“Immersivity” è l’insegna del Roma Jazz Festival 2022!

E siamo alla 46° edizione: dal 6 al 19 prossimo torna il Roma Jazz Festival, che animerà la Capitale con 26 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del Jazz e il Monk Club, fino ad arrivare al Teatro del Lido a Ostia. Diretto da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2022 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Dopo “Jazz is Now” del 2018, “No Border” del 2019, “Jazz for Change” nel 2020 e “Jazz Code” del 2021, il titolo di questa nuova edizione è “Immersivity”, per un approccio multisensoriale, ludico e coinvolgente che guarda al contemporaneo e al futuro senza dimenticare le radici di un linguaggio al tempo stesso colto e popolare, sofisticato e immediato, in grado di parlare a pubblici diversi, da quelli della sale da concerto e dei jazz club, fino ai frequentatori del dancefloor e dei grandi festival multimediali.
Giganti della scena mondiale come Steve ColemanSpyro Gyra e la celeberrima Mingus Big Band al fianco dei protagonisti della nuova scena british come Alfa Mist o esordienti puri come il collettivo Jemma, vincitori del programma LazioSound Scouting 2022. Il protagonismo femminile è incarnato da straordinarie artiste come Lady BlackbirdNuby GarciaRosa Brunello e Ramona Horvath mentre l’inarrestabile spinta all’innovazione è documentata da artisti già celebri come Enrico Rava – al festival con il chitarrista sperimentale austriaco Christian Fennesz e il percussionista indiano Talvin Singh – e Danilo Rea, in programma con il progetto cromestetico Soundmorphosis.
Ancora: i sofisticati software del pianista Ralf Schmid e le performance multimediali di XY Quartet, le visioni ecologiche di Kekko Fornarelli e della giovanissima Jazz Campus Orchestra con lo spettacolo Let’s Save The Planet e la carica visionaria di videoartisti come Paolo Scoppola e Claudio Sichel. La cura della tradizione del pianista azero Isfar Sarabski e l’avanguardia di Erik Fredlander, in compagnia di Uri Caine, o dell’ensemble Itaca 4et, ma anche i ritmi elettroacustici di Kodex. E poi le produzioni originali della New Talent Jazz Orchestra con un grande omaggio a Charles Mingus e di Fabrizio Consoli e Fausto Beccalossi che celebrano Pasolini, così come l’incontro fra jazz e teatro e i due appuntamenti dedicati ai bambini di Fiabe in Jazz.
Questo lo straordinario programma del Roma Jazz Festival 2022, che prosegue così l’incessante ricerca sulle trasformazioni della scena jazz nazionale e internazionale, sulle sue contaminazioni con altre forme espressive e con l’innovazione tecnologica per rendere ancor più manifesta la trasversalità assoluta del Jazz e offrirne una fruizione più dinamica e contemporanea.

Info: https://romajazzfestival.it/

CALENDARIO
6 novembre
Fiabe Jazz: I Musicanti di Brema | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
New Talent Jazz Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Lady Blackbird | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Ralf Schmid: Pyanook | Casa del Jazz, h21

7 novembre 
Rosa Brunello: Sounds Like Freedom ft. Yazz Ahmed, Enrico Terragnoli, Marco Frattini| Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

8 novembre 
Erik Friedlander The Throw | Casa del Jazz, h21

9 novembre
Ramona Horvath/Nicolas Rageau | Casa del Jazz, h21

10 novembre
Enrico Rava/Christian Fennesz/Talvin Singh | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

11 novembre
Nubya Garcia | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Kodex | Casa del Jazz, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Teatro del Lido (Ostia), h21

12 novembre
Spyro Gyra | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Lino Volpe/Rosario Giuliani: Jazz Story | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Casa del Jazz, h21

13 novembre
Fiabe Jazz: Cenerentola Rock | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
Jazz Campus Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Mingus Big Band | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

14 novembre 
Kekko Fornarelli: Anthropocene | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

15 novembre 
Isfar Sarabski Quartet | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Itaca 4et | Casa del Jazz, h21

16 novembre 
XY Quartet: 5 astronauts | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

17 novembre 
Danilo Rea/Paolo Scoppola: Soundmorphosis | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Jemma | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

18 novembre 
Alfa Mist | Monk Club, h21:30

19 novembre 
Steve Coleman Quintet | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

Presentato “New Things” il nuovo lavoro di Franco D’Andrea, alla Casa del Jazz a Roma

Nell’articolata carriera del pianista-compositore Franco D’Andrea ci sono gruppi che hanno caratterizzato periodi, brevi o lunghi, di ricerca sonora e significativi risultati. Si possono, in questo senso, citare il Modern Art Trio a inizio anni Settanta, il quartetto con Tino Tracanna, Attilio Zanchi e Gianni Cazzola negli Ottanta e, nel nuovo millennio, l’ottetto comprendente Mauro Ottolini, Andrea Ayassot, Daniele D’Agaro, Enrico Terragnoli, Aldo Mella, Zeno De Rossi e Dj Rocca (Luca Roccatagliati).

Il nuovo trio di D’Andrea – con Mirko Cisilino alla tromba ed E. Terragnoli alla chitarra e all’elettronica – si appresta ad essere il “gruppo-simbolo” dell’attuale stagione: lo afferma lo stesso pianista, dopo un periodo di rodaggio. Con il chitarrista c’era già un rapporto di reciproca stima, nato ai tempi delle registrazioni presso El Gallo Rojo e maturato attraverso l’inserimento di Terragnoli nell’ottetto (lo si ascolta in Intervals I e II, 2017-’18). Il giovane trombettista friulano gli è stato, invece, segnalato da Zeno De Rossi e, in effetti, Cisilino è uno strumentista fuori del comune per le capacità improvvisative, l’uso sapiente di varie sordine (dalla plunger alla harmon), la conoscenza di stili del jazz dalle origini all’avanguardia.

La formazione ha, in realtà, pubblicato il doppio Cd  New Things (Parco della Musica Records) ma l’album è uscito a metà marzo 2020, in piena pandemia, senza godere di una reale distribuzione. Così si spiegano le aspettative per il concerto del trio alla romana Casa del Jazz il 17 luglio scorso, nell’ambito della rassegna “Reloaded” inziata il 1° luglio e in programmazione almeno sino al 9 agosto.

D’Andrea, Cisilino e Terragnoli edificano la loro musica basandola – secondo una tecnica messa a punto dal pianista in decenni di sperimentazione – su intervalli “generativi”, su cellule melodico-ritmiche che definiscono le coordinate di un orizzonte sonoro in perenne mutazione. Si riconoscono, nelle ricche e policrome trame, alcune forme ed autori di riferimento per Franco D’Andrea: il blues, il ragtime, la musica contemporanea (a volte i brani sono privi di swing), Lennie Tristano, Thelonious Monk, il jazz di New Orleans dalla Original Dixieland Jazz Band a Louis Armstrong. Il tutto, però, è assimilato in profondità, svelato nel colore/calore degli intervalli (resi espliciti nei titoli: M3 cioè terza maggiore; A 4 che sarebbe quarta aumentata…), riproposto in una veste di moderna polifonia che scardina e ridefinisce i ruoli degli strumenti, impegnati in un avvolgente interplay.

A Mirko Cisilino spetta lavorare soprattutto sulle variazioni timbriche generate dalla tromba (con o senza sordine), non trascurando elementi ritmici, episodi in assolo e esposizioni tematiche. Alla chitarra e all’elettronica di Enrico Terragnoli competono invece funzioni di tessitura generale, senza rinunciare a incursioni stranianti, accenni di walking bass, fraseggi alla Billy Bauer o alla Bill Frisell, interventi di distorsione e manipolazione del suono. Franco D’Andrea è il principale motore generativo del trio, ma al “cuore” dei brani si arriva attraverso un processo di avvicinamento, evocazione, allusione. Così è accaduto nell’iniziale Deep, nella minimalista M2, nella swingante March. Nel finale si sono moltiplicati i riferimenti al jazz delle origini, proposto in una chiave non revivalista eppure in grado di riproporre il “calore” di una musica definita “hot” (P5+M3 / Tiger Rag). Nel secondo bis, suonato in solitudine al piano, Franco D’Andrea ha omaggiato l’amato (e a lungo indagato) Monk.

Pubblico entusiasta, anche se non troppo numeroso, per un trio che si immagina di lunga vita. Nel frattempo  D’Andrea sta già lavorando ad un progetto orchestrale che coinvolge un giovane arrangiatore spagnolo, conosciuto durante l’edizione del concorso di Barga (Lucca) dedicata alle composizioni del pianista meranese che, a 79 anni, mantiene lucida progettualità e grande fantasia.

Luigi Onori

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste: Franco D’Andrea, pianista e compositore

Intervista raccolta da 

Franco D’Andrea, pianista e compositore

Come stai vivendo queste giornate?
“Ne approfitto per fare un po’ d’ordine nelle mie cose. Ad esempio sto dando uno sguardo ai molti dischi che ho fatto, circa 200. Ci sono dei dischi che ho fatto con Nunzio Rotondo, che risalgono ai primi anni in cui io mi ero dedicato professionalmente alla musica, avevo 22-23 anni, quindi siamo nel ’63, ’64 fino ad arrivare al ’68. Erano tutta una serie di registrazioni che avevamo fatto per la RAI e che poi sono state edite su disco. Ho constatato come alcune date non fossero molto precise ma soprattutto mi sono riascoltato e devo dire che probabilmente non me la cavano niente male. Lui, Nunzio, mi dette subito credito e questo è stato molto simpatico da parte sua… ho sempre un bel ricordo. In molti pezzi c’era anche come ospite Gato Barbieri. Tornando al presente proprio in questo periodo è uscito il mio ultimo lavoro “New Things”, con Mirko Cisilino tromba e cornetta e Enrico Terragnoli chitarra elettronica e riascoltandolo cercavo di capire meglio come era venuto… e tutto sommato mi sembra che sia venuto piuttosto benino. Poi ogni tanto vado al pianoforte e architetto delle cose”.

-Come ha influito la situazione attuale sul tuo lavoro? E pensi che in futuro sarà lo stesso
“Guarda il lavoro si è praticamente fermato, annullato. Noi musicisti siamo fermi completamente, tutte le date che c’erano sono svanite, non si sa se e quando verranno recuperate e vediamo un po’ perché la situazione economica in generale non sarà delle più floride. Sperando sempre di uscirne fuori da questa tragedia. In questo momento io sono a Milano e questa città, stranamente, è diventata il centro della situazione nel senso che in Lombardia la diffusione del virus prima si è incentrata su Codogno, Casal Pusterlengo… qualcosa in Veneto… poi si è andati a finire su Bergamo, su Brescia e adesso è il turno di Milano; facciamo un po’ la parte di New York in questo momento. Non è una linea che va dritta in su, comunque non va bene come il resto della Lombardia e negli ultimi dieci giorni è stato davvero terribile. E allora mi sono detto: io sono nato nel ’41 e quindi, praticamente, in mezzo alla guerra ma di quella tragedia ho sofferto poco in quanto sono nato a Merano, una città ospedaliera che proprio per questo mai è stata bombardata; perciò continuavo a chiedermi ‘ma quando la pagherò, data la sfortuna sfacciata che ho avuto durante la guerra?”. Eccomi, la sto pagando adesso assieme a migliaia di altre persone”.

-Come riesci a sbarcare il lunario in questo periodo?
“Questa è davvero una bella domanda. Finché durerà io ho una pensione e quindi in qualche modo riesco ad andare avanti. Ecco ti dico che la pensione di aprile è arrivata, poi vedremo maggio e constateremo in che forma arriveranno queste cose. Praticamente è l’unico introito che ho. Ho visto, poi, che ci sono alcune agenzie specializzate nel recupero di prestazioni che si erano fatte che hanno prodotto qualcosa per i musicisti anticipando alcune scadenze e addirittura hanno dato qualcosa, una tantum che aiuta comunque ad andare avanti”.

-Quale ente ti eroga la pensione?
“Come tutti i musicisti prima eravamo Enpals ora siamo tutti Inps. Comunque ciò che mi ha permesso di avere una pensione decente è stato il periodo lungo che ho fatto in Conservatorio, tredici anni al Conservatorio di Trento. Lì ho accumulato parecchi contributi che mi hanno permesso di arrivare, ripeto, ad una pensione decente”.

-Vivi da solo o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante in questo delicato momento?
“Vivo con mia moglie, siamo in due. I figli vivono da un’altra parte ma ci diamo sempre una mano. Ogni settimana, ad esempio, ci portano un po’ di roba… una spesa grossa che duri per tutta la settimana… ci organizziamo in questa maniera e andiamo avanti così”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Spero di sì nel senso che spero vada avanti questo sentimento per cui possiamo farcela solo se andiamo avanti insieme, ognuno dà una mano per quello che può dare, e sarebbe davvero bellissimo, importante non smarrire questo spirito”.

-Credi che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
“Assolutamente sì. La musica, almeno per me, è un grosso aiuto, una risorsa grandiosa, che mi permette di continuare a pensare a qualcosa cui sei profondamente legato quindi un legame profondo con il passato e allo stesso tempo una sorta di proiezione verso il futuro”.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Questa è un’altra bella domanda. Secondo me a pensare a qualcosa per il futuro; nella tua domanda di prima c’era già implicito questo discorso nel senso che dobbiamo veramente escogitare un modello di convivenza più adatto ai tempi e più adatto all’umanità”.

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Una parte di retorica ci può anche essere ma in fondo, in questo momento, il discorso di avere un minimo di comprensione l’uno per l’altro mi sembra assolutamente giusto e condivisibile. Bisogna pensare che in questo momento siamo attaccati da qualcosa, da questo virus che non guarda in faccia niente e quindi è opportuno darci una mano, comprenderci più di prima e questo forse potrebbe essere, se rimanesse, il lato positivo di tutta la faccenda. Capisco benissimo la dialettica su tante cose ma credo che in ogni modo occorra capirsi, ci vuole dialogo. C’è al riguardo una parola chiave per me: rispetto; mai puoi sapere se tu veramente hai ragione e l’altro ha torto; tu hai accumulato delle conoscenze e hai concluso che nella vita ti comporti in una certa maniera, ma tutto è da riguardare, da rivedere e in ogni caso noi dovremmo sempre essere pronti al dialogo, che è figlio del rispetto. Voglio dire cerchiamo una sintesi, cerchiamo di approfondire, cerchiamo di capire se anche in questa ideologia che non condividiamo può esserci qualcosa di buono”.

-Sei soddisfatto di come si stanno muovendo i vari organismi di rappresentanza?
“È difficile rispondere. Non abbiamo la controprova, non sappiamo se qualcun altro avrebbe potuto fare meglio o peggio. Per il momento mi sembra che tutto sommato, con gli enormi problemi che secondo me vengono anche dal passato, e sto parlando non solo dell’Italia ma dell’Europa e più in generale della mentalità che ha pervaso tutto il mondo occidentale, il fatto di mettere il denaro al centro di tutto come se fosse un dio e mettere in sottordine tutto il resto… questo non è granché, tutto sommato si sta pur facendo qualcosa”.

-Se avessi la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederesti?
“In questo momento sicuramente chi è là sta lavorando, cerca di fare il meglio possibile. Poi, come dicevo prima, non sappiamo se qualcuno avrebbe avuto delle idee più brillanti. Io chiederei molto semplicemente di essere più vicini a tutti i membri di questa società. Anche in questo caso voglio ripetermi: cerchiamo di darci una mano l’un l’altro, cerchiamo di comprenderci e chi decide sappia che ha una grandissima responsabilità e quindi cerchi di fare il meglio possibile per tutti noi”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“C’è un vecchio disco di Charles Mingus che io amo particolarmente e che secondo me è passato in secondo ordine, non viene molto citato, “Tijuana Moods” del 1957. Ecco questo disco, secondo me, aiuta parecchio”.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 5)

Leo Records

(di Luigi Onori)

L’etichetta inglese Leo Records ha da poco festeggiato il suo quarantesimo anno di esistenza: il 6 giugno 2019 al londinese Cafe OTO si sono esibiti alcuni artisti che hanno, nel tempo, collaborato con Leo Feigin: Carolyn Hume, Paul May, Phil Minton, Roger Turner, Charlie Beresford, Peter Marsh. Sono una piccola rappresentanza di quanto la Leo Records ha documentato nel tempo; saltatore in alto russo – ai tempi dell’Unione Sovietica – Leo Feigin chiese ed ottenne asilo politico in Inghilterra negli anni ’70 ed iniziò a lavorare per la BBC. Nel 1979 non trovò alcun produttore per la musica che, clandestinamente, riceveva dall’Urss e decise di fondare una propria etichetta, con lo slogan “music for inquiring mind and the passionate heart”. Da allora Feigin non ha mai smesso di dare spazio ad artisti d’avanguardia americani, europei, giapponesi…in un catalogo vastissimo; fondamentale – negli anni ’80 e ’90 – fu l’opera di diffusione da parte della Leo Records dell’avantgarde jazz sovietico, che accompagnò la fine del regime e fornì un “luogo”, non solo sonoro, per molti oppositori. Un’idea della vastità, a volte entropica e dispersiva, di orizzonti dell’etichetta inglese ce la offre una delle ultime uscite del 2019, forte di cinque album.

Perelman-Maneri-Wooley, “Strings 3”
Il sassofonista tenore Ivo Perelman è uno degli artisti-pilastro nella produzione della Leo Records, almeno nell’ultimo decennio. A questo straordinario e prolifico improvvisatore di origine brasiliana, Feigin ha concesso di documentare gli incontri con tanti artisti, da cui sono scaturite alcune consolidate collaborazioni. Quella con il solista di viola Mat Maneri (altro “campione” dell’etichetta) è particolarmente solida, anche perché Perelman era da giovanissimo un virtuoso del violoncello, nella natìa San Paolo, ed ha molto registrato con strumenti ad arco. Ecco il senso della serie “Strings”, il cui terzo episodio vede anche il coinvolgimento del promettente trombettista Nate Wooley. I cinquantatre minuti di musica sono articolati in undici tracce semplicemente numerate, frutto della totale improvvisazione-esplorazione di registri sonori, intrecci polifonici, campi sonori nel senso più vasto e “contemporaneo” del termine.

Perelman-Maneri-Wooley-Shipp, “String 4”
La registrazione è posteriore di alcuni mesi, rispetto alla precedente, sempre ai Parkwest Studios di New York. Il trio si amplia a quartetto con l’importante presenza del pianista Matthew Shipp, uno dei ricercatori sonori più interessanti degli ultimi decenni, da qualche tempo un po’ in ombra. I suoi interventi accordali e solistici rendono meno aereo l’intreccio tenore/viola/tromba e Shipp porta, nella libera improvvisazione, un apprezzabile senso della forma e della misura; quasi cinquantacinque i minuti di musica, anche in questo caso suddivisi in nove parti numerate. Perelman è coproduttore della serie “strings” e suo è il “cover artwork” su opere di Tom Beckam. La libertà di esplorazione delle relazioni tra ance e “corde” si coniuga, così, con un attento controllo del prodotto discografico.

Christof Mahnig & Die Abmahnung, “Red Carpet”
Trombettista, leader e compositore di tutti i nove brani, Mahnig si muove su coordinate quasi antitetiche a quelle di Ivo Perelman. La storia-tradizione del jazz è per lui motivo di studio e creazione, recuperando elementi di carattere formale e linguistico senza, però, un processo mimetico né derivativo. La parte centrale del Cd è costituita dalla suite “Three Pictures” (circa quindici minuti) ed il trombettista dialoga in tutte le tracce con il chitarrista Laurent Metéau, il contrabbassista Rafael Jerje ed batterista Manuel Künzi. Il risultato è un album che unisce godibilità e innovazione, sfruttando il ristretto organico in modo magistrale. Il cd è stato prodotto con il supporto economico di istituzioni culturali svizzere (Lucerna).

Blazing Flame Quintet/6, “Wrecked Chateau”
La parola, la poesia (tutti i testi nel booklet) sono al centro di questo lavoro discografico che si potrebbe definire polistilistico: l’ascolto dell’iniziale “Back Into The High Tide We Go” è piuttosto esemplificativa. Tutti le liriche sono del “vocalist” (la sua è una “song poetry”, in realtà) Steve Day, supportato talvolta da Julian Dale che è anche contrabbassista e violoncellista. Il gruppo prevede inoltre Peter Evans (violino elettrico a cinque corde), David Mowat (tromba), Mark Langford (sax tenore, clarinetto basso), Marco Anderson (batteria, percussioni). Non mancano sfumature e accentazioni rock, atmosfere teatrali e riferimenti jazzistici anche nei versi (“Flaming Gershwin”). Musica aperta, porosa, mutevole, visionaria, libertaria, di artisti non più giovani ma ancora “utopistici”.

Oogui, “Travoltazuki”
Feigin riesce a spiazzarti, sempre. Il produttore definisce il gruppo un “disto-disco-trio” ed il lavoro discografico “un laboratorio di sorprese musicali che mettono insieme jazz, disco, progressive rock e improvvisazione”. Il tramite con l’etichetta d’avanguardia inglese è stato il chitarrista svizzero Vinz Vonlanthen (ha inciso più volte per la Leo, nell’ambito della musica improvvisata): ha creato un trio con il pianista/tastierista Florence Melnotte ed il batterista/percussionista Sylvian Fourier (all’occorrenza tutti usano la voce) per rileggere il sound della disco anni ’80 in una chiave assolutamente personale (“Shitimogo”; nell’interno del cd c’è anche un John Travolta “mascherato”). Operazione riuscita? In ogni caso bisogna dar atto a Leo Feigin di una grande apertura, il che non è poco per i suoi ottantuno anni (è nato nel 1938 in quella che si chiamava Leningrado).

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Parco della Musica Records

La Parco della Musica Records è l’etichetta discografica della Fondazione Musica per Roma che dal 2004 pubblica i migliori progetti registrati all’Auditorium Parco della Musica di Roma o proposti da artisti profondamente legati ad esso. Le linee editoriali seguono la stessa ricerca e selezione che caratterizza la programmazione musicale dell’Auditorium. La Parco della Musica Records è riuscita a raggiungere in pochi anni una posizione di prestigio nel mondo discografico guadagnando consensi sempre più positivi da parte della critica nazionale e internazionale e ottenendo numerosi premi e riconoscimenti.

Franco D’Andrea – “Intervals I”, “Intervals II”, “A Light Day”
Franco D’Andrea è artista di caratura mondiale cosicché ogni suo album viene giustamente considerato un evento. Figuratevi quando di album, a distanza pochi mesi, ne escono addirittura tre. Attivo sin dai primi anni Sessanta, il pianista di Merano, come si diceva in apertura, è oggi considerato una punta di diamante del jazz globalmente inteso grazie alla sua classe, alla sua originalità e soprattutto alla sua ansia di ricerca che non conosce pause ad onta dei 78 anni suonati. D’altro canto chi lo conosce personalmente sa benissimo quanto Franco sia ancora fresco nel suo entusiasmo, gentile, disponibile, capace, suonando, di entusiasmarsi, di emozionarsi come un ragazzino alle prime armi. I primi due CD, significativamente intitolati «Intervals», evidenziano appieno quell’ansia di ricerca del pianista che si esercita sull’intervallo, ossia sulla distanza che separa due suoni, intervallo che può essere melodico o armonico. In questa puntigliosa e trascinante disamina D’Andrea è accompagnato da un ottetto di cui fa parte il suo sestetto ormai storico (Andrea Ayassot ai sassofoni, Daniele D’Agaro al clarinetto, Mauro Ottolini al trombone, Aldo Mella al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria), ai quali si aggiungono la chitarra elettrica di Enrico Terragnoli e l’elettronica di Luca Roccatagliati, in arte DJ Rocca, elementi che risulteranno determinanti per arricchire la tavolozza timbrica del gruppo. “Intervals I” contiene la registrazione integrale del concerto tenuto il 21 marzo 2017 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, mentre “Intervals II” contiene brani registrati durante le prove per il concerto del 21…Descrivere la musica contenuta nei due album è impresa praticamente impossibile (e forse anche inutile) data la varietà di situazioni e combinazioni che l’artista propone. Comunque una qualche differenziazione – non facile da cogliere – tra i due CD esiste nel senso che il primo volume è più strutturato, in cui è abbastanza facile scorgere i diversi input che hanno contribuito a rendere così particolare e articolato il linguaggio di D’Andrea (si ascolti, al riguardo ‘Intervals 3 / Old Jazz’ e ‘Traditions N.2’). Meno omogeneo il secondo volume, ancora più aperto in quanto, come spiega lo stesso D’Andrea, contiene situazioni estreme sperimentate durante le prove ma poi non confluite nel concerto. Altro aspetto importante che viene in primo piano e che accomuna ambedue i CD è la ricchezza della tavolozza timbrica, arricchita da una sorta di “sezione elettronica”, che contribuisce notevolmente a creare un nuovo suono di gruppo.
A differenza degli altri due album, “A Light Day” è un doppio CD in cui ancora una volta Franco D’Andreea affronta la dimensione, per lui assai congeniale, del piano-solo. In programma parecchie composizioni dello stesso D’Andrea, affiancate a riletture di alcuni storici brani Dixieland. Il risultato è ancora una volta entusiasmante. Come su accennato il piano solo è per D’Andrea un contesto che lo ha già visto indiscusso protagonista. Questa ulteriore produzione discografica ci restituisce un artista semplicemente sontuoso dal punto di vista sia esecutivo sia compositivo. Chi conosce il musicista di Merano sa bene quanto lo stesso sia legato al jazz del passato pur rinnovandolo e rivisitandolo alla luce della sua sensibilità di musicista moderno. Di qui un jazz originale, in cui la ricerca sul materiale si combina perfettamente con quella sul suono e sulla combinazione di elementi derivati sia dal primo jazz sia dal free; e non crediamo di esagerare affermando che D’Andrea è uno dei pochissimi artisti al mondo capace di operare una tale sintesi giungendo a risultati sempre – e sottolineamo sempre – di assoluta originalità e di grande valore artistico.

Riccardo Del Fra – “Moving People”
“Per me, comporre vuol dire trasmettere un significato”; cosí il contrabbassista Riccardo Del Fra inizia la breve presentazione del compact “Moving People”. Trattasi di una suite che il medesimo compositore non esita a definire basata sui canoni di “motion and emotion”, movimento ed emozioni che ne determinano lo sviluppo, l’andamento, le sequenze armoniche. C’è una sottotraccia, nel lavoro commissionatogli dalla Fondazione Genshagen di Berlino, un mandato ispirato all’amicizia fra i popoli: il genere umano in marcia, il suo moto perpetuo, visto nell’attuale momento storico in cui incalza il problema dell’immigrazione con i conseguenti nodi politici da sciogliere. Del Fra assembla per l’occasione una formazione cosmopolita, in rappresentanza di cinque Paesi: ” mette insieme e dirige diversi background stilistici creando un risultato sorprendente” annota Ted Panken mentre Jen Paul Ricard, sempre all’interno della cover, ne sottolinea la bellezza del mondo melodico. Caratteristica del resto tipica anche del precedente disco “My Chet My Song”, inciso per la stessa label, in cui la componente “motoemotiva” era già presente nelle prestazioni di questo contrabbassista lirico, abituato a lavorare in profondità sulle corde per estrarne l’anima, alimentare la fantasia, impregnare in concreto l’interpretazione. La scelta dei partners pare misurata per realizzare al meglio le dieci composizioni dell’album sulla base di quanto programmato, lasciando ampio spazio ora all’improvvisazione (‘Ressac’, ‘Street Scenes’), ora all’immaginazione (‘The Sea Behind’, ‘Around The Fire’), ora alla percezione effimera (‘Ephemeral Refractions’) ora alla spinta ritmica (‘Children Walking Through A Minefield’), al dialogo fra strumenti (‘Wind On An Open Book II’), infine ad ampie aperture (‘Cieli sereni’); in un progetto che i (sette) jazzisti, artisti in cammino e musicisti “d’incontro” per definizione, applicano doviziosamente. Sono il trombettista polacco Tomasz Dabrowski, il sassofonista tedesco Jan Prax, i francesi Rémi Fox al baritono e soprano e Cart-Henry Morisset al pianoforte, e gli americani Jason Brown alla batteria e l’ospite Kurt Rosenwinkel alla chitarra. Il tema principale, “Moving People”, è di quelli che ritornano in mente per merito di una melodia delicata ed iterata che penetra, lasciando una sensazione indefinita di viaggio, intrisa di pathos intenso ed intime suggestioni. (Amedeo Furfaro)

Martux_m – “Apollo 11 Reloaded”
La musica elettronica non ci entusiasma: di qui lo scetticismo con cui ci siamo posti ad ascoltare questo album. Per fortuna le cose sono andate meglio del previsto. Intendiamoci: non è che ci abbia entusiasmato, ma siamo riusciti ad ascoltarlo sino alla fine senza problema alcuno, anzi apprezzando particolarmente i due brani in cui figura Francesco Bearzatti. Ciò perché Martux_m è artista maturo, consapevole delle proprie possibilità, che usa l’elettronica come linguaggio, come mezzo di comunicazione al di là di qualsivoglia intento edonistico. Come si può facilmente evincere dal titolo, il progetto nasce in occasione delle celebrazioni dei 50 anni dello sbarco del primo uomo sulla luna. Assecondando la sua straordinaria fantasia, Martux_m ha inteso, attraverso la sua musica, descrivere le varie fasi della missione Apollo 11, dalla partenza con il primo brano “Lift Off”, al rientro sulla terra con l’ultimo brano “Return”. In mezzo, tra l’altro, due brani particolarmente legati a quello specifico periodo storico: “Us and them” dei Pink Floyd tratto dall’indimenticabile “The dark side of the moon” e “Space Oddity” di David Bowie. In apertura accennavamo alla maturità artistica di Martux_m e a conferma di ciò da segnalare la validità dei collaboratori che il musicista ha scelto per questa nuova impresa discografica: sul piano dell’organico ecco inseriti Giulio Maresca all’elettronica in tutti i brani e il sax di Francesco Bearzatti in “Us And Them” e “Space Oddity”. Ma non basta ché ritroviamo Danilo Rea in veste di compositore dell’ultimo brano “Return”, e arrangiatore (nei due brani in cui si ascolta Bearzatti), il compositore cinematografico Pasquale Catalano (autore di “Sightseeing on the Moon”). Il risultato è, come si accennava, più che soddisfacente, in grado, cioè, di farsi ascoltare da un pubblico che va al di là dei soli appassionati di elettronica.

Fabrizio Sferra, Costanza Alegiani – “Grace in Town”
Conosciamo Fabrizio da qualche decennio, da quando cominciò ad interessarsi di jazz suonando nel ‘West Trio’ assieme al fratello Aldo, eccellente chitarrista. E siamo stati tra i primissimi giornalisti a notarlo e farlo conoscere al popolo del jazz. Di qui il nostro stupore quando ci siamo trovati fra le mani questo album in cui Fabrizio ha abbandonato bacchette e spazzole per reinventarsi compositore e interprete canoro di dieci nuove composizioni da lui stesso scritte con i testi della compagna di viaggio Costanza Alegiani (cui si è aggiunta nel brano di chiusura Sarah Victoria Barberis). Ma perché questo cambio di rotta così radicale? L’album, spiega Sferra in una recente intervista “nasce dalla voglia di riprendere una pratica abituale della fanciullezza e dell’adolescenza (prima cioè di cominciare a dedicarmi, all’età di diciotto anni, allo studio della batteria e all’avventura del jazz, sviluppata poi in questi ultimi quarant’anni), quella cioè del cantare e scrivere canzoni. Quindi è nato, a livello musicale, come un gioco: il ritrovarsi intimo con una vecchia, semplice passione: mettere insieme il canto di una linea melodica con degli accordi, e lasciarsi trasportare nello sviluppo di una forma”. Risultato: un album delicato, a tratti coinvolgente, in cui l’anima jazzistica di Fabrizio Sferra si fonde con la voce di Costanza Alegiani a disegnare un’oretta di buona musica impreziosita da un organico orchestrale di tutto rispetto con Alessandro Gwis al piano e tastiere, Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Francesco Ponticelli al basso e Federico Scettri alla batteria in sei dei dieci brani in programma (negli altri alla batteria torna Sferra). Ben calibrato è anche il ricorso all’elettronica che conferisce al progetto un sound assolutamente attuale attraversando territori i più svariati: dal rock al blues, dal moderno allo sperimentalismo, il tutto mantenendosi ad una certa distanza da quel linguaggio jazzistico da cui Sferra proviene.

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Poll Winners Records

E’ un’etichetta specializzata nelle riedizione in CD di molti titoli che possiamo considerare dei veri e propri classici della storia del jazz, titoli che si sono meritati le ‘cinque stelle’ nelle recensioni di “Down Beat”. Caratteristica di queste riedizioni l’aggiunta, oltre all’album originale, di contenuti extra.

Duke Ellington – “Ellington Uptown • The Liberian Suite • Masterpieces By Ellington”
Ancora un doppio cd di grande valore storico; vi ritroviamo tutte le registrazioni effettuate durante le sessioni da cui sono stati tratti gli album di Duke Ellington: “Ellington Uptown” (Columbia ML4639 / CL830), “The Liberian Suite” (Columbia CL848) e “Masterpieces by Ellington” (Columbia ML4418). In particolare “Ellington Uptown” era stato originariamente pubblicato in due diverse versioni, la prima contenente anche “The Harlem Suite” e la seconda con al posto della “Harlem Suite” la “Controversial Suite”. “The Liberian Suite” è stata prima pubblicata come un LP 10 pollici e poi come LP 12 pollici con l’aggiunta di “The Harlem Suite”. Tutte queste registrazioni sono riunite qui con l’aggiunta di un brano (“Come on Home”) che completa le sessioni di “Ellington Uptown”, e quattro rare versioni alternative de “The Liberian Suite” registrate nel corso della stessa sessione. Come ulteriore bonus una versione del brano “The Tattooed Bride” registrato dal vivo alla Carnegie Hall il 13 novembre del 1948. Chi conosce la musica del “Duca” sa che ci troviamo dinnanzi ad una delle migliori formazioni assemblate da Ellington, con tutti i migliori solisti in primo piano, da Cat Anderson a Clak Terry, da Juan Tizol a Britt Woodman, da Russell Procope a Johnny Hodges … tanto per citarne alcuni. La musica è semplicemente straordinaria: non a caso su questi pezzi di Ellington sono stati versati fiumi di inchiostro. Si pensi solo a “The Harlem Suite” ovvero “A Tone Parallel To Harlem” una composizione di 14 minuti in cui Ellington supera i confini del jazz propriamente inteso per assurgere a livelli di assoluta grandezza, al di là di qualsivoglia genere.

Dizzy Gillespie, Charlie Parker – “Diz ‘n’ Bird. The Beginning”
L’album “Diz ‘n’ Bird – The Beginning” (Roost-SK-106) venne pubblicato nel 1959, cinque anni dopo la morte di Charlie Parker, e conteneva rare registrazioni degli albori del bebop. L’album riuniva alcune registrazioni provenienti da un concerto in quintetto del 1947 di Parker e Gillespie alla Carnegie Hall (con John Lewis al piano, Al McKibbon al basso e Joe Harris alla batteria), e da un concerto del quintetto di Gillespie del 1953 alla Salle Pleyel di Parigi (con Bill Graham sax baritono, Wade Legge piano, Lou Hackney basso, Al Jones batteria, Joe Carroll e Sarah Vaughan voce) accoppiandole con registrazioni di Bird per la Dial del 1947 (con Miles Davis, J.J. Johnson trombone, Duke Jordan piano, Tommy Potter basso e Max Roach batteria). Questa nuova edizione in doppio cd include il concerto completo alla Carnegie Hall del 1947, più l’intero concerto alla Salle Pleyel, insieme alle tracce di Dial incluse nell’LP originale; come bonus sono state aggiunte delle registrazioni radiofoniche effettuate al club Birdland nel 1951 dai due in sestetto con Bud Powell piano, Tommy Potter basso, Roy Haynes batteria e Symphony Sid Torin alla conduzione radiofonica). Basterebbero queste semplici elencazioni per capire che si tratta di un album che tutti gli appassionati di jazz dovrebbero possedere. In effetti, oltre al valore storico, si tratta di registrazioni che illustrano tutta la carica dirompente di questi straordinari musicisti che a metà degli anni ’40 irruppero in un panorama jazzistico fino ad allora dominato dalle orchestre swing. Ed è davvero opportuno, consigliabile un ascolto attento soprattutto da parte dei più giovani che si avvicinano al jazz saltando a piè pari i primi 50 anni di questa straordinaria musica.

Django Reinhardt – “Djangology”
Django Reinhardt fu non solo uno dei più grandi jazzisti del secolo scorso, ma per lunga pezza l’unico musicista europeo in grado di competere ad armi pari con i colleghi d’oltre oceano. Il suo stile chitarristico, in effetti, era influenzato molto più dalle correnti europee che non dagli input che avevano formato e fatto crescere il jazz statunitense. Ricordiamo, al riguardo, il celeberrimo quintetto dell’Hot Club di Francia costituito nel 1934 da Django con il violinista Stephane Grappelli, anch’egli europeo. Tutto ciò risalta evidente anche da questo album che contiene innanzitutto il completo lp “Djangology” registrato nel 1949 da Reinhardt e Grappelli a Roma con una sezione ritmica locale con Gianni Safred al piano, Carlo Pecori al contrabbasso e Aurelio De Carolis alla batteria. L’album venne pubblicato dalla RCA Victor nel 1961, quindi dieci anni dopo la scomparsa del chitarrista. Adesso questo CD riporta in luce il “vecchio” lp con l’aggiunta, come bonus, di dodici tracce tratte dalle stesse sessioni del 1949. Quanto alla qualità della musica c’è veramente poco da aggiungere. Anche se accompagnati da una sezione ritmica con cui non avevano molta dimestichezza, chitarrista e violinista esplicano appieno la loro arte con una intensità e una passione che ancora oggi colpiscono a 70 anni dalla loro registrazione. Ritroviamo, così alcuni capolavori assoluti quali “Minor Swing” che non a caso apre il CD, “The Man I Love” che altrettanto non casualmente lo chiude, e poi in mezzo “Lover Man”, “Swing 42”, “Daphné”…Insomma un album che sicuramente non stupirà chi già conosce questo straordinario artista ma che aprirà orizzonti fin ora sconosciuti a quei tanti giovani che mai hanno ascoltato qualcosa di Django Reinhardt.

VICENZA JAZZ 2019: Top Jazz Night, il Jazz premiato nel Top Jazz 2019

VICENZA JAZZ 2019

Ridotto del Teatro Comunale Vicenza, venerdì 17 maggio, ore 21

FEDERICA MICHISANTI HORN TRIO (miglior nuovo talento italiano dell’anno)

Federica Michisanti, contrabbasso
Francesco Lento, tromba e flicorno
Francesco Bigoni, sax tenore e clarinetto

FRANCO D’ANDREA NEW THINGS

Franco D’Andrea, pianoforte
Mirko Cisilino, tromba
Enrico Terragnoli, chitarra

I nostri CD

I NOSTRI CD

Paolo Fresu Devil Quartet – “Carpe Diem” – Tûk Music.

Carpe Diem, se vogliamo, è il detto latino più jazz che ci sia. Nel senso che quel “cogli l’attimo” di oraziana memoria sintetizza il modo di essere e di operare istantaneo proprio della musica afroamericana. Ma “Carpe Diem” è anche l’album che il Paolo Fresu Devil Quartet licenzia per la Tûk Music all’insegna del tutto acustico. Una formazione rodata in tre compact e in una dozzina d’anni d’attività che, fra le varie situazioni e progetti del trombettista sardo, rappresenta uno dei fiori all’occhiello.
Saranno la sensibile manualità del chitarrista Bebo Ferra (che firma il brano ‘Enero’), il timing rarefatto del contrabbassista Paolino Dalla Porta (autore di ‘Ottobre’, ‘Lines’ e ‘Secret Love’), il raffinato gusto ritmico del batterista Stefano Bagnoli (sua è ‘Ballata per Rimbaud’) fatto è che l’insieme “diabolico”, sotto la navigata conduzione di Fresu, funziona come un miracolo di sinergie. La composizione che risulta esser più dentro “l’attimo fuggente” è ‘Dum loquimur Fugerit invida Aetas’ ovvero mentre parliamo il tempo invidioso (o avido) sarà già passato; dove il quartetto declina, nel significato di declinazione, la propria idea di musica omogenea e poetica, fatta di astrazioni sfumate e gradazioni armoniche, di chiaroscuri e slittamenti melodici, di pause e “pieni” strumentali. Tutto ciò mentre la tromba di Fresu, autore di 5 brani sui 14 del compact, investiga, intercetta, si autoriflette nel suono prodotto, esponendolo ai più.

Hobby Horse – “Helm” – Auand Records/Rous Records

Hobby Horse, nome del trio di Dan Kinzelman (sax), Joe Rehmer (bass) e Stefano Tamborino (dr.), non va tradotto in italiano ” fissazione” perché se no sarebbe stato scritto hobbyhorse. Epperò quest’ultimo termine in qualche modo torna utile nel definire la musica del gruppo nel nuovo album “Helm” editato per i tipi della Auand/Rous Records, il sesto in otto anni di attività. Ma nel senso che i musicisti “fissano” un proprio metodo di lavoro che è un misto di libertà e aggregazione per produrre quella mutante pulsazione musicale, ibrida di materiali tech e sorgenti musicali (minimale, cyber funk, rock, jazz) che prefigura a sprazzi una sorta di medioevo prossimo venturo sonoro di cui l’elmo in copertina è rappresentazione simbolica di difesa/offesa. All’interno del disco sei original di cui quattro scritti da Kinzelman (tre in solitudine e l’altro in collaborazione con Joe Rehmer), un quinto di Stefano Tamborrino e un sesto attribuito a Rehmer, Bosetti e Tamborrino; ma non basta ché ritroviamo anche i riferimenti poetici a Robert Wyatt in ‘Born Again Cretin’ e alla fine, nel brano n. 7, i versi di ‘Evidently Chickentown’ contenuto nell’album “Snap, Crackle & Bop” (1980) del poeta punk inglese John Cooper Clark, che paiono stigmatizzare come voce, testo, contenuti restino coinvolti nel progetto-non progetto. Il lungo bordone finale appare un pendolio fra sonorità arcaiche (mutetos/raga) e proprie di mondi alieni, in quella che è, per la formazione, un’avvincente odissea nello spazio interno al caotico panorama delle nuove espressioni artistiche dell’era multimediale.

Helga Plankesteiner – “Plankton, Lieder/Songs” – Jazzwerkstatt,

Ma Schubert è … jazzabile? A vedere anzi a sentire la sassofonista e vocalist altoatesina Helga Plankesteiner pare proprio di sì. Ci aveva già provato due anni fa col progetto “Schubert in love” dedicato ai lieder del grande compositore viennese.
Un’idea alquanto spregiudicata che nei fatti trova applicazione certa. Vero è che interpretare un autore classico col linguaggio del jazz, non è una novità. Ma perché proprio Schubert? Bill Evans lo amava, ma non può bastare. Sarà che la musica di Schubert ha un che di instabile e inesplorato, è ricca di invenzioni e rivelazioni, è complessa anche se semplice in apparenza. Adorno ne parla in termini di “the mimic par excellence” analizzandone i processi creativi. Questa indefinizione e magmaticità è carattere che può autorizzarne la rielaborazione come nel caso in esame.
Dei 603 lieder di Schubert la musicista ne ha selezionati alcuni per un album che si consiglia di ascoltare confrontando versione classica (anche su youtube) e jazzata per individuare le variazioni apportate all’originale. Un esempio: ‘Der Greise Kopf/ The old’s man head’ perde ogni seriosità e si trasforma in una sorta di Nouvelle Orleans in salsa teutonica. E così più avanti altre sorprese. Fino a delineare il lieder romantico come una possibile forma del jazz, songs, con buona pace dei puristi. Nella formazione figurano il trombettista Matthias Schriefl, il trombonista Gerard Gschlöbl, il chitarrista Enrico Terragnoli, l’autore degli arrangiamenti Michael Lösch all’hammond e Nelide Bannello alla batteria. Nell’album anche una lirica di Heine e una composizione di Bruhne.