezione ritmica non disdegnando di uscire in assolo di assoluta compiutezza.

Antonio Zambrini – “Pinocchio e altri racconti” – abeat 183

Se l’intelligenza di un leader si valuta anche sulla base di come sceglie i compagni di viaggio, allora non c’è dubbio sulle qualità non solo artistiche di Antonio Zambrini. Il pianista, per questa sua nuova fatica discografica, ha richiamato accanto a sé due giganti dei rispettivi strumenti, vale a dire i danesi Jesper Bodilsen al basso e Martin Andersen alla batteria con cui collabora già da qualche tempo. A ciò si aggiunge la felice scelta del repertorio: un omaggio a Fiorenzo Carpi il quale è stato uno dei più grandi rappresentanti della scuola melodica italiana unitamente a Ennio Morricone, Piero Piccioni, Nino Rota… tanto per citare qualche nome. Il disco è intitolato a Pinocchio ed in effetti vi si possono ascoltare tre brani tratti dallo sceneggiato televisivo del 1972 diretto da Luigi Comencini, cui si aggiungono altri cinque brani sempre di Carpi e un originale di Zambrini, “Giovedì”, che, come spiega lo stesso leader, appartiene alla sua lunga collaborazione con “Cineteca Italiana di Milano”. Tracciate le linee programmatiche entro cui si inscrive l’album, occorre sottolineare come le interpretazioni del trio siano del tutto coerenti con l’assunto. La musica scorre fluida evidenziando, di volta in volta, le varie caratteristiche che si ritrovano nella produzione di Rota, vale a dire il suono mediterraneo chiaramente riscontrabile, ad esempio, in molti brani di Pinocchio, le influenze di un certo rock inglese… fino a toccare la musica brasiliana in “Notte italiana” in cui lo stesso Zambrini dichiara di aver adottato lo stile “Choro”. Insomma un album in cui la pagina scritta si equilibra assai bene con l’improvvisazione cui si abbandona Zambrini che conferma il suo stile sobrio, elegante con una costante attenzione alla timbrica e alla dinamica, in ciò perfettamente coadiuvato da una sezione ritmica che dimostra di aver ben assorbito la lezione di altre storiche formazioni come lo E.S.T. trio di Esbjörn Svensson di cui ci siamo in precedenza occupati.

Enrico Zanisi – “Blend Pages” – Cam Jazz7928-2

E’ una musica particolare quella che Enrico Zanisi ci propone in questo album, una musica dal sapore «cameristico» che assume comunque connotazioni differenziate. Così, ad esempio, in apertura il pianismo di Zanisi appare crepuscolare, quasi impressionistico in alcuni passaggi, per poi virare, decisamente, sempre nel corso dello stesso primo brano, verso territori più vicini alla musica colta contemporanea. E questa sorta di duplicità si avverte lungo tutto l’album senza che lo stesso perda in omogeneità. D’altro canto la stessa strutturazione dell’organico è del tutto coerente a quanto sin qui esposto: pianoforte, clarinetto (nella collaudate mani di Gabriele Mirabassi), percussioni e live electronics (affidate al ‘poeta’ Michele Rabbia) cui si aggiunge un classico quartetto d’archi francese, “Quatuor IXI”, formato da Régis Huby (violino), Clément Janinet, (violino), Guillaume Roy (viola) e Atsushi Sakaï (violoncello) costituiscono un ensemble ben attrezzato per navigare in acque difficili come quelle che lambiscono la musica moderna. Ora, se la cosa non stupisce con riguardo sia a Mirabassi sia a Rabbia, rappresenta viceversa una piacevole novità per il pianista che, giunto al suo quinto album, dimostra con queste incisioni di aver raggiunto una sua specificità, una ben precisa consapevolezza delle proprie possibilità…insomma di potersi considerare non più una promessa quanto una delle più belle realtà del panorama jazzistico nazionale. In effetti nei nove brani, tutti di sua composizione, Zanisi da un canto conserva sempre una certa struttura di sapore classicheggiante, dall’altro lascia ampi spazi per le improvvisazioni dei compagni d’avventura, spazi come potrete ben immaginare magistralmente occupati sia dallo stesso Zanisi con il suo incedere elegante sia da Mirabassi, superlativo come sempre.

Roma torna ad essere la capitale del jazz!

Non chiedetemi il perché: non lo so. Fatto sta che inopinatamente, nonostante i mille problemi che affliggono la città, Roma si presenta all’appuntamento con l’estate quale vera capitale del jazz. Sono davvero tante le iniziative dedicate alla musica afroamericana che si svolgeranno nella Capitale, alcune davvero di eccellente livello.

Roma, Auditorium Parco della Musica 18 06 2018 foto Musacchio & Ianniello

E partiamo con una struttura prestigiosa che, dopo vari mesi di assoluta inattività, torna prepotentemente alla ribalta. Lunedì 18 giugno, introdotta da un breve assolo di Danilo Rea, è stata presentata alla stampa la riapertura della Casa del Jazz nel cui parco il primo luglio parte la stagione estiva, la prima sotto la gestione della Fondazione Musica per Roma e all’interno della rassegna Estate Romana. Il parco di Villa Osio diventa così il palcoscenico ideale di una fitta programmazione di proposte originali, grandi concerti e spettacoli dal 1° luglio al 5 agosto in collaborazione con IMF Foundation e I Concerti nel Parco.

In particolare la Casa del Jazz ospiterà la 42esima edizione del Roma Jazz Festival, lo storico e prestigioso festival diretto da Mario Ciampà, che dopo 12 stagioni autunnali all’Auditorium Parco della Musica ritorna in estate con gran parte della programmazione alla Casa del Jazz. “Jazz is Now“ è il titolo di questa edizione che vuole trasmettere il sound attuale di una musica che non teme l’usura del tempo. Venti concerti con grandi stelle italiane e internazionali del jazz si susseguiranno alla Casa del Jazz con protagonisti Enrico Rava/Danilo Rea Duo (1.07), Pietropaoli – Zanisi – Paternesi Wire Trio (8.7), Ottolini – Bearzatti Licaones (9.7), Camille Bertault Trio (11.7), Tony Allen (13.7), Giovanni Guidi – Fabrizio Bosso (15.7), The Freexielanders (18.7), Randy Weston (19.7), Corey Harris (22.7), Vijay Iyer Sextet (23.7), Dee Dee Bridgewater (24.7), Tanotrio feat. George Garzone e Leo Genovese (25.7), Paolo Fresu/Chano Dominguez Duo (26.7), Steve Coleman & Five Elements (27.7), Big Fat Band (29.7), Giuliani – Biondini – Pietropaoli – Rabbia “Cinema Italia” (30.7), NTJO New Talents Jazz Orchestra (31.7), Lizz Wright (2.8), Chansons! (3.8), Piji Siciliani (4.8), Swing Valley Band (5.8).

Ma la Casa del Jazz non sarà l’unica location del “Roma Jazz Festival”: così alla Cavea dell’Auditorium ci saranno il 7 luglio gli Snarky Puppy, il 14 Chick Corea Akoustic Band, il 16 luglio Stefano Bollani Quintet, il 20 luglio Pat Metheny; al Museo Maxxi sarà possibile ascoltare il 12 Tommaso Cappellato, il 21 Kamaal Williams Trio, il 1 agosto Sons Of Kemet; presso il Parterre Farnesina il 14 luglio si esibirà Oddisee & Good Company, il 16 luglio Knower, il 23 Cory Henry & The Funk Apostles, il 28 luglio Jungle Green.

Tornando alla Casa del Jazz, la struttura ospiterà per il terzo anno consecutivo un’altra manifestazione storica dell’estate romana, I Concerti nel Parco, giunta alla sua 28sima edizione dal titolo “Una casa bellissima” e diretta da Teresa Azzaro. Tredici eventi, molte produzioni originali, in prima assoluta o al loro debutto romano e molte date uniche, in esclusiva in Italia; una programmazione di grande prestigio, sempre più multidisciplinare ed eterogenea, che ospita grandi nomi del parterre nazionale ed internazionale. Molti progetti speciali e giovani talenti italiani e stranieri che mettono in campo nuove idee per lo spettacolo dal vivo.

Tra i protagonisti: Graham Nash (2.7), Joey Alexander (3.7), Gio Evan (4.7), Monica Molina (5.7), Player2 Orchestra (6.7), The Black Blues Brothers (10.7), Paolo Cevoli e Quartetto Saxofollia (12.7), Claudia Gerini e Solis String Quartet (14.7), Suzanne Vega e Gerry Leonard (16.7), Avion Travel (20.7), Filippo Timi e Giuseppe Albanese (21.7), Teresa Salgueiro (28.7), Flamenco Tango Neapolis (1.8).

Da settembre riprenderanno le attività principali della Casa del Jazz quali la didattica, la divulgazione, la formazione e la promozione del jazz in tutte le sue forme oltre ovviamente alla programmazione concertistica Riaprirà anche il prestigioso studio di registrazione per riprendere le attività di produzione discografica. Verranno inoltre dedicate attività specifiche per i bambini e i giovani, concerti, spettacoli e attività di formazione. Così a maggio scorso è stato siglato un protocollo d’intesa tra la Fondazione Musica per Roma ed il Conservatorio di Santa Cecilia per sviluppare alla Casa del Jazz una collaborazione nei settori dell’Alta Formazione musicale, della formazione di base, della ricerca e della promozione e produzione artistica.

Sempre a maggio si è formata presso la Casa del Jazz la nuova Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti (ONJGT) sotto la direzione di Paolo Damiani, ensemble che raccoglie undici tra i migliori talenti emersi in Italia e che presenta un organico inusuale con due voci femminili e un violino, oltre a fiati e sezione ritmica. Questo pregevole organico presenterà il 17 luglio il progetto “Oscene rivolte” che porterà in tour nelle più importanti città italiane per poi ritornare alla Casa del Jazz a registrare il suo primo disco.

Il 22 settembre inoltre la Casa del Jazz ospiterà uno degli appuntamenti del festival “Una striscia di terra feconda”, festival franco-italiano di jazz e musiche improvvisate, che vedrà protagonisti nella prima parte il pianista François Coutorier in un concerto in solo in prima nazionale e nella seconda parte i musicisti italiani, in residenza con il trombettista Mederic Collignon, Camilla Battaglia (voce), Andrea Molinari (chitarra), Rosa Brunello (contrabbasso), Perla Cozzone (pianoforte), tutti vincitori del Concorso Nazionale in collaborazione con l’Institut Français Italia, l’Ambasciata di Francia in Italia, MiDJ e SIAE.

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Ma, come si accennava in apertura, il “Roma Jazz Festival” non sarà l’unica occasione di ritrovo per gli appassionati di jazz. Fra le altre iniziative c’è da segnalare “L’ISOLA DI ROMA JAZZ & BLUES” che si svolgerà dal 4 Luglio al 17 Agosto presso l’Isola Tiberina. La rassegna vedrà la partecipazione di artisti da ogni parte del mondo, come il talentuoso ventenne russo Alexandr Misko, a ben ragione considerato il genio del percussive fingerstyle guitar solo (il 4 Luglio). L’ 8 luglio sarà la volta della pianista giapponese Chihiro Yamanaka e il suo “Electric Female Trio”. Mercoledì 11 Luglio a mio avviso uno degli avvenimenti più importanti dell’intera stagione romana: saliranno sul palco della Grande Arena Carla Bley con Andy Sheppard (sax) e Steve Swallow (basso). Si tratta di artisti che hanno fatto la storia del jazz e che, specie per quanto concerne la Bley, non è usuale ascoltare nella Capitale.  Il 18 invece si esibirà la band statunitense The Bad Plus, dal groove trascinante.

Il 25/7 l’Africa si impossesserà del palco: i Songhoy Blues, quattro ragazzi del Mali, proporranno brani Blues, R&B e Raggae nella lingua della loro terra.

Il mitico sassofonista Kenny Garrett suonerà col suo quintetto il 31 luglio mentre martedì 7 Agosto, si alterneranno sul palco Dick Halligan, storico pianista dei Blood Sweat & Tears, al piano solo, e la “Giancarlo Maurino’S Evidence”, condotta dal noto sassofonista italiano.

A chiudere la rassegna, Atrio, Dumbo, Station e Modular, testimoni delle nuove generazioni del crossover Jazz.

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Intanto dai primi del mese è in corso di svolgimento, nella splendida cornice di piazza Garibaldi, con una vista ineguagliabile sulla Città Eterna, la seconda edizione di “Gianicolo in Jazz” che, sotto la sapiente regia del nuovo direttore artistico Roberto Gatto, andrà avanti fino al 14 settembre. Variegato il programma che prevede artisti di assoluto rilievo internazionale e giovani talenti che possono così trovare l’occasione di far conoscere le proprie potenzialità. Tra gli appuntamenti più importanti il 27 giugno   il vocalist e chitarrista Mark Hanna; il 10 luglio il duo Javier Girotto sax e Natalio Mangalavite piano; il 15 luglio il Paolo Damiani Santa Cecilia Jazz Ensemble con Daphne Nisi voce, Francesco Fratini tromba, Andrea Molinari chitarra, Fabio Sasso batteria e Paolo Damiani contrabbasso e composizioni; il 18 “The Italian Trio” con Dado Moroni piano, Rosario Bonaccorso contrabbasso e Roberto Gatto batteria; il 24 “The Hidden Side” con Rosario Giuliani sax, Alessandro Lanzoni piano, Jacopo Ferrazza contrabbasso e Fabrizio Sferra batteria; il 7 agosto Tandem, ovvero Fabrizio Bosso tromba e Julian Mazzariello piano; il 15 Seamus Blake al sax, accompagnato da Roberto Tarenzi piano, Gabriele Evangelista contrabbasso e Roberto Gatto batteria; il 21 un quartetto di classe con Peter Bernstein chitarra, Dario Deidda basso, Alessandro Lanzoni piano e Roberto Gatto batteria; il giorno dopo Enrico Rava Quartet completato da Domenico Sanna piano, Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; il 29 Enrico Pieranunzi piano, Rosario Giuliani sax, Luca Fattorini contrabbasso e Marco Valeri batteria; il 4 settembre Maurizio Giammarco “Syncotribe”, ovvero Maurizio Giammarco sax, Luca Mannutza organo e Enrico Morello batteria; il 9 il duo, Rita Marcotulli piano, Israel Varela batteria e voce.

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Un’altra manifestazione in corso di svolgimento è quella che si svolge in un’altra splendida villa della Capitale: la terza edizione del Village Celimontana, rassegna organizzata dal Cotton Club che si protrarrà fino all’8 settembre. Media-Partner della rassegna Radio Montecarlo, la radio italiana che offre maggiore spazio al jazz. Molto spazio ai giovani talenti italiani ma anche appuntamenti di rilievo internazionale: la “Carta Bianca” ad Enrico Pieranunzi sarà una tre giorni dedicata al grande pianista che salirà sul palcoscenico del Village Celimontana presentando due nuovi dischi, domenica 17 giugno in duo con una star emergente, il contrabbassista danese Thomas Fonnesbeak, mercoledì 4 luglio con un concerto in piano solo e giovedì 5 luglio in quintetto con ospite il sax di Rosario Giuliani.

Tra gli altri italiani degni di attenzione le esibizioni – tanto per citare qualche nome –  di Massimo Morriconi, Ellade Bandini, Nico Gori, Lorenzo Tucci, Stefano Sabatini, Gianni Oddi, Giorgio Rosciglione, Riccardo Biseo, Stefano Sabatini.

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Infine La Scuola Popolare di Musica di Testaccio presenta “Le vie del jazz”, concerti suonati e raccontati dai protagonisti del jazz romano attraverso sei lezioni-concerto.

Un’occasione per ascoltare le varie “anime” del jazz e le molteplici culture che, partendo dal blues e dalla musica di New Orleans, hanno nel tempo influenzato questo linguaggio fino a renderlo una sorta di esperanto musicale.

A rendere possibile l’iniziativa sono i musicisti che fanno base a Roma, tra i quali alcuni insegnanti della Scuola Popolare di Musica di Testaccio come Roberto Nicoletti, Gaia Possenti, Sonia Cannizzo, Simona Bedini e Ludovico Piccinini. Oltre a noti musicisti che, nella scuola, si sono nel tempo formati: Gabriele Coen, Giulia Salsone, Antonella Vitale, Luca Monaldi e oltre ancora a tutti i musicisti che con la scuola hanno più volte incrociato la propria strada per concerti, incontri, stage…

Durante gli incontri si toccheranno le varie influenze: dal rock-pop alle musiche del mondo, a Giuseppe Verdi in chiave gipsy/swing, alla canzone italiana in chiave swing, per finire con un approfondimento sulla musica di Thelonius  Monk e sul trombone.

Ogni incontro prevede una parte illustrativa curata dal relatore e una parte di concerto.

Gerlando Gatto

 

 

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL edizione 38, la seconda giornata

VENERDI’ 23 MARZO, SECONDA GIORNATA

La seconda giornata di Open Papyrus Jazz Festival è tradizionalmente quella più corposa e ricca di eventi, che anche quest’anno si sono svolti nella Sala Santa Marta, per la prima parte, e poi al Teatro Giacosa.

Già molta gente in Sala per la presentazione del libro Il Michelone, Nuovo dizionario del jazz. 1200 dischi jazz in 100 anni di Guido Michelone. Le recensioni dell’autore di 1200 dischi di Jazz usciti in 100 anni, che diventa un nuovo dizionario del Jazz. Il pubblico non si è sottratto al fitto dibattito che ne è conseguito.

Alle 19, dopo l’ Aperitivo – Degustazione Consorzio Vini Canavese comincia il concerto di Oba Mundo Project.

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Per mia scelta i commenti sui concerti saranno, per tutte e tre le serate, divisi in due parti, delle quali la seconda è intitolata ” L’impatto su chi vi scrive” ed è il mio commento personalissimo e dichiaratamente non ammantato di alcuna pretesa obiettività. A prescindere dalla competenza, la musica impatta diversamente a seconda della personalità, della formazione, dei gusti di ognuno.

Foto di Carlo Mogavero

Sala Santa Marta, ore 19
Oba Mundo Project
Loris Deval: chitarra classica
Anais Drago: violino
Viden Spassov: contrabbasso
Gilson Silveirapercussioni

Quattro musicisti ineccepibilmente bravi, un progetto nuovo non nell’intento (non è certo la prima volta né sarà l’ultima che si decide di reinterpretare temi famosi da film), ma nuovo nella resa. La presenza di Gilson Silveira indica già che i brani passano per una rilettura in termini ritmici ma anche timbrici e armonici “latin” (ma non manca l’Ucraina e la musica balcanica).
Non è certo un latin da cartolina: suonano benissimo questi tre ragazzi.
Gilson Silveira non è un ragazzo e quasi li tiene a battesimo, lui che è un poeta delle percussioni.
Suonano benissimo, gli Oba Mundo, con la cura di chi la musica l’ha non solo studiata ma  fatta propria e metabolizzata, e di chi il proprio strumento lo padroneggia tecnicamente in maniera perfetta e si può dunque permettere di farne praticamente tutto. Gli assoli della Drago sono ineccepibili e straripanti di energia, il contrabbasso di Spassov è intenso, granitico, offre continui spunti al quartetto non limitandosi all’ accompagnare, la chitarra di Deval è cangiante, i suoi fraseggi connotati da una inesauribile vena creativa. Silveira è una fonte continua di suoni, battiti messi in relazione tra loro con maestria.
I brani abbracciano una bella fetta della storia del grande cinema (da La vita è bella, all’ Orfeo Negro, a Mediterraneo).
La parte tematica è lo spunto per dare il via alla bravura indiscutibile di un quartetto di musicisti fantasiosi e preparati. Le dinamiche sono raffinate, l’interplay impeccabile e la verve improvvisativa notevolissima. Non capita spesso di poter ascoltare ad un festival giovani artisti talentuosi, che cominciano a farsi conoscere al di là delle loro realtà locale. Non capita nemmeno spesso di vedere un musicista affermato mescolarsi così beneficamente e generosamente a musicisti nuovi e dar loro appoggio, fantasia, che sottolineino il loro innegabile estro.


L’impatto su chi vi scrive

Un concerto scoppiettante, pieno di energia, divertente, costruito su musiche molto amate e giustamente molto applaudito.
Il limite del progetto l’ho trovato un po’ nell’applicare, a prescindere, una veste predeterminata  a temi molto diversi tra loro. La Canzone di Geppetto dal film televisivo di Comencini, per fare un esempio, mi è apparsa un po’ più travisata che riletta, mentre se ne sarebbe potuto fare un lavoro bellissimo di interpretazione interiore anche estrema, volendo. I temi vengono utilizzati essenzialmente come mero spunto per le evoluzioni virtuosistiche che seguono. Tra i due estremi della cover e del tema usa e getta preso solo per la sua struttura e poi  ingabbiato in una veste jazzistica preformata ed infilata a qualsiasi costo, c’è tutto un mondo espressivo che può essere infinitamente fecondo. Non a caso, una volta dimenticatami del suddetto tema, ho molto apprezzato le improvvisazioni e le belle introduzioni, che ne erano completamente avulse.
I ragazzi sono più che pronti, io credo, a scrivere e, se lo stanno già facendo, promuovere musica propria,  o a interpretare quella preesistente evitando di decidere “a tavolino” in che modo interpretarla. Lasciandosi andare piuttosto al loro flusso creativo interiore, che è lì che si affaccia prepotentemente e si percepisce vedendoli ed ascoltandoli suonare. Che queste considerazioni li incoraggino perché sono davvero molto bravi.

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Teatro Giacosa, ore 21:30

Helga Plankensteiner and Plankton

 

Helga Plankensteiner: baritone sax, clarinet, voice
Michael Lösch: hammond organ, piano
Enrico Terragnoli: guitar, banjo

Il primo dei concerti al Teatro Giacosa è anche il più interessante e stralunato di tutto il festival, in linea con il tema “Elogio della Follia” voluto dal direttore artistico Massimo Barbiero. Un sestetto dalla poderosa sezione fiati, ma anche con una sezione ritmica in grado di  cambiare registro con disinvoltura e di certo non in maniera didascalica. Helga Plankensteiner ne è la leader, e l’ideatrice, dalla personalità dirompente: eclettica suonatrice di sax baritono, clarinetto e corde vocali, suona per un’ora ed oltre musica originale, in tutti i sensi, intrecciando generi musicali in maniera così creativa che ogni genere viene trasfigurato anche quando sembrerebbe essere replicato fedelmente. Il batterio della creatività si impadronisce del Blues, o dello Swing, o di qualsiasi altra suggestione, modificandoli quasi geneticamente.
Questo è possibile con improvvisi cambi di rotta, di dinamiche, ma anche con una attento studio delle timbriche, appaiando le voci in maniera sempre diversa e quasi sempre a contrasto- il sax baritono con l’hammond, i fiati con il banjo, la voce con la tromba. Ma anche alternando unisoni possenti a improvvisi assottigliamenti che precedono la deflagrazione totale di tutto il sestetto. Matthias Schriefl e Gerhard Gschlössl alle trombe e al trombone sono il controcoro e l’alter ego imprescindibile della Plankensteiner. Enrico Terragnoli è infaticabile e prezioso con i suoi Banjo che ammorbidiscono e armonizzano le digressioni dei fiati. Nelide Bandello lavora come uno strumento armonico oltre che come generatore di battiti. Michael Lösch con l’hammond o con il pianoforte delinea e asseconda l’atmosfera dei brani introducendo anche una bella dose di rigore che, dato il clima sul palco, rende ancora più bizzarro il risultato finale.









L’impatto su chi vi scrive

E’ quel concerto che in un Festival, in mezzo ad altre proposte, mi aspetterei sempre di vedere: nomi meno di richiamo e un palcoscenico che permetta loro di farsi conoscere un po’ di più.
Musica divertente, diversa da quella che si incontra nei circuiti soliti, eppure con un livello di complessità notevole. Giocosa, circense, teatrale, stramba, intensa, energica, totalmente originale, con ampi stralci di improvvisazione che non si limita però ad assoli che si alternano ordinatamente, ma che esplode in momenti anche collettivi imponenti, di cui l’impatto è notevole. Ma anche apprezzabili “cornici” di musica scritta che contrasta mirabilmente con le parti più libere. Un concerto curioso e attraente.

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Teatro Giacosa, ore 22:30
Enrico Rava New 4ET

Enrico Rava: flicorno
Francesco Ponticelli: contrabbasso
Enrico Morello: batteria

Il concerto di Enrico Rava in quartetto è l’evento del Festival, il nome celebre capace di attrarre anche il pubblico meno avvezzo al Jazz. Ed Enrico Rava non delude nemmeno stavolta.
Solo brani originali: “Inutile che ve li annunci, sono tutti brani originali”, dice lui stesso.
Brani originali, e il timbro inconfondibile del flicorno di Rava, i suoi fraseggi essenziali (in quanto a “numero di note” usate) e anche in virtù di ciò ricchi per intensità, dinamiche, efficacia espressiva. Con il suo trio Rava  si mette continuamente in gioco: dialoga moltissimo con Diodati, quasi un alter-ego elettrico, lascia molto spazio a chitarra, contrabbasso, batteria lasciando che si apra una finestra su un gruppo di per sé notevolmente interessante: un concerto nel concerto, in pratica. La batteria di Morello passa agevolmente dal soffio alla potenza massima,  sempre modulata da un controllo totale che ne rende intellegibile ogni istante di ogni successione ritmica, anche la più ardita. Il contrabbasso di Ponticelli è in continua proficua interazione ritmico – armonica con chitarra e batteria. Diodati è un chitarrista dalla personalità musicale ben spiccata, che padroneggia il suo strumento non smettendo mai di sperimentare.










L’impatto su chi vi scrive

Non si può che dire bene di un concerto come questo. Mai nulla di musicalmente scontato. Un musicista pressoché leggendario, che da sempre continua a rimettersi in gioco con musicisti nuovi – giovani – o semplicemente diversi da altri con cui ha interagito in precedenza. Il suo carisma e la sua personalità artistica ne escono sempre rafforzati. Il tre giovani artisti sul palco con lui sono tre talenti del Jazz oramai giustamente affermati,con un loro linguaggio ben riconoscibile e una creatività in continuo divenire. Il dialogo tra i quattro è fitto, è un dialogo tra pari.
In alcuni momenti ho personalmente percepito un certo sbilanciamento tra quella sintesi (intensa) di Rava di cui parlavo sopra, spesso incentrata sul suono in sé,  e la musicalità traboccante di note e battiti del trio con lui sul palco. Quasi certamente questa dualità è cercata e voluta,  e sono consapevole dunque che il contrasto che io sento in alcuni casi come sporadico squilibrio potrebbe per altri rappresentare il valore aggiunto del progetto.

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La nottata è andata avanti fino a notte inoltrata al Caffè del Teatro con i bravi, giovani  e infaticabili The Essence 4tet ( Sara Kari: sax, Emanuele Sartoris: pianoforte, Antonio Stizzoli: batteria e Dario Scopesi: contrabbasso) che hanno animato la nottata con il loro Jazz vitale ed energico